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Il porto della città di Candia, finalmente si sbarca. La città rappresenta il nucleo principale dell'isola e ciascuno dei centotrentadue feudatari ha l'obbligo di tenervi una residenza, il che significa altrettanti ricchi palazzi che adornano il capoluogo. Giro a zonzo per il centro. Ho una semplice tunica azzurra cinta ai fianchi da un cordone, sul bordo rotondo del colletto è ricamata una linea argentea mentre sotto finisce appena sopra il ginocchio; porto calze gialle, scarpe basse e aperte e fermate da un laccio al collo del piede.
Negli ultimi giorni di navigazione l'acqua potabile ci veniva razionata. Ho una sete terribile e cerco una fontana per bere. Per fortuna ce n'è una nella piazza, in fronte alla basilica di San Markos. La fontana possiede un orlo ondulato e sinuoso con i bassorilievi di Tritone che cavalca i delfini e con nove vasche absidate e scolpite. Sulla sommità della fontana troneggia la statua di Posidone, ha un braccio teso sul mare e punta l'orizzonte un attimo prima di scagliare il tridente. Bevo acqua fresca a piene mani. Si calma l'arsura alla gola e mi sento rinascere. Inclino leggermente indietro il capo e serro le palpebre dal sollievo. Appena le riapro noto due ragazze uguali come due gocce d'acqua, alte e longilinee e di non più di sedici anni, sedute sull'orlo della vasca. Le osservo con aria innocente, hanno dei lineamenti troppo marcati però sono attratto dal colore biondissimo dei loro capelli, quasi bianchi, un platino che si intona piacevolmente con la loro carnagione abbronzata. Li hanno raccolti in due lunghe trecce che scendono sul petto e vestono esattamente nella stessa foggia e con le stesse tinte: rosa la veste leggera, stretta al collo ma ampia sulle ginocchia e fornita di strascico; verde la sottoveste di lino con le maniche aderenti che escono dagli spacchi alle ascelle.
Mi asciugo la bocca con il dorso della mano e tanto per rompere il ghiaccio:
«Ciao belle!»
Una di loro risponde con accento straniero:
«Chi è la più bella? Magda, che sono io, o mia sorella Beata?», scherzando con fare vanitoso.
Mi gratto la testa e le esamino attentamente per cercare tra loro la minima differenza ma invano, perché sono del tutto identiche: stessi occhi chiari, stessa bocca sottile e naso pronunciato, uguale ventre piatto, uguali gambe lunghe e piedi scalzi.
Per attirare la mia attenzione la sorella, Beata, fa scorrere le mani su e giù lungo le cosce slanciate:
«Scegli me, sulla gamba destra ho un bellissimo neo che lei non ha».
I lineamenti di Beata mi sembrano atteggiati in un'espressione leggermente più dolce, ma non riesco proprio a decidermi.
«Allora chi è la più bella?» incita di nuovo Magda e mi strizza l'occhiolino.
«Magda» rispondo frettolosamente per trarmi d'impaccio.
«Oh, ti ringrazio di avermi preferita, ma dimmi, cosa ho di più bello rispetto a mia sorella?»
«Il tono della voce» concludo, e in vero ha la sonorità limpida e squillante dell'argento.
Regno di Danimarca? Contea d'Olanda? Langravio di Turingia? Da dove arrivano queste due sirenette?
«Siamo sveve, - spiega Magda mentre le accompagno lungo la piazza - nostro papà ha fatto il servitore alla corte pugliese. Lui sa parlare in siciliano, in arabo e in greco. Abbiamo abbandonato la corte in cerca di fortuna appena è morto Federico II».
«Che cosa? Federico II è morto!»
«Ma dove vivi, sulla luna? E' morto ancora il 13 dicembre del 1250».
Rimango confuso e sconvolto, crollo a sedere sui gradini della basilica. Io che un tempo ero l'uomo più aggiornato della Piazza ora non so nulla di un avvenimento del genere: il trapasso dell'Imperatore della Fine dei Tempi. Il Cristo aveva predetto la fine del mondo entro una generazione e invece la profezia l'ha posta dopo la morte dell'Imperatore sub Flore.
«Come è morto? Avvelenato dai Milanesi?» balbetto.
«Un suo medico arabo ci ha detto che è morto di dissenteria».
Dunque queste due mocciose frequentavano la corte imperiale. Le tempesto di domande:
«Voi potevate vedere di persona l'Imperatore?»
