ROMANZO WICCA

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view post Posted on 26/1/2009, 21:10

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Deliziato dalla favola di Gerione, lo ringrazio per la carica di entusiasmo che mi ha comunicato e mi rialzo in piedi pimpante:

«Ora proseguirò fin sulla vetta. Volete venire con me?»

«Ma no. Neanche per idea, non si può proseguire oltre, questa soglia che vedi affacciarsi è il limite estremo dell'abisso».

«Comunque sia voglio andare avanti».

«Ma sei pazzo!- In preda all'agitazione- Finirai in mezzo agli strapiombi, senza poter proseguire né tornare indietro».

«Beh, arrivederci amico», incamminandomi.

«Fermo, fermo!- mi trattiene per un braccio- Non andare, rifletti! Ascolta ti prego...»

«Che vuoi ancora?»

«Tu non sai che razza di mostro abita gli strapiombi!»

«Sì... un serpente con cento teste», scrollando le spalle.

«Non scherzare, ti giuro che ho visto le orme del drago stampate sulla roccia!»

«Impossibile», sorridendo.

«E' così, credimi, il drago Ouroboros comanda il Vento del Nord e ti farà precipitare nel vuoto!»

Ouroboros? Mi ghe sboro, penso fra me e proseguo.

Immediatamente il passaggio sul fianco della montagna si fa molto esposto, diviene strettissimo, una semplice scanalatura orizzontale incisa sulla parete. Il cunicolo è alto meno di mezzo metro: potrei superare l'ostacolo solo avanzando prono a forza di gomiti e ginocchia. Mi spingo imperterrito nella scanalatura strisciando sulla roccia ghiacciata e stando bene attento a non battere la testa contro gli spigoli prominenti. Nel contempo tengo sempre sott'occhio l'orlo del precipizio, sul fianco sinistro lo strapiombo cade a goccia d'acqua per centinaia di metri. Sudo e nel lucido calcolo del rischio che sto correndo un brivido mi attraversa e mi fa rizzare i capelli. D'un tratto comincia a spirare forte il Vento del Nord, le sue raffiche si abbattono violente contro la parete. L'aria e il freddo si insinuano sotto la pelle di daino, la mia testa oscilla sotto l'impeto delle folate, ho la sensazione che il vento stia per trascinarmi via.

Ma riesco a farcela. Percorsi una ventina di metri il passo è superato: veramente ho provato cosa vuol dire avere la vita appesa a un filo. Inaspettatamente, la via diventa molto facile e la mia tensione si muta in una gioia incontenibile. Non ci sono più tratti esposti né voragini, trovo invece un ambiente incredibilmente suggestivo ed ancestrale immerso in un maestoso silenzio. Un vallone dalle scalee di roccia forma un monumentale anfiteatro a semicerchio calato in un'atmosfera talmente inconsueta che non mi meraviglierei affatto se un rettile dalle forme spaventose sbucasse da dietro l'angolo.

Fra i detriti del suolo scopro l'inspiegabile presenza di una conchiglia pietrificata, ha una forma spiraleggiante e un diametro di ben quaranta centimetri. Camminando trovo altre conchiglie, sono bivalvi, alcune enormi. Che strano prodigio! Salire sulla cima di un monte per ritrovare il mare. In effetti la base dell'anfiteatro ricorda vagamente un fondale marino, potrebbe essere una baia. Forse ai primordi del tempo un tiepido mare ricopriva la zona e appena sotto il pelo dell'acqua proliferavano alghe e spugne e magari le barriere coralline. Mi immagino un clima caldo, un paesaggio semi desertico su cui batte perennemente un vento infuocato dall'arsura.

E questo cos'è? Un dente enorme, pietrificato, con il bordo aguzzo e seghettato. Che impressione! E' lungo venti centimetri. Lo farò vedere al mio amico. Il vegliardo aveva ragione, un dente del genere non potrebbe appartenere a nessun altro animale. Può stare solo nella bocca di un drago.

Proseguo. Risalgo il vallone procedendo sulla ghiaia e poi a grandi passi sui facili gradoni che portano in direzione Nord. Una volta in alto, monto sul ripiano di un nevaio e lo attraverso diagonalmente fin dove termina la neve, a destra di una imponente cresta rocciosa.

La vetta è lì a pochi passi, facile da raggiungere. Sono ancora pieno di energia sì, ma le giro le spalle lasciandola inviolata.

Il sole ha disseminato il nevaio di riflessi puntiformi che luccicano. Lo ripercorro a ritroso. Al suo margine inferiore mi imbatto in un folto gruppo di corvi, se ne stanno beatamente appollaiati sul candore. Li scaccio con lo schiocco rumoroso di due pietre, eccoli si alzano in volo oscurando il cielo. Levando in su lo sguardo, nel bel mezzo dello stormo vedo un corvo con le penne bianche come la neve, bianco il becco e bianche le zampe. Aleggia leggero sul vento delle cime, spiega candide dita al cielo planando con le penne laterali delle ali. Mentre volteggia su ampi semicerchi atteggia la coda a ventaglio, a tratti si mette controvento e rimane a mezz'aria, sospeso nel vuoto.

Di colpo non distinguo più nulla. Il vento si abbatte sul nevaio, solleva una miriade di cristalli scintillanti che fanno dello spazio un abbaglio di luce.

Abbandono alla svelta il nevaio mentre le raffiche mi frustano la nuca e i cristalli di ghiaccio mi punzecchiano il collo. Affretto il passo, comincio a saltellare da un masso all'altro, agile e scattante scendo giù a raggiungere il vegliardo esattamente nella posizione in cui l'avevo lasciato.

Gerione esulta:

«Vederti ancora vivo è un vero miracolo, Dio sia ringraziato!» e mi incalza subito di domande per farsi dire cosa ho visto.

Volessi sforzarmi di fornirgli un fedele resoconto di quei luoghi non potrei trovare parole atte a descriverne la selvaggia bellezza. D'altronde, sono anche un po' seccato nei confronti di quel montanaro, ha cercato in tutti i modi di scoraggiarmi. Così escogito lì per lì una versione del tutto falsa, per incutergli un terrore ancora maggiore di quello che ha:

«Dovevo camminare sulla lama del rasoio, precipizi a destra e a sinistra. Poi, come per incanto un pianoro e al centro...»

«Cosa hai visto?»

«Una fessura profondissima che spaccava a metà la montagna, una voragine spaventosa larga un paio di metri tra sponda e sponda».

«E tu?»

«Ho gettato dentro un masso e non l'ho udito rimbalzare, era un abisso senza fondo, arrivava fino all'inferno! E indovina che ne è uscito?»

«Che cosa?»

«Il drago».

«Ouroboros?»

«Esatto, un terrificante lucertolone con la pelle grigiastra e rugosa, alto cinque metri e lungo almeno venti. Ritto in piedi su due zampe, grosse come colonne e dotate di tre poderosi artigli da uccello. Avanti al petto agitava due zampette ridicolmente minute e sollevava in aria la coda per bilanciare il peso del corpo. Scuoteva in alto un testone colossale e ruggiva: Groaarh! Groaarh! Mi ha caricato, ma io non mi sono mosso... fermo immobile... e quello mi si è piantato vicinissimo, tanto da sbattermi in faccia il suo alito fetido, che sensazione! Sbuffando retraeva la sua grossa lingua e spalancava le zanne delle enormi mascelle, a un palmo dalla mia testa! Ha cercato di atterrarmi con una sferzata della sua coda ben lunga e robusta».

«E tu?»

«Ho schivato il colpo, d'istinto gli ho guidato l’estremità della coda verso le mascelle spalancate e gliel'ho ficcata in gola».

«L'hai ucciso?»

«E' morto soffocato, sputando i denti tra spasmi atroci che facevano sussultare la montagna».

Gli mostro l'enorme dente di pietra.


* * *


Dopo la scalata del Trono del Demonio ho smesso di campare a suon di zuppe annacquate e ho scordato la porta in faccia al palazzo dello zotico. Ora, non ho più motivo di lamentarmi dell’ospitalità dei valligiani, anzi è una vera pacchia, il vecchio della montagna ha preso per oro colato tutte le frottole sul drago, vinto da ammirazione incondizionata mi ha invitato a fruire della sua dimora e fatto partecipe della sua generosa dispensa, stracolma di formaggio, noci e frutta conservata. Ho trascorso lieti giorni in sua compagnia. Nel passato fu fabbro valente e adesso è uno degli anziani più rispettati nella vallata. A differenza dei contadini di Zoldo, che non possiedono nulla all'infuori del loro ventre, Gerione ha una proprietà di terra libera, un allodio. Consiste in un giardino colmo di alberi da frutto, ora rinsecchito dall'inverno e coperto di brina, ma nella stagione del raccolto si dice sia talmente carico di mele, pere e ciliege, e di castagne, lamponi e altre delizie, da sembrare il paese della cuccagna.

Un dì, mentre passeggiamo fra l'intrico dei suoi rami, oso introdurre un argomento spinoso:

«La malga di Mas di Sabbe ha fama di essere luogo di ritrovo per i balli sfrenati di diavoli e streghe, eppure ti giuro che da quando vi ho messo piede non ho visto l'ombra di una strega».

Gerione è il solo a sapere esattamente ove si nascondano:

«Il Bosconero, là è pieno di streghe - bisbiglia -, ce ne sono in tutti i cantoni. Però adesso, da quando l'Inquisizione si è fatta più accanita, è diventato difficile avvicinarle... se ne stanno sempre più nascoste».

«Ti prego, vecchio mio, accompagnami al Bosconero. Muoio dalla curiosità di vederle».

«D'accordo, se insisti. Ma non dirlo a nessuno - lisciandosi la barba -. Ti porterò alla casa di una strega appena si fa la luna piena».

«Non possiamo andarci prima? Magari domani».

«Non essere impaziente. Le streghe sono scontrose e volubili. Il loro anno si compone di tredici mesi lunari, a meta mese fanno festa alla luna piena e sono meglio disposte a ricevere gli sconosciuti. La luce della luna ci consentirà di vedere meglio il sentiero poiché dovremo muoverci in piena notte, al riparo da occhi indiscreti».

Attendo con ansia l'arrivo luna piena, quindi ecco finalmente la notte concordata...

Sentieri impervi e selvaggi sovrastati dalle minacciose ali di roccia del Monte Civetta e un bosco impenetrabile in cui la luce della luna filtra a malapena. Nella penombra della fitta vegetazione i rami dei larici mi pungono il viso con gli aghi delle loro lunghe dita pendenti, accelero, inciampo sui tronchi divelti.

Questo vecchio premuroso mi sta guidando al nascondiglio della strega, certo non oso mettere in dubbio la sua esperienza di montanaro, ma ho la sensazione che si sia perso. Temo che finiremo nell'imboscata di un gruppo di streghe arcigne e deformi, ci faranno morire dallo spavento alla sola vista della loro bruttezza. Ossute, gobbe, con i bitorzoli sul naso adunco, gli occhi freddi e crudeli; come minimo ci picchieranno a sangue con le scope.

C'è un silenzio di morte. Una torre di roccia massiccia incombe con l'impressionante verticalità delle sue pareti scure. Un sibilo lacera la notte, fischia sopra le nostre teste ed esplode in modo sinistro.

Lunghe ore di faticoso cammino. A un tratto il bosco finisce ed il montanaro mi trascina alla scoperto su un piccolo altipiano erboso:

«Il pian del Crep, ecco la casa di Sybil!» e indica un tabia, una stamberga di legno adagiata sotto una corona di aspre rupi.

Dunque non si era perso. Devo ammettere che conosce alla perfezione questa regione dimenticata da Dio e dagli uomini.

«Sybil è la strega?» chiedo a conferma.

«Sì, vengo spesso da lei a farmi curare i malanni età. Le sue tinture medicinali mi hanno sempre giovato», borbotta.

Gerione bussa a lungo. Tutta vestita di nero, con un cappellaccio a cono sulla testa la strega si affaccia sull'uscio e non è laida e vecchia come mi aspettavo, ma giovane e attraente.

Sybil ci accoglie cordialmente all'interno. Due avvenenti occhi verdi promanano uno strano fascino felino e mi fissano con le palpebre aguzze come per carpire le mie intenzioni.

«Che cosa cerchi fra questi monti?», mi chiede.

«Desidero vedere il demonio - rispondo timidamente -, so che voi avete facoltà di evocarlo, Gerione mi ha detto che le vostre pozioni magiche consentono di visitare le sedi infernali, pur potendo ritornare sani e salvi sulla terra. E' vero?»

La strega non risponde ma con grazia ci fa cenno di seguirla, apre una botola sul pavimento di legno, scende i gradini di una scaletta e ci conduce nello scantinato. Giù c'è una stanza sufficientemente spaziosa. I ripiani appoggiati alle pareti sono pieni di erbe essiccate e disposte con ordine. Mi accosto per leggere i nomi incisi sul bordo orizzontale delle tavole, ciascun nome corrisponde ad una varietà botanica. Fiuto l'intenso profumo che emana dal timo e dal tiglio, l'effluvio del laudano e la fragranza di limone della verbena. Come un fanciullo occupato ad esplorare un ambiente a lui nuovo, estraggo da un sacchetto semiaperto un gambo lungo e rigido con le foglie frastagliate. Termina in un fiore violaceo, un grosso grappolo di petali ricurvi a forma di elmo.

«Aconitum Napellus - dice la strega -, questa pianta nasce dalla saliva fetida che cola dalla tre bocche di Cerbero».

Gerione spiega:

«Cerbero è un cane che ha tre teste ricoperte di serpenti e la coda irta di aculei, fa la guardia alla soglia dell'inferno e impedisce ai dannati di uscirne».

Già mi passa la voglia di visitare l'inferno. Con questa bestiaccia di mezzo potrei rischiare di non tornare sulla terra.

Mentre mi trastullo con il fiore in mano, la strega si avvicina alle spalle e mi bisbiglia in un orecchio:

«E' la pianta più velenosa che esiste. Uccide».

«Uccide?» balbetto mollando subito la presa e ricacciando il fiore nel sacchetto.

«Paralizza le vittime fino all'asfissia mortale».

Sul focolare bolle un gran pentolone. A tratti la vivacità del fuoco ne surriscalda il contenuto e una schiuma acquosa solleva il coperchio straripando oltre l'orlo del pentolone. La schiuma cola fino al fuoco. Le fiamme brontolano e friggono sotto l'effetto del liquido che attutisce la loro forza fin quasi a spegnerle. Lentamente il fuoco riprende vigore e mantiene vivo il gorgogliare del pentolone stabilizzandosi su una temperatura costante. Però, ciclicamente il fuoco si risveglia dal torpore e di nuovo il contenuto schiumoso fuoriesce regolando l'eccessivo ardore della fiamma.

Vado a curiosare dentro il pentolone, alzo il coperchio e vedo dei tuberi che si stanno cuocendo.

Deluso, spio allora al centro del tavolo il contenuto di un cestino. Sono dei funghi con il manico bianco e un'ampia cappella rossa disseminata di puntini bianchi.

Amanita Muscaria li denomina la giovane strega indicandoli col dito e strizzandomi l'occhiolino.

«Voi li mangiate?» le chiedo con circospezione.

«Certo!»

Li mangia? Spero proprio che non obblighi anche me a mangiarli, hanno tutta l'aria d'essere velenosissimi.

Mi guardo intorno disorientato. La mia attenzione cade su un rospo che se ne sta in un angolo del pavimento con gli occhi fissi ed insensibili:

«Mangiate pure quello?» e mi illumino nel tono scherzoso della battuta come chi cerchi di sdrammatizzare una situazione.

«Come no», risponde seria la strega.

Sento alla bocca dello stomaco un conato di nausea. Sono amaramente pentito, perché mai m'è venuta la sciagurata idea di finire in casa di una strega. Ormai è troppo tardi, non ho più la forza di alzarmi dalla sedia, sono soggiogato dai suoi occhi verdi. Sibyl si toglie il cappello e una cascata di capelli neri danza intorno al suo viso.

«Se vuoi vedere l'inferno mangia due cucchiai di questa polverina magica», mi esorta accattivante la strega.

«Ma che cos'è?»

«Strademonium».

«E che... sarebbe lo Strademonium?»

«E' una pianta coi semi neri e i fiori bianchi, ciò che all'inizio è nero col tempo diventa candido».

Cerco di tergiversare mentre reggo in mano il cucchiaio:

«Ma che sapore ha? Non sarà pericoloso?»

Sybil ingurgita due cucchiai colmi per incoraggiarmi. Mi decido a fare altrettanto. La polvere mi impasta la bocca e a stento trovo la saliva per mandarla giù.
 
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view post Posted on 26/1/2009, 22:09

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* * *

Poco dopo timori e scrupoli lasciano il posto ad una grande sedazione, sprofondo in un torpore ovattato. Ogni rumore si fa lontano e attutito. In preda a un dolce oblio, smarrisco il ricordo del tragitto nel bosco, non rammento il motivo della mia presenza in questa casa, né saprei dire che giorno sia oggi o che mese dell'anno. Comincio a percepire la bocca secca e asciutta. Ho fame d'aria, mi sembra di soffocare, non sopporto più di stare al chiuso e a tentoni salgo la scaletta, apro la botola e spalanco la finestra per respirare.

Finalmente una boccata d'aria fresca. Guardo fuori, ma? Nel posto prima occupato dalla corona di montagne ci sono le guglie e le maestose colonne di gigantesche cattedrali. Le facciate gotiche sono illuminate dal chiarore lunare, una luce fioca esce dalle ampie vetrate ogivali mentre i rosoni iniziano lentamente a ruotare su sé stessi.

Richiudo la finestra, stupefatto, sconcertato. Ad intervalli la vista mi si appanna. Cedo alla violenta eccitazione del delirio, il cuore mi batte all'impazzata, ho la gola arsa dalla sete e pur senza una goccia di sudore sento un caldo insopportabile che mi brucia la pelle. E' il calore delle fiamme dell'inferno, ormai prossime.

Segue una serie di allucinazioni.

...Vedo un massiccio di puro calcare, provvisto di merli e torri come un castello incantato. Avanzo nella sua direzione camminando in un vapore denso che ricopre il terreno fino al ginocchio e si disperde qua e la in lingue e vortici agitati da un vento leggero. Arrivo al portone principale, un passaggio ad ogiva decorato e scolpito.

Appena entrato rimango a bocca aperta: l'interno è cavo, ombre di un verde latteo popolano l'enorme volta da cui pendono appuntite le stalattiti. Intorno, le pareti sono ricoperte da scultorei colonnati simili a fontane impietrite nell'attimo di traboccare piene di rivoli. Un cupo sottofondo di acqua che goccia rompe il silenzio di questo mondo immobile e sinistro.

Mi dirigo verso l'area al centro della caverna, scendo una decina di gradini scavati ad anfiteatro e raggiungo un pozzo rotondo. Guardo dentro. Il chiarore soffuso del luogo si raccoglie sulla superficie dell'acqua come in uno specchio, vi vedo il mio volto riflesso e lo stupore mi travolge. Appaio ringiovanito... di molto, ho i lineamenti di quando ero adolescente: occhi vispi, guance rosee e capelli arruffati. E' un pozzo prodigioso: la fonte stessa della Giovinezza!

Mi contemplo a lungo incuriosito, incredulo mi tasto la faccia con le dita. Dopo un po' giro lo sguardo verso il portone del castello, faccio per avviarmi ad uscire ma non riesco a sollevare le piante di piedi, sono incollate al suolo. Le caviglie si radicano in terra, cerco di liberarle con ripetuti sforzi delle ginocchia, inutilmente... vengo presto sopraffatto da una invincibile rigidità. Le gambe si immobilizzano del tutto. Disperato guardo di nuovo dentro il pozzo come vi potessi trovare una via di salvezza: e invece vedo la mia faccia soffusa di verde pallore. Giro le mani e osservo le palme, pure inverdiscono. Grido all'orrore! I piedi si trasformano in radici che penetrano contorte nel terreno. Le ginocchia si fanno grinzose e la pelle si muta in corteccia e le gambe si fondono in tronco che racchiude le cosce. Il fallo si erge ligneo a nodo del tronco, sento l'odore del muschio di quercia. Invano mi divincolo e torco il fianco, già il petto è oppresso dalla scorza e la schiena si stira dolente. Non posso che agitare le braccia sopra il capo, ma in breve le mani s'accartocciano in foglie e agito nient'altro che fronde. Ecco un'energica spinta mi stira in verticale nel fusto di una grande quercia svettante sopra il pozzo.

C'è un corto silenzio nella grotta. Il legno mi ha invaso la gola, nemmeno ho voce per gridare. Poi la montagna di calcare inizia a tremare e lampi e tuoni riempiono la cavità e le stalattiti si staccano dal soffitto e i colonnati rotolano giù dalle pareti, l'ampia volta ruota su se stessa e tutto quanto gira intorno all'alto tronco!

Bruscamente le allucinazioni finiscono. Mi ritrovo a barcollare in mezzo allo scantinato della strega e sono vittima di una violenta vertigine e incapace di coordinare i movimenti e di mantenere l'equilibrio, è come se la terra mi mancasse sotto i piedi. Finisco steso, sul pavimento di legno. Anche la vertigine si estingue. Mi coglie un intervallo di sonno ristoratore.

Dolce risveglio: Sybil nuda e incantevole, sdraiata accanto a me sul pavimento. Mi mostra sorridente i seni rigonfi e da sotto la cascata di capelli mi fissa con i suoi stupendi occhi verdi. Vengo pervaso da incontenibile eccitazione, in ginocchio allungo il braccio, la mia mano raggiunge la tetta turgida e la palpa, ma cos'è? Ho la disgustosa sensazione che la sua pelle sia vischiosa e appiccicaticcia, subito la ritraggo per un dolore urente alle dita.

La strega è sparita, sul pavimento c'è solo il rospo, inavvertitamente l'ho toccato mentre gironzolava su e giù imperterrito.

Ma non mi rassegno. Traboccante di lussuria cerco ansiosamente Sybil: non me ne importa affatto se poco fa ho visto un fantasma, una diavolessa o una donna in carne ed ossa, voglio comunque possederla e godermela subito. Il guaio è che un velo fastidioso mi offusca la vista e mi impedisce di mettere a fuoco gli oggetti. Ah! Finalmente il velo si è diradato, Sybil è ancora lì distesa sul pavimento, nuda e incantevole. Che succede, adesso? Le sue grosse tette si raggrinziscono rapidamente e pendono fiappe sull'addome rigonfio, i capelli neri diventano grigi in pochi secondi e poi bianchi, la pelle del viso si copre tutta di rughe, i denti si fanno gialli e consunti, la faccia arrossisce di colpo e le pupille si dilatano fino a eliminare il verde dell'iride. Come ferita a morte la strega caccia un urlo demoniaco e contorce violentemente le braccia e le gambe.

Vengo preso dal panico. Per cercare di alzarmi in piedi devo fare uno sforzo disumano. Lottando contro un'enorme spossatezza e articolando con difficoltà le parole, supplico Gerione di trascinarmi via da quella casa infernale.


parte quest'ultimo movimentato episodio, la vita pastorale che da quasi due mesi trascino lentamente sui monti sta diventando di una tranquillità eccessiva e comincio a sentire la mancanza della convulsa frenesia della mia città. La nostalgia è troppo forte... torno a Venezia. Anonimo e mascherato approfitterò del Carnevale e della gran baraonda che tocca l'apice nell'ultima settimana di febbraio.

Nell'oltrepassare il confine del mio Comune esco allo scoperto da un fitto boschetto. Sul prato, un verdeggiare di germogli annuncia la vicina primavera, sugli alberi le gemme di teneri ramoscelli spuntano già. Mi sono travestito. Ho sul viso una maschera di cuoio nero, in testa un berretto piegato sulle orecchie e indosso, sopra la calzamaglia gialla, una tunica attillata composta di pezze ricucite insieme in un esplosivo miscuglio di colori; la tunica è stretta da una cintura e appeso a questa ho un manganello di legno che, non si sa mai, potrebbe anche tornarmi utile in questi frangenti.

Durante il Carnevale in qualsiasi ora del giorno e della notte è consentito a chiunque di girare in città con la maschera addosso. Nessuno si è mai sognato di obbligare chicchessia a togliersela, nemmeno i gendarmi, dacché ogni maschera possiede per tradizione un tacito privilegio di immunità. Fatalità, doveva esistere un bellimbusto intenzionato ad infrangere la regola. Raggiunta la gran calca della vigilia del Giovedì Grasso ecco lo spiacevole incontro, un soggetto che porta sul capo una testa di lupo imbalsamato, con il pelo che scende sulla nuca e in avanti a coprire interamente il volto.

Solo i suoi occhi mi puntano sotto le zanne:

«Alto là, sior strasson!»

Mi blocca afferrandomi per le spalle e poi allunga le mani per strapparmi la maschera. Faccio appena in tempo a sbilanciarlo con una spinta e a falciargli le gambe con un calcio rasoterra. Mentre cerca affannosamente di rialzarsi sono già confuso tra la folla. Mi mescolo alla colorita fantasmagoria delle maschere. Ci sono tutti i camuffamenti possibili e immaginabili, oltre ai soliti buffoni e diavoli burloni, ci sono finti re, finti frati, finti medici, finte contadine furlane, finti armigeri sul carroccio e finti briganti, finti gobbi, finti finti cioè i veri, veri gobbi che la gente scambia per maschere e non lesina loro gran pacche sulle spalle.

Lungo le calli, manipoli di scalmanati avanzano danzando con l'accompagnamento dei tamburi, un ritmo da far venire la pelle d'oca, che ti scuote dentro, ti ipnotizza e ti contagia la voglia di metterti in coda. Negli spiazzi dei Campi si balla la moresca, un ballo cadenzato che simula dei colpi di scherma, basta la scintilla di quattro note improvvisate e sono pronti tutti a danzarlama le ballerine più ammirate sono le bambine, ragazzine di dieci dodici anni che incantano le platee con i loro movimenti aggraziati, col portamento solenne e deciso, la mascherina calata sugli occhi.

In Piazzetta, personaggi tratti dalla mitologia calcano i palchi in curiosi e fantasiosi spettacoli, vere e proprie rappresentazioni teatrali ove è d'obbligo lo sfoggio delle più ardite trovate. A fianco gruppi di acrobati costruiscono piramidi umane secondo le complesse figurazioni che il popolo chiama Forze d'Ercole e poco dopo in Piazza S. Marco una folla atterrita e ammirata osserva a testa all’insù un abilissimo funambolo che si bilancia con la pertica e sale lungo una corda tesa fino alla sommità del campanile.

E' una gran festa di popolo. Ogni anno attira da mezza Europa schiere di visitatori che vanno ad impinguare le borse degli albergatori e dei commercianti.