«Certo, aveva un fisico striminzito, la faccia tutta rossa e la testa pelata» risponde Magda.
«Va be’ che cosa c'entra, era un uomo di fine intelligenza e viveva attorniato da una schiera di saggi e di filosofi».
«Come no, - continua Magda - c'era quello stregone di Scoto, mago e indovino, traeva auspici sul futuro anche dagli starnuti. Secondo i suoi calcoli astrologici la vittoria su Parma era una cosa più che scontata ed infatti... è stata la peggiore batosta di Federico II, la Lega Lombarda gli ha portato via l'intero tesoro imperiale, compresa la corona di gemme».
Aggiungo serio:
«Comunque si dice che l'Imperatore abbia scritto di suo pugno un libro di falconeria, aveva una grande passione per l'arte dell'andare a caccia di uccelli».
«Perché sorridete?»
«...a caccia di uccelli senza piume, tipo quelli dei valletti saraceni» e scoppiano a ridere.
Le ore scorrono veloci in loro dolce compagnia e verso sera le gemelle mi trascinano in una tipica taverna dell'isola. La taverna Phanes ha la facciata ricoperta di edera e smilace e ai lati dell'ingresso due grossi cespugli di mirto diffondono la loro fragranza sullo spiazzo antistante. All'interno è zeppa di gente. Musici indiavolati stanno scandendo ritmi ossessivi al fragore di cembali, campane e tamburelli, ma dopo un po' alternano un accompagnamento di flauti e cominciano ad intonare dei cori pieni di passione e variazioni, oscillazioni e confusione. Al tavolo le gemelle ordinano del malmsey. Un vino dolce, robusto e quasi liquoroso.
Spavaldo alzo il calice:
«Brindiamo a Bacco!» urlo per farmi udire in mezzo a quel rumore assordante.
Beata mi sta osservando mentre bevo un calice dopo l'altro:
«Attento, il vino è un veleno che annebbia la mente».
«Baccus dulce venenum. Alla giusta dose il veleno si trasforma in farmaco» preciso in tono cattedratico.
«E tu da cosa dovresti guarire?»
«Dalla secchezza delle fauci» ribatto.
Le gemelle si stanno divertendo. In quanto teutoniche mi aspettavo di trovare in loro un carattere freddo e distaccato invece, forse addolcite dal clima mediterraneo, sono sempre più allegre e scherzose e non fanno altro che ridere a crepapelle per ogni stupidaggine che dico. Passo a simulare l'omaggio di un vassallo al suo signore e metto le mie mani giunte entro le loro:
«Nobili fanciulle io divengo uomo vostro».
Magda mi consegna il suo semplice anello:
«Ecco a te l'oggetto dell'investitura».
Mi infilo l'anello nel mignolo:
«Ordinate pure, sono pronto a qualsiasi impresa pur di rendervi servizio».
Magda punta i gomiti sul tavolo e fissa in aria indecisa:
«Oh gentil cavaliere, più o meno dovrai mutare il corso del Meno, e noi ti daremo le nostre grazie in beneficio».
«Le vostre grazie?»
«Sì, in cambio ti daremo tutto quel che vuoi» dichiara Magda pimpante.
«Proprio tutto? Anche quel feudo di praticello soffice soffice, quel bel triangolino che avete lì in mezzo?»
«Certo. Perché no» rispondono in coro.
«Starò ai patti - sempre più arrapato -, ma come posso mutare il corso del Meno se non mi specificate i termini della sottrazione?»
Le ragazze scoppiano a ridere:
«Il Meno è il fiume che passa per Francoforte, nel Regno di Germania».
Faccio una smorfia incassando il tiro:
«Non voglio irritare i vostri compatrioti deviando loro il fiume, vi prego concedetemi un'altra prova?»
E' la volta di Beata:
«Dovrai rubare per noi il chiarore della luna» e di nuovo a ridere.
«Ho capito, ho capito; mi chiederete di volare come uno stornello o di catturare per voi il cinghiale bianco, tutte cose impossibili. Ma non importa, anche se non avrò i vostri favori mi accontento della vostra compagnia. Mi piace ogni cosa che fate».
Beviamo come spugne, specialmente io, pur noto a Venezia come irrecuperabile e incallito astemio. Sì, in effetti solo nelle grandi occasioni mi azzardavo a bere sì e no mezzo calice, l'ultima volta fu tre mesi fa in compagnia di Zagreo. Dunque non sono affatto abituato al vino e a reggerne l'abuso e ben presto vengo colto dall'ebbrezza.
Una delle gemelle si alza dalla sedia, fa il giro del tavolo e viene a sedersi seriosa accanto a me:
«Cavaliere, esigo da te un comportamento franco. Certo, io percepisco il tuo carattere generoso e retto, apprezzo il tuo modo delicato, ma ti voglio più sicuro, più persuasivo nella condotta, disinvolto senza per questo diventare sfacciato, e sempre sincero, aperto, schietto».
«Sarò sempre franco».
Poi si strofina sul mio fianco e mi profferisce languide proposte amorose:
«Mio bel cavaliere, questa notte mi concederò alle tue brame ma devi giurare fedeltà a me sola».
«Lo giuro».
«Giura di non toccare mia sorella».
«Lo giuro sul mio onore».
Al che scatta via dal tavolo rapita dalle note di una melodia che conosce, raccoglie la sorella e va a ballare al ritmo vivace dei musicanti. La gente fa largo e batte il tempo con i piedi, applaude l'eleganza e le movenze del loro ballo di corte, una estampida. Dopo un po' ritornano al tavolo, la gemella si siede sulle mie ginocchia a rinnovare carezze e segnali di disponibilità amorosa, poi raccomanda:
«Sarai ligio al giuramento di fedeltà?»
«Sì, mia Signora».
«Allora toccami la tetta, nobile cavaliere» mi prende la mano e se la porta sul seno.
«Ma tu chi sei? Sei...».
L'altra gemella mi canzona gongolandosi sulla sedia:
«Vassallo fellone, vassallo fellone. Avevi giurato fedeltà a me sola!»
Brillo com'ero avevo smarrito la facoltà di distinguere fra loro le gemelle. Magda e Beata se n'erano ben accorte e continuavano a giocarci sopra alternandosi sulle mie ginocchia ed ogni volta che mi azzardavo a chiedere loro il nome rispondevano ora giusto ora l'inverso. Le gemelle erano l'una l'esatto specchio dell'altra e più mi applicavo a discernere l’identità di ciascuna, più mi ritrovavo con le idee confuse. Il colpo di grazia fu l'acquavite all'anice, liquore che assume un aspetto lattiginoso allungato con l'acqua. Ci eravamo alzati tutti e tre e ballavamo saltellando con le braccia alzate, arcuando il corpo e rovesciando la testa all'indietro. Le due sorelle mi ruotavano intorno ancheggiando rapide in una specie di trance, la musica le aveva invasate. Le osservavo incantato, con gli occhi lucidi vedevo sdoppiarsi le linee dei loro fianchi. Sorridevano, ciascuna aveva due volti e le gemelle erano diventate quattro. Un ritmo primitivo echeggiava sempre più forte, mi entrava dentro irresistibile come una lama di cristallo, la risonanza mi faceva vibrare da capo a piedi, mi dissolveva in uno spazio etereo lontano e irreale, eppure ballavo con entusiasmo e con una carica mai avuta, un'energia animale mi scuoteva le membra, mi sembrava d'essere lanciato come una pantera nella notte.
Ma le gambe in realtà non mi reggevano e inciampavo e riaccendevo le risa isteriche delle gemelle, mantenevo a fatica l'equilibrio e le gemelle mi avevano dato un'asta e aveva una pigna in cima e così subivo lo scherno dell'intera taverna... poi senza preavviso un brivido che mi fa accapponare la pelle e mi drizza i capelli, una strana vertigine e cado a terra riverso privo di sensi. Una gemella mi prende per le braccia e l'altra per i piedi, di peso mi portano in un letto della locanda e mi lasciano abbandonato nel sonno.
Il mattino dopo: brusco risveglio. Ho riacquistato la facoltà di distinguere fra loro le gemelle, la luce del giorno ha rotto l'incantesimo.
Continuando a frequentare assiduamente le gemelle, il mio cuore e le mie attenzioni oscillano di giorno in giorno dall'una all'altra finché mi impongo fermamente di corteggiarne una sola, per non correre il rischio di perderle tutte e due. Quale? Ho deciso per Magda. Il guaio è che Beata non si allontana un istante dalla gemella e le sta perennemente attaccata alle costole! Architetto quindi un piano per separarle e solo a Magda propongo una gita amena al boschetto sopra il lago di Vulisméni, un lago curioso perché ritenuto senza fondo nella tradizione del luogo.