Astrologi, cartomanti, esperti di Fisiognomia, Geomanzia, Cabala. I personaggi più pittoreschi del Carnevale fanno parte della combriccola dei ciarlatani e li si trova in ogni angolo della Piazza a vendere magie ed imbrogli. Costoro si guadagnano il pane vendendo fumo e sogni a modico prezzo e tuttavia ad alcuni di loro bisogna onestamente riconoscere non comuni doti di sottile destrezza. Primo fra tutti un prestigiatore alle cui magie ho l'onore di assistere.

Quel giovanotto snello si avvicina a me e mi persuade a riporre nella sua coppa una monetina di rame, «un solo bagattino per una magia strabiliante» declama con un'espressione mobilissima sul volto. Ricevuta la monetina posa la coppa sul tavolino, vi fa roteare sopra la spada, mulina fra le dita una bacchetta magica tanto velocemente da farla scomparire alla vista... e in un batter d'occhio rapido movimento delle mani e copre il bordo della coppa col disco inciso di segni magici. Infine, mi chiede di sollevare il disco dalla coppa. Mi avvicino lentamente per eseguire, sollevo il disco e sbuca fuori un piccione che vola via sbattendo le ali. Il bagattino è sparito dal fondo della coppa. La gente raccolta intorno applaude.

Uscendo da Piazza S. Marco faccio un breve tragitto sulla Riva degli Schiavoni, poi mi dirigo verso l'interno della città e imbocco le Fondamenta dell'Osmarin catturato da un suono indistinto di cornamuse in lontananza. Lungo le Fondamenta, man mano riconosco un rullare di tamburelli e le corde del saltèrio pizzicate col plettro, la musica proviene dall'altra parte del canale, dalle finestre gotiche di Ca' Priuli. Faccio il giro attraverso il ponticello della Salizzada Zorzi e mi fermo titubante sull'entrata principale.

Prima di entrare in quella dimora di nobili mi tolgo il berretto per rispetto quand'ecco qualcosa mi colpisce alla testa, un liquido mi cola lungo i capelli e istintivamente porto la mano al capo nel timore mi abbiano ferito. Odo delle risa sguaiate sul balcone appena sopra, il liquido è denso e appiccicoso e percepisco un odore stomachevole di uovo marcio. Mi pulisco alla meglio ed entro nel palazzo. L'ingresso al popolo è proibito ma fortunatamente oggi nessuno controlla.

Nell'ampio salone vedo i musici, cantano i Carmina Burana in versione goliardica:

«Arpeggia l'asino e i buoi ballano,

dei ciechi conducono altri ciechi

e tutti quanti finiscono nel fosso.

San Benedetto frequenta le bettole,

S.Girolamo vende pesci al mercato.

Arpeggia l'asino e i buoi ballano,

il mondo intero cammina sulla testa:

tutto è sviato dal proprio cammino!»

Intorno, sui tavoli zeppi di gente si mangia fegato alla veneziana e arrosto di maiale, sul pavimento si gioca ai dadi. Alcuni discutono animosamente della Lega Lombarda, il solito ubriaco fradicio crolla con la fronte sul tavolo.

Tra quelli senza maschera non c'è nessuno di mia conoscenza. Tra i mascherati, chissà? Non lo posso sapere, a parte lì nell'angolo quella donna grassa come un suino: se pure è riuscita a celare il viso dietro la mascherina non può in nessun modo nascondere il suo deretano enorme e inconfondibile. E' la ricca moglie di Zuanne Zusto, il Procuratore di S. Marco. Ma chi c'è dietro di lei? Con la sua mole giunonica sta coprendo alla vista un uomo stravaccato sulla panca. Mi avvicino con risvegliato intento pettegolo. L'uomo sulla panca è probabilmente un nobile importante a giudicare dall'abbigliamento ricercato, ma con quei capelli rossi che escono da dietro la maschera sicuramente non è suo marito. Appena sono abbastanza prossimo da percepire odore di ascelle sudate, mi accorgo che la grassona ha introdotto la manina furtiva sotto la tunica del nobile e muovendo il pugno su e giù imprime alla stoffa un ritmico sobbalzare. Accelero il passo, mi giro intorno scandalizzato ma noto che la scena lascia i vicini indifferenti, e semmai li allieta.

Improvvisamente entra nel salone l'uomo dalla testa di lupo. Mi allontano terrorizzato e prima ancora che si accorga della mia presenza sono già sgusciato fuori dal portone.


* * *


Giro per le calli. L'ansia mi assale, sono teso per l'incertezza del mio futuro, devo assolutamente raccogliere le ultime notizie sul mio processo, devo correre il rischio e avvicinarmi di soppiatto a casa mia per parlare con mio fratello. Chi lo sa? Magari la pena che mi hanno accordato è soltanto una grossa multa.

Passando nei pressi delle Fondamenta della Follatura varie pezze di lana e di feltro sono stese ad asciugare sui supporti di legno. Alcune donne muscolose attingono acqua dal canale e la versano in un'immensa tinozza, contemporaneamente due uomini armati di grosse mazze di legno vi battono la pezza immersa nel fondo. E' il procedimento della follatura mediante il quale la stoffa si restringe, s'ispessisce e diventava più resistente. Una terra apposita è stata aggiunta all'acqua per estrarre gli oli dalla stoffa, ha un odore pungente, di putredine. Odore che associo istintivamente alle immagini del mio primo tragico impatto con i Pozzi: il corridoio delle prigioni, fiocamente illuminato in alto da poche finestrelle strette e orizzontali.

Sono di fronte alla mia abitazione e aspetto che esca mio fratello o almeno che la mia carissima madre, come d'abitudine, si affacci un attimo alla finestra. Mi commuovo alla nostalgia della mia famiglia e mi è immensamente triste dover resistere alla tentazione di entrare in casa, ma non posso, non devo generare sospetti.

Chissa se sono giunte notizie di mio padre? Non lo rivedo dall’età di nove anni, da quando è partito per la Crimea e non è più tornato. Faceva parte di una spedizione commerciale indirizzata ai Tartari del basso Volga e dentro di me non è mai morta la speranza di vederlo ritornare un giorno all'improvviso, carico dei doni e delle meraviglie dell'Oriente. E' partito da semplice marinaio ma ai miei occhi egli rappresenta il vero avventuriero, colui che osa oltrepassare le frontiere della Cristianità, non potrò mai emulare il suo coraggio di pioniere.

Segue un'attesa snervante, ormai è quasi notte e da dietro le imposte del primo piano cominciano a palpitare le luci delle candele. Odo dei passi nella calle deserta, mi giro e vedo rincasare il mio fratello maggiore, ancora nei suoi abiti da muratore. Gli muovo incontro deciso scordando di essere avvolto nel mio bizzarro travestimento e conciato così lo colgo alla sprovvista. Egli mi fissa accigliato, sospettoso posa la mano sul martello in un atto di istintiva difesa.

«Sono io, Petrangésio!»

Nel riconoscere la mia voce la sua espressione si muta immediatamente in felice sorpresa.

Mi abbraccia:

«Sei tornato?»

«Son qua».

Chiedo notizie di nostro padre. Mio fratello stringe le labbra e scuote la testa in segno di diniego.

«Che nuove dall'Inquisizione?»

«Il manoscritto è ancora nelle loro mani, l'Inquisitore lo sta traducendo per esaminarlo attentamente».

«Non ha finito ancora di tradurlo?»

«Pare che il doge stesso ne voglia leggere la traduzione, confidenze di un avvocato».

«A che pena mi vogliono condannare?»

«Non si sa niente», allargando le braccia.

«Saluta a casa, dì alla mamma che sto bene e che non si preoccupi per me. A tutti gli altri dì che son pellegrino in Terra Santa».

Mio fratello entra in casa.

Mi avvio sconsolato nella calle buia e deserta, però qualcuno mi sta venendo incontro con fare insidioso dall’estremità opposta della calle. Un boia incappucciato con in mano una finta mannaia, un uomo selvaggio con clava e pelliccia, un grottesco diavolo con la forca e Testa di Lupo che li guida. Mi blocco, faccio dietro - front, giro l'angolo di casa mia e mi allontano affrettando il passo. I quattro mi inseguono a distanza. Imbocco Calle del Carbon. Loro sono sempre dietro. Accelero il passo più che posso e mi dirigo alla riva attigua, ma loro si fanno ancora più sotto. Un attimo prima di Riva del Carbon giro di scatto per una calle stretta e lunga e comincio a correre, corro veloce verso Campo S. Angelo. Saranno senz'altro sbirri dell'Inquisizione camuffati così per spiare meglio i ricercati, penso impaurito. Cerco di seminarli, scelgo le calli più buie e tortuose intorno a Rio Terà degli Assassini, ma quelli sono sempre alle calcagna. Ho il terrore di finire in un vicolo cieco, ce ne sono tanti in questo quartiere. Freno. Mi nascondo nell’oscurità di un sottoportego, aspetto col cuore in gola finché con la coda dell'occhio li vedo passare oltre di gran carriera. Attendo ancora un po' ed esco allo scoperto nell'ampio Campo S. Angelo.

Al centro, vicino al falò che rischiara il Campo, c'è un orso incatenato al palo. Gli aizzano contro una muta di levrieri impegnandolo in un cruento combattimento a colpi di morsi e di unghiate. Cerco scampo tra la folla raccolta intorno allo spettacolo, c'è chi scommette per l'orso e lo incita ad uccidere i cani uno per uno, c'è chi applaude i cani e attende che lo sbranino vivo. Mi faccio piccolo piccolo in mezzo a un gruppone di soggetti con le birre in mano, tutti vestiti da inglesi con la coda. Inutile! I miei inseguitori sono già arrivati e si sono messi a danzare. Goffi e sgraziati oscillano sulle gambe, apposta con la faccia rivolta alle fiamme perché la luce dal basso renda ancora più lugubri le loro maschere. Testa di Lupo mi ha individuato e defilatosi dai suoi compagni mi grida alle spalle:

«Buonasera sior strasson!»

Lo anticipo, mi giro di scatto e lo colpisco a bruciapelo, la punta del manganello affonda nella bocca del suo stomaco. Testa di Lupo ulula dal dolore.

Fuggo da Campo S. Angelo a grandi falcate. Sono lucidissimo, albergo pensieri insolitamente vividi e veloci, privi di emozione, distaccati. Con movimenti automatici volo sopra i ponti e alla luce delle torce raggiungo Riva del Ferro. Mi affaccio sul Canal Grande: nelle vicinanze c'è un'unica gondola ormeggiata, fortunatamente una sola. La raggiungo con un balzo. Per pormi in salvo devo solo slegare frettolosamente le sue corde e poi con tutta calma remare alla riva opposta e mettere piede sull'approdo, a fianco di Ca' Barbarigo. Invece rimango lì impalato, in piedi al freddo sulla gondola, a guardare se arrivano. Nell'attesa gli attimi si dilatano. Provo in me una distorsione del senso del tempo, come se fluisse al contrario dal futuro al passato.

Eccoli! Frenano la rincorsa, si fermano sull'orlo della Riva, riuniscono il gruppetto davanti alla mia gondola. Con stupore li vedo agitare vistosamente le braccia e i fazzoletti per farmi oggetto di gran saluti. Al termine della pantomima i quattro uomini mascherati, a mo' di commiato, si calano le braghe e ridendo come ossessi mi mostrano i loro quattro culi ordinatamente in fila.

«Ostia, comincia a far freschetto», ironizzo mollando alla svelta gli ormeggi.

Ne prendo atto, finalmente si sono tolti la maschera: queste facce da culo non sono sbirri, sono solo degli sbandati, fanno parte di quel genere di burloni che si esaltano nelle bravate e negli scherzi pesanti. Mi hanno scambiato per un altro... un loro degno compare del quale sior strasson sarà il nomignolo. Volevano spaventarmi e devo ammettere che ci sono riusciti.
 
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view post Posted on 26/1/2009, 23:03

ottimo

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* * *


Oggi è Giovedì Grasso, il giorno della decapitazione del toro. Nel tardo pomeriggio vado a curiosare davanti al Palazzo di Giustizia ma arrivo fuori tempo, si è già conclusa la cerimonia che commemora la vittoria sui friulani di Ulrico di Treffen. La folla che vi ha assistito si sta lentamente diradando, cerco un varco per avvicinarmi al palco ma non riesco a vedere né il toro con la testa mozzata né il fabbro nerboruto che l'ha staccata con un sol colpo di spada. L'unica cosa che vedo sfilare sono i rappresentanti dei canonici del Patriarcato di Aquileia, trottano in fretta e grugniscono spaventati, sono i dodici grassi porcelli.

Il Maiale è il santo patrono del Giovedì Grasso, perché ogni anno a Venezia questo è il giorno della sacrosanta abbuffata, la festa dell'ingordigia, la solennità dei crapuloni e degli insaziabili; vergogna di chi si finge sobrio e temperato, letizia di chiunque smani l'eccesso, cavalchi la smodatezza e morbosamente ricerchi l'esagerato; è il trionfo dei vizi e degli abusi, della trasgressione sfrenata e licenziosa, del peccaminoso agire che esalta cuori traviati e depravati, la via libera agli illeciti amori legittimati dalla provvida copertura della maschera.

Cala l'imbrunire, alle mie spalle si accendono le torce della Piazzetta. Vado a passeggiare sulle Fondamenta dell'Osmarin lungo il canale che allontana dal centro della città. Passo davanti alla staccionata delle ricche suore di S. Cassiano, quasi tutte nobildonne relegate in convento per risparmiare la dote. Scruto distrattamente oltre il cancello e intravedo nel cortile una donna... una mascherina travestita da Gnaga che si affanna a raggiungere di corsa l'uscita. Supera il cancello, lo richiude alle sue spalle e si appoggia ansimante al pilastro.

Chiedo preoccupato:

«Qualcosa non va, signora?»

Da dietro la maschera mi risponde la voce seccata e cavernosa di un uomo:

«Mi hanno beccato».

Comprendo al volo, è uno di quei gaudenti che si mascherano da donna per non venire scoperti nel mentre inducono in tentazione le povere suore, è un genuino rappresentante dei cosiddetti monachini, scaltri impostori perennemente dediti alle avventure galanti, soggetti specializzati che hanno trovato la loro nicchia all'interno del monastero. D'altronde, quelle leggiadre monachelle dai capelli arricciati e ben pettinati sotto il minuscolo velo, stuzzicano non poco la fantasia degli uomini con il loro seno mezzo scoperto, lasciato bene in vista dalla scollatura dei loro abiti bianchi alla francese. Il Patriarca di Venezia, qualche anno fa aveva fatto sprangare il monastero per impedire lo scandaloso corteo dei visitatori mascherati, ma risentite le gentildonne l'avevano distrutto e gettato nel canale.

Il monachino mi confida la sua disavventura con il tono di chi si vanta di una bravata:

«Incredibile, incredibile... Ero in dolce compagnia nella cella di una novizia. La monachella rideva forte mentre palpava le mie tette finte e faceva il confronto con le misure del suo seno, piccolo che poteva stare nel cavo di una mano. D'improvviso abbiamo sentito battere i pugni sulla porta. Puoi immaginare lo spavento! Eravamo in trappola, ho dovuto aprire».

«Chi era?»

«Due suore infuriatissime. Non hanno detto una parola, mi hanno fatto segno di andarmene con l'indice teso in direzione dell'uscio. La novizia si è gettata ai loro piedi terrorizzata: Chiedo perdono - ripete in falsetto il monachino -, confesso il peccato carnale, datemi pure la punizione che mi spetta ma... vi prego, vi imploro, non dite niente alla Superiora!».

«Che storia».

«Io chiaramente me la sono svignata, però mi sono fermato all'esterno e protetto dal buio ho curiosato dalla finestra della cella: le due consorelle hanno tolto l'abito all'ingenua novizia e l'hanno messa nuda in ginocchio, a capo chino con le mani giunte davanti al petto, poi la suora dalla carnagione olivastra ha tirato fuori una bacchetta flessibile e ha cominciato a frustarle la schiena. Ad ogni colpo la novizia faceva uno scatto in avanti e una smorfia di dolore.

Dopo alcune vigorose frustate l'altra suora, che aveva la bocca larga e le labbra esageratamente grosse, ha spinto a quattro zampe la novizia e si è chinata su di lei a sculacciarla a mani nude. Schiaffeggiava ora una chiappa ora l'altra, schioccava dei colpi secchi e precisi e la faceva piangere dal bruciore. Poi, la suora dalla bocca larga, si è messa in ginocchio dietro la novizia, con gli occhi fissi sulla fessura tra le due natiche e la lingua che fremeva all'angolo delle labbra...».

«E che le ha fatto?»

«Le ha divaricato le natiche per guardare meglio, ha preso la mira e le ha ficcato un dito nel buco del culo. La novizia, presa alla sprovvista dalla sensazione del dito che entrava nel suo corpo, ha sollevato il capo infiammata di rossore, il suo sguardo si è incrociato con il mio e così le altre due mi hanno visto alla finestra. Perciò mi hai visto scappare».

«E adesso?»

«Mi travesto da cappellano e torno dalla monachella per confessarla».

Io non ho certo il coraggio di imitarlo, per uno ricercato dall'Inquisizione certe iniziative sono troppo rischiose, perciò abbandono il cancello di San Cassiano e proseguo a bighellonare per le calli.

Fra gli svaghi notturni offerti in special modo dal periodo carnevalesco eccelle uno dei passatempi più antichi dell’umanità, a tutt'oggi fonte di alacri contese fra nobili e popolani. E' l'unica onesta occupazione cui io stesso potrei dedicarmi senza timore di venir scoperto dagli sbirri dell'Inquisitore. Ho sulle spalle il carico di lunghi mesi di vita solitaria fra le montagne e negli occhi ancora il fantasma di Sybil, nuda e incantevole, che mi mostra sorridente i seni rigonfi e da sotto la cascata di capelli neri mi fissa con i suoi stupendi occhi verdi. E' un'ossessione, diventa un bisogno impellente, sì devo per forza sfogarmi, non ce la faccio più a resistere. Ecco che travolto dalla precipitazione, trepidante, vado a caccia di mamole.

Mamole. Non le viole odorose, simbolo di modestia e pudicizia, bensì le rappresentanti dell'onorato mestiere di cortigiana.

A scatti, muovendo gli arti come un automa alessandrino, mi dirigo al sestriere di Rialto e comincio a gironzolare sulle Fondamenta di qua dal Ponte delle Tette, la miglior zona di ritrovo per simili avventure. Sul ponte superaffollato vedo sporgersi le cortigiane con le facce pesantemente truccate, gli abiti bizzarri e discinti, alcune con il seno nudo. Alzo gli occhi al balcone che dal mio lato sovrasta il ponte. E' affacciata una col vestitino di un vivace verde chiaro, la bella cortigiana ha ravvivato i capezzoli col carminio e tiene la scollatura abbassata per mostrare un seno prosperoso.

Sento una fitta di desiderio. Agito il berretto e la cortigiana ricambia mollemente il saluto ma appena dopo, a gran voce, cerca di adescare due nobili d'oltralpe, vestiti alla moda raffinata dei ricchi di Francia:

«Benvenui a Venexia, la mona del mondo!».

La bella cortigiana mi attizza fin troppo, ho deciso che fa al caso mio, devo andarci prima che 'sti qua me la soffino, ha salutato prima me ed io ho la precedenza. Però uno dei due francesi, butterato per giunta, ha colto al volo l'invito, mi precede sulla soglia e con male maniere mi da uno spintone perché mi tolga di mezzo. D'istinto poso la mano sul manganello e tuttavia mi blocco, interrotto da un ripensamento. E' una pazzia molestare un nobile; meglio abbandonare il campo a questo guastafeste, gli sbirri sono lesti a sbucare per ogni nonnulla e non è il caso di cercare rissa per una cortigiana. Neanche fosse l'unica sulla piazza! Ho tutto il tempo per sceglierne una anche più bella di questa. E' la prima volta che vado a mamole e voglio spendere bene i miei soldi.

Nell'angolo fra due pareti vedo la moretta, una maschera nera ovale che vien tenuta su con la bocca, stringendo i denti su un bottoncino. Il gran mantello che avvolge la prostituta rende inquietante quell'apparizione silenziosa. Appena gli sono vicino la cortigiana spalanca con le braccia il pesante mantello, sotto è nuda, divarica un po' le cosce per mostrare meglio il pelo, ma ha le gambe magre e secche da far impressione.

Proseguo. Altre cortigiane. Le passo in rassegna sempre più indeciso. Questa è troppo bassa, questa ha le tette fiappe, sta' qua puzza come un letamaio, st'altra ha la mandibola in fuori, questa poi... sembra la madonna addolorata.

Obliqua nella penombra, avanza una cortigiana che finalmente mi piace, accattivante, alta e snella, con lunghi guanti sulle mani affusolate.

Ha la mascherina sugli occhi ma la bocca scoperta e abbondantemente cerchiata di rossetto:

«Ciao, sono Lilith».

Che voce profonda e sensuale. Il suo profumo dolciastro mi inebria, sa di mangereccio e godereccio. Vista da vicino ha lineamenti corporei veramente eleganti.

La sto già spogliando con gli occhi.

«Ti piaccio?» chiede.

«Certo che sì. Ma... ma mi consentiresti di tenere il viso coperto?» balbetto.

«E' tuo diritto, non preoccuparti è una domanda che mi sento rivolgere spesso. Né tu né io ci toglieremo la maschera», mi rassicura.

«D'accordo Lilith, terremo su la mascherina però... ci toglieremo tutto il resto», aggiungo in preda all'eccitazione.

Con il dito guantato mi fa cenno di andarle dietro. La seguo su per la scala esterna della casa. La sua camera è più che decorosa, le tende del letto sono ricamate e il pavimento è coperto da un tappeto di pelliccia. Appena entrato la spingo sul letto e mi avvento su di lei per alzarle la gonna. Ma quella, incredibilmente, fa resistenza:

«Aspetta! Aspetta un momentino».

«Che c'è?»

«E' meglio di no, sono vergine. Te lo prenderò in bocca».

«Che? Una puttana vergine, roba da matti, ma perché diavolo tutte a me devono capitare!»

«Non arrabbiarti, stavo scherzando, possibile che tu non sappia stare al gioco» e appoggia le sue labbra serrate sulle mie, come per farsi perdonare.

Irritato e perplesso mi tolgo con la mano il rossetto che mi ha lasciato addosso:

«Ma a che gioco giochiamo, se sei mestruata dillo subito così me ne vado».

«Ah no, non ho mai avuto le mestruazioni in vita mia».

«Impossibile, tutte le donne le hanno. A meno che...», a meno che non sia un uomo, finisco la frase mentalmente.

Gli guardo di nuovo la bocca mentre fa scivolare la lingua a inumidirsi le labbra e noto come il suo collo paia essere un po' troppo prominente per una donna. Mi viene un dubbio atroce: che sia un travestito? Per questo non vuole che gli alzi la gonna! Però mi pare impossibile, è così carina e femminile. Seduto alla sua destra, le accarezzo con le punte dei polpastrelli le guance imbellettate, su e giù in contropelo per sentire la barba, ma la pelle è perfettamente liscia. E' una prova certa, ho sbagliato a dubitare di lei. E adesso che cos'ha, sembra turbata, deve aver capito il perché delle mie carezze in contropelo.

Impacciato, mi azzardo a dire:

«Sai, di questi tempi... con tutti i travestiti che ci sono in circolazione».

«Ma stai scherzando? Secondo te che cosa sembro?»

«Una donna».

«E allora perché ti fai tanti problemi».

«Sembrare ed essere non è la stessa cosa».

Sospira esasperata, poi:

«Ritieni che fare l'amore fra uomini sia un'azione tanto abominevole?»

«Abominevole appunto».

«E se io fossi veramente un uomo? Cercando ciò che non puoi trovare finiresti per soddisfarti con quel che avrai trovato e così pian piano... scivolerai nell'azione abominevole che hai tanto in orrore. Come puoi illuderti che trovandomi uomo cesserai improvvisamente di desiderarmi, credi forse che possa sparire d'incanto quel qualcosa che ti è piaciuto in me quando posasti lo sguardo sul mio corpo? Al contrario, per appagarti ricorrerai ai mezzi offerti da un'immaginazione scatenata, ti convincerai di potermi trasformare in donna o peggio di poter diventare tu stesso donna».

Aveva un tono da amica premurosa, provocava nella mia testa un confuso avvicendarsi di emozioni, pensieri che nascevano da abbozzi contorti e si smorzavano prima ancora di liberarsi dal bozzolo e di certo lei ne aveva in pugno le fila come se la sua sottile ambiguità le desse prerogativa di tenermi in suo potere. Lilith sorride e disegna le fossette sulle guance, mi spia con la coda dell'occhio, getta indietro i suoi capelli neri, poi si avvicina, porta una mano alla mia nuca e mi bacia sulla bocca con impeto. Vacillo e cedo, ricambio il bacio, mi lascio trasportare in un molle abbandono, la mia mano accarezza i suoi fianchi da sirena, scivola sotto la veste a palpare il petto. E' un seno vero, non grande ma morbido e cedevole sotto la pressione delle dita.

Senza preavviso la cortigiana si slaccia la maschera e lentissimamente la fa scorrere davanti al volto: è affascinante come me l'ero immaginata, grandi ciglia scure ed occhi neri penetranti. E' una donna, pure se ha un che di efebico.

Mentre sta seduta sul bordo del letto mi inginocchio davanti a lei per toccarle i polpacci, alzo un po' la gonna e scopro le sue caviglie sottili. Le gambe sono assolutamente glabre come quelle di una bambina. Lilith fa un timido tentativo per allontanare la mia mano, ma appena salgo al ginocchio inizia a sorridere compiaciuta. Le accarezzo le ginocchia e scivolo avidamente verso l'interno delle cosce mentre lei allarga le gambe.

La sua voce sensuale tradisce l'eccitazione:

«Golosaccio».

Punto deciso alla radice della coscia e lei scatta in avanti col bacino offrendo il pube alle mie dita che frugano:

«Go l'oseo!»

Un pene piccolo ma duro, senza peli.

Mi fa ribrezzo:

«Ah!» lancio un urlo alzandomi in piedi indignato.

E' un uomo. Mi fissa come un animale braccato, con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati. Per un attimo il suo sguardo spaurito mi fa pena, ma a colpo mi giro. Me ne vado scendendo le scale di corsa senza nemmeno ricordarmi di chiedere i soldi indietro.