Ma sul crocicchio dell'appuntamento trovo al suo fianco l'immancabile sorella. Ci incamminiamo in tre. Fra il profumo di corteccia sospinto a tratti dalla brezza calda e umida del lago, il sentierino si inoltra nella macchia, folto intrico di bassi arbusti di quercia spinosa dai fusti tortuosi e dal denso fogliame.
Un vento leggero agita le foglie irte di aculei generando un fruscio musicale che attira l'attenzione di Magda:
«Però prego l'Amore
che mi'ntende e mi svoglia
come la foglia vento».
«Bella, cos'è una poesia?» chiedo.
«Una canzonetta di corte».
«Ehi, la scuola siciliana dell'Amor cortese».
«Allora conosci Rinaldo d'Aquino, Iacopo da Lentini?» replica sorpresa.
«No».
Prossimi alla cima di una bassa collina possiamo ammirare il lago sottostante, comunica con il mare attraverso uno stretto canale. Il posto ci piace per cui, nascosti dalla macchia e riparati dal vento, ci sdraiamo in una piccola radura erbosa.
«Che lavoro fai - chiede Magda -, sei per caso un piede polveroso?»
«No, non sono un mercante, sono artigiano. Faccio il mosaicista alla Basilica d'Oro».
Beata mi fissa in viso ed esclama:
«Oh, un artista veneziano! Allora il codino dietro i capelli è il segno distintivo di quelli come te?»
«Sì, è il segno distintivo di coloro che non rinnegano ciò che hanno alle spalle, cioè il passato della loro gente. L'anima artistica del mio popolo vive come un sogno profumato nel cuore di chi come me non ignora le proprie radici, è il sogno che Federico II voleva distruggere tutte le volte che ha cercato di cancellare le nostre prerogative. Egli ci invidiava il valore immenso dei tesori custoditi a Venezia, non capiva che il vero valore di quelle opere non è nell'oro o nell'argento in cui sono forgiate ma nel segno che l'artigiano vi ha lasciato nel tempo» rispondo compito rivolto a Beata.
Magda per dispetto mi scioglie i capelli strappando il nastro che li teneva insieme alla nuca. Per ripicca mi metto a disfare le sue trecce e si accende subito la lotta a cavalcioni l'uno sull'altro. Magda si difende bloccandomi i polsi con forza insospettata, riesce a divincolarsi e si alza. Fa finta di aver abbandonato ogni resistenza, sta ferma in piedi con le braccia conserte. Allora mi piazzo davanti a lei e finisco con calma di sciogliere il nodo a una treccia già mezza scomposta.
Magda mi coglie di sorpresa:
«Artista da strapazzo!» e mi sferra una gran ginocchiata in mezzo alle cosce.
Saltello goffamente dal dolore e infine crollo sull'erba. Mi ritrovo disteso sull'euforbia vicino un gruppo di narcisi, petali bianchi e coroncina gialla al centro. Magda si sdraia al mio fianco, scompone da sola le trecce e libera la sua chioma biondissima. Le sfioro teneramente i capelli ed ella contrae le labbra e socchiude gli occhi ad ogni passaggio della mia mano. Intanto spio Beata con la coda dell'occhio per vedere se capisce la situazione e magari si allontana per un po'. Invece no, Beata fa finta di non vedere, non vuole saperne di mollare la gemella. A questo punto gioco il tutto per tutto e incurante di ogni riguardo comincio a baciare Magda sulla bocca. Beata, imperterrita, è sempre lì seduta, dura come un bastone, con un'espressione indifferente e forse solo un po' imbronciata. Mi assale un sussulto di rabbia. In aperta sfida sfioro il seno di Magda e lo spremo fin quando gli strappo un gridolino di sorpresa. Beata si alza di scatto e sparisce a grandi passi dietro la collina, finalmente soli.
Magda allontana piano la mia mano e mi sussurra che è vergine.
«Conosci il bacio alla sveva?» mi chiede eccitata.
«No, com'è?»
«Metti la lingua dentro la mia bocca».
Eseguo e Magda inizia a mordicchiare dolcemente la mia lingua.
Poi tocca a me chiedere:
«Conosci il bacio dell'ape maia?»
«No, com'è?»
«L'ape maia si posa sulla corolla del fiorellino e gli lecca tutto il nettare, vibrando su e giù la linguetta sul pistillo e poi passandola petalo per petalo».
«Dai fammi provare».
A labbra tese e serrate imito il ronzio di un'ape e oscillo il capo mentre le sollevo delicatamente la gonna colorata di rosa. Quindi scendo a trasmettere la vibrazione alla sua pelle, ronzando scorro le labbra a contatto della coscia, liscia e glabra fino alla piega dell'inguine, anch'essa glabra poiché il ciuffetto di peli è spostato verso il centro. Poso la bocca sulla fessura, è incollata da una patina umida e la apro con la punta della lingua, poi scendo leccando fin dove la vulva finisce in basso e risalgo ritmando ogni passaggio sul bottoncino del clitoride.
Magda è attraversata dalla sorpresa per le nuove sensazioni che nascono dal suo corpo ed ha sul viso un'espressione attenta e attonita. A tratti irrigidisce il tronco, contrae le natiche comandata da un impulso irrefrenabile e spinge il pube contro il mio mento. Alla fine si solleva dal suo letto di euforbia e rimane seduta in silenzio. Le chiedo se le è piaciuto. Fa cenno di sì con il capo, mi guarda seria per un attimo, poi sorride e abbassa la testa con delicatezza, come i narcisi che chinano la corolla pendula.
E Beata, dove sarà mai? Una lieve preoccupazione mi distoglie dallo stato di esuberante spensieratezza. Ordino a Magda di aspettarmi sul posto mentre vado a cercare sua sorella. Cammino lungo il sentiero per una abbondante decina di minuti. Non la vedo. Ma dove si è ficcata? Supero l'apice della collinetta, inizio la discesa e finalmente la trovo con le ginocchia fra le mani accovacciata sotto una quercia.
«Scusa, - accenno fra l'imbarazzato e il pentito - ti stavamo cercando, perdonami per prima».
«Non fa niente. Io e mia sorella ci capiamo, non c'è problema». Sospira, si alza in piedi davanti a me e mi fissa acutamente negli occhi con la bocca socchiusa.
Mi sento di nuovo confuso e disorientato, le gemelle si somigliano in tutte le loro scelte e forse anche nella preferenza per lo stesso ragazzo. I suoi occhi chiari mi stanno persuadendo che attraverso Magda in fondo non ho fatto altro che accendere un interesse sopito per lei o forse la preferivo fin dall'inizio e vittima di una scelta affrettata non trovavo il coraggio di ammetterlo.
La sua dolcezza mi riconquista piano piano, ma irresistibile. Beata mi fa un sorriso così tenero che il cuore mi scoppia nel petto, attraverso i suoi tratti adolescenziali mi è ora manifesto l'impenetrabile mistero della giovinezza che si fa eterna nella sua bellezza. Poso la mia sulla sua fronte pura, col corpo la premo contro la quercia, le stringo le trecce nei pugni, m'irrigidisco nel tentativo estremo di arginare un fiume in piena. D'impulso la bacio sulle labbra e assaporo dalla sua bocca il gusto genuino della felicita ritrovata.
Dopo un po' torniamo dalla sorella rimasta sul posto ad attenderci. Alla vista di Magda non riesco a nascondere il turbamento che mi rode. Magda e Petrangésio, Beata e Petrangésio, di nuovo Magda e Petrangésio, che giri di ballo. Questa volta mi pare sia Magda ad essere imbronciata come se avesse letto l'accaduto negli occhi miei e di sua sorella.
E' già l'ora di rincasare. Sulla via del ritorno le gemelle confabulano fra loro in un idioma incomprensibile, non è tedesco - mi spiegano sbrigativamente - ma un dialetto normanno di origine norvegese, lingua materna ereditata dai loro avi che svevi in realtà non erano. Intuisco che Magda chiede qualcosa alla sorella, questa annuisce con la testa e continua a fissarmi con la coda dell'occhio. Non sono mai stato così imbarazzato in vita mia.
Ad un certo momento Magda mi afferra per un braccio e mi dice all'orecchio senza tanti preamboli:
«Domani faremo l'amore insieme io te e mia sorella, lei mi ha detto che è d'accordo».
Davanti all'inaspettata dichiarazione uno stupore muto rimane stampato sul mio volto, chi si immaginava che le ragazze della corte imperiale fossero così disinibite.
Comincia ad imbrunire, le accompagno a casa tenendole entrambe sottobraccio. Magda ha ritrovato il suo buon umore e intona per me una canzonetta:
«Ohi! e non dovrà più
splendere nella notte
più candido che neve
il corpo suo ben fatto?