Lentamente e inesorabilmente inghiottito, sto sprofondando nel fango delle sabbie mobili... e più ci mi muovo per cercare salvezza, più mani invisibili mi tirano verso il basso. E' questa la sensazione viscerale che mi opprime mentre osservo dalla finestra le canne palustri limitrofe al mio alloggio, la squallida Taverna alla Laguna.

Lascio la finestra, mi stendo sul letto e osservo i mutevoli riflessi dell'acqua sul soffitto.

Da cinque giorni risiedo sotto falso nome nell'albergo più malfamato della città, noto per la discrezione con cui offre ospitalità ai più loschi soggetti. Che vita di merda. In pratica non faccio altro che sprecare il mio tempo girando a vuoto per le calli. Le strade straripano di ragazzi e ragazze, è tutta gente allegra e non occorre sforzarsi per trovare la compagnia giusta, eppure appena cerco di aggregarmi ad un gruppetto di maschere ben presto mi sento emarginato e finisco per staccarmene. La cosa dipende forse da me, non riesco a partecipare al divertimento come gli altri anni, non sono abbastanza spensierato. Per forza, ho una spada di Damocle che pende sulla mia testa, quella dell'Inquisitore! Come risultato, sto conducendo una vita raminga e solitaria che non si confà per nulla al mio carattere, né alla mia dignità.

Il giorno del mio esilio forzato, in gondola ricordo d'aver giudicato più fortunato di me l'ultimo degli straccioni cui era concesso di restare a vivere in patria... eppure adesso, che mi ritrovo pari straccione, capisco che senza la libertà e senza il privilegio di un adeguato inserimento nel convito civile non si può sopportare di vivere nemmeno nella propria città, per quanto la si ami. Sono caduto in disgrazia, vivo al bando dalla grande famiglia del popolo veneto, costretto mio malgrado a far parte di un'altra genia, quella che i concittadini privi di compassione considerano la famiglia del Diavolo: l'insieme dei vagabondi, dei giullari, dei lebbrosi e degli Ebrei.

Gli Ebrei, i più maltrattati di tutti! Dall'inizio delle crociate non si contano gli assurdi pretesti adottati per perseguitarli e massacrarli, capri espiatori per l'uccisione di Gesù Cristo, obbligati a portare il segno distintivo della rotella rossa, una vergogna non per loro ma per il perbenismo cristiano. Io non so capacitarmi del perché nella Cristianità, quasi al pari di un eretico, lo straniero debba rappresentare l'escluso per eccellenza. L'intolleranza è spesso soltanto un segno d'ignoranza.

Anche emarginato dai miei stessi concittadini... anche nella sventura... io resto fiero di essere veneziano, eppure ciò non comporta il disprezzo per chi semplicemente è diverso da me, perché rispetto e stimo la cultura di qualsiasi altro uomo, sia esso norvegese o spagnolo, siciliano o prussiano.

Mi alzo dal letto della mia camera e mi preparo a uscire. Ero l'unico rimasto ancora al chiuso, sull'uscio della locanda vengo sorpreso da un fracasso assordante, sono tutti fuori, tutti travolti da una grande allegria, una folla impressionante si accalca euforica in piazza San Marco.

E' Martedì Grasso, l'ultimo giorno di Carnevale e un evento particolarissimo verrà a mutare radicalmente il mio umore.

Dalla terra battuta osservo attentamente i gruppetti delle maschere alla veneziana che sfilano sfarzose sul Listone, lungo la striscia selciata. Sul volto la maschera classica è rigorosamente bianca. Tinte tenui avvolgono di veli il capo e tutto il corpo in mille fantasiose fogge. Quell'incedere lento e pomposo, tutto teso a far mostra di sè, altro non è che la vanitosa ostentazione della vacuità. Poiché dietro, dietro l'indefinibile ambiguità delle maschere non c'è nulla, rappresentano il niente e altro compito non hanno se non rivestire con veli colorati un'assenza di presenza. Proprio il loro essere simulacri inconsistenti, privi di nome o significato, genera il riverente silenzio con cui lo spettatore cela il proprio disorientamento. Consce del loro immenso potere, le inquiline del senza tempo enfatizzano la propria equivoca essenza adornando il capo di rose ed ancora il corpo con veli trasparenti e piume variopinte.

Sospinta dalla gran calca, una donna tra quelle maschere abbandona inaspettatamente il selciato del Listone, si è persa, gira alla ricerca dei suoi compagni. Subito mi conquista con la ricercatezza estrema del suo costume, con l'eleganza del portamento ed in particolare, con quel suo modo aggraziato di camminare ancheggiando. Un lungo vestito le scende fino ai piedi e pare vi abbiano preso posto tutti i fiori della terra tanto riccamente è decorato di motivi floreali. Ella cinge ai fianchi una larga cintura e porta una corona murale, alta sul capo, dai cui merli un velo trasparente cala ad avvolgerle i capelli. Il volto è coperto da una graziosissima maschera bianca, finemente decorata da un fregio e abbellita da pietre preziose. Sul petto, ha infilato una spilla d'argento a forma di chiave.

Si avvicina. Dietro la maschera due luminosi occhi celesti cercano il mio sguardo. Mi faccio avanti, la saluto con un inchino e la prendo delicatamente per mano. Lei stringe la presa e mi trascina via, vuol condurmi lontano dalla folla, solca la Piazzetta dei Leoni e imbocca un sottoportego basso e stretto in cui non si vede passare anima viva.

Sono un po' titubante, temo mi stia tessendo un inganno. Mi porta in fondo al sottoportego ove questo termina in un piccolo cortile circondato dalle case. Si ferma e si gira verso di me, i suoi occhi hanno mutato colore con la variazione di luce ed ora sono di un verde intenso, simile a quello dei canali.

«Chi sei?», le chiedo sottovoce.

Il suo respiro ansimante tradisce l'alito vinoso. Non vuole o non può rispondere, con i guanti bianchi sfila la spilla d'argento che tiene chiusi i margini della scollatura e scopre le tette, belle e rotonde come due mele. Un soffio d'aria fresca le accarezza i capezzoli e li fa inturgidire. Indugio a contemplare quelle meraviglie, esito, quasi non oso toccarle.

Improvvisamente udiamo uno schiocco sopra le nostre teste, si spalanca un balcone e si affaccia qualcuno. La bella sconosciuta richiude la scollatura alla rinfusa e corre via in un batter d'occhio. Io mi attardo un attimo a spiare in alto, vorrei cercare di capire chi si sia affacciato, ma non vedo più nessuno.

Esco frastornato dal sottoportico, la mia compagna non è lì ad aspettarmi, perlustro la Piazzetta dei Leoni, ma ahimé è già svanita in mezzo alla confusione. Che guaio! Niente di più difficile del rintracciare qualcuno nel marasma del Carnevale, ma tento lo stesso. Batto su e giù le calli in lungo e in largo alla disperata ricerca di quella donna apparsa e scomparsa così stranamente.

Eccola! una volta tanto la fortuna mi assiste. Ha ritrovato il suo gruppetto di maschere e sta conversando sul cancello di un ricco palazzo affacciato sul Canal Grande. Poi il gruppetto si divide, per metà entra nel palazzo. Un secondo dopo ne esce con la fiacca il portiere.

Lo blocco fulmineamente sul portone:

«Buondì, scommetto che i tuoi sono i padroni più ricchi del sestriere, a giudicare da un palazzo del genere... Che famiglia è?»

«Orseolo».

«Ti trattano bene, suppongo».

«Beh, non posso lamentarmi, l'unica scassacassi è quella appena entrata, la riverita nobildonna Orseolo, fatalità questa notte se ne va in Romania anche la megera».

«Megera, non dirmi che la Orseolo è brutta?»

«Ha i mustacchi e la faccia tonda come la luna».

«Però ha un bel paio di... D'accordo, io l'ho vista mascherata, però non mi sembrava affatto che...»

«Ah ah! Forse ti confondi con l'altra, la padroncina».

«Probabile e quella che tipo è?»

«Mona irraggiungibile».

«Parte anche lei per la Romania?»

«Sì, se ne vanno tutti nell'isola di Candia, con il nuovo imbarco di coloni».

«E in quale città andrebbero a stabilirsi, se è lecito?»

«Archanes», risponde il portiere andandosene.

Ora credo di saperne abbastanza, la ragazza mascherata si appresta a partire per Creta, isola sotto il dominio del doge al pari della quarta parte della Romania, nome che i veneziani danno ai resti dell'Impero Romano d'Oriente.


* * *


Domani inizia la quaresima e non sarà più permesso nascondersi dietro una maschera, dovrò ricominciare a fuggire e ritornare fra gli sperduti monti di Zoldo a fare il bovaro.

Sono stanco, ho bisogno di riflettere... con calma. Qui fuori è impossibile, non sopporto più lo strepito di Piazza San Marco, mi irrita questo baccano infernale di tamburi, corni e zufoli della malora. Andrò alla basilica, lascerò fuori del suo portone il Carnevale morente e il suo urlo di animalità insoddisfatta, esausta forse ma non sazia.

La Basilica d'Oro è la mia dolce casa, sempre pronta com'è ad accogliere ogni veneziano nell'intimo del suo rifugio. L'interno della Basilica è pressoché deserto, l'essere soli in questo immenso edificio ispira soggezione. Mi incammino lungo la navata, muovo compunto verso l'altare maggiore. Presto assorbito nel silenzio e nella quiete del luogo.

In piedi sotto la cupola centrale, piego la testa all'indietro e le linee slanciate delle colonne attirano il mio sguardo verso l'alto e in alto percorro i mosaici illuminati dalle ultime finestre sopra la galleria e sto per venir colto da una leggera vertigine... quand'ecco noto un mosaico cui inspiegabilmente non avevo mai posto attenzione: un pozzo alla radice di un albero. E' il polo altissimo e profondissimo, l'asse attorno cui ruota l'intero universo ed i cui estremi si perdono senza limiti all'infinito. Ogni coscienza individuale è posta al centro del proprio universo percettivo, il mondo intero ruota intorno a noi, non c'è scampo, la coscienza umana è la sola ad avere una posizione privilegiata nel cosmo.

Uno spirito opportunamente purificato ha in sé facoltà di coincidere con quel raggio di luce sfolgorante, può scendere con esso nei più profondi abissi e risalire alle più sublimi altezze. Ma purtroppo io sono vittima delle torbide scelte di un cuore arido ed il mio spirito somiglia semmai ad un albero rinsecchito. L'Albero Secco tramandato da Alessandro Magno, il platano immenso e poderoso che si erge solitario nella sterminata e arida pianura del Khorassan. Se solo esistesse un modo per farlo rinverdire? Che spettacolo sarebbe vederlo ricoprirsi di foglie verdi su di una faccia e bianche nell'altra, mentre gli zeffiri sereni ne agitano la chioma in pieno rigoglio. Ci vorrebbe l'azione vivificatrice dell'acqua, l'acqua pura del pozzo, ecco di che cosa ho bisogno!

Nella navata sud mi fermo a pregare sotto l'immagine della Vergine. Alta e longilinea, ha una stella sulla fronte come Afrodite e avanti al seno protende le palme delle mani in un invisibile abbraccio. Ritta davanti alla porta del Paradiso, indossa una tunica bianca lumeggiata d'argento mentre un manto verde ornato a frange le scende dal capo. Solenne, maestosa, elegante, è la più bella immagine che io conosca del culto della Vergine. La vegliano due pavoni indiani, disegnati nel pavimento di mosaico ai suoi piedi.

Quindi esco. Un tetto di stelle ricopre Piazza S. Marco. Alzando gli occhi al cielo individuo la bella costellazione dell'Orsa Maggiore. Sposto lo sguardo sull'Orsa Minore e cerco la sua stella più brillante, l'ultima del timone del piccolo carro, ecco la stella Polare al centro della volta celeste, fra miriadi e miriadi di stelle polverizzate nella via Lattea.

«Chiunque Tu sia creatore di tutto questo: io Ti amo e ti prometto che riprodurrò in tuo onore lo sfolgorio del firmamento sulla volta di una cupola».

Ho già bene in mente il disegno: un rosone in mosaico, finto intreccio di archi e colonne ove le stelle traspaiono sullo sfondo. Al centro esatto la stella polare, splendente nelle sue otto punte fiammeggianti.

Incamminandomi vedo dei bagliori. Nella Piazzetta adiacente la basilica un rogo arde tra le due colonne gemelle, il luogo da sempre consacrato alle esecuzioni capitali. Mi avvicino incuriosito, salgo sui gradini e appoggio la schiena alla colonna di S. Teodoro.

Il popolo brucia un grande fantoccio e intona la nenia di addio al Carnevale:

«El va! El va! El va! El Carneval el va!»

Mi dirigo al molo. Oltrepasso i burchi del ponte della Paglia, costeggio le chiatte ormeggiate nei pressi e imbocco la Riva degli Schiavoni. La è attraccato il convoglio dei venti vascelli della carovana di primavera. A terra, dei coloni decisi a salpare prendono gli ultimi accordi.

Mi piacerebbe vedere per l'ultima volta quella nobile, mentre si imbarca per la Romania. Spero che salga sulla passerella col lungo vestito ove han preso posto tutti i fiori della terra, con la corona murale ed il velo trasparente sui capelli, con la graziosa maschera decorata dal fregio e abbellita dalle pietre preziose, divinamente mascherata come l'ho vista oggi altrimenti... altrimenti come farei a sapere che è lei, non ho visto il suo volto. Che controsenso. Assurdo: senza maschera non la conosco, con su la maschera la riconosco.

Ehi! un momento, ho trovato. Mi imbarco al volo, mi unisco alla sua carovana. La scoverò a Candia, dove andrà a stabilirsi con la famiglia. Archanes, Archanes! E' musica per le mie orecchie.

C'è una nave che riceve ancora gente, mi avvio deciso verso il suo ormeggio. Scocca lentamente la mezzanotte, i cupi rintocchi delle campane di San Francesco della Vigna decretano la fine del Carnevale e l'inizio della Quaresima. In lontananza il rogo non si vede più, è rimasto solo un cumulo di ceneri fumanti.

Mi sento sulle spine, temo che facciano controlli sulle persone in procinto di imbarcarsi, ogni minuto in più sul molo non fa che aumentare le probabilità di venire catturato. Devo sbrigarmi a mettermi in coda con gli altri, sono l'ultimo ad aver ancora il costume indosso e rischio di venire notato proprio per questo.

In fretta e furia mi cambio d'abito dietro un pilastro del molo. Appena finito appendo la maschera nera a un chiodo che sporge dal pilastro e mi inchino a raccogliere il mantello per avvolgermelo addosso... d'improvviso una voce roca alle mie spalle:

«Alto là, Petrangésio!»

Sussulto dallo spaventoLentamente giro la testa e alla luce delle torce mi vedo venire incontro goffamente un nano vestito da buffone. Ha sulla testa un berretto a tre punte con tanto di sonagli. Cammina in bilico sull'orlo del molo, si equilibra a stento con il contrappeso di un fardello mentre pesta la coda a un gatto randagio che balza a mordergli le scarpe con l'intenzione di farlo precipitare in acqua.

Tiro un sospiro di sollievo. Si tratta di Hyla, uno che tutti conoscono per essere completamente matto, anche gli saltasse in testa di fare la spia nessuno al mondo gli darebbe retta. Mi si pianta a un palmo dal naso e con gesti teatrali inizia a declamare il testamento del Carnevale:

«Perché ognun debba esser de mi pago e contento, sin che la testa è libera far voggio el testamento e perché volentiera, e de gusto i lo leza, ghe lasso in soprapiù l'ultima mia scoreza» e girandosi con la gamba sollevata fa una rumorosa ed interminabile scoreggia.

Poi arcua le sopracciglia e mi fissa serio:

«Dove xe direto el to fantomatico vascello?»

Osservo Hyla in silenzio e poi rispondo:

«All'Isola Sommersa».

«Ehi la conosco, la famosa isola che non esiste! L'isola che si raggiunge non arrivandoci mai».

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L'isola della Dea
Capitolo III

Confinato nello scafo del nostro vascello, mi sento come entro un vaso ermeticamente chiuso, eppure il cielo mi confonde con la sua vastità: nubi madreperlacee alte nella stratosfera e spessi cumuli di nuvole basse ma lontanissime all'orizzonte, mi comunicano la profonda impressione di uno spazio sconfinato. Osservo dalla finestrella rotonda le onde che si gonfiano e ancora il mare in lontananza, mare e mare e soltanto mare intorno a me, in un'immensa distesa d'acqua.

Per lo ionico Talete l'Acqua è l'Arché, ossia la sostanza originaria che nel trasformarsi ha dato luogo a tutte le cose. Talete non era un ingenuo pensatore era un filosofo, e non si riferiva all'acqua fisica ma al concetto di un acqua celeste ed immutabile che non bagna le mani: l'Umido radicale, umida sostanza del mare magnum dei maghi.

Talete di Mileto, Aristotele, Democrito di Abdera. Vado enumerando le teorie dei filosofi greci intorno alla costituzione della materia mentre nel vascello sto con le dita appoggiate sull'orlo della finestrella, col vento nei capelli e lo sguardo smarrito nel turchese del mare. Per Aristotele la sostanza originaria è la Prima Materia, potenza assoluta totalmente priva di forma. Oltre la percezione sensoriale, oltre la molteplicità delle forme, essa rappresenta l'unico comune substrato, impalpabile e sfuggente eppure materia.

Per Democrito, a fungere da sostanza fondamentale, è invece un insieme di atomi indivisibili. Gli atomi sarebbero talmente minuti da non poter essere colti con la vista, né con l'udito, né con l'odorato, né con il tatto, né con il gusto, ma esisterebbero eternamente nel vuoto dello spazio. Assumendo questo punto di vista viene a cancellarsi il confine invalicabile posto tra le individualità di un essere umano, di un albero, di una pietra, di un gabbiano... condizionamento senza via d'uscita nel mondo della percezione sensoriale. Nella lucida concezione di Democrito tutti gli esseri si fondono insieme nel vorticoso movimento degli atomi, simile a grandi onde spumeggianti nel burrascoso oceano del vuoto. Eternamente esistenti, gli atomi a composizione dell'individuo si sottraggono alla freccia del tempo per cui l’immortalità dell'essere umano si fa solida certezza nella dimensione atomica ove, non soggiacendo a nascita, non si può essere soggetti a morte. L’irreversibilità del tempo, il processo di putrefazione di un frutto, l'invecchiamento del corpo fisico, dal punto di vista dell'infinitamente piccolo sono pure illusioni, se pur dure a morire.

L'Universo incarna così la pienezza dello stato di perfetto equilibrio, è esente da limitazioni, non nato e sempre identico a se stesso. Continuo ed omogeneo, rappresenta l'unico sostrato del mondo dei nomi e delle forme, l'Uno senza secondo, causa ciclica di produzione preservazione e dissoluzione del cosmo.

La Basilica d'Oro illustra la creazione del cosmo attraverso i meravigliosi mosaici della Genesi. Ho vive davanti agli occhi le gratificanti immagini della loro bellezza.

Sospesa sull'abisso una tenera colomba aleggia leggera sulle acque:

Spiritus Dei ferebatur super aquas.

Nei primi attimi della creazione, sorge ex nihil una bolla di luce che si espande sempre più e cresce con fulminea velocità ad immani dimensioni. Nel mosaico in questione, il cosmo nascente è la piccola sfera sotto le ali bianche della colomba, la perfezione della simmetria originaria è resa in modo esauriente dalla geometria circolare, poiché è noto che facendo ruotare una sfera attorno ad un suo asse qualsiasi essa rimane immutata.

Nel mosaico accanto, il secondo giorno della creazione. Attorniata dagli angeli, la sfera del cosmo abbraccia già le dimensioni del firmamento e scorre sulle acque per dividerle. Al terzo giorno la gran massa delle acque riceve l'ordine di raccogliersi su se stessa e la terra emerge all'asciutto, solidamente fissata nel mezzo delle acque. Successivamente la terra viene popolata dalla moltitudine delle specie delle piante e degli animali. Infine, al sesto giorno viene creato l'uomo.

Il mito iperboreo dell'ordine cosmico che sorge dal chaos, risuona nella mia mente e ancora le parole di Zagreo rivestono d'immagini dense di colore quei primi ineffabili istanti...

All'origine Reitia emerse nuda dal Chaos. Non trovando nulla di solido ove posare i piedi Reitia divise il mare dal cielo e sola intrecciò una danza sulle creste delle onde. Ebbra danzava sulla spuma quando si accorse del vento che le turbinava alle spalle e riconoscendovi alcunché di nuovo e distinto da sé, pensò di iniziare con questi l'opera di creazione. Si voltò d'improvviso e afferrato Borea, il vento del Nord, lo sfregò ripetutamente fra le mani finché apparve il grande serpente Ofione. Ma il vento le aveva raffreddato la pelle e Reitia continuava a danzare per riscaldarsi, danzava a ritmo sfrenato, oscillava le anche, scuoteva i seni eccitando Ofione col vibrare del suo corpo nudo. Il grosso rettile si rizzò, le avvinghiò le membra e si unì a lei. Reitia assunse allora forma di colomba e volteggiò leggera sulle acque dell'oceano. Fecondata dal serpente, depose l'Uovo Cosmico e ordinò ad Ofione di circondarlo con le sue spire: per sette volte il serpente si arrotolò intorno all'uovo e facendolo schiudere, liberò tutte le cose che esistono nel mondo.


* * *


Il mare di Crono. E' entusiasmante attraversare lo stesso mare anticamente solcato dagli Argonauti. Attendo con fervore il nostro passaggio nelle vicinanze di Trieste, voglio esaltare lo sguardo nella tumultuosa risorgiva del Timavo, la fonte che a dire di Zagreo alimenta da sola l'intero oceano sboccando in superficie da un fiume sotterraneo del quale nessuno conosce il tragitto. Ma non vedo ombra di coste.

In Istria mi lascio prendere da rinnovato ardore. Desidero sfiorare come un falco la città fondata a Pola dai Colchi... frenare in un porto lo slancio di un sogno leggendario e magari approdare nella rocciosa e frastagliata Lussino, l'isola coperta di fiori di giacinto. Dimora della famosa zia di Medea: la maga Circe. Ma con mia grande delusione la carovana punta dritta a sud e soltanto dopo un lunghissimo tragitto fa tappa in Dalmazia nel porto di Ragusa.

Nella sosta vengono caricate le provviste. Scendo a terra dominato dalla morbosa frenesia di incontrare la ragazza dell'ultimo di Carnevale. Con che ardente desiderio amerei rivedere i suoi seni, godere di quella pelle lucida come la buccia delle mele. Quanto intensa la mia speranza di riconoscere fra la gente degli occhi che mutino alla luce da celesti a verdi e da verdi a grigi. Invece nulla. A Ragusa non incrocio il suo sguardo e nemmeno a Corfù nello scalo successivo.

Trascorro la più parte delle mie giornate sul ponte di passeggiata, con i gomiti appoggiati sui bordi della nave, a spiare ogni vascello che si affianca nella beata lusinga di intravedere una ragazza che abbia la sua altezza e corporatura o magari soltanto la sua camminata aggraziata.

Nulla. Più passano le settimane su questa nave, più mi rendo conto dell’assurdità della mia ricerca. Che storia d'amore è questa? Con una nobile per giunta! A ben giudicare non sono rimasto in sua presenza per più di dieci minuti, non l'ho nemmeno baciata e già la rincorro per i sette mari. In realtà me ne sono infatuato per semplice effetto del totale isolamento in cui versoè normale che si finisca per ingigantire il primo occasionale incontro che viene ad interrompere la nostra solitudine. Lei nemmeno si ricorderà di me.

Ora basta! Chiuso con questi innamoramenti da adolescente, finiamola con questa lamentosa ricerca della donna fatale. E' ridicolo. Una donna di nobile famiglia sarà sempre fuori della mia portata, io sono soltanto un morto di fame. Ecco, me l'aspettavo, disinganno e disillusione intaccano altresì la mia fede nella stregoneria, del resto la possibilità di fabbricare l'oro è svanita da tempo col sequestro del papiro, insieme al papiro ho perso irrimediabilmente ogni speranza di diventare ricco. Ah! Rafael faccia d'angelo, se tu non m'avessi indicato quella locanda di eretici ora non mi troverei qui, su questa nave, a navigare in un mare di guai. Amico caro, ti giuro che se mi capita fra le mani quel dannato papiro lo rompo in mille pezzi. Non ho bisogno di libri, non voglio più cadere negli inganni della stregoneria.

Col suo disincanto ellenico ha proprio ragione Zagreo:

I sogni e le illusioni servono solo a rendere più sopportabile l'amarezza della vita, si vedono cose che non esistono pur di non vedere ciò che ci angoscia.

Il viaggio del convoglio prosegue all'insegna della noia sotto una bonaccia esasperante. Povero di scali, privo di novità, il tragitto per Candia è a dir poco eterno. Le nostre navi avanzano lentamente essendo dei vascelli mercantili. Provvisti di un castello di prua e uno di poppa, due ponti ed una coffa da combattimento, sono dei velieri tondi la cui lunghezza è tripla della larghezza e possiedono due alberi forniti ciascuno di una vela triangolare, detta vela latina. La mia nave è una taretta, ha lo scafo lungo e stretto, più basso, e ad un solo ponte, ma in condizioni di scarso vento è la più adatta a bordeggiare. Per seguire la rotta controvento la nostra taretta procede a zigzag e i marinai stringono il vento navigando di bolina, ossia utilizzando un cavo che serve a tirare verso prora il lato sopra vento delle vele, in modo che queste prendano il vento al meglio possibile. Osservo costantemente le manovre di bordo, giusto per distrarmi un po' mentre me ne sto in silenzio per conto mio. Sono un ricercato e preferisco non espormi alla tentazione di scambiare parola con i passeggeri. Perciò niente viene a rompere la monotonia di queste giornate di navigazione, fino a una sera memorabile allorché cambiano repentinamente le condizioni atmosferiche.

Doppiamo Capo Matapan con estrema difficoltà a causa dell'irruenza del meltémi, un forte vento che piomba ad annunciare bufera. Raffiche violentissime sono costantemente sul punto di strappare la vela, i marinai calano allora il pennone e issano una piccola vela triangolare fatta di tela resistente. In piedi sul ponte sento fischiare le gomene, il vento mi strappa i capelli, m'impedisce di procedere in linea retta e quasi riesce a stendermi a terra, ma io rimango cocciutamente attaccato alle corde, esposto alla furia degli elementi: rimanere al chiuso in coperta mi procura un'ansia maggiore. Appena sopra la mia testa nuvole caliginose minacciano di traboccare pioggia e grandine da un momento all'altro. Il mare mosso scuote paurosamente la nave, si sollevano onde di altezza e impetuosità impressionante, il loro colore si fa sempre più cupo, finché la visibilità si riduce del tutto e lascia il posto ad una nebbia di goccioline fitte e gelate. Il fragore dei flutti continua a incalzare con la prepotenza di un urlo. Arriva la tempesta. Una saetta tuona a bruciapelo e illumina nubi nere d'inchiostro. La pioggia inizia a martellare all'improvviso, mi frusta la schiena e in un attimo inzuppa la veste. La tempesta è talmente violenta che immagino passi presto, invece peggiora. Le onde spazzano rabbiosamente la superficie del ponte, comincio a scivolare sul bagnato, cozzo malamente un ginocchio sulla tolda, capisco che l'urto di un'onda potrebbe scaraventarmi in acqua da un momento all'altro. Mi decido allora ad andare in coperta e raggiungo gli altri che pregano all'interno.

Passammo una notte insonne sballottati dalle onde e nessuno ebbe la grazia di addormentarsi sapendo che l'indomani avrebbe potuto ritrovarsi in fondo al mare.

All'alba un vento mite e leggero soffia da ponente, lo zefiro viene a far da compagno al sereno. L'umore dell'equipaggio si ravviva per lo scampato pericolo. Nel mare calmo avvistiamo i delfini. Pinne argentee ruotano in superficie, scompaiono e riappaiono. I delfini si inseguono festanti e poi si lasciano per raggrupparsi ancora. Davanti alla prua un esemplare anziano mostra riflessi più chiari, lattescenti, a colpo salta fuori dall'acqua e dalla posizione verticale piroetta e torna sotto con una giravolta. La sua comparsa evoca nei miei ricordi la trasformazione di Pelope in delfino bianco e ancora una volta rivedo nell’oscurità della cella i lineamenti greci del mio sfortunato compagno, con quella sua espressione seria dietro la barba e la mimica eloquente di un poeta declamante...

Il sommo Zeus, toccato nel cuore dall'efferato delitto commesso da Tantalo ai danni del proprio figliolo, impose a Mercurio il pietoso compito di riportare Pelope, il re dei Veneti, alla piena integrità. Raccolti ad uno ad uno gli sparsi resti del fanciullo, Mercurio li fece bollire nel latte di un calderone sorretto dal tripode. Le membra prima separate si stavano saldando bene insieme, ma c'era un pezzo mancante: la spalla che Teti aveva inavvertitamente mangiato. Per porvi rimedio, la consorte del Titano Oceano fabbricò una spalla in avorio di delfino e la sostituì alla mancante. Reitia, soffiò in Pelope la vita e mentre Pan danzava per la gioia, il ragazzo uscì vivo e raggiante dal calderone. Lo splendore della sua bellezza adolescenziale colpì tanto profondamente Posidone che il dio del mare lo volle con sé sull'Olimpo e ne fece il suo personale coppiere.

Nell'Olimpo però, da lungo tempo Posidone non si dava pace per i continui rifiuti di Anfitrite, una ninfa marina che sdegnava ostinatamente le sue proposte amorose e che riusciva sempre a sfuggire agli inseguimenti grazie alle più strane e fantastiche metamorfosi. Posidone pensò allora di affidare a Pelope il delicato compito dell'inseguimento e lo trasformò per l'occorrenza in un candido delfino. Per evitare il nuovo messaggero, la ninfa dai piedi d'argento si mutò via via in seppia, piovra, ippocampo, medusa, ma non appena la raggiunsero le parole gentili del delfino, cariche di inviti suadenti e persuasivi, la ninfa cedette e si decise a concedere al dio i suoi favori. Posidone, al colmo della gratitudine, immortalò il profilo del delfino tra le costellazioni del firmamento.
 
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view post Posted on 27/1/2009, 21:29

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* * *


Il porto della città di Candia, finalmente si sbarca. La città rappresenta il nucleo principale dell'isola e ciascuno dei centotrentadue feudatari ha l'obbligo di tenervi una residenza, il che significa altrettanti ricchi palazzi che adornano il capoluogo. Giro a zonzo per il centro. Ho una semplice tunica azzurra cinta ai fianchi da un cordone, sul bordo rotondo del colletto è ricamata una linea argentea mentre sotto finisce appena sopra il ginocchio; porto calze gialle, scarpe basse e aperte e fermate da un laccio al collo del piede.

Negli ultimi giorni di navigazione l'acqua potabile ci veniva razionata. Ho una sete terribile e cerco una fontana per bere. Per fortuna ce n'è una nella piazza, in fronte alla basilica di San Markos. La fontana possiede un orlo ondulato e sinuoso con i bassorilievi di Tritone che cavalca i delfini e con nove vasche absidate e scolpite. Sulla sommità della fontana troneggia la statua di Posidone, ha un braccio teso sul mare e punta l'orizzonte un attimo prima di scagliare il tridente. Bevo acqua fresca a piene mani. Si calma l'arsura alla gola e mi sento rinascere. Inclino leggermente indietro il capo e serro le palpebre dal sollievo. Appena le riapro noto due ragazze uguali come due gocce d'acqua, alte e longilinee e di non più di sedici anni, sedute sull'orlo della vasca. Le osservo con aria innocente, hanno dei lineamenti troppo marcati però sono attratto dal colore biondissimo dei loro capelli, quasi bianchi, un platino che si intona piacevolmente con la loro carnagione abbronzata. Li hanno raccolti in due lunghe trecce che scendono sul petto e vestono esattamente nella stessa foggia e con le stesse tinte: rosa la veste leggera, stretta al collo ma ampia sulle ginocchia e fornita di strascico; verde la sottoveste di lino con le maniche aderenti che escono dagli spacchi alle ascelle.

Mi asciugo la bocca con il dorso della mano e tanto per rompere il ghiaccio:

«Ciao belle!»

Una di loro risponde con accento straniero:

«Chi è la più bella? Magda, che sono io, o mia sorella Beata?», scherzando con fare vanitoso.

Mi gratto la testa e le esamino attentamente per cercare tra loro la minima differenza ma invano, perché sono del tutto identiche: stessi occhi chiari, stessa bocca sottile e naso pronunciato, uguale ventre piatto, uguali gambe lunghe e piedi scalzi.

Per attirare la mia attenzione la sorella, Beata, fa scorrere le mani su e giù lungo le cosce slanciate:

«Scegli me, sulla gamba destra ho un bellissimo neo che lei non ha».

I lineamenti di Beata mi sembrano atteggiati in un'espressione leggermente più dolce, ma non riesco proprio a decidermi.

«Allora chi è la più bella?» incita di nuovo Magda e mi strizza l'occhiolino.

«Magda» rispondo frettolosamente per trarmi d'impaccio.

«Oh, ti ringrazio di avermi preferita, ma dimmi, cosa ho di più bello rispetto a mia sorella?»

«Il tono della voce» concludo, e in vero ha la sonorità limpida e squillante dell'argento.

Regno di Danimarca? Contea d'Olanda? Langravio di Turingia? Da dove arrivano queste due sirenette?

«Siamo sveve, - spiega Magda mentre le accompagno lungo la piazza - nostro papà ha fatto il servitore alla corte pugliese. Lui sa parlare in siciliano, in arabo e in greco. Abbiamo abbandonato la corte in cerca di fortuna appena è morto Federico II».

«Che cosa? Federico II è morto!»

«Ma dove vivi, sulla luna? E' morto ancora il 13 dicembre del 1250».

Rimango confuso e sconvolto, crollo a sedere sui gradini della basilica. Io che un tempo ero l'uomo più aggiornato della Piazza ora non so nulla di un avvenimento del genere: il trapasso dell'Imperatore della Fine dei Tempi. Il Cristo aveva predetto la fine del mondo entro una generazione e invece la profezia l'ha posta dopo la morte dell'Imperatore sub Flore.

«Come è morto? Avvelenato dai Milanesi?» balbetto.

«Un suo medico arabo ci ha detto che è morto di dissenteria».

Dunque queste due mocciose frequentavano la corte imperiale. Le tempesto di domande:

«Voi potevate vedere di persona l'Imperatore?»

«Certo, aveva un fisico striminzito, la faccia tutta rossa e la testa pelata» risponde Magda.

«Va be’ che cosa c'entra, era un uomo di fine intelligenza e viveva attorniato da una schiera di saggi e di filosofi».

«Come no, - continua Magda - c'era quello stregone di Scoto, mago e indovino, traeva auspici sul futuro anche dagli starnuti. Secondo i suoi calcoli astrologici la vittoria su Parma era una cosa più che scontata ed infatti... è stata la peggiore batosta di Federico II, la Lega Lombarda gli ha portato via l'intero tesoro imperiale, compresa la corona di gemme».

Aggiungo serio:

«Comunque si dice che l'Imperatore abbia scritto di suo pugno un libro di falconeria, aveva una grande passione per l'arte dell'andare a caccia di uccelli».

«Perché sorridete?»

«...a caccia di uccelli senza piume, tipo quelli dei valletti saraceni» e scoppiano a ridere.

Le ore scorrono veloci in loro dolce compagnia e verso sera le gemelle mi trascinano in una tipica taverna dell'isola. La taverna Phanes ha la facciata ricoperta di edera e smilace e ai lati dell'ingresso due grossi cespugli di mirto diffondono la loro fragranza sullo spiazzo antistante. All'interno è zeppa di gente. Musici indiavolati stanno scandendo ritmi ossessivi al fragore di cembali, campane e tamburelli, ma dopo un po' alternano un accompagnamento di flauti e cominciano ad intonare dei cori pieni di passione e variazioni, oscillazioni e confusione. Al tavolo le gemelle ordinano del malmsey. Un vino dolce, robusto e quasi liquoroso.

Spavaldo alzo il calice:

«Brindiamo a Bacco!» urlo per farmi udire in mezzo a quel rumore assordante.

Beata mi sta osservando mentre bevo un calice dopo l'altro:

«Attento, il vino è un veleno che annebbia la mente».

«Baccus dulce venenum. Alla giusta dose il veleno si trasforma in farmaco» preciso in tono cattedratico.

«E tu da cosa dovresti guarire?»

«Dalla secchezza delle fauci» ribatto.

Le gemelle si stanno divertendo. In quanto teutoniche mi aspettavo di trovare in loro un carattere freddo e distaccato invece, forse addolcite dal clima mediterraneo, sono sempre più allegre e scherzose e non fanno altro che ridere a crepapelle per ogni stupidaggine che dico. Passo a simulare l'omaggio di un vassallo al suo signore e metto le mie mani giunte entro le loro:

«Nobili fanciulle io divengo uomo vostro».

Magda mi consegna il suo semplice anello:

«Ecco a te l'oggetto dell'investitura».

Mi infilo l'anello nel mignolo:

«Ordinate pure, sono pronto a qualsiasi impresa pur di rendervi servizio».

Magda punta i gomiti sul tavolo e fissa in aria indecisa:

«Oh gentil cavaliere, più o meno dovrai mutare il corso del Meno, e noi ti daremo le nostre grazie in beneficio».

«Le vostre grazie?»

«Sì, in cambio ti daremo tutto quel che vuoi» dichiara Magda pimpante.

«Proprio tutto? Anche quel feudo di praticello soffice soffice, quel bel triangolino che avete lì in mezzo?»

«Certo. Perché no» rispondono in coro.

«Starò ai patti - sempre più arrapato -, ma come posso mutare il corso del Meno se non mi specificate i termini della sottrazione?»

Le ragazze scoppiano a ridere:

«Il Meno è il fiume che passa per Francoforte, nel Regno di Germania».

Faccio una smorfia incassando il tiro:

«Non voglio irritare i vostri compatrioti deviando loro il fiume, vi prego concedetemi un'altra prova?»

E' la volta di Beata:

«Dovrai rubare per noi il chiarore della luna» e di nuovo a ridere.

«Ho capito, ho capito; mi chiederete di volare come uno stornello o di catturare per voi il cinghiale bianco, tutte cose impossibili. Ma non importa, anche se non avrò i vostri favori mi accontento della vostra compagnia. Mi piace ogni cosa che fate».

Beviamo come spugne, specialmente io, pur noto a Venezia come irrecuperabile e incallito astemio. Sì, in effetti solo nelle grandi occasioni mi azzardavo a bere sì e no mezzo calice, l'ultima volta fu tre mesi fa in compagnia di Zagreo. Dunque non sono affatto abituato al vino e a reggerne l'abuso e ben presto vengo colto dall'ebbrezza.

Una delle gemelle si alza dalla sedia, fa il giro del tavolo e viene a sedersi seriosa accanto a me:

«Cavaliere, esigo da te un comportamento franco. Certo, io percepisco il tuo carattere generoso e retto, apprezzo il tuo modo delicato, ma ti voglio più sicuro, più persuasivo nella condotta, disinvolto senza per questo diventare sfacciato, e sempre sincero, aperto, schietto».

«Sarò sempre franco».

Poi si strofina sul mio fianco e mi profferisce languide proposte amorose:

«Mio bel cavaliere, questa notte mi concederò alle tue brame ma devi giurare fedeltà a me sola».

«Lo giuro».

«Giura di non toccare mia sorella».

«Lo giuro sul mio onore».

Al che scatta via dal tavolo rapita dalle note di una melodia che conosce, raccoglie la sorella e va a ballare al ritmo vivace dei musicanti. La gente fa largo e batte il tempo con i piedi, applaude l'eleganza e le movenze del loro ballo di corte, una estampida. Dopo un po' ritornano al tavolo, la gemella si siede sulle mie ginocchia a rinnovare carezze e segnali di disponibilità amorosa, poi raccomanda:

«Sarai ligio al giuramento di fedeltà?»

«Sì, mia Signora».

«Allora toccami la tetta, nobile cavaliere» mi prende la mano e se la porta sul seno.

«Ma tu chi sei? Sei...».

L'altra gemella mi canzona gongolandosi sulla sedia:

«Vassallo fellone, vassallo fellone. Avevi giurato fedeltà a me sola!»

Brillo com'ero avevo smarrito la facoltà di distinguere fra loro le gemelle. Magda e Beata se n'erano ben accorte e continuavano a giocarci sopra alternandosi sulle mie ginocchia ed ogni volta che mi azzardavo a chiedere loro il nome rispondevano ora giusto ora l'inverso. Le gemelle erano l'una l'esatto specchio dell'altra e più mi applicavo a discernere l’identità di ciascuna, più mi ritrovavo con le idee confuse. Il colpo di grazia fu l'acquavite all'anice, liquore che assume un aspetto lattiginoso allungato con l'acqua. Ci eravamo alzati tutti e tre e ballavamo saltellando con le braccia alzate, arcuando il corpo e rovesciando la testa all'indietro. Le due sorelle mi ruotavano intorno ancheggiando rapide in una specie di trance, la musica le aveva invasate. Le osservavo incantato, con gli occhi lucidi vedevo sdoppiarsi le linee dei loro fianchi. Sorridevano, ciascuna aveva due volti e le gemelle erano diventate quattro. Un ritmo primitivo echeggiava sempre più forte, mi entrava dentro irresistibile come una lama di cristallo, la risonanza mi faceva vibrare da capo a piedi, mi dissolveva in uno spazio etereo lontano e irreale, eppure ballavo con entusiasmo e con una carica mai avuta, un'energia animale mi scuoteva le membra, mi sembrava d'essere lanciato come una pantera nella notte.

Ma le gambe in realtà non mi reggevano e inciampavo e riaccendevo le risa isteriche delle gemelle, mantenevo a fatica l'equilibrio e le gemelle mi avevano dato un'asta e aveva una pigna in cima e così subivo lo scherno dell'intera taverna... poi senza preavviso un brivido che mi fa accapponare la pelle e mi drizza i capelli, una strana vertigine e cado a terra riverso privo di sensi. Una gemella mi prende per le braccia e l'altra per i piedi, di peso mi portano in un letto della locanda e mi lasciano abbandonato nel sonno.

Il mattino dopo: brusco risveglio. Ho riacquistato la facoltà di distinguere fra loro le gemelle, la luce del giorno ha rotto l'incantesimo.



Continuando a frequentare assiduamente le gemelle, il mio cuore e le mie attenzioni oscillano di giorno in giorno dall'una all'altra finché mi impongo fermamente di corteggiarne una sola, per non correre il rischio di perderle tutte e due. Quale? Ho deciso per Magda. Il guaio è che Beata non si allontana un istante dalla gemella e le sta perennemente attaccata alle costole! Architetto quindi un piano per separarle e solo a Magda propongo una gita amena al boschetto sopra il lago di Vulisméni, un lago curioso perché ritenuto senza fondo nella tradizione del luogo.

Ma sul crocicchio dell'appuntamento trovo al suo fianco l'immancabile sorella. Ci incamminiamo in tre. Fra il profumo di corteccia sospinto a tratti dalla brezza calda e umida del lago, il sentierino si inoltra nella macchia, folto intrico di bassi arbusti di quercia spinosa dai fusti tortuosi e dal denso fogliame.

Un vento leggero agita le foglie irte di aculei generando un fruscio musicale che attira l'attenzione di Magda:

«Però prego l'Amore

che mi'ntende e mi svoglia

come la foglia vento».

«Bella, cos'è una poesia?» chiedo.

«Una canzonetta di corte».

«Ehi, la scuola siciliana dell'Amor cortese».

«Allora conosci Rinaldo d'Aquino, Iacopo da Lentini?» replica sorpresa.

«No».

Prossimi alla cima di una bassa collina possiamo ammirare il lago sottostante, comunica con il mare attraverso uno stretto canale. Il posto ci piace per cui, nascosti dalla macchia e riparati dal vento, ci sdraiamo in una piccola radura erbosa.

«Che lavoro fai - chiede Magda -, sei per caso un piede polveroso?»

«No, non sono un mercante, sono artigiano. Faccio il mosaicista alla Basilica d'Oro».

Beata mi fissa in viso ed esclama:

«Oh, un artista veneziano! Allora il codino dietro i capelli è il segno distintivo di quelli come te?»

«Sì, è il segno distintivo di coloro che non rinnegano ciò che hanno alle spalle, cioè il passato della loro gente. L'anima artistica del mio popolo vive come un sogno profumato nel cuore di chi come me non ignora le proprie radici, è il sogno che Federico II voleva distruggere tutte le volte che ha cercato di cancellare le nostre prerogative. Egli ci invidiava il valore immenso dei tesori custoditi a Venezia, non capiva che il vero valore di quelle opere non è nell'oro o nell'argento in cui sono forgiate ma nel segno che l'artigiano vi ha lasciato nel tempo» rispondo compito rivolto a Beata.

Magda per dispetto mi scioglie i capelli strappando il nastro che li teneva insieme alla nuca. Per ripicca mi metto a disfare le sue trecce e si accende subito la lotta a cavalcioni l'uno sull'altro. Magda si difende bloccandomi i polsi con forza insospettata, riesce a divincolarsi e si alza. Fa finta di aver abbandonato ogni resistenza, sta ferma in piedi con le braccia conserte. Allora mi piazzo davanti a lei e finisco con calma di sciogliere il nodo a una treccia già mezza scomposta.

Magda mi coglie di sorpresa:

«Artista da strapazzo!» e mi sferra una gran ginocchiata in mezzo alle cosce.

Saltello goffamente dal dolore e infine crollo sull'erba. Mi ritrovo disteso sull'euforbia vicino un gruppo di narcisi, petali bianchi e coroncina gialla al centro. Magda si sdraia al mio fianco, scompone da sola le trecce e libera la sua chioma biondissima. Le sfioro teneramente i capelli ed ella contrae le labbra e socchiude gli occhi ad ogni passaggio della mia mano. Intanto spio Beata con la coda dell'occhio per vedere se capisce la situazione e magari si allontana per un po'. Invece no, Beata fa finta di non vedere, non vuole saperne di mollare la gemella. A questo punto gioco il tutto per tutto e incurante di ogni riguardo comincio a baciare Magda sulla bocca. Beata, imperterrita, è sempre lì seduta, dura come un bastone, con un'espressione indifferente e forse solo un po' imbronciata. Mi assale un sussulto di rabbia. In aperta sfida sfioro il seno di Magda e lo spremo fin quando gli strappo un gridolino di sorpresa. Beata si alza di scatto e sparisce a grandi passi dietro la collina, finalmente soli.

Magda allontana piano la mia mano e mi sussurra che è vergine.

«Conosci il bacio alla sveva?» mi chiede eccitata.

«No, com'è?»

«Metti la lingua dentro la mia bocca».

Eseguo e Magda inizia a mordicchiare dolcemente la mia lingua.

Poi tocca a me chiedere:

«Conosci il bacio dell'ape maia?»

«No, com'è?»

«L'ape maia si posa sulla corolla del fiorellino e gli lecca tutto il nettare, vibrando su e giù la linguetta sul pistillo e poi passandola petalo per petalo».

«Dai fammi provare».

A labbra tese e serrate imito il ronzio di un'ape e oscillo il capo mentre le sollevo delicatamente la gonna colorata di rosa. Quindi scendo a trasmettere la vibrazione alla sua pelle, ronzando scorro le labbra a contatto della coscia, liscia e glabra fino alla piega dell'inguine, anch'essa glabra poiché il ciuffetto di peli è spostato verso il centro. Poso la bocca sulla fessura, è incollata da una patina umida e la apro con la punta della lingua, poi scendo leccando fin dove la vulva finisce in basso e risalgo ritmando ogni passaggio sul bottoncino del clitoride.

Magda è attraversata dalla sorpresa per le nuove sensazioni che nascono dal suo corpo ed ha sul viso un'espressione attenta e attonita. A tratti irrigidisce il tronco, contrae le natiche comandata da un impulso irrefrenabile e spinge il pube contro il mio mento. Alla fine si solleva dal suo letto di euforbia e rimane seduta in silenzio. Le chiedo se le è piaciuto. Fa cenno di sì con il capo, mi guarda seria per un attimo, poi sorride e abbassa la testa con delicatezza, come i narcisi che chinano la corolla pendula.

E Beata, dove sarà mai? Una lieve preoccupazione mi distoglie dallo stato di esuberante spensieratezza. Ordino a Magda di aspettarmi sul posto mentre vado a cercare sua sorella. Cammino lungo il sentiero per una abbondante decina di minuti. Non la vedo. Ma dove si è ficcata? Supero l'apice della collinetta, inizio la discesa e finalmente la trovo con le ginocchia fra le mani accovacciata sotto una quercia.

«Scusa, - accenno fra l'imbarazzato e il pentito - ti stavamo cercando, perdonami per prima».

«Non fa niente. Io e mia sorella ci capiamo, non c'è problema». Sospira, si alza in piedi davanti a me e mi fissa acutamente negli occhi con la bocca socchiusa.

Mi sento di nuovo confuso e disorientato, le gemelle si somigliano in tutte le loro scelte e forse anche nella preferenza per lo stesso ragazzo. I suoi occhi chiari mi stanno persuadendo che attraverso Magda in fondo non ho fatto altro che accendere un interesse sopito per lei o forse la preferivo fin dall'inizio e vittima di una scelta affrettata non trovavo il coraggio di ammetterlo.

La sua dolcezza mi riconquista piano piano, ma irresistibile. Beata mi fa un sorriso così tenero che il cuore mi scoppia nel petto, attraverso i suoi tratti adolescenziali mi è ora manifesto l'impenetrabile mistero della giovinezza che si fa eterna nella sua bellezza. Poso la mia sulla sua fronte pura, col corpo la premo contro la quercia, le stringo le trecce nei pugni, m'irrigidisco nel tentativo estremo di arginare un fiume in piena. D'impulso la bacio sulle labbra e assaporo dalla sua bocca il gusto genuino della felicita ritrovata.

Dopo un po' torniamo dalla sorella rimasta sul posto ad attenderci. Alla vista di Magda non riesco a nascondere il turbamento che mi rode. Magda e Petrangésio, Beata e Petrangésio, di nuovo Magda e Petrangésio, che giri di ballo. Questa volta mi pare sia Magda ad essere imbronciata come se avesse letto l'accaduto negli occhi miei e di sua sorella.

E' già l'ora di rincasare. Sulla via del ritorno le gemelle confabulano fra loro in un idioma incomprensibile, non è tedesco - mi spiegano sbrigativamente - ma un dialetto normanno di origine norvegese, lingua materna ereditata dai loro avi che svevi in realtà non erano. Intuisco che Magda chiede qualcosa alla sorella, questa annuisce con la testa e continua a fissarmi con la coda dell'occhio. Non sono mai stato così imbarazzato in vita mia.

Ad un certo momento Magda mi afferra per un braccio e mi dice all'orecchio senza tanti preamboli:

«Domani faremo l'amore insieme io te e mia sorella, lei mi ha detto che è d'accordo».

Davanti all'inaspettata dichiarazione uno stupore muto rimane stampato sul mio volto, chi si immaginava che le ragazze della corte imperiale fossero così disinibite.

Comincia ad imbrunire, le accompagno a casa tenendole entrambe sottobraccio. Magda ha ritrovato il suo buon umore e intona per me una canzonetta:

«Ohi! e non dovrà più

splendere nella notte

più candido che neve

il corpo suo ben fatto?

Tanto m’ingannò l'occhi

da crederlo il chiarore

della splendente luna.

Ahimé, il giorno spunta...».

Siamo arrivati. Le saluto e torno al mio albergo. Fare l'amore con due ragazze è un'idea estremamente eccitante e mentre mi rigiro insonne nel letto la mia fantasia si scatena ad immaginare i modi e le varianti più idonee per misurarmi con quelle due sirenette. Nell'intreccio voluttuoso dei corpi, gioco con i grossi capezzoli di quattro tettine a punta, sode e dure da star dritte anche a schiena distesa. Mi aggroviglio con le loro cosce lunghe e tornite, sento tante dita affusolate sulla mia pelle, godo delle loro lingue che si alternano nella mia bocca e sul mio sesso. Un simile turbinio di pensieri mi provoca un sonno breve e agitato, le due ragazzine mi hanno sconvolto la ragione, sono totalmente in loro balia, sballottato in un'altalena di emozioni incontrollabili. Avevo creduto che fossero psicologicamente un po' fragili, per via del loro essere gemelle, ed invece il più vulnerabile sono io, tanto che temo di toccare la soglia della follia. Perché ho paura di due innocenti maliziose fanciulle? Nell'Isola che non c'è, due dolci vergini hanno teso l'insidia della loro rete da caccia ed io sono finito intrappolato nel potere suggente delle sue maglie invisibili.

All'alba si installa nella mia mente un richiamo prepotente che credevo avere scordato: la signora dell'ultimo di Carnevale. Convinto di sottrarmi al sortilegio delle due ninfe e di ritrovare il senno perduto, decido improvvisamente di partire alla volta di Archanes. Interminabili piantagioni di ulivi riconsegnano alla pace il mio spirito.