Tanto m’ingannò l'occhi
da crederlo il chiarore
della splendente luna.
Ahimé, il giorno spunta...».
Siamo arrivati. Le saluto e torno al mio albergo. Fare l'amore con due ragazze è un'idea estremamente eccitante e mentre mi rigiro insonne nel letto la mia fantasia si scatena ad immaginare i modi e le varianti più idonee per misurarmi con quelle due sirenette. Nell'intreccio voluttuoso dei corpi, gioco con i grossi capezzoli di quattro tettine a punta, sode e dure da star dritte anche a schiena distesa. Mi aggroviglio con le loro cosce lunghe e tornite, sento tante dita affusolate sulla mia pelle, godo delle loro lingue che si alternano nella mia bocca e sul mio sesso. Un simile turbinio di pensieri mi provoca un sonno breve e agitato, le due ragazzine mi hanno sconvolto la ragione, sono totalmente in loro balia, sballottato in un'altalena di emozioni incontrollabili. Avevo creduto che fossero psicologicamente un po' fragili, per via del loro essere gemelle, ed invece il più vulnerabile sono io, tanto che temo di toccare la soglia della follia. Perché ho paura di due innocenti maliziose fanciulle? Nell'Isola che non c'è, due dolci vergini hanno teso l'insidia della loro rete da caccia ed io sono finito intrappolato nel potere suggente delle sue maglie invisibili.
All'alba si installa nella mia mente un richiamo prepotente che credevo avere scordato: la signora dell'ultimo di Carnevale. Convinto di sottrarmi al sortilegio delle due ninfe e di ritrovare il senno perduto, decido improvvisamente di partire alla volta di Archanes. Interminabili piantagioni di ulivi riconsegnano alla pace il mio spirito.
* * *
Archanes fa parte della regione costiera del sestriere di San Polo, uno dei sei sestrieri in cui è stata suddivisa l'isola al pari di Venezia. Il paesello è adagiato al centro di lievi colline ricoperte di basse vigne rinomate per l'uva da tavola. Semplici case in muratura imbiancata occupano il fondovalle e gli scoscesi pendii. Su di una altura prospiciente, chiamata Fùrnu Korifì, c'è una ripida scalinata che porta ad un nucleo disabitato formato da un centinaio di stanze in pietra collegate fra loro da corridoi in muratura. Sono le rovine di un popolo sconosciuto e infondono al luogo il fascino arcano.
Evidentemente, in mezzo alle casupole dei popolani greci una villa patrizia non può certo passare inosservata, il che rende fin troppo facile rintracciare la ragazza della famiglia Orseolo. Ecco che dall'unico elegante palazzo del centro esce una giovane aristocratica: ha la sua altezza e la sua camminata, è veneziana, è lei!
Il cuore mi batte all'impazzata, le faccio subito un inchino, mi avvicino per vederla meglio da presso e incautamente le poso lo sguardo sul petto in cerca della spilla d'argento. Irritata, sprezzante, la ragazza passa oltre senza degnarmi di uno sguardo, le leggo in volto quella solita manifesta ripugnanza che le nobili riservano agli uomini di categoria inferiore.
No, forse mi sbaglio, gli occhi sono chiari ma non abbastanza, non sembrano i suoi, sarà meglio chiedere informazioni in giro. Entro nella locanda del centro, l'oste è veneziano sicché mi è sufficiente interpellarlo per ottenere informazioni più precise. Il palazzo degli Orseolo è in realtà nelle vicinanze del mare, un po' appartato rispetto al centro.
Edificato secondo lo stile delle ville venete, possiede classiche finestre ogivali che in quel clima assolato svolgono alla perfezione il loro compito di proteggere dalla luce eccessiva. I muri sono spessi. Il secondo piano ha una terrazza orlata di merli, il terzo piano si riduce ad una piccola torre fortificata. Il muretto di pietra che circonda il parco della villa è interrotto da un cancello abilmente lavorato e sorretto al lati da due colonne gemelle. I loro capitelli in stile ionico terminano con volute a spirale e portano scolpita la vocale Omega, ultima lettera dell'alfabeto greco ed iniziale di Orseolo.
Prima di varcare la soglia ho un attimo di perplessità. Non vedo l'ora di dare un volto a quella sconosciuta ma nel contempo avverto il pericolo possa andare perduto l'alone di fascino che l'ha avvolta finora. Non voglio infrangere un sogno che ho coltivato con amore dentro di me: l'ho trasformata in una eterea creatura della mia mente, l'ho immaginata nelle sembianze di una superba regina ed ora, nell'imminente confronto con la realtà, temo di compromettere tutto.