* * *


Archanes fa parte della regione costiera del sestriere di San Polo, uno dei sei sestrieri in cui è stata suddivisa l'isola al pari di Venezia. Il paesello è adagiato al centro di lievi colline ricoperte di basse vigne rinomate per l'uva da tavola. Semplici case in muratura imbiancata occupano il fondovalle e gli scoscesi pendii. Su di una altura prospiciente, chiamata Fùrnu Korifì, c'è una ripida scalinata che porta ad un nucleo disabitato formato da un centinaio di stanze in pietra collegate fra loro da corridoi in muratura. Sono le rovine di un popolo sconosciuto e infondono al luogo il fascino arcano.

Evidentemente, in mezzo alle casupole dei popolani greci una villa patrizia non può certo passare inosservata, il che rende fin troppo facile rintracciare la ragazza della famiglia Orseolo. Ecco che dall'unico elegante palazzo del centro esce una giovane aristocratica: ha la sua altezza e la sua camminata, è veneziana, è lei!

Il cuore mi batte all'impazzata, le faccio subito un inchino, mi avvicino per vederla meglio da presso e incautamente le poso lo sguardo sul petto in cerca della spilla d'argento. Irritata, sprezzante, la ragazza passa oltre senza degnarmi di uno sguardo, le leggo in volto quella solita manifesta ripugnanza che le nobili riservano agli uomini di categoria inferiore.

No, forse mi sbaglio, gli occhi sono chiari ma non abbastanza, non sembrano i suoi, sarà meglio chiedere informazioni in giro. Entro nella locanda del centro, l'oste è veneziano sicché mi è sufficiente interpellarlo per ottenere informazioni più precise. Il palazzo degli Orseolo è in realtà nelle vicinanze del mare, un po' appartato rispetto al centro.

Edificato secondo lo stile delle ville venete, possiede classiche finestre ogivali che in quel clima assolato svolgono alla perfezione il loro compito di proteggere dalla luce eccessiva. I muri sono spessi. Il secondo piano ha una terrazza orlata di merli, il terzo piano si riduce ad una piccola torre fortificata. Il muretto di pietra che circonda il parco della villa è interrotto da un cancello abilmente lavorato e sorretto al lati da due colonne gemelle. I loro capitelli in stile ionico terminano con volute a spirale e portano scolpita la vocale Omega, ultima lettera dell'alfabeto greco ed iniziale di Orseolo.

Prima di varcare la soglia ho un attimo di perplessità. Non vedo l'ora di dare un volto a quella sconosciuta ma nel contempo avverto il pericolo possa andare perduto l'alone di fascino che l'ha avvolta finora. Non voglio infrangere un sogno che ho coltivato con amore dentro di me: l'ho trasformata in una eterea creatura della mia mente, l'ho immaginata nelle sembianze di una superba regina ed ora, nell'imminente confronto con la realtà, temo di compromettere tutto.

Rompo ogni indugio, prendo coraggio e supero il cancello, nel prato interno due lepri si rincorrono veloci. Percorro il sentiero ombroso del parco e poi tra i gigli e le erbe profumate proseguo in un giardino, costeggio al suo centro la fontana dei pesci e infine, sotto i rampicanti, vado a bussare al portone d'entrata.

Al socchiudersi dell'uscio appare lei, la ragazza dell'ultimo di Carnevale e non può essere altri che lei, con quegli occhi celesti dolci come il miele, inconfondibili. Però la pensavo più giovane, avrà un ventidue anni, ha il colorito un po' pallido ed i capelli dai riflessi rossicci. In effetti me l'immaginavo assai più bella di quel che non sia e devo ammettere che pur nella gentilezza dei lineamenti... sopracciglia sottili, collo candido e bocca ben disegnata sopra la fossetta del mento, ella ha un viso comune a tante altre ragazze veneziane.

Finalmente ho scoperto chi si cela dietro la maschera bianca decorata dal fregio e abbellita dalle pietre preziose; lei al contrario non mi ha riconosciuto, non può immaginare di avere ora davanti a sé l'uomo della maschera di cuoio nero.

La nobile ha dei lunghi capelli cinti alla fronte da una coroncina d'argento adorna di perle e porta una tunica bianca in fine e sottilissimo cotone di Bucherame; sopra, indossa un velo roseo, avvolto intorno al corpo come un mantello per coprire ciò che la tunica trasparente lascerebbe troppo facilmente intravedere. Nell'atto di scostare la tenda dal portone la mantellina scivola un po' dalle spalle e scopre un’instante la tunica, quanto basta per riconoscere il profilo gonfio dei suoi seni: la tunica è così aderente da recare la delicata impronta dei capezzoli ed il cordone legato appena sotto le ascelle non fa che evidenziare le rotondità di cui vedo in trasparenza le belle linee.

Mi sento sopraffare, vacillo come sotto l'urto di un'onda troppo vasta e per alcuni attimi una densa oscurità occupa la mia mente. Sono sull'orlo di cedere, quando una compiacente espressione dei suoi occhi suscita in quel buio una scintilla:

«Signora gentile, sono un veneziano appena giunto con la carovana di primavera e cerco lavoro come maggiordomo. Ho saputo dall'oste che la vostra illustre famiglia è qui da poco tempo. Immagino abbiate già trovato servitù greca a sufficienza, ma suppongo che vi manchi un maggiordomo, una sorta di siniscalco atto a coordinare e a stimolare i vostri sottomessi per ottenerne la massima efficienza. Solo un veneziano con la mia esperienza può fare al caso vostro. Nobile Donna, io vi prego, accettate il mio servizio».

«Se ne può parlare, entrate pure».

Mi pare di varcare le porte del paradiso, la cosa promette bene, troverò lavoro e chissà, forse il suo amore.

Entriamo in un ampio soggiorno affrescato con scene marine e ci fermiamo al cospetto di una nobile d'una certa età, una cinquantenne esageratamente obesa, quasi più larga che alta, sprofondata nei cuscini di una possente poltrona ornata ad intaglio. Ha la faccia a luna piena, un po' di peli al labbro superiore e la gobba di un bufalo. Regge fra le mani un rosario d'argento e subito comincia a sfogarsi mentre sto in piedi compunto ad ascoltarla:

«Un veneziano! Ah, il clima di quest'isola maledetta mi rovinerà l'esistenza, fa già troppo caldo, in giardino c'è un'afa insopportabile, mi obbliga a starmene in casa all'ombra. Tu sapessi, la calura mi provoca una sete inestinguibile e l'eccesso di luce mi fa calare la vista, faccio sempre più fatica a ricamare i panni d'altare per la chiesa».

Quando infine mi concede la parola apro la bocca per proporle la mia offerta di lavoro, ma la giovane mi previene:

«Si è offerto di fare il maggiordomo per noi».

La matrona mi squadra allibita, sicché rimango muto e impacciato mentre ella va assumendo un contegno distaccato e un tono pieno di superbia:

«Sei troppo giovane per fare il maggiordomo, ti manca sufficiente autorità per comandare i greci a bacchetta, possediamo trenta famiglie di contadini tra il grande vigneto di Vathypetro e tutti gli oliveti di nostra proprietà. Quella marmaglia non ha voglia di far niente, ogni volta che si ordina qualcosa ci mettono il doppio del tempo. Per non parlare delle domestiche greche che non sanno nemmeno apparecchiare la tavola. Puah! Per fortuna siamo state previdenti, noi qui abbiamo una lavandaia, un sarto e un cuoco che sono veneziani... come pure Putiferio, il nostro fedelissimo servitore che ha l'incarico di custodire la stalla e di controllare stoviglie e candele. E' un ragazzo veramente serio, nonostante il soprannome».

La matrona ridacchia sotto i baffi e si gira indicando alle sue spalle un servitore paffuto e mezzo pelato benché giovane, con l'occhio porcino, le sopracciglia rade e l'espressione sonnolenta e amimica di uno che si sia appena alzato dal letto. Intuisco che il soprannome del servitore afferma il contrario della sua natura, il suo aspetto esteriore non evoca per nulla un putiferio, cioè la fastidiosa confusione creata da persona che urli scompostamente, bensì evoca una tranquilla e silenziosa impassibilità.

«Tu invece chi sei?- riprende a dire la balena - Il primo venuto, un illustre sconosciuto che viene a bussare alla porta! Non credere che fare il maggiordomo qui da noi sia semplice, nient'affatto, il lavoro è raddoppiato perché manca mio figlio. E' via per lavoro e non tornerà prima di 40 giorni. Bel tipo anche quello. Mica si accontenta di aver appena ricevuto un piccolo feudo, e non gli basta avere il magazzino pieno di tessuti... macché, deve mettersi a trafficare con i carichi di allume. Ci occorre l'allume per fissare da noi i colori sui tessuti dice lui, e così ne inventa un'altra di nuova per svignarsela, invece di rimanere qui a pensare alla famiglia. Non ha fatto in tempo a posare piede a Candia e organizzare il feudo in fretta e furia che ha voluto subito ripartire con un convoglio, ha detto che non poteva perdere l'occasione, a Bisanzio lo aspettava un carico di allume. Per conto mio vuol fare troppe cose insieme e finisce per trascurare sua moglie, una Cornaro poi».

Ahi, ahi... sua moglie. Ma allora è sposata, questo complica le cose. Comunque sia, insisto:

«Proprio per l'assenza del padrone vi è utile un maggiordomo di fiducia. Vi sarà più facile istruire e addomesticare il personale, sorvegliare la qualità dei pranzi ed assumere messaggeri per portare le lettere. Potrei aiutarvi a calcolare meglio i profitti e le tasse, a controllare i raccolti, la compravendita delle merci, la riparazione dei carri, il modo di uccidere il bestiame e di curarlo».

«Onestamente ha ragione - interviene la giovane alzando un po' il tono -. In sostituzione di vostro figlio, la responsabilità di amministrare il feudo pesa unicamente su noi due e fra poco verremo sopraffatte dal carico di faccende se non riusciamo a demandare una parte degli incarichi. Voi non uscite mai di casa però a me tocca girare ogni momento per i terreni, ieri ho dovuto interessarmi personalmente perfino per ingrassare le ruote di un carro, lo sapete pure che i contadini non muovono un dito se non sono costretti».

La suocera appoggia il mento sul palmo della mano e indecisa riflette sulle argomentazioni appena udite. Ne approfitto per rincarare la dose:

«I villici conoscono mille trucchi per imbrogliare il padrone con falsi pesi e false misure, tutti conoscono la sordida guerriglia del contadino greco che sabota le corvè, ruba nei campi di nascosto e fa il bracconiere nelle riserve del signore».

La giovane:

«Dobbiamo pur difenderci da simili razzie!»

«E va bene, Rézia, lo assumiamo. Lo terremo in prova fino al ritorno di mio figlio, visto che non sarà possibile informarlo per lettera della nostra decisione».

«Vi ringrazio nobili Signore, lieto di pormi al vostro servizio».

«A proposito come ti chiami?» mi chiede Rèzia.

«Vanesio».

Per la circostanza ho tirato fuori il mio soprannome, qui nessuno lo conosce. Alzo gli occhi ad osservare la parete del soggiorno: sull'affresco appena sopra la porta compaiono cinque delfini azzurri che nuotano in un mare lattescente e pescoso.
 
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view post Posted on 28/1/2009, 17:43

ottimo

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Un paio di settimane volano via senza che giunga l'occasione propizia per rivelare alla padroncina la vera identità della mia persona.

Pur avendo accettato la mia assunzione la signora Orseolo ha costantemente alcunché da ridire intorno al mio operato, e forse a ragione, poiché in effetti pratico un mestiere frutto di improvvisazione. Per fortuna la Cornaro preferisce credere che quelle lamentele siano espressione del carattere petulante e brontolone della suocera piuttosto che della mia inesperienza. Nonostante le molte gaffes, ottengo stima e collaborazione da parte dei servitori perché li tratto umanamente e con rispetto, tutti quanti, compresa la giovane schiava berbera che proprio per questo mi si è affezionata. Solo con Putiferio è impossibile stabilire una intesa, diffidenza e sotterranea ostilità nascono in lui dall'invidia e dal risentimento verso di me perché si ritiene defraudato dalla mia intromissione. Comunque nel complesso le varie faccende vanno in porto e la padroncina mi ha dimostrato la sua piena fiducia mettendomi nelle mani le chiavi della villa.

Una sera la Cornaro mi manda a chiamare mentre è sola nell'ampia terrazza merlata, vuole lasciarmi delle disposizioni. Salgo in fretta le scale e la trovo seduta ad attendermi. Indossa un vestito alla moda tutto blu e ricamato di stelle, ha lo strascico e lunghissime maniche che scendono dai polsi fino a terra. Una cuffia di lino ricamato le raccoglie i capelli con l'ausilio di una reticella metallica che all'altezza delle tempie sale in alto e in fuori con due protuberanze a semiluna. La scollatura squadrata è poco ampia. La sua pelle è quella di una principessa, lucida e bianca, colorito che serba gelosamente umettandosi la pelle con il latte di asina e rinfrescandola con la rugiada che i servi le vanno a raccogliere all'alba.

Mi accoglie con un accenno di sorriso:

«Devi portare pazienza per le lamentele della signora Orseolo, non è mai contenta di nulla. Ho fatto i conti delle spese e delle entrate registrate e ho constatato che le cose non vanno poi male».

«Faccio del mio meglio» rispondo con un inchino.

«La Orseolo è asfissiante con il suo bigottismo, pensa che ha convinto mio marito a cedere un quarto del feudo alla Chiesa, tutto per avere la sicurezza di un posto in paradiso».

«E' una Signora molto generosa, fa spesso l'elemosina ai poveri» ma Rézia sembra non aver udito.

«In che sestriere abitavi a Venezia?» sussurra in tono d'intesa.

«A San Marco. Avete forse nostalgia di Venezia?»

«Sì un po' - e sospirando si gira per sottrarre alla mia vista la sua espressione rabbuiata -.Qui mi annoio, non ho amiche, - si confida - ho perso perfino la compagnia della mia serva prediletta, piuttosto che rinunciare al suo fidanzato per venire a Candia ha preferito licenziarsi».

«Perché non visitate l'isola, è stupenda!»

«Viaggiare è pericoloso, non mi fiderei nemmeno della mia scorta».

«Organizzate qualche festa nella villa...».

«Mio marito non vuole gente per casa, è selvatico e scontroso, e che altro potrebbe essere uno che si chiama Orso Orseolo» conclude concitata.

«Vostro marito avrà pur ricevuto visite quando abitavate a Venezia?»

«Beh, un paio di amici, facevano interminabili partite con quei maledetti scacchi di ebano».

«Ma allora come passavate le vostre giornate nella capitale?»

«Segregata nelle mie stanze, perennemente reclusa come una monaca nel chiostro, non uscivo nemmeno per andare a messa perché gli Orseolo possedevano una cappella all'interno del palazzo. Passavo l'esistenza a cucire, a leggere salmi e a guardare dalla finestra le gondole che passavano. L'unica cosa che mi dava un po' di conforto era la lettura di un libro...».

«Che libro?»

«Il romanzo di Alessandro Magno, il condottiero che ha conquistato le terre del Levante fino ai confini con le Indie. Trainato da due grifoni, ha esplorato il fondo dei mari e le meraviglie dei cieli».

«Ah sì, il bassorilievo della facciata nord della Basilica d'Oro, Alessandro sul carro trionfale e i grifoni che intrecciano le code» esulto.

Ma dato che mi guarda in modo strano, cambio discorso:

«Avevate altri libri?»

«No».

«Non avevate un laboratorio di telai? E' un buon diversivo per le nobili stare a capo di quegli ambienti di sole donne, se non altro per chiacchierare con le filatrici».

«Sì lo avevamo».

Riprende contrariata:

«Mi sarebbe piaciuto comandare il telaio, ma mio marito ha lasciato a sua madre l’esclusività del compito».

«E voi non vi siete ribellata?»

«Lo sai bene che è inutile ribellarsi, l'uomo è il padrone della donna».

«Perdonatemi se vi faccio troppe domande. Ma ha forse qualche rancore contro di voi?»

«Sì, forse».

«Dite, se potete».

«Non gli ho dato ancora una discendenza, sebbene si sia sposati da molto. Avevo dodici anni quando ho celebrato le nozze».

«E' il minimo consentito dalla Chiesa».

«Lo so, fu per volontà dei miei genitori».

Si alza in piedi e va verso il parapetto della terrazza. Nel grazioso incedere solleva appena la gonna con la mano, ha i piedi nascosti dallo strascico ricamato di stelle sicché sembra scivoli leggera sul pavimento, senza muovere le gambe. Si ferma tra i merli di pietra del parapetto e fissa lontano oltre il mare.

Mi accosto, deciso a rivelarle la mia identità:

«Noi ci siamo già incontrati a Venezia, -sottovoce- ma voi non potete ricordare».

«Dove? Hai lavorato alla festa di matrimonio di mia sorella?» puntandomi gli occhi addosso alla luce della torcia.

«Ricordate l'ultimo di Carnevale? La calle ove mi conduceste per mano...».

Rezia arrossisce confusa e abbassa il capo:

«Oh, eri dunque tu. Quel giorno avevo perso il gruppetto dei nostri amici, ero completamente ubriaca» e lo dice con un'intonazione che lascia trasparire, scoperta e vulnerabile, tutta la sua femminilità.

Le prendo una mano:

«Sono venuto fin qui per il semplice desiderio di rivedervi, vivo nella nostalgia del breve momento di felicità che mi avete regalato quel giorno a Venezia, da allora non ho fatto altro che pensarvi, intensamente. Ho attraversato il mare alla vostra ricerca ed ora che vi ho trovato, rendo omaggio alla donna nobile e gentile che è in voi».

«Tu sei tutto matto» esclama ridendo.

«Sarà che mi avete fatto andare fuori di testa» mormoro fissandola dritto negli occhi.

Lei si morde le labbra e mi scruta con la coda dell'occhio:

«Per fortuna che non c'è mio marito, altrimenti ti farebbe scorticare vivo».

«Io vi amo» accostandomi con la voce carica di emozione.

«Proprio un bel guaio» annuisce eguagliando il tono della mia voce.

«Oltre, e più dell'amore, io sono una sola cosa con voi, acqua della vostra acqua, goccia del vostro mare».

Rezia mi viene così vicina che trovo subito la sua bocca da baciare. Oh sì, quanto, quanto! Mai labbra di donna suscitarono in me gioia più intensa. Era un'emozione estremamente violenta ed estremamente delicata, sorpreso e incredulo non riuscivo a capacitarmi per virtù di quale prodigio un bacio, un semplice bacio, potesse darmi tanto!

Intanto era scesa la notte e il suo vestito riluceva di stelle come una galassia, candide gocce sparse in cielo dalle mammelle di una dea. Rezia sorride, abbassa una spallina e poi l'altra e scopre quelle tette che da mesi sognavo senza posa. Ora posso sfiorarle con le dita e leccarne dolcemente i capezzoli.
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Eludere la sorveglianza perpetua dell'intrigante suocera di Rezia non era certo un compito facile e richiedeva una buona dose di astuzia. Così avevamo preso l'abitudine di darci appuntamento col buio nel giardino del parco ove restavamo appartati vicino la fontana, una grande vasca di pietra piena di pesci. La signora Orseolo abitava al piano superiore, le nostre camere da letto erano invece al pianterreno e davano sul giardino, per cui, fingendo di andare a dormire, ci era sufficiente scavalcare le finestre per poterci tranquillamente incontrare nel cuore della notte.

Nascosti dagli ulivi e inebriati dal profumo dei cipressi, stavamo comodamente adagiati nell'erba, stesi sotto i gigli che sembravano vegliare su di noi. I baci di lei erano dolci come latte e miele e a quella fonte la mia sete non si estingueva mai, più insistevo ad attaccarmi alla sua bocca più cresceva in me il desiderio di nuovi baci, e decine e decine di volte tra una carezza e l'altra le dichiaravo il mio amore.

Una delle ultime sere di aprile, alzandoci dal prato, ci sediamo sul bordo della fontana. Rézia indica il centro della vasca e mi confessa quanto la ecciti la Leda col cigno, una statua marmorea in effetti molto sensuale: vestita solo di una stretta collana di perle, Leda ghermisce con la mano il lungo collo del cigno e sfiora con le sue labbra il becco dell'uccello; il grosso cigno dischiude appena le ali, preme le zampe palmate contro i fianchi di lei e penetra tra le sue cosce con la coda di piume, in amoroso amplesso.

Ella mi sussurra:

«Vorrei che un mago ti trasformasse in cigno così potrei imitare Leda e accoppiarmi con te».

«Certo, mentre ti monto ti farei aria con le ali, quando c'è afa» mimando con le mani uno sbattere d'ali.

«Mhm, mi piace... farsi pizzicare i capezzoli col becco, mi fa venire i brividi. Capita anche a te di avere qualche fantasia erotica?»

«Come no- in realtà fantasie del genere non me ne venivano mai -. Se il mago potesse trasformarti nell'acqua della fontana, io vorrei essere mutato in un... pesce palla».

«Un pesce palla? Perché?» spalancando gli occhi.

«Boccheggia boccheggia, ti sedurrei con le bollicine d'aria della mia bocca» e gonfio le guance per fare il gesto del pesce che boccheggia. Ma il mio gesto istrionico risveglia soltanto le sue risa.

L'argento luccica nella penombra, è la sua spilla a forma di chiave, quella stessa che Rezia portava al petto l'ultimo di Carnevale:

«Sono le chiavi di S. Pietro?» domando per scherzo.

«Sì, io sono la Papessa!»

Faccio per inchinarmi a baciarle l'anello ma mi fermo a mezz'aria, colto da un ripensamento:

«Ma non è possibile, il papa può essere solo uomo: Habet duos testiculos et bene pendentes».

«Non è vero, è esistita anche una Papessa».

«Quando mai?»

«Dopo la morte di papa Leone. Si era travestita da uomo ma era una ateniese di nome Giovanna».

«La Papessa Giovanna! E come andò a finire?»

«Sopraffatta dalla passione per un diacono restò incinta e un bel giorno... assalita alla sprovvista dalle doglie partorì in un affollato vicolo di Roma».

«Mi immagino lo sbigottimento dei passanti, un momento prima fanno ala al suo passaggio, si inginocchiano supplici e osannanti, poi l'incredibile: a meta vicolo il papa si sente male apre le gambe e partorisce».

Rezia muta espressione, si fa seria in volto, ha sentito un fruscio e si gira spaventata. Da dietro un cespuglio, avvolta in veli traslucidi, sbuca la giovane schiava berbera; sedendosi fra noi bacia Rézia sulle labbra e poi lievemente la mia bocca.

Ha sentito le nostre battute sulla Papessa e inizia con parole pacate e vibranti:

«Questa è l'isola della Dea. Nella notte dei tempi, Zeus fu partorito a Candia in una grotta. Sua madre era la madre di tutti gli dei, la dea suprema che non ha alcuno sopra di lei...»

«Qualcuno l'avrà pur generata?» obietto.

«La Grande Dea è sorta dall'Oceano, sotto le ali nere della Notte».

«Dal nulla».

«Proprio così».

«Dunque l'eterno femmineo? Eterno scorrere della sostanza umida...» accenno.

«Di più! La mappa dell'universo: colei che abbraccia tutte le cose».

«Però i ministri del culto erano uomini».

«No erano donne».

«Donne? La donna, si sa, può essere solo incarnazione e strumento del diavolo! Chi ti ha raccontato queste storie?» scandalizzato.

«A quei tempi vigeva nella società il matriarcato, le sacerdotesse celebravano i loro riti ebbre del vino dei primissimi agricoltori del Mediterraneo».

«Ubriache» interviene Rézia.

«Ubriache... e ballavano al ritmo fragoroso dei tamburi».

«Un ritmo di tamburi assordanti, come può elevare lo spirito al divino?» obietta.

«Il ritmo scuotente trasmette un'energia primitiva, risveglia un’animalità irruente, ossessiva, e tuttavia infonde un sacro trasporto. Le melodie del coro comunicano la dovuta carica emotiva e al culmine della frenesia le sacerdotesse danzanti vengono invasate, cavalcate dalla Dea fino a frantumare i limiti della coscienza».

«E la Papessa che le guida?» chiede Rezia.

«Balla nuda al chiaro di luna, stringe serpenti con le mani e si abbandona alla voluttà della carne per comunicare con la Grande Dea assisa in trono tra le due pantere».

«Anche questo! I nostri preti dicono che il sesso è una cosa spregevole e impura» controbatte.


* * *


Beltane, la notte del primo maggio, Rezia arriva euforica all'appuntamento: l’è balenata l'idea del bagno di mezzanotte. Raggiungiamo insieme la spiaggetta poco distante, lei si ferma alle mie spalle e si slaccia dai fianchi la larga cintura da amazzone.

Intorno è chiaro. Una luna piena incredibilmente grande e luminosa traccia sul mare una scia di riflessi argentei, innumerevoli luci che nella frazione di un attimo si accendono e si spengono lampeggiando sulle onde. Non dissimile da quel fugace brillare m'appare l'effimera mia vita, dispersa nell'immensa schiera di esseri che si creano e si annichilano nel grande oceano dell'esistenza.

I miei pensieri volano al bellissimo, estasiante inno a Reitia:

«Signora assoluta delle fiere selvagge

vieni nella notte al fragore dei cémbali,

rapida come il vento sul carro di leoni.

Potenza incarnata nella sposa di Crono

apri all'amore con la tua magica chiave,

sciogli soave l'intricato nodo del cuore.

O vergine pura, madre degli immortali,

vieni nella notte al fragore dei cémbali

e donaci ricchezza, serenità e fortuna».

Girando la testa in dietro verso Rézia mi accorgo che s'è frettolosamente spogliata e nuda stringe con le mani i seni rigonfi, drizzando i capezzoli in una vibrazione di piacere. Si bagna nell'acqua fresca mentre io mi sdraio lungo il bagnasciuga, a contemplare il divino incedere di quel corpo illuminato dal chiarore lunare.

Mi è presto accanto, tanto vicina da poter carezzare con lo sguardo la rugiada di gocce che luccica sulla sua pelle. Sento sulle anche l'umido contatto del suo corpo bagnato, Rézia mi solleva la tunica e si posa a cavalcioni sul mio membro... vi oscilla leggera, prima sospesa sulla punta poi scivolando fino in fondo, a ritmare su e giù ondate di indescrivibile voluttà. Intensissimo e ineluttabile, l'orgasmo viene a travolgere la ricerca stessa del piacere e la soffoca nell'appagamento. Poco dopo Rezia s'allontana e va a recuperare i suoi vestiti mentre io rimango a lungo steso sulla riva, immerso e abbandonato in uno stato di torpore profondo.

Ad occhi chiusi rivedo i mosaici del soffitto della Basilica d'Oro e mi soffermo sui colori smaglianti dell'albero sopra il pozzo: il verde delle fronde, il tronco dorato e tripartito, il rosso vivo dell'incavo alla sua radice, il grigio perla e il bianco del pozzo. Ma? Adesso ho capito. L'albero sopra il pozzo è il Mercurio dei maghi! La spada dell'Ecate bianca...

Penso al contatto con la potenza immensa della Prima Materia... ed ecco improvvisamente mi sento invaso da una potenza infinita, quella della materia indifferenziata substrato di ogni cosa... mi assale una certezza assoluta, esperimento la verità con un’intensità tremenda, tremenda, incredibile, senza paragone... ho la chiara consapevolezza dell'unita dell'universo... sono al di fuori del mio corpo, proiettato in tutte le direzioni dello spazio... sono ovunque... sono ogni cosa, partecipo intimamente di ogni essere. La mente vuota... serena, libera e pacificata.

E' per me la prova tangibile e concreta che la magia non mi ha ingannato, un immane potere ha effettiva dimora dietro l'innocua immagine di quel mosaico. I tesori del mondo intero non valgono la suprema avventura di questa esperienza, allorché la Prima Materia pensa se stessa attraverso la mente di un uomo e accende se stessa nel bagliore della folgorazione.

Mi sento trapassare da parte a parte da delle scariche di fulmini. Un fuoco mi sale alla testa lungo la spina dorsale. La schiena s'irrigidisce e rigirandomi sui ciottoli appuntiti mi accorgo di non percepire le sensazioni dolorose. Il respiro è affannoso, ha assunto un ritmo veloce a pieni polmoni, poi rallenta, lascia spazio a brevi periodi di apnea. Segue l’immobilità completa. Mi è impossibile spostare gli arti, anche muovere un dito. Rimango a lungo in quello stato, non so dire quanto, a me parve un’eternità, avevo perso completamente la nozione dello spazio e del tempo.

Man mano che riaffiora la debole percezione di ciò che mi circonda, mi giunge il fragore dei flutti che abbattendosi sulla riva rompono il profondo silenzio della notte. Lacrime scendono, prima di gioia poi di compassione verso tutti gli esseri, e vedo sfilare l'intera generazione delle specie, dagli enormi cetacei ai più fragili insetti che lottano per la sopravvivenza. Partecipe dell'interezza della natura mi confondo nei loro atti d'amore, nel volo felice di due gabbiani come nel polline che scende sulla corolla e là si riposa. Mi fondo nel sottobosco della verde vita, sono pioggia che cade su foglie riarse, risalgo le vette innevate, esploro gli abissi marini ed ecco inumidirsi la mia pietra porosa... sono roccia di un'isola sommersa.

Un coro gregoriano risuona dalle navate di una immensa cattedrale: Dies irae dies illa, solvet saeculum in favilla... e nel medesimo istante vedo da ogni parte innumerevoli bocche e braccia e palme protese. Milioni di occhi mi fissano sgomenti, son tutti lì, presenti all'appello, i vivi come i morti. C'è l'amato mio nonno che mancò precocemente, ne odo la calda voce: mi chiama come mi chiamava da bambino. Ci sono i miei amici di Venezia, e i miei nemici, sì anche loro, là in disparte. Più oltre una moltitudine di storpi che tende le mani e sgrana gli occhi, a schiere avanzano i derelitti, miriadi e miriadi di sconosciuti che soffrono la malattia, l'ignoranza, il rifiuto, la prigionia.

Qualcuno mi sta venendo incontro nel buio, è Zagreo, con i suoi ricci neri, la barba incolta e un sorriso luminoso sulle labbra. Lui non poteva mancare, finalmente lo riabbraccio, ora è più vicino che mai, come nei pozzi, la notte in cui lo tenni abbracciato piangendo, la morte non ci ha divisi siamo ancora uno, uno per l’eternità.

Sul bagnasciuga sento sussurrare il mio nome:

«Vanesio».

Non riesco ad aprire gli occhi, le palpebre mi rimangono incollate. Passano alcuni minuti prima che possa socchiudere gli occhi in fessura e vedere Rezia, china su di me con i raggi della luna che filtrano attraverso i suoi capelli.

«Che cosa ti è successo? Ti senti male?» chiede preoccupata.

Non posso articolare le parole, i tentativi mi costano uno sforzo spropositato. A poco a poco rientro in me, mi guardo le mani per prendere possesso del mio corpo, sollevo la testa e mi guardo intorno per capire dove sono.

«Che ora è?» chiedo per prima cosa, senza ascoltare la risposta.

«Dimmi perché soffri?» supplica Rezia per ottenere una spiegazione.

Mi alzo lentamente e appena in piedi sento un brivido lungo la schiena, un raggio di luce mi attraversa e prosegue illimitatamente oltre i piedi e la testa, sto per richiudere gli occhi, devo lottare per non sprofondare nuovamente in quell'estasi.

«Rézia - pronuncio con dolcezza - non esistono parole al mondo... non c'è modo di spiegarti ciò che ho provato. Questa incapacità mi spiace, come al pittore che dipinge e cancella, dipinge e cancella ma non riesce a riprodurre l'oggetto esattamente come vorrebbe. Cercherò di spiegartelo con uno scritto, parole comunque inadeguate».

«Accetterò le tue parole inadeguate, non è da biasimare a che s'appiglia l'uomo che cade in mare. Ma...».

Appoggio il dito indice sulle sue labbra:

«Ti prego, ora non farmi altre domande. Non so quale fra gli umori corporei abbia potuto produrre questo stato di sonno inusuale, non può essere stata la pituita, né l'eccesso di sangue, di bile gialla o nera che sia. Dev'essere stato un umore del tutto sconosciuto anche ai migliori medici».

Rézia tace e mi getta le braccia al collo. In piedi nel bagnasciuga restiamo abbracciati a lungo con l'acqua alle caviglie, ad ascoltare le parole del mare.
 
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Le finestre della villa illuminate dalle torce e all'interno un gran trambusto: al ritorno dalla spiaggia comprendiamo di essere stati scoperti.

Rimango appostato dietro i rampicanti mentre Rezia, spaventatissima, si decide ad entrare in casa per prima. Spiando dalle finestre la seguo con lo sguardo, di fronte a lei la signora Orseolo urla ed impreca furibonda, agita con gran foga un mantello e lo mostra alla servitù che si è raccolta intorno. E' il mio mantello di cotone! L'ho dimenticato ai piedi del davanzale, nel giardino, mentre aiutavo Rézia a scavalcare la finestra della sua camera.

Inteso come stanno le cose, purtroppo non mi resta che allontanarmi dalla villa, o meglio, scappare via al più presto, perciò entro nella mia camera dalla finestra socchiusa, prendo i miei soldi e metto alcuni vestiti nella bisaccia, appena in tempo per udire la nobildonna che batte i pugni sulla porta chiusa a chiave. Salto dalla finestra e mi dileguo a gambe levate.

La signora Orseolo ha ordinato al cameriere Arione e ad altri due giovani greci di rincorrermi per riacciuffarmi. Anche il grasso cuoco ed il sarto ossuto mi inseguono in coda ma presto si perdono per strada. I greci, più veloci di me, all'ingresso del paese stanno per raggiungermi quando di botto si fermano tutti e tre ed Arione mi grida alle spalle:

«E' stato Putiferio a fare la spia. Fa buon viaggio Vanesio, porcellone di un veneziano!»

Passano i giorni. Solo e pensoso misuro i più deserti campi a passi tardi e lenti, rifuggo l'interagire con la gente e oltrepasso gli abitati a sguardo spento. Spesso, il bisogno di lei si fa intenso, bruciante, insopportabile, mi convince che non potrò resistere a lungo senza il conforto dei suoi baci... allora ansimo come un folle, cerco sulle mani il profumo rubato ai suoi capelli, evoco il tepore dolce della sua pelle e sento la sua umida bocca incollata, morbida sulla mia. L'amore che nutro per lei è un albero dalle tenere foglioline e non posso sradicarlo senza morirne, poiché esso possiede lunghe radici che penetrano in profondità nel mio cuore. L'immagine di Rézia è costantemente impressa nei miei occhi. Nell'acqua chiara o sopra l'erba io me l'immagino viva e sorridente, e quanto più selvaggio e più deserto è il luogo tanto più bella l'adombro nei miei pensieri. Il suo volto si stampa nella natura incolta ed ogni qualvolta appare, pallida sulle rocce, riesco a dimenticare me stesso e la mia pena. Così tanto mi appaga quest'illusione che altro non chiederei, se solo potesse durare in eterno.

Errando senza meta, supero la cittadina di Rethimnon e cambio direzione dirigendomi verso l'interno dell'isola. Raggiungo così l'altipiano pianeggiante e circolare di Omalòs, coperto di acquitrini e abitato solo da pastori. Salgo ancora fino al passo da cui posso ammirare il maestoso innalzarsi delle Montagne Bianche, fittamente ricoperte da pini enormi e da isolati cipressi. E' incredibile, eppure anche in primavera inoltrata quelle pendici sono solcate da lingue di neve che scendono ripide lungo i fianchi.

Calo di quota. Oltrepasso il remoto villaggio di Samaria e là nei dintorni, mi capita di perdere le tracce del sentierino. Finisco nel fondo ghiaioso di un torrente, un continuo susseguirsi di gole profonde e impressionanti, incassate tra le più alte cime delle Montagne Bianche. Pareti a picco salgono sopra la mia testa per oltre seicento metri mentre l'ampiezza del corridoio scavato dall'acqua non supera i tre metri. Nel camminare mi dolgono i piedi sui ciottoli, ostacolato dal rigoglio degli oleandri, costretto a superare ripetutamente il letto del torrente e talvolta piccoli strapiombi di roccia in discesa. Percorro faticosamente una ventina di chilometri. Avanzando verso il fondo della gola le pareti si accostano sempre più e a tratti il passaggio diventa talmente angusto che se fossi a cavallo rimarrei sicuramente incastrato, incapace di voltare il cavallo o addirittura di scendere da sella. Dopo quasi otto ore finalmente sbocco allo scoperto e mi affaccio su un'ampia insenatura: senza saperlo sono sceso al livello del mare e sono finito sulla riva opposta dell'isola.

Mi denudo sprizzante di entusiasmo e mi tuffo nelle calde acque del Mar Libico. Nuoto. Le spalle spuntano in superficie come il dorso di un delfino e si inarcano. Roteo insieme le due braccia, tese parallelamente verso il fondo, e in sincronia vibro a piedi uniti il colpo di coda che imprime la spinta in avanti. Quindi allargo al massimo il torace e gonfio d'aria i polmoni... per un attimo mi abbandono all'inerzia, il bacino si immerge, penetrando trascina con sé il peso del corpo. Intanto le mani si risollevano a pelo dell'acqua e caricano la bracciata dietro la schiena. Ecco le braccia sfiorare la schiuma delle onde e disegnare un semicerchio nell'aria per ricongiungersi davanti alla fronte. La testa s'immerge. Tenendo gli occhi aperti sott'acqua osservo le dita che generano scie di bollicine, gocce di mercurio richiamate a grappoli in superficie.

Rallento man mano il ritmo per assaporare meglio il piacevole benessere che sta invadendo tutto il mio corpo poi, all'improvviso mi lancio in uno scatto vigoroso proiettando intorno gli schizzi di schiuma. I muscoli del torace guizzano sotto la pelle, le natiche si contraggono rapide e le anche oscillano, su e giù, nella foga di un appassionato amplesso col mare.

Ansimante, mi riposo galleggiando sul dorso. L'eco delle onde risuona dentro le gole e le creste disegnate dal gioco dei flutti rimbalzano i miei pensieri a quell'ultima notte con Rézia. L'afflato amoroso mi ha sospinto ad innalzarmi oltre ogni altezza, a scendere oltre ogni abisso, e ora raccolgo nuovamente in me le sensazioni di tutte le cose create, avverto d'essere simultaneamente ovunque, in mare, in terra e in cielo, ho la percezione di non essere mai nato, di essere ancora un embrione, d'essere giovane, vecchio e oltre... uscito da me stesso, mi sono rivestito di un corpo che non muore.

Solo nell'estasi, la conoscenza della Prima Materia può essere raggiunta in tutta la sua evidenza, altro mezzo non v'è poiché la mente, instabile per natura, è sempre incline ad associarsi ad altre percezioni. Avendo realizzato identità tra la Prima Materia ed il Mercurio dei maghi, la mia mente con tutte le sue attività è svanita... Non potrei esprimere con parole, né concepire con pensieri lo splendore ineffabile della loro unione. In questo oceano essenza di beatitudine la mia mente si è disciolta, come un chicco di grandine nel mare.

Esco dall’acqua e m'incammino. Dirigendomi a est, lungo la costa raggiungo Ierapetra e da lì varco il punto più stretto dell'isola, affacciandomi nuovamente sulla frastagliata costa settentrionale. Col suo color smeraldo il Mar Egeo tinge una baia di superba bellezza naturale, mentre un bianco manto di chiese ricopre ovunque il pendio. Nei presso del villaggio di San Nikòlaos mi decido ad entrare in una di esse. E' una chiesetta bizantina ad una navata e con volta a botte, la cupola che corona l'edificio presenta delle decorazioni di notevole efficacia ornamentale. Questi disegni geometrici sono il segno lasciato dal periodo iconoclastico allorché, proibite le raffigurazioni religiose ed il relativo culto delle immagini, si giunse ad una ipertrofia dei motivi ornamentali (come negli esempi eccelsi dell'architettura araba). Ma proprio qui, accanto ai resti degli affreschi raschiati dalla furia iconoclasta, la fortuna mi ha riservato una magnifica sorpresa.

Una stella splendente in uno squarcio di nubi dorate, la discesa della colomba dello Spirito Santo e sulla riva rocciosa, aspra e frammentata, il Battista coperto di pelli che battezza con le mani: è un bellissimo mosaico del Battesimo di Gesù. Al centro, il Messia è immerso nel fiume fino alla cintola mentre l'acqua limpida ne lascia trasparire i contorni evanescenti. La sua mano benedicente esce in superficie mentre, sulla riva, tre stupendi angeli si prosternano a adorarlo. Grande la ricchezza dei dettagli, un'ascia bipenne sotto un cespuglio, una moltitudine di pesci colorati sotto la tremula increspatura delle onde e come non poteva mancare, il genio del fiume con l'anfora in mano.

Per ore e ore rimango incantato a contemplare gli effetti plastici evocati dai contorni tenui e da una ricercatezza cromatica che sa sfruttare abilmente tutte le possibili sfumature di colore: questo mosaico è una grande opera da maestro.


Da San Nikòlaos mi spingo ad est in direzione della cittadina di Sitìa. Lungo le coste rocciose si inerpica imperiosa una strada maestra. La percorro fiancheggiato ai due lati da continui cespugli di ginestre in fiore. Per tutta la zona mi sembra di attraversare un superbo giardino, profumato come il respiro di una dea. Le candide rocce della costa sono abbellite da un'esplosione di fiori primaverili: primule dalle foglie turgide e venose, orchidee, ninfee, margherite, papaveri... bianche campanule, splendidi iris, e anemoni, ciclamini e mirto.

La vegetazione è in prepotente risveglio, ogni pianticella cerca il suo spazio vitale, lo strappa al vicino, un bisogno impellente spinge a cercare la luce, a crescere di più per non rimanere in ombra. Nuove tenere radici assorbono dalla terra arida il maggior nutrimento possibile, le foglioline sfruttano ogni residua umidità dell'aria, i boccioli sono impazienti di aprirsi per sottrarre ai concorrenti le api. Irresistibile, pressante, violenta, la vita è in pieno rigoglio e sfoggia il suo rinnovato vigore, lo stesso con cui è riuscita a negare l'inverno.

Guardandomi attentamente intorno, ho riconosciuto due portentose piante magiche, una è la famosa mandragora dalla radice a forma di corpo umano, l'altra è il vischio, le cui bacche adornano come perle i rami delle querce. Ho identificato alcune delle piante medicinali che vidi nella casa della strega, per esempio il timo (profumatissimo), il salice piangente, la melissa dai fiori rosati, il ricino e il fieno greco.

Gironzolando oltre i margini della strada con gli occhi fissi a frugare il terreno, mi ritrovai attonito tra l'erica e i tulipani: dall'alto di una rupe a strapiombo sul mare osservavo incantato i gabbiani che volteggiavano a volo radente, in basso in lontananza, simili a puntini bianchi su un blu intenso che si perdeva all'infinito, senza apprezzabile confine tra il cielo e il mare. Fu allora che capii perché gli antichi avessero eletto quest'isola a culla e dimora degli Dei: immersi in un ambiente di tale bellezza sorge del tutto spontaneo pensare al divino e creare miti immortali che diano anima e poesia ad un qualcosa che ovunque in questa terra si respira e si avverte.

Utilizzando la stessa strada dell'andata faccio ritorno a San Nikòlaos. Dai greci ho ricevuto indicazioni esatte circa l'ubicazione della zona descritta da Zagreo quale sua residenza. E' verso l'interno dell'isola e devo salire parecchio, arrampicandomi lungo una via che sale tra colline aride ed aspre. Appena raggiungo quota, una nube bassa mi impedisce la vista. Cammino nella nebbia. Al suo diradarsi non più pietraie, ecco invece lo spettacolo del verde altipiano di Lassìthi, segnato dal disordinato rifiorire di una terra fertile ma abbandonata a se stessa. Raggiunti i resti del villaggio incendiato dai veneziani, mi metto a cercare confusamente finché trovo le rovine di un mulino. Ha fondamenta di pietra a forma di ferro di cavallo allungato e potrebbe essere il mulino di Zagreo.

I mulini a vento furono immessi in Europa dalla Cina e dalla Persia e la loro introduzione a Candia seguì allo sbarco dei primi crociati di ritorno dall'Oriente. L'arrivo dei veneziani ne aveva semplicemente incrementato l'uso, perfezionandolo in base all'esperienza acquisita a Venezia ove già i mulini andavano assumendo sviluppo industriale nell'ambito delle più varie applicazioni, tipo la follatura dei tessuti, la lavorazione della carta o del ferro.

Il mulino da macina di Zagreo era speciale, non era solo la sede in cui i contadini greci portavano il loro frumento, facevano la coda e aspettavano la farina, ma anche un luogo privilegiato d'incontro. Sedendomi sulle sue rovine mi par di vedere Zagreo sotto le pale in movimento mentre organizza la rivolta contro il tiranno veneziano e arringa un gruppo sempre più folto di contadini e diseredati, scuotendo gli animi con l'accorato e irresistibile appello ai miti antichi della sua gente.

Faccio ritorno ad Archanes. Una quindicina di chilometri prima della città di Candia sono già sul luogo. Vorrei incontrare qualche servitore della villa Orseolo e mi apposto presso i negozi usualmente frequentati per le provviste.

Dalla latteria esce la giovane schiava berbera avvolta nei vivacissimi colori del suo abbigliamento esotico, quasi fosse arrivata oggi stesso dai regni arabi e avesse portato con sé il loro profumo sensuale e carezzevole. E' carica di bracciali e collane di metallo. Porta degli orecchini d'argento i cui contorni ricalcano una figura femminile, vi si riconosce una gonna triangolare e il volto scolpito in rilievo al centro del torace, mentre dei piccoli pendagli affusolati pendono in luogo delle mani e dei piedi. La schiava tiene la bocca coperta da un fazzoletto e ha occhi dalle grandi ciglia, allungati, incredibilmente teneri. Si chiama Ishtar, un nome pieno di fascino, e le origini di lei sono a dir poco misteriose dato che non si ritiene araba, ma figlia di un popolo che abita il deserto.

Mi saluta con i suoi modi dolci, festosamente, e trattomi in disparte, mi racconta le ultime notizie:

«Mentre eri via è ritornato il padrone. Quella megera della signora Orseolo gli ha spifferato tutto e lui è andato in bestia, si è messo a urlare ai quattro venti che la moglie l'aveva tradito, l'ha presa a schiaffi davanti a noi e ha cominciato a insultarla brutalmente.

Gli gridava che è più puttana di Eva, che si è messa in testa certe cose solo perché sono proibite. Per lussuria, dunque, gli faceva spendere soldi con le tuniche di Bucherame... per eccitare un servo, invece di comportarsi da moglie casta, come si conviene in una buona famiglia».

«E lei cosa rispondeva?»

«Nulla, non ha più aperto bocca, subiva tutto in silenzio ad occhi bassi».

«Che altro le ha detto?»

«Che conosceva la debolezza delle donne e non era tanto per l’infedeltà in sé ma perché lo aveva tradito con un morto di fame. Questo proprio non gli andava giù, sua moglie si era rovinata la reputazione e aveva disonorato la famiglia.

Ho tutto il diritto di punirti -diceva- e ringrazia il cielo se non chiedo alla Chiesa l'annullamento del matrimonio... per sterilità, non è certo un mistero dopo dieci anni di matrimonio. Per castigo, - minacciava stringendo i pugni - pretendo che d'ora in avanti tu mi segua in tutti i miei viaggi di lavoro, tutti, anche i più disagevoli e lontani. Ti inculcherò io il controllo di te stessa e l'obbedienza al marito.

Mentre noi saremo in viaggio, autorizzerò mia madre ad amministrare da sola il feudo. Quanto a quel pezzente, lo denuncerò per adulterio alle autorità di Candia e lo farò incatenare al remo di una galera!»

«Povera Rezia, cosa le tocca sopportare per colpa mia, che pena mi fa».

«Il signor Orseolo predica bene ma razzola male. Il giorno in cui mi ha comprata mi ha fatto spogliare nuda davanti al venditore e la notte stessa mi ha posseduta, poi ha giurato che mi avrebbe uccisa se lo avessi rivelato a qualcuno».

«Dimmi, quando sarà il loro prossimo viaggio?» le chiedo con un barlume di speranza.

«Fra dieci giorni si dirigono in Oltremare».

«Dove, dove vanno esattamente, lo sai?»

«Vanno a... a Paphos, un porto di Cipro, sarà la loro prima sosta. Ho udito il marito parlare a lungo di un commerciante di Paphos con cui deve concludere un importante affare. Dovrà dedicare diversi giorni all'acquisto di chermes, cotone e tessuti in seta, in cambio di lanerie e fustagno veneziano».

«Ti ringrazio, sei una vera amica, ma ti prego Ishtar concedimi un ultimo favore, consegna di nascosto questa lettera a Rezia, ti supplico, per me è molto importante».

La schiava berbera accetta. Ricevuto lo scritto Rezia ne imparerà a memoria le parole e lo brucerà per non lasciare tracce. Eccone il contenuto:

...non è da biasimare a che s'appiglia uomo che cade in mare...

Con argentea chiave egli apre d'un tratto le porte del mondo invisibile ed il suo petto s’inonda d'amore sciogliendo l'intricato nodo del cuore. La Dea dalla potenza assoluta, dolcissima appare sopra le acque del mare: ha la pelle umida di rugiada e con le mani spreme il suo latte virgineo, mentre nuda cavalca il fedele delfino oscillando leggera sulla schiuma. Sulle sue ali piumate egli ha riconosciuto gli occhi dei vivi e dei morti e nel silenzio della notte viene rapito fuori dal tempo, nell’onnipresenza. Il Mercurio dei maghi tocca la Prima Materia nell'immutabile simmetria e le particelle dello Spirito suo entrano in unità con quelle del tutto, egli ha il respiro ansimante e paralizzato, non riesce a proferire parola, un brivido gli corre sulla schiena e la mente si perde tra vuoti spazi.

O scintilla di gioia, viene colui che rinuncerà a te in dono a ogni essere.
 
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Amazzone, fa ciò che vuoi
Capitolo IV
A fine maggio decido di imbarcarmi per Cipro, anch'io con destinazione Paphos. Rézia non sarà mai mia sposa, non succederà che tornando a casa la sera la trovi ad aspettarmi davanti al focolare, né ci capiterà di parlare a lungo di noi guardando nella fiamma; so che non sarà mai possibile, la condizione di adulteri e le differenze di casta non ci consentono di costruire una vita comune alla luce del sole, ma non per questo mi arrendo. Mi farò valere ad ogni costo, sono pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio pur di rivederla, per lei ho attraversato l'Adriatico e lo Ionio e se necessario la seguirò in capo al mondo. Prima o poi Orso Orseolo dovrà assentarsi per comprare il chermes. La lascerà da sola e se potrò approfittarne, lo farò.

Salpiamo le ancore dalla città di Candia, sono a bordo di un mercantile genovese che esporta legname ai mussulmani. Assi costosissime, lunghe e tutte d’un pezzo. La nave cessa di costeggiare le rive settentrionali dell'isola e prende il largo spavalda nel golfo di Mirabello. Sopra un ripido isolotto, collegato alla terraferma da una stretta lingua di sabbia, si ergono in lontananza le fortificazioni del caposaldo veneziano di Spinalonga. Imponenti torri con piccole feritoie e merlatura a sbalzo lo rendono baluardo inespugnabile a sbarramento dell'insenatura di Oloùs, importante centro di estrazione del sale. Mura massicce cingono l'intero isolotto: i bastioni Barbarigo, San Michele, Molino, sporgono taglienti agli angoli dell'isola e l'arco del bastione Riva domina la porta principale, stretta tra due enormi colonne. Sul lato occidentale dell'isola sono arrampicate le case e i magazzini, più in alto corre una seconda cinta muraria, edificata sulla cresta rocciosa e armata di numerose fortificazioni dette cavalieri.

Lasciato il golfo, segue il mare aperto. Mentre vengo cullato dalle onde le mie sensazioni vanno a fluttuare in senso opposto alle categoriche affermazioni che hanno preceduto la partenza. Non capisco perché il mare abbia sempre l'effetto di sciogliere i miei più radicati propositi. Ora mi sento di nuovo in balia degli eventi, paragonabile a un tronco d'albero alla deriva, trascinato e sballottato dalla corrente. Pur tuttavia, mi figuro amena e lussureggiante la spiaggia sconosciuta ove i flutti sospingeranno il mio relitto, tronco inerme che va a depositarsi tra le dune e insabbia di giorno in giorno sotto l'azione inesorabile del vento. Migliaia e migliaia di granellini sollevandosi in aria ne levigheranno la superficie, l'ostacolo vincerà la loro caotica corsa e li farà depositare ai lati del tronco, creando una duna in fiore là dove non esisteva.