Rompo ogni indugio, prendo coraggio e supero il cancello, nel prato interno due lepri si rincorrono veloci. Percorro il sentiero ombroso del parco e poi tra i gigli e le erbe profumate proseguo in un giardino, costeggio al suo centro la fontana dei pesci e infine, sotto i rampicanti, vado a bussare al portone d'entrata.
Al socchiudersi dell'uscio appare lei, la ragazza dell'ultimo di Carnevale e non può essere altri che lei, con quegli occhi celesti dolci come il miele, inconfondibili. Però la pensavo più giovane, avrà un ventidue anni, ha il colorito un po' pallido ed i capelli dai riflessi rossicci. In effetti me l'immaginavo assai più bella di quel che non sia e devo ammettere che pur nella gentilezza dei lineamenti... sopracciglia sottili, collo candido e bocca ben disegnata sopra la fossetta del mento, ella ha un viso comune a tante altre ragazze veneziane.
Finalmente ho scoperto chi si cela dietro la maschera bianca decorata dal fregio e abbellita dalle pietre preziose; lei al contrario non mi ha riconosciuto, non può immaginare di avere ora davanti a sé l'uomo della maschera di cuoio nero.
La nobile ha dei lunghi capelli cinti alla fronte da una coroncina d'argento adorna di perle e porta una tunica bianca in fine e sottilissimo cotone di Bucherame; sopra, indossa un velo roseo, avvolto intorno al corpo come un mantello per coprire ciò che la tunica trasparente lascerebbe troppo facilmente intravedere. Nell'atto di scostare la tenda dal portone la mantellina scivola un po' dalle spalle e scopre un’instante la tunica, quanto basta per riconoscere il profilo gonfio dei suoi seni: la tunica è così aderente da recare la delicata impronta dei capezzoli ed il cordone legato appena sotto le ascelle non fa che evidenziare le rotondità di cui vedo in trasparenza le belle linee.
Mi sento sopraffare, vacillo come sotto l'urto di un'onda troppo vasta e per alcuni attimi una densa oscurità occupa la mia mente. Sono sull'orlo di cedere, quando una compiacente espressione dei suoi occhi suscita in quel buio una scintilla:
«Signora gentile, sono un veneziano appena giunto con la carovana di primavera e cerco lavoro come maggiordomo. Ho saputo dall'oste che la vostra illustre famiglia è qui da poco tempo. Immagino abbiate già trovato servitù greca a sufficienza, ma suppongo che vi manchi un maggiordomo, una sorta di siniscalco atto a coordinare e a stimolare i vostri sottomessi per ottenerne la massima efficienza. Solo un veneziano con la mia esperienza può fare al caso vostro. Nobile Donna, io vi prego, accettate il mio servizio».
«Se ne può parlare, entrate pure».
Mi pare di varcare le porte del paradiso, la cosa promette bene, troverò lavoro e chissà, forse il suo amore.
Entriamo in un ampio soggiorno affrescato con scene marine e ci fermiamo al cospetto di una nobile d'una certa età, una cinquantenne esageratamente obesa, quasi più larga che alta, sprofondata nei cuscini di una possente poltrona ornata ad intaglio. Ha la faccia a luna piena, un po' di peli al labbro superiore e la gobba di un bufalo. Regge fra le mani un rosario d'argento e subito comincia a sfogarsi mentre sto in piedi compunto ad ascoltarla:
«Un veneziano! Ah, il clima di quest'isola maledetta mi rovinerà l'esistenza, fa già troppo caldo, in giardino c'è un'afa insopportabile, mi obbliga a starmene in casa all'ombra. Tu sapessi, la calura mi provoca una sete inestinguibile e l'eccesso di luce mi fa calare la vista, faccio sempre più fatica a ricamare i panni d'altare per la chiesa».
Quando infine mi concede la parola apro la bocca per proporle la mia offerta di lavoro, ma la giovane mi previene:
«Si è offerto di fare il maggiordomo per noi».
La matrona mi squadra allibita, sicché rimango muto e impacciato mentre ella va assumendo un contegno distaccato e un tono pieno di superbia:
«Sei troppo giovane per fare il maggiordomo, ti manca sufficiente autorità per comandare i greci a bacchetta, possediamo trenta famiglie di contadini tra il grande vigneto di Vathypetro e tutti gli oliveti di nostra proprietà. Quella marmaglia non ha voglia di far niente, ogni volta che si ordina qualcosa ci mettono il doppio del tempo. Per non parlare delle domestiche greche che non sanno nemmeno apparecchiare la tavola. Puah! Per fortuna siamo state previdenti, noi qui abbiamo una lavandaia, un sarto e un cuoco che sono veneziani... come pure Putiferio, il nostro fedelissimo servitore che ha l'incarico di custodire la stalla e di controllare stoviglie e candele. E' un ragazzo veramente serio, nonostante il soprannome».
La matrona ridacchia sotto i baffi e si gira indicando alle sue spalle un servitore paffuto e mezzo pelato benché giovane, con l'occhio porcino, le sopracciglia rade e l'espressione sonnolenta e amimica di uno che si sia appena alzato dal letto. Intuisco che il soprannome del servitore afferma il contrario della sua natura, il suo aspetto esteriore non evoca per nulla un putiferio, cioè la fastidiosa confusione creata da persona che urli scompostamente, bensì evoca una tranquilla e silenziosa impassibilità.
«Tu invece chi sei?- riprende a dire la balena - Il primo venuto, un illustre sconosciuto che viene a bussare alla porta! Non credere che fare il maggiordomo qui da noi sia semplice, nient'affatto, il lavoro è raddoppiato perché manca mio figlio. E' via per lavoro e non tornerà prima di 40 giorni. Bel tipo anche quello. Mica si accontenta di aver appena ricevuto un piccolo feudo, e non gli basta avere il magazzino pieno di tessuti... macché, deve mettersi a trafficare con i carichi di allume. Ci occorre l'allume per fissare da noi i colori sui tessuti dice lui, e così ne inventa un'altra di nuova per svignarsela, invece di rimanere qui a pensare alla famiglia. Non ha fatto in tempo a posare piede a Candia e organizzare il feudo in fretta e furia che ha voluto subito ripartire con un convoglio, ha detto che non poteva perdere l'occasione, a Bisanzio lo aspettava un carico di allume. Per conto mio vuol fare troppe cose insieme e finisce per trascurare sua moglie, una Cornaro poi».
Ahi, ahi... sua moglie. Ma allora è sposata, questo complica le cose. Comunque sia, insisto:
«Proprio per l'assenza del padrone vi è utile un maggiordomo di fiducia. Vi sarà più facile istruire e addomesticare il personale, sorvegliare la qualità dei pranzi ed assumere messaggeri per portare le lettere. Potrei aiutarvi a calcolare meglio i profitti e le tasse, a controllare i raccolti, la compravendita delle merci, la riparazione dei carri, il modo di uccidere il bestiame e di curarlo».
«Onestamente ha ragione - interviene la giovane alzando un po' il tono -. In sostituzione di vostro figlio, la responsabilità di amministrare il feudo pesa unicamente su noi due e fra poco verremo sopraffatte dal carico di faccende se non riusciamo a demandare una parte degli incarichi. Voi non uscite mai di casa però a me tocca girare ogni momento per i terreni, ieri ho dovuto interessarmi personalmente perfino per ingrassare le ruote di un carro, lo sapete pure che i contadini non muovono un dito se non sono costretti».
La suocera appoggia il mento sul palmo della mano e indecisa riflette sulle argomentazioni appena udite. Ne approfitto per rincarare la dose:
«I villici conoscono mille trucchi per imbrogliare il padrone con falsi pesi e false misure, tutti conoscono la sordida guerriglia del contadino greco che sabota le corvè, ruba nei campi di nascosto e fa il bracconiere nelle riserve del signore».
La giovane:
«Dobbiamo pur difenderci da simili razzie!»
«E va bene, Rézia, lo assumiamo. Lo terremo in prova fino al ritorno di mio figlio, visto che non sarà possibile informarlo per lettera della nostra decisione».
«Vi ringrazio nobili Signore, lieto di pormi al vostro servizio».
«A proposito come ti chiami?» mi chiede Rèzia.
«Vanesio».
Per la circostanza ho tirato fuori il mio soprannome, qui nessuno lo conosce. Alzo gli occhi ad osservare la parete del soggiorno: sull'affresco appena sopra la porta compaiono cinque delfini azzurri che nuotano in un mare lattescente e pescoso.
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