Cipro è all'orizzonte. Ci stiamo avvicinando velocemente. Sotto la chiglia, banchi di corallo e gorgonia colorano di rosso i bassi fondali della baia di Paphos e alcune barche di greci stanno pescando in quantità il corallo rubrum. La nave approda alla costa e getta le ancore. Si sa che l'essere sulla stessa barca fatalmente conduce a fraternizzare, è successo anche a me e andandomene saluto calorosamente l'equipaggio, benché sia interamente composto da spilorci genovesi. Scendo al trotto la passerella e mi scaravento sulla vicina spiaggia, impaziente di calpestare terra dopo un così lungo viaggio di mare. La sabbia è finissima e dorata, anche più fine del lido di Venezia. Ho sul viso un'espressione raggiante di contentezza, che soddisfazione ritrovare sotto di me la sensazione della terraferma, quel saldo massaggio sotto le piante dei piedi che solo la gente di mare sa apprezzare a pieno.

Il gran caldo dei primi di giugno. Tolgo la tunica e mi metto a torso nudo, rimango solo con le brache attillate di cotone, tolgo anche le scarpe a punta arricciata. Cammino a piedi scalzi tra le palme da datteri e mi aggiro tra un posto e l'altro saltellando sulla sabbia bollente. A corta distanza vedo un pellicano sul suo nido, poche cannucce ammucchiate in una piccola depressione della sabbia. Il genitore si dirige verso di me avanzando goffamente sulle pinne e bilanciandosi sulle ampie ali semi aperte. Vistosi scoperto, è mosso dal paterno istinto di attirare su di sé l'attenzione dell'intruso e distoglierla nel frattempo dai due piccoli sistemati entro il nido. Il grosso uccello bianco ha un collo allungato che continua in un gozzo giallo sotto il lungo ed affilato becco. Appena mi è abbastanza prossimo, noto sulla punta del suo becco una piccola macchia di color rosso vivo. Proprio a cagione di questa macchia è sorta la leggenda del pellicano a corto di cibo che suole ferirsi il petto col becco per nutrire i piccoli con il sangue che ne sgorga. Ho nella bisaccia un ultimo pesce e glielo getto. L'uccello accetta volentieri il pasto fortuito e se ne ritorna pigramente al nido. Non voglio perdermi lo spettacolo e mi apposto non lontano, appoggiato e nascosto dietro una palma per osservare comodamente il pellicano. E' indaffarato a nutrire i suoi piccoli batuffoli di piume con il rigurgito del pesce triturato.

Intanto sullo sfondo, nel laghetto salmastro appena dietro la spiaggia, vedo approdare stormi di fenicotteri che vanno ad unirsi agli aironi cinerini e a qualche rara gru. Gli ambienti costieri di Cipro sono luogo di ritrovo per le varie specie di uccelli migratori che provengono dalle foci del Nilo e proseguono poi nel continente europeo. Poco più all'interno, laddove iniziano le piantagioni di canna da zucchero, vi sono invece i molti uccelli residenti tipo le originali e diffusissime capinere, le pernici e le gazze sassaiole.

Prima notte a Paphos. A mezzanotte l'usignolo mi obbliga a lasciare il giaciglio, non rinuncio ad ascoltare le note del suo canto melodioso. Mi affaccio alla finestra: brilla nel cielo una falce di luna calante. Diafane al chiarore lunare, le case addormentate sul pendio lasciano intravedere il loro cuore carico di nostalgia, trepido e paziente nell'attesa del navigante che tarda a tornare. Il rumore del mare accompagna i virtuosismi dell'usignolo come fosse un'orchestra distante e la notte vi aggiunge la sua voce: vento che soffia, foglie che ripetono emozioni lontane. Nelle pause sapienti dell'usignolo, quando anche il mare tace... una veste oscura incanta la mente ed i sensi, e la notte rivela il suo segreto: il silenzio che turba come la radice della paura e del profondo desiderio.


* * *


Di buon mattino mi metto alla ricerca di Rezia e perlustro strada per strada la piccola comunità di Paphos, interrogando osti e albergatori se abbiano visto aggirarsi una coppia di nobili veneziani. Rintracciarla in un porto di mare è ben più difficile che ad Archanes ma sono ottimista, mi fido ciecamente delle indicazioni della schiava Ishtar. Nel pomeriggio batto la periferia di Paphos. In groppa all'asinello sto oltrepassando un boschetto di ulivi dai rami contorti e di cipressi slanciati in verticale. Il profumo dei cipressi mi riporta al giardino della villa Orseolo, al cigno che cingeva Leda e alle allettanti lusinghe della mia avventura con Rezia.

Eccola, e non si tratta di un miraggio, è lei assorta nei suoi pensieri, pallida con i capelli dai riflessi rossicci, seduta sui resti di un capitello fra cumuli di pietre lavorate e frammenti di antiche colonne. Salto giù dall'asino e l'abbraccio forte:

«Ti amo troppo. Non posso stare senza di te!»

«Nemmeno io, da quando ti ho perso ti penso sempre» risponde affondandomi le dita nei capelli.

«Vieni qua a pensarmi?»

«Sì, mi piace questo posto, la gente di Paphos dice che qui sorgeva il tempio di Afrodite».

«Ne ho sentito parlare. Nei tempi antichi migliaia e migliaia di pellegrini sfidavano i pericoli di un lungo viaggio di mare per venire in questo tempio a venerare la statua di Afrodite, scolpita in un marmo bianco come il latte. Dietro l'altare del tempio veniva celata agli sguardi una pietra sacra a forma di cono, a nessuno era dato profanarla».

«Pensa, dal tempio han portato via un sacco di pietre per costruire uno zuccherificio a Paphos, è gente che non capisce niente!»

«Vieni via, monta in groppa che andiamo in un posto dove nessuno ci può scoprire» tirandola per un braccio.

«Non posso, è troppo pericoloso mio marito è in città» piagnucola.

«Se non ti sbrighi ti rapisco, non sto scherzando, ti porto via con la forza».

Rezia mi guarda sorpresa, poi guarda l'asino, lo indica col dito e scoppia a ridere:

«Con quell'asino!»

Esaurita la risata un'ombra di preoccupazione le attraversa il viso:

«Attento Vanesio, mio marito ti ha già denunciato!»

«Vanesio è il mio soprannome, a Venezia mi conoscono tutti come Petrangesio, il mosaicista della Basilica d'Oro, e non me ne importa un fico delle denunce di tuo marito, se è per questo sono già ricercato dagli sbirri dell'Inquisizione».

«Cosa?»

«Sono reo contumace, a Venezia avranno già bruciato la mia statua».

«Che cosa hai combinato?»

«Mi hanno trovato in casa un manoscritto proibito».

«Lo vedi, il nostro amore non può avere futuro, tu sei solo un avventuriero senza scrupoli» sentenzia con alterigia.

«Avventuriero per forza è chiunque va pel mondo in disgrazia della sua patria - scandisco lentamente in tono ferito -. Dal giorno della mia fuga da Venezia sono un uomo in preda al tormento, non mi rassegno a vivere in nessun luogo, se non oggi qui e domani altrove. Ho pace solo vicino a te».

Rézia si sente a disagio per avermi trattato con sufficienza, un'impercettibile velo di vergogna le cala sugli occhi e le sue guance arrossiscono graziosamente come due rose in mezzo ai gigli. Mi porge i fianchi chinando il capo confusa e si lascia alzare in groppa. L'asinello s'incammina e ci conduce lontano.

Sulla baia denominata Petra Tou Romiu si erge imponente un enorme scoglio marmoreo il cui bianco candore risalta sul verdeblu intenso del mare. Il vento d'occidente solleva grandi cavalloni che si gonfiano rapidi e s’infrangono sulla riva danzando vorticosi. Nei pressi del bagnasciuga chiazze di schiuma bianca ribollono di miriadi di bollicine, create e annichilate nelle fugaci fluttuazioni del moto ondoso.

Ci tuffiamo subito nelle acque della baia, le più fresche dell'isola per effetto delle correnti e di numerose sorgenti sottomarine. Abbracciati e immersi fino alla cintola ci scambiamo baci appassionati. A un tratto lei si stacca dalle mie braccia e si avvia verso la riva camminando spedita nell'acqua che le arriva sotto il ginocchio.

Da dietro la guardo incantato: il suo sedere è quanto di più perfetto abbia mai potuto ammirare, rotondo, le natiche disegnate con leggiadra armonia, ai miei occhi un autentico miracolo della natura. Rézia ancheggiando s'allontana e rompe, nella giostra di un ballo, la bella simmetria delle sue natiche gemelle.

Le corro dietro irresistibilmente attratto, mi tuffo ad afferrarla per le caviglie, la sbilancio, e la faccio ruzzolare con le braccia protese in avanti. La sua buffa posizione è un invito ad approfittare, avido le blocco le anche a pelo dell'acqua e le mordo la carne molle dei glutei. Lei lancia un gridolino di dolore immaginario, mi sfugge, ma mentre drizza le ginocchia per rialzarsi... un'isola bruna fa capolino dove finisce la fessura che le divide le chiappe, Rézia ride e scappa via proiettando alti cerchi di schiuma all'intorno. Rinnovo la rincorsa.

Raggiunta alle spalle, la blocco in piedi nella morsa delle mie braccia, incollato alla sua schiena porto avanti le mani a premerle le poppe. Poi, con la lenta pressione del mio peso la piego in ginocchio a quattro zampe. Ora posso osservare le linee dolci delle sue spalle, scostarle teneramente i capelli e mordicchiarla sulla nuca. La pelle d'oca le avviluppa il corpo in un'esile rete dalle maglie invisibili, Rezia piega la testa all'indietro, inarca la schiena in un brivido di piacere e si abbandona tutta alle mie tentazioni. Allora, gonfio di voglia, penetro nel folto dell'isola bruna, oscillando e danzando al ritmo delle onde.

Si libera impetuosa un'energia repressa. Mentre crollo prono sul dorso della mia compagna proietto lo sguardo sulla riva: vicinissimo, riluce il profilo di due manti maculati, sono due giovani leopardi, hanno il portamento altero, le zampe agili e silenziose, gli occhi verdi e taglienti come lame. Eleganti superano al trotto un tronco riverso, si rincorrono sulla spiaggia, sono la sublime incarnazione della vitalità selvaggia e aggressiva. Fredda bellezza di una energia incontenibile, unghie e zanne di una forza primordiale... pericolosamente distruttiva, forgiata nella sottile e penetrante violenza di un fascino irresistibile. Rezia è pimpante, i felini sono appena scomparsi dietro le rocce, gli domando se l'hanno spaventata, ma lei spalanca gli occhi e scoppia a ridere. Ho avuto una allucinazione visiva. Non mi era mai successo. Forse sono matto.

Nell'apprestarsi ad abbandonare le sue dolci acque, Rezia si china a sussurrarmi all'orecchio:

«Ora mi devo vestire».

In risposta raccolgo dal fondale limpido una grossa valva di conchiglia bombata e pettinata e ancora seduto nell'acqua, gliela mostro esultante:

«Eccoti il vestito!»

Divertita, prende la conchiglia dalle mie mani e maliziosa la accosta a coprire il pube:

«Mi calza proprio a pennello».

Sulla riva, mette su per primi gli stivaletti a metà polpaccio e ancora nuda inizia a lottare col vento per annodarsi i capelli, lunghi sulla schiena e belli del color del rame. Quindi si affretta ad indossare la gonna rosso mattone tutta ricamata di fili dorati, stringe alla vita la cintura a losanga e copre il capo con un ampio velo azzurro. Il vento le incolla addosso le vesti e mi vieta ancora di staccare lo sguardo da quelle sue curve.

Mi angustia vederla rivestita così alla svelta, vorrei fermare il tempo e il magico incanto di questi attimi d'amore, incatenarla a braccia alzate sull'enorme scoglio... nuda, completamente nuda ma ricoperta di splendidi gioielli. Una coroncina alta e ingioiellata ai cui lati dei pendenti di perle ricadono sulle spalle, collane di turchesi e lapislazzuli, bracciali d'argento ai polsi e sul braccio, anelli di topazi e zaffiri che luccicano sul candore della pietra.

Montiamo in sella, schiocco la lingua e l'asino si muove. E' piccolo ma robusto e il dolce peso aggiuntivo non sembra affaticarlo più del solito. Fisso avanti lo sguardo sul sentierino alberato per Paphos. Come in una favola a lieto fine Rézia è in groppa alle mie spalle ed io non posso sottrarmi al bisogno incessante di contemplarla, di confinarla entro l'immagine della sua bellezza, vestita d'acqua e conchiglie e pietre preziose, è più forte di me e mi giro a guardarla. Sorride e il suo sorriso mi persuade di aver ritrovato per sempre il paradiso, invece...

L'indomani Rézia non sarebbe venuta all'appuntamento, avrei perso bruscamente le sue tracce. Sparita! Scomparsa all'improvviso da Paphos, partita insieme a suo marito per destinazione a me ignota. Non mi resterà che vagare insistentemente per l'isola nella vana speranza di ritrovarla.



In quel tempo Cipro era un regno vassallo del Sacro Romano Impero. Enrico I vi dominava in nome della dinastia francese dei Lusignani, ma fin dall'inizio del suo regno l'isola fu travagliata dalla lotta fra due opposte fazioni che se ne contendevano il controllo. Da una parte c'era il lignaggio del tutore di Enrico I, quel Giovanni di Ibelin che aveva esercitato il governo effettivo dell'isola durante l'infanzia del re, dall'altra parte c'era la fazione rivale di Amalrico Barlais e dei suoi quattro baroni.

Nel luglio del 1228 l'Imperatore Federico II intervenne attivamente nella faida fra le due famiglie, cogliendo l'occasione della sua tappa a Cipro durante la crociata in Terra Santa. Lo spunto fu dato da un sontuoso banchetto organizzato in suo onore dagli Ibelin nei pressi di Limassol, nel grande castello fortificato di Kolossi. Quella festa divenne tristemente famosa perché guastata dall'ingresso degli armigeri imperiali a spade sguainate. Giovanni di Ibelin fu minacciato di arresto se non avesse fatto atto di sottomissione incondizionata all'Imperatore e consegnato tutte le fortezze. Di malanimo, gli Ibelin dovettero riconoscere la sovranità di Federico II su Cipro e accettare di dare i loro figli in ostaggio, ma non appena l'Imperatore ripartì per la crociata essi ruppero la pace loro imposta e ripresero le armi contro Amalrico Barlais.

Dalla Terra Santa Federico II spedì in risposta il contingente di Etienne de Botron che piegò gli Ibelin e li cacciò dall'isola con tutta la loro consorteria. In tal modo l'Imperatore poté affidare ufficialmente la tutela del giovane Enrico I ad Amalrico Barlais, che acquistò la reggenza dell'isola mediante una forte somma in denaro. Malgrado ciò la contesa fra le due famiglie era solo apparentemente risolta, il lignaggio degli Ibelin covava un odio duraturo nei confronti degli avversari e la rivincita non si fece attendere. Nel luglio del 1229, gli Ibelin fecero vela per l'isola assetati di vendetta, sospinsero nel nord dell'isola Amalrico Barlais e attaccarono le formidabili piazzeforti in cui si erano arroccati i suoi quattro baroni. Ne seguì uno strascico di rappresaglie all'insegna del più bieco terrore e soltanto adesso i combattimenti andavano scemando con l'ormai pieno controllo di Cipro da parte del lignaggio vincente degli Ibelin.

Nella faida di Cipro i crociati Ospitalieri si sono schierati dalla parte vincente e contro il protetto imperiale Amalrico Barlais. Ciò è la conseguenza dei dissapori avuti con Federico II all'epoca della crociata in Terra Santa durante la quale, in ossequio alle direttive papali, essi avevano manifestato una palese e caparbia opposizione all'Imperatore scomunicato.

Proprio in questi giorni assolati di giugno, gli Ospitalieri hanno piegato l'ultima sacca di estrema resistenza che avversava le loro truppe asserragliate nell'antica fortezza di Kolossi. I crociati l'avevano edificata dopo averne ricevuto le terre da re Ugo, il padre di Enrico I, ed ora Kolossi di Limassol è la sede incontrastata della Commandaria dell'ordine cavalleresco degli Ospitalieri.

Ma non tutti a Limassol sono prodi cavalieri a cavallo, c'è anche chi come me deve accontentarsi di girare in groppa a un asino. Col mio fedele compagno ho percorso alla ricerca di Rézia una trentina di chilometri lungo la costa a sud est di Paphos e ora imbocco la strada che conduce sotto le mura merlate del castello di Kolossi. Gruppi di Ospitalieri sfrecciano a cavallo, le otto punte della croce di Malta sventolano bianche sul nero dei lunghi mantelli. Sono armati di tutto punto con lancia, spada, scure da combattimento e pugnale, e lanciati al galoppo frustano con le briglie il collo dei cavalli, enormi cavalli da guerra alti al garrese quanto il mio mento. Si solleva un turbine di polvere e gli zoccoli schizzano il terriccio sulla mia tunica azzurra mentre, intimorito, scosto l'asino ai lati della strada.

C'è in giro un gran fermento, gli ultimi irriducibili ribelli di Amalrico sono caduti nelle mani degli Ospitalieri. Si dice che alcuni morti giacciano ancora sul campo, resti del fallito contrattacco ai bordi della fortezza. Costeggio tutt'intorno le alte mura esterne e curiosando direttamente nei luoghi degli scontri vedo poco distante una macchia di rosso, spicca in primo piano sul fogliame di un enorme mandorlo secolare addossato alla facciata posteriore del castello, è il colore smagliante del panno carminio che ricopre una maglia ferrata. Appartiene ad un cavaliere impiccato a testa in giù, con le mani legate dietro la schiena, appeso per una sola gamba ad un grosso ramo dell'albero. E' un uomo d’età matura, la corporatura è massiccia e la sua altezza sembra superiore alla media. In terra, appena sotto la sua testa giace lo scudo, una rosa rossa in campo bianco con sei giri concentrici di petali.

Scendo dall'asino e mi avvicino ai rami del mandorlo per costatare se l'uomo è morto. La sua chioma bionda pende sciolta in giù, intrisa di sangue. Mi giunge alle narici l'odore del sangue raggrumato. Ha la faccia gonfia, bluastra, però... osservandolo attentamente mi sorge il dubbio che possa essere ancora vivo.

Qualcosa luccica in alto sotto il fango degli stivali, concentro lo sguardo tra i raggi che filtrano attraverso il fogliame e mi accorgo dei suoi speroni d'oro cesellato. E' molto strano che gli aggressori non se ne siano appropriati, forse avevano fretta oppure sono stati vittima di un attacco inatteso. Decido di impadronirmene subito, prima che attirino l'attenzione di qualche altro crociato di passaggio.

Controllo che non mi veda nessuno, rimonto sull'asino e tolgo agevolmente lo sperone dal piede che penzola libero a ginocchio piegato. Poi, stando in piedi sulla sella, cerco di slegare il nodo gordiano che lega alla caviglia l'altro piede e ne blocca lo sperone. Quel nodo è un intreccio formidabile di corde, sotto il peso del corpo si è stretto tenacemente ed è impossibile scioglierlo. Rinuncio ad inutili sforzi e avvicinate le spalle dell'impiccato alla groppa del mio asino, recido col coltello la corda che pende tesa. Guidando la caduta del cavaliere sono riuscito a adagiarlo riverso sulla sella, anche se sotto la spinta del contraccolpo ruzzolo in terra. Mi rialzo. Gli tolgo lo sperone rimanente e lo infilo nella borsa della sella, insieme all'altro.

Nel mentre sono indaffarato a richiudere la borsa odo una voce imperiosa alle mie spalle:

«Che stai facendo?» due crociati Ospitalieri mi fissano minacciosi, immobili sui loro giganteschi cavalli.

«Lo sto portando a cristiana sepoltura» rispondo loro compunto e senza badarli ordino all'asino di muoversi. L'asino non vuole fare un solo passo in avanti, si intestardisce, qualcosa deve averlo spaventato. Lo tiro con forza per le briglie. Niente da fare. Devo tirarlo per le orecchie perché alzi lo zoccolo e cominci a muoversi. I due crociati si scostano e mi lasciano passare mentre mi allontano dal castello.

Nei dintorni la vegetazione spoglia ispira una selvaggia desolazione. Potrebbe essere il luogo adatto per seppellire il cavaliere, sempre che sia morto. Comunque nel dubbio è meglio aspettare un po', per non rischiare di seppellire cristianamente un uomo vivo. Durante il tragitto il cavaliere va assumendo un colorito più roseo e a un certo punto mi pare che sollevi il torace sotto la maglia ferrata: sorpreso balzo giù dall'asino, metto il palmo della mano davanti al suo naso e colgo un impercettibile alito di respiro, miracolosamente è ancora vivo.

In fretta mi dirigo al monastero di Sant'Elena. Questo sorge poco distante, sulla riva di un lago stretto entro una breve penisola, il luogo di fondazione scelto dalla madre stessa di Costantino. Dentro il chiostro fiorito del monastero chiedo aiuto a un giovane frate francescano e adagio il cavaliere sul soffice tappeto erboso, sotto i rami spinosi di un grande arbusto di melograno. L'albero dalla corteccia rosso grigiastra ha un fusto contorto, si erge vigoroso per almeno otto metri e l'ombra della sua folta chioma può fornire al ferito il necessario refrigerio.

Il cavaliere riprende coscienza e spalanca occhi di un colore grigio cinereo. Allora alzo la mano tra le foglie oblunghe del melograno e ne colgo il frutto tondeggiante. Tolgo la buccia gialla arancio soffusa di rosso e metto in bocca al cavaliere alcuni semi succosi che gli danno sollievo. Per farlo respirare meglio gli levo la maglia ferrata:

«Spiacente cavaliere, non c'è una dolce damigella a toglierti l'armatura e a curare le tue ferite, ma perlomeno qui sei al sicuro, siamo in un monastero».

Da pallide e bluastre che erano, le sue labbra hanno adesso il colorito rosso acceso del rubino, il cavaliere sembra ritornato pienamente in sé e quindi mi azzardo a domandargli:

«Ricordi qualcosa di quel che ti è successo?»

Egli solleva il tronco e porta la mano alla testa:

«Hélas, mi hanno fracassato la testa, ho percepito uno strano ronzio e ho perso conoscenza».

Parla in volgare francese, lingua peraltro non molto differente dal veneziano; il frate traduce le parole che mi risultano incomprensibili e così riusciamo ad intenderci a sufficienza.

«Rammenti, - gli domando - quando eri appeso all'albero?»

Corruga la fronte spaziosa e mi fissa sgomento con il suo sguardo adamantino:

«Quale albero? Ah si, mi pare, ma ero in bilico tra la vita e la morte, ricordo soltanto delle strane visioni».

«Sforzati di ricordare, - insiste il francescano - si dice che in punto di morte ai giusti venga incontro un angelo del Paradiso».

«Altro che Paradiso, mi ritrovai a galleggiare dentro un tunnel tenebroso, quella galleria sembrava senza fine, era il ventre di un enorme drago. Ho estratto la spada dal fodero e ho cominciato a menare colpi a destra e a manca contro le pareti del suo stomaco».

«Ostreghéta, deve aver preso una bella botta in testa» commento.

«Il drago si contorceva rabbiosamente sotto i miei colpi, le pareti del suo stomaco rimbombavano di conati spaventosi e a un tratto fui vomitato fuori dalle sue fauci. Il mostro mi abbandonò su una riva brumosa e si allontanò nel mare agitando le zampe a forma di pinna e la sua lunghissima coda. Era buio. Come un naufrago feci qualche passo di perlustrazione e vidi una cosa incredibile».

«Lo spirito di un defunto?» chiedo.

«No! Nell’oscurità della notte un uovo lucente scendeva dalla luna sospinto dal vento. Oscillava leggero e man mano la sua luce si ingrandiva nel cielo».

«Ti è caduto in testa?» accenno.

«No! Appena toccò terra una luce bianchissima avvolse ogni cosa ed io corsi entusiasta alla ricerca del suo punto d'impatto. Lo trovai, l'uovo era adagiato su uno stupendo tappeto di rose dai petali candidi, lucenti e profumati, e... semiseduta sull'uovo c'era un'amazzone, la sua armatura era così rossa che arrossava gli occhi a fissarla e lo scudo era anche più rosso del fuoco, illuminato dalla torcia splendente che stringeva tra le mani:

Non è ancora giunta la tua ora. Hai un compito da svolgere! mi ha detto.

Ero in bilico sul punto del non ritorno eppure mi attardavo indeciso e riluttante, stavo mille volte meglio là dove ero: il candore di quel luogo mi comunicava una serenità perfetta e una beatitudine senza confronti.

Gli istanti cominciarono a stirarsi, l'amazzone alza a due mani la torcia sopra la sua testa e lentamente con un movimento molto molto rallentato, va a colpire l'uovo. Vedo frantumarsi a poco a poco il guscio e l'urto proiettare intorno degli schizzi di sangue. Grosse gocce gocciolavano nell'aria descrivendo lentissimamente una parabola finché esplodevano sulle rose, ne piegavano i gambi e intrisero i loro petali.

Il tempo torna a contrarsi. Rapide, le corolle assorbono il sangue, lo bevono come avide bocche dalle labbra vellutate, agitano i petali come lingue, le spine come denti e il loro colore si muta da bianco in rosso vivo».

«Le rose ti hanno divorato?» azzardo.

«No! D'improvviso vengo proiettato sopra i rami del mandorlo, levito qualche metro sopra il mio corpo che penzola impiccato a testa in giù. Sono spettatore indifferente e distaccato dei quattro crociati che percuotono il mio petto con le mazze».

«Ma poi sei tornato dentro il tuo corpo?» chiedo.

«Sì, poco dopo fui risucchiato all'interno del mio corpo» fissandomi sprezzante.


 
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view post Posted on 29/1/2009, 14:56

ottimo

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Teobaldo Spadalunga, tale è il nome del cavaliere, rimane qualche giorno tra i frati di Sant'Elena a curarsi un paio di costole rotte e un'ampia ferita al cuoio capelluto. Io avrei dovuto proseguire per la costa orientale dell'isola, per dimenticare Rézia avevo in mente di tuffarmi nei molli piaceri di Famagosta, città celebre per la prosperità e per i suoi vizi, ma per il momento rimando e resto con lui al monastero.

Il terzo giorno già cammina spedito entro le solide mura del monastero mentre percorre avanti e indietro il giardino. All'ombra delle palme e tra le siepi, Teobaldo da sfogo ai sentimenti mentre l'incenso delle funzioni si mescola al profumo di fiori. Piuttosto che finire a Cipro ad ammazzarsi fra Cristiani, si rammarica sarebbe stato più onorevole finire prigionieri del sultano d'Egitto, insieme a quel santo re di Francia. Mi racconta che un paio di anni fa Luigi IX aveva svernato a Cipro prima di dirigersi in Egitto. Quel re cavaliere, alto e biondo, consumato dalle pratiche ascetiche, era un principe assetato di carità e innamorato della pace. Ma per colpa di Innocenzo IV i compagni di Teobaldo non poterono unirsi alla crociata: il papa aveva proibito a tutti gli uomini dell'Imperatore di parteciparvi attivamente. Così restarono a presidiare l'isola, fedeli ad un impegno preso con Federico II.

Mediante l'espressione sconsolata del volto e dei gesti, Teobaldo cerca di farmi capire quanto fu grande la sua personale frustrazione allorché, appena un anno fa, venne a sapere della disfatta del delta del Nilo e della cattura di Luigi IX. Con atteggiamento di circostanza mostro comprensione per i suoi sentimenti e tuttavia gli faccio presente come non sia il caso di rammaricarsi per la mancata partecipazione alla crociata, visto che i superstiti giunti stremati a S. Giovanni d'Acri furono poche migliaia. Il sultano aveva sì liberato il re grazie ad un ingente riscatto di bisanti, ma aveva riservato ben altra sorte ai cavalieri catturati, li aveva fatti uccidere al ritmo di trecento per sera.

Egli replica:

«I mussulmani sono ormai a ridosso di Bisanzio, la Chiesa deve arginare con tutti i mezzi il vertiginoso avanzare dell'Islam e deve riconquistare la fiducia dei giovani se non vuole la fine di ogni crociata, n'est-ce pas?»

«Ma perché la vedi così tragica, è passato solo un anno dalla crociata di Luigi IX e poi il regno di Gerusalemme è ancora saldo».

«Sì, d'accordo, ma l'ideale delle crociate sta perdendo terreno fra i giovani, non esistono più i novelli cavalieri che partivano pieni di entusiasmo da Ratisbona, come ai tempi del Barbarossa. Chissà cosa è cambiato?»

«I giovani colgono nelle crociate il peso di un bilancio negativo, fatto di risultati mediocri. Quale buon frutto abbiamo raccolto dalle crociate in Terra Santa, a parte le albicocche?».

«C'è poco da scherzare, se l'Occidente non si fosse mobilitato compatto ora io e te parleremmo in arabo. Non capisci? Islam e Cristianesimo sono dei colossi che si fronteggiano in una lotta all'ultimo sangue, ciascuno dei due mira ad un controllo esclusivo sull'intero Mediterraneo. A gran fatica la cristianità è riuscita a riconquistare la Spagna e la Sicilia, e solo con enormi sacrifici ha strappato ai mussulmani il Regno di Gerusalemme, ma ora il nostro momento favorevole sembra dileguarsi».

«La Cristianità ha perso la sua occasione d'oro quando si è affacciato sul Mediterraneo il terzo grande colosso».

«Quale colosso, s'il vous plait?»

«L'Impero mongolo. Purtroppo le tribù dei mongoli idolatri hanno sconfitto quelle convertite al Cristianesimo e la Chiesa ha perso il suo alleato decisivo, il solo che avrebbe potuto indebolire e annientare il potere mussulmano in tutta l'Asia. Cinquant'anni fa a nord del deserto del Gobi, Gengis Khan sgominò le tribù del Prete Gianni e così s'infranse il sogno di un imperatore mongolo che in nome di Cristo avrebbe potuto lanciare la moltitudine delle sue genti contro i mussulmani».

«E tu credi che il capo delle barbare genti di Gog e Magog si sarebbe mosso in nome di Cristo?».

Gli spiego dettagliatamente che il Prete Gianni era un cristiano nestoriano e come re delle tribù della Mongolia centrale aveva iniziato un approccio amichevole con l'Occidente. Aveva spedito a Federico II una lettera e insieme una pietra che valeva, a suo dire, più di tutto il sacro romano impero. Nella lettera, per sondare la saggezza dell'Imperatore cristiano gli aveva chiesto quale fosse la cosa migliore del mondo e Federico II aveva risposto che la cosa migliore era la giusta misura, risposta saggia e bene accetta.

Tuttavia l'Imperatore trascurò di porre domande intorno alla natura e alle virtù della preziosissima pietra, sicché il Prete Gianni ne fu risentito e temendo che la pietra perdesse ogni virtù provvide a farla ritirare. I magici poteri della pietra consentivano di vivere sott'acqua e di rendersi invulnerabili o invisibili, e avrebbero permesso a Federico II di far resuscitare la leggendaria Aquila nera dipinta sulle sue insegne.

Teobaldo si avvia pensoso verso il chiostro e inizia a passeggiare all'ombra degli archi acuti del porticato:

«Sono un reduce della crociata di Federico II» spiega.

«Quando sei partito?»

«Nel 1228».

«Ti confesso che non ho mai ben capito i termini della diatriba tra il papa e Federico II circa la questione della crociata, perché mai l'Imperatore è stato scomunicato se ha portato a termine con successo la sua crociata? Immagino tu ne sappia qualcosa».

«Gregorio IX, papa fin troppo vigoroso nella parola e nell'azione, pretendeva dall'Imperatore una totale sottomissione e cercava ogni possibile pretesto per dimostrare al mondo che Federico II agiva contro gli interessi della Fede.

Ricordo il settembre del 1227, quando con gli animi accesi eravamo tutti ammassati a Brindisi, insieme ai cavalieri tedeschi, ai mercenari e ai pellegrini, tutti pronti a salpare. Esplose un'epidemia di colera e l'Imperatore, sebbene febbricitante, diede ugualmente l'ordine di partenza ai superstiti. Dopo un breve tragitto in mare, la malattia di Federico II purtroppo si aggravò e costrinse la flotta a ripiegare. Gregorio IX prese la palla al balzo, disse che l'Imperatore non era stato ai patti e lo scomunicò, tutto questo nonostante la spedizione non fosse stata annullata ma semplicemente rinviata alla guarigione di Federico II.

L'anno successivo la crociata poté finalmente ripartire con sessanta navi fra galee e vascelli d'appoggio. La flotta costeggiò le isole Ionie, Creta, Rodi, l'Asia Minore e fece tappa a Cipro. A suo tempo, colui che aveva assegnato il regno di Cipro a Guido di Lusignano fu il padre di Federico II, perciò Federico II sbarcò a Limassol a pretendere i suoi diritti di vassallaggio».

«Sì, ne ho sentito parlare».

«Io fui tra quelli che ricevettero l'ordine di entrare ad armi sguainate al banchetto degli Ibelin».

«Nel salone del castello di Kolossi» aggiungo e mi par di vedere la scena.

«Le musiche si interruppero bruscamente e dai tavoli riccamente imbanditi si alzarono di scatto i presenti, quel giorno avevano deposto gli abiti neri per il lutto del re Filippo di Francia e si erano vestiti di scarlatto per festeggiare l'Imperatore. Federico II tuonò il suo duro ammonimento davanti ai ciprioti sbalorditi:

«Sir Giovanni di Ibelin vi chiedo in spirito d'amicizia che mi rimettiate tutti i redditi che avete ricevuto come reggente di Cipro e tutto ciò che i diritti reali hanno dimostrato essere di valore e hanno procurato sin dalla morte di re Ugo, padre di Enrico, e cioè i redditi di dieci anni giacché questo è il mio privilegio secondo l'usanza dell'Impero».

«Che arroganza».

«Da Cipro mi sono imbarcato con l'Imperatore alla volta della Terra Santa. Ero ansioso di combattere duramente, di faticare e di soffrire, volevo dimenticare l’infelicità della mia vita nel sudore della battaglia. Invece...».

«Invece?»

«Dovetti assistere alle manovre tutte diplomatiche di Federico II».

Teobaldo mi spiega che l'Imperatore aveva stretto legami di alleanza con al-Kamil, il sultano egiziano preoccupato dalle mire espansionistiche di suo fratello al-Mu'azzam, l'allora governatore di Damasco e alleato dei Turchi.

Chiedo se la crociata ha puntato dritto su Gerusalemme.

No, risponde che approdò a Tiro. L'Imperatore fu accolto dai cavalieri Templari che si prostrarono in terra ad abbracciargli le gambe. Dovevano comunicargli una importante notizia.

Strizzo l'occhiolino e insinuo che si sa pur com'è, fra eretici se la intendono... I Templari pare siano adoratori del demonio, si dice che in segreto adorino Baphomet, una creatura che ha testa e zampe da caprone, braccia e seni di donna, fianchi coperti di scaglie e ali da pipistrello.

Teobaldo obbietta che sono soltanto dicerie.

Insisto, gli rendo noto che quei sodomiti usano leccarsi l'ano davanti al loro idolo!

Nega risentito, afferma che nessuno ne ha le prove e mi ordina di smetterla con queste calunnie. Fa dietro - front nel corridoio del chiostro quindi riprende a narrare dei Templari, intenti a riferire all'imperatore la notizia dalla morte del governatore di Damasco, nemico e fratello del sultano egiziano al-Kamil. L'inatteso evento modificò gli accordi dell'alleanza, nel senso che al-Kamil avrebbe colto l'occasione al volo per dirigersi alla conquista del nodo commerciale e militare di Damasco, mentre l'Imperatore in cambio della non belligeranza avrebbe ottenuto Gerusalemme, città di per sé in preda al più misero abbandono ma culla del Cristianesimo.

«Con la firma di un trattato, senza un sol colpo di spada, l'Imperatore ottenne l'obiettivo della sua crociata» conclude.

«Però non gli fu tolta la scomunica».

«L'Imperatore non se ne fece scrupolo, benché interdetto dalla scomunica entrò nella basilica del Santo Sepolcro e si mise sul capo la corona del Regno di Gerusalemme».

«Beh, il popolo come l'ha presa?».

«Male. In realtà la volontà di imporre ovunque il suo impero universale aveva scontentato i Franchi d'Oltremare e quando Federico II si imbarcò ad Acri, la folla inferocita lo riconobbe e lo bersagliò con il tiro di budella e frattaglie raccolte da un vicino macello».

«Che bella figura. Fortuna sua che almeno i crociati gli erano rimasti fedeli».

«Non tutti, per la verità alcuni se li era inimicati, soprattutto i crociati Ospitalieri, estromessi a causa dell'opposizione che avevano più volte manifestato nei suoi confronti. Ne beneficiarono i suoi fedelissimi, i cavalieri Teutonici cui assegnò tutte le terre conquistate».

Dal chiostro entriamo in una sala interna stipata di banchi, i monaci vi tengono esposta la loro collezione di minerali. Teobaldo li guarda distrattamente, senza interesse. Io invece ne sono affascinato, mi soffermo attento sui cubetti frastagliati di un campione di rame, vi noto le incrostazioni verdi che ne hanno tolto la lucentezza, poi osservo dei cristalli a forma di piramide, si tratta di zolfo, mi attrae il suo colore giallo limone, come pure il giallo metallico e iridescente della pirite. I monaci hanno scritto il nome vicino a ciascun pezzo: Gesso, il cristallo chiaro e trasparente geminato a coda di rondine; Salgemma, il cubo perfetto e incolore; Terra d'Ombra e tanti altri.

«Che ne è del tuo Ordine?» chiedo a Teobaldo sollevando il capo dalla collezione.

«Non faccio parte di un Ordine cavalleresco formalmente riconosciuto, diciamo che un gruppo di cavalieri stava coagulando le proprie energie in attesa di distinguersi in Terra Santa e venire accettato come Ordine vero e proprio. Però al seguito di una crociata diplomatica come quella di Federico II non ne abbiamo avuto l’opportunità ed in pratica siamo rimasti nel novero delle truppe irregolari... crociati senza nome».

«E la rosa sullo scudo?».

Teobaldo non risponde, da un colpo di tosse e appoggia la mano sul torace dolente. Riprende cambiando discorso:

«Il nostro Gran Maestro riuscì tuttavia a strappare una promessa a Federico II. L'Imperatore avrebbe riconosciuto ufficialmente l'Ordine se avessimo riconquistato Cipro, poiché subito dopo la sua partenza e nonostante la pace da lui imposta, gli Ibelin avevano ripreso le armi contro i rivali. Il Granmaestro dovette perciò unirsi al forte contingente di cavalieri che fece vela per Cipro sotto il comando di Etienne de Botron».

«Così vi siete cacciati nei guai».

«All'inizio avemmo successo e finalmente riuscimmo a distinguerci per valore. La spedizione piegò le resistenze degli Ibelin che questa volta furono costretti a consegnare tutte le fortezze e ad andarsene».

«Per lasciare il posto alla fazione di Amalrico Barlais?».

«Esatto, egli acquistò dall'Imperatore la reggenza dell'isola».

«Per quanti soldi?».

«Diecimila marchi. Sì, ma non durò a lungo. Appena sembravano calmate le acque non tardò a calare funesta la vendetta degli Ibelin che tornarono sull'isola a rinnovare la faida degli orrori e delle uccisioni. Col tempo purtroppo le cose volsero a loro favore e oggi gli Ibelin hanno il pieno controllo dell'isola.

Come vedi sono finito impastoiato fino all'ultimo in questa faida, il tutto per ottemperare al voto di obbedienza prestato al Granmaestro. Costui, cieco di fronte all'imminenza della sconfitta definitiva, fidava ancora nel miraggio della fondazione del suo ordine e ha continuato imperterrito a mandarci al massacro contro le forze soverchianti degli Ospitalieri. E' stato un sacrificio inutile ma non potevo tirarmi indietro, gli amici e i nemici m'avrebbero avuto per un vile.

Ora tutto è perduto, la vendetta degli Ibelin è compiuta. E pensare che avevo lasciato la Francia per liberare la Terra Santa dai mussulmani».

Mentre usciamo dalla stanza un drappello di frati francescani attraversa frettolosamente il chiostro, ma egli non sembra vederli, è assorto, sta viaggiando lontano col pensiero, oltre le mura del convento. La sua chioma ricciuta riceve ora la luce del giorno e la bocca socchiusa è al solito accesa come un rubino.

Gli poso una mano sulla spalla come per distoglierlo dai suoi tristi pensieri:

«Credimi, la guerra è pur sempre un male e non soltanto quando è fra cristiani. Tuttavia rispetto la nobiltà dei tuoi propositi, so che per te il fine ultimo è la liberazione dei luoghi santi e mi spiace ti abbiano allontanato dalla Palestina per sostenere le faide dei signorotti di Cipro».

Con gli occhi lucidi mi rivela cosa gli passava per la mente:

«Gerusalemme, sguarnita e abbandonata è caduta nelle mani dei Turchi. Dopo un mese di assedio i Turchi avevano promesso libera ritirata ai Cristiani e seimila fra uomini donne e bambini fuggirono da Gerusalemme diretti alla costa. Ma quando, di lontano, si volsero per l'ultimo estremo saluto alla città celeste, sorpresi videro sventolare sulle torri le bandiere franche. Precipitosamente fecero marcia indietro, convinti che fossero giunti rinforzi all'ultimo momento. Fu un fatale errore. Sotto le mura li attendeva un agguato mortale, furono massacrati a migliaia ed i rimanenti fatti schiavi.

Non c'era nessun crociato a difendere quegli innocenti, sarebbe stato mio dovere proteggere quelle donne e quei bambini e invece... ancor'oggi quell'eccidio pesa sulla mia coscienza».
 
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view post Posted on 29/1/2009, 20:23

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Teobaldo afferra una scala di legno appoggiata al muro e sale agilmente sopra il tetto del chiostro. Lo seguo e ci ritroviamo in cima a un terrazzo popolato da un gran numero di gatti, oltre una decina di grossi esemplari che accolgono con sorniona indifferenza la nostra intrusione, soltanto i più vicini a noi prendono con calma le debite distanze allontanandosi a coda dritta verso l'alto.

Fissiamo muti la distesa dell'orizzonte: una stretta striscia di terra arida separa dal mare il lago salato, e poco profondo, che occupa quasi interamente la penisola in cui si trova il monastero. Appena sotto di noi tra le canne, nuotano folti gruppi di anatre selvatiche, i beccaccini saggiano il fango con il lungo becco e l'airone cenerino se ne sta immobile all'aspetto della preda. Sulla riva opposta, presso l'arco di costa rocciosa che si inoltra nel mare, superbi falchi dalle ali lunghe e snelle cacciano controvento schierati in formazioni collettive. Sono noti come i falchi della regina Eleonora.

Allorché ci sediamo sul bordo del terrazzo con le gambe sospese penzoloni dalle mura, prendo la parola in tono sommesso. Mi sforzo di fargli intendere come troppo spesso le aspirazioni dei crociati siano state pervertite e allontanate di proposito dai loro nobili obiettivi. Quante volte sono state esse strumentalizzate a causa di ambizioni di parte, mi chiedo, quanti i compromessi fomentati dai potenti, da uomini attratti unicamente dal possesso di nuovi feudi e ricchezze. Gli porto un chiaro esempio di spedizione travestita da crociata: la quarta crociata del 1202.

Nel corso di questa il governo veneziano riuscì a distogliere i crociati dalla Palestina e dall’Oltremare e lo fece al fine di consolidare la sua affermazione politica ed economica in Romania, per ottenere un incontrastato predominio su tutto il Mediterraneo orientale.

Il doge Enrico Dandolo aveva costruito in cambio di 85000 marchi d'argento la potente flotta che avrebbe dovuto trasportare i crociati in Terra Santa. Dicono che fu uno spettacolo stupefacente la visione di quelle duecento navi nel porto di Venezia, cariche d'armi e di bei cavalli da guerra, con gli scudi vermigli disposti intorno ai parapetti e gli stendardi multicolori spiegati al vento, mentre i cavalieri intonavano estasiati:

«Veni creator spiritus,

mentes tuorum visita,

imple superna gratia,

quae tu creasti pectora».

Però gli animi si raffreddarono subito quando si trattò di fare i conti con i veneziani, perché mancavano ancora 34000 marchi d'argento, nonostante il comandante dei crociati Bonifacio di Monferrato avesse radunato il denaro dai diecimila presenti e nonostante i nobili avessero consegnato perfino il vasellame d'oro e d'argento. In effetti nelle galere e nelle navi da trasporto era stato previsto posto per il triplo degli uomini presenti, mancavano in molti all'appello, rimasti a casa o imbarcati altrove per proprio conto.

I Veneziani erano adusi a leggere il vangelo secondo i propri interessi e sfruttarono quel credito per ricattare i crociati, per sviarli dalla Terra Santa e dirigerli su mete foriere di lucrosi saccheggi, atti a saldare il debito fino all'ultimo marco.

«Il saccheggio di Zara, dal vangelo secondo marco d'argent» commenta Teobaldo.

Vedo che hai capito l'antifona, rispondo. I soldati di Cristo furono trasformati in mercenari di Venezia e nonostante il malcontento generale ci fu quella prima diversione verso la città di Zara, ribelle al dominio di Venezia e aspirante a divenire sua rivale. Caduta la città e ripulita meticolosamente di ogni oggetto di valore, fu concordata una seconda diversione dalla meta originaria, questa volta niente meno che verso lo sfolgorante miraggio di Bisanzio.

Teobaldo si rialza in piedi e lancia un sasso contro il gatto più grasso della compagnia provocando un fuggi fuggi generale dei nostri vicini:

«Bisanzio, la superba Bisanzio. L'incantatrice che avvelena la Cristianità con il lusso e la mollezza. Quella città scismatica era cristiana solamente di nome, il suo imperatore Alessio III era un usurpatore e un ipocrita, sospetto di patti segreti con il Saladino!»

Tutte buone scuse, ribatto. Comunque Bonifacio di Monferrato mosse da terra il primo attacco alla città e fu respinto dai mercenari danesi ed inglesi della guardia varega.

Mercenari contro crociati! esclama lui concitato e sentenzia che quando un impero deve ricorrere ai mercenari vuol dire che è giunto sulla soglia dello sfacelo.

Riprendo con ordine la mia narrazione a partire dai veneziani, rimasti sulle navi e decisi semmai a penetrare dall'estuario che fiancheggiava a nord la città, il Corno d'Oro. Spezzata la grossa catena che ne bloccava l'ingresso essi sbaragliarono presto la flotta bizantina ridotta a poche navi dai legni marci e tarlati, conquistarono diverse torri e incendiarono le case vicine. Il primo uomo a sbarcare fu lo stesso Enrico Dandolo, benché ultra ottantenne e cieco. Il doge stava ritto e armato a prua della sua galera, aveva in mano lo stendardo di San Marco in oro su fondo rosso (quel rosso ocra che traeva colore e origine dalla terra di Sinope) e appena la galera cozzò la banchina, il Doge ordinò a gran voce ai marinai di condurlo subito a terra o altrimenti li avrebbe puniti a dovere.

Teobaldo Spadalunga è attento alla mia descrizione, si sta entusiasmando a sentir parlare di battaglie.

Spiego come dopo un mese si giunse all'assalto decisivo e come i crociati si valsero egregiamente delle macchine da guerra costruite dai veneziani, mangani per il tiro a distanza, trabocchi che lanciavano proiettili al di sopra delle mura, baliste e catapulte, oltre i comuni arieti, le scale e i martinetti. Tra tutti i mezzi d'assedio il più efficace era una piattaforma da combattimento sistemata sugli alberi maestri delle navi, da essa i crociati scendevano mediante scalette di corda e piombavano dall'alto sui nemici appostati nelle mura.

Gli assediati rispondevano agli attacchi con archi e balestre, e lanciavano i proiettili incendiari del cosiddetto fuoco greco, che costringeva i veneziani a coprire in fretta le loro navi con panni inzuppati d'acqua. Una notte poi i greci cercarono di incendiare la flotta nemica sorprendendola nel sonno con dei battelli in fiamme, ma i marinai veneziani furono lesti ad uncinarli e li trascinarono via in zona non pericolosa.

Giorni di duri combattimenti si susseguirono a ritmo serrato finché fu conquistata una torre e vennero avvolte delle funi ai suoi merli, dalle funi altri salirono sulla torre, caddero le torri vicine e infine cadde la città.

«Devo continuare?» chiedo.

«Avanti» mi esorta Teobaldo.

Mi tratteneva il timore di offendere i suoi sentimenti di crociato. Avrei voluto moderare i termini della descrizione, non infierire con particolari raccapriccianti, evitare implicite condanne, usare i toni pacati del sereno distacco che raffredda le passioni legate ad avvenimenti ormai lontani nel tempo ed invece... non riesco a non farmi trascinare dalla cruda violenza delle immagini.

Comincio cautamente col domandargli se ha un'idea di quanto abbagliante fosse lo sfarzo di Bisanzio, la fiera magnificenza dei suoi monumenti, l'aristocratica bellezza dei suoi palazzi, la ricca moltitudine dei negozi e dei magazzini esorbitanti di mercanzie. Non esisteva al mondo città più nobile e raffinata, non un polo di attrazione più fulgido.

Ebbene, i Vandali a confronto dei cristianissimi crociati avrebbero fatto meno danno. Per tre giorni la popolazione fu martoriata da rapine e violenze di ogni genere, migliaia di cittadini vennero uccisi senza motivo e ai più irriducibili vennero ficcati i rospi in gola, una morte orribile. I crociati assalivano i conventi, rincorrevano le monache per i corridoi, stappavano loro le vesti e le violentavano a turno.

La Basilica di Santa Sofia fu spogliata di tutto ciò che si poteva asportare ed il resto fu ridotto a brandelli. I crociati giocavano a dadi sugli altari, bevevano ubriachi dai sacri calici e le prostitute ballavano in chiesa e una di loro cantava canzoni oscene, assisa sul trono del patriarca. Alcuni crociati avevano fatto entrare i muli nella basilica perché volevano caricare l'argento cesellato e l'oro divelto alle decorazioni, ma gli animali erano caduti sul pavimento scivoloso e non riuscivano a rialzarsi, così li avevano trafitti con la spada e avevano insozzato di sangue il luogo sacro.

I sacerdoti venivano sistematicamente minacciati di morte se si rifiutavano di consegnare le reliquie, gli oggetti in assoluto più ricercati e ben valutati. I crociati facevano a gara per impadronirsi del braccio o della mascella di un santo, chi andava fiero del piede di San Cosma, chi ostentava un dente di San Lorenzo, chi la veste della Madonna o una goccia del sangue di Cristo. In compenso, per tre volte fu appiccato il fuoco alla città e furono distrutti irreparabilmente testi unici e preziosissimi, conservati nelle famose biblioteche di Bisanzio.

Certo, a conclusione i veneziani ottennero il saldo del loro debito e intascarono la somma di denaro convenuta e anzi, pretesero in aggiunta la metà dell'ingente bottino accumulato. Detto per inciso, le sculture dei quattro cavalli bronzei che troneggiano sulla facciata della Basilica di S. Marco sono lì a rammentare le prede di guerra di allora.

Sei giri concentrici di petali, rosa rossa in campo bianco: una mattina riporto a Teobaldo il suo scudo, l'ho recuperato nel luogo dell'impiccagione.

Il cavaliere è da solo nella cella che i frati gli hanno assegnato in foresteria. E' seduto sull'unico mobile presente, un letto sbilenco. I frati gli hanno accordato il lusso del letto poiché col dormire in terra sul pagliericcio i suoi dolori al torace si acuivano. A mo' di barella, quattro piccole ruote sono incastrate sulle gambe del letto, il che lo rende trasportabile ovunque ce ne sia bisogno.

Appoggio lo scudo sul pavimento di marmo e distolgo il cavaliere dai tormentosi pensieri in cui come suo solito è immerso:

«Ecco il tuo scudo, è intatto».

«Oh grazie, mon cher».

«Non lasciartelo più sfuggire».

Mi fissa guardingo:

«C'è stato un terremoto, questa notte?».

«Pare di no, io non mi sono accorto di nulla».

«Un prodigio allora?».

«Perché mai?».

«Nel pieno della notte mi sono svegliato di soprassalto, il letto tremava e le ruote cigolavano e si muovevano avanti e indietro, scivolavano nel marmo come fosse vetro e andavano a sbattere contro la parete, e avanti e indietro sempre più rapide. Rischiavo di cadere sul marmo o di sfracellarmi contro la parete, facevo di tutto per rimanere incollato al letto, ho dovuto fare degli sforzi sovrumani per non venirne sbalzato fuori. Ero tutto coperto di sudori freddi. Ho sentito un rimbombo, un ruggito tremendo, come se la terra si scuotesse e si aprisse sotto di me, poi improvvisamente è tornata la calma... e mi sono riaddormentato».

«No, non c'è stato nessun terremoto, te lo sei semplicemente sognato, sei ancora stordito per la gran botta che hai preso in testa».

Osservo Teobaldo nella nuda cella. E' vestito con un rozzo saio del convento. Ci scherzo sopra:

«Hai forse intenzione di farti frate?».

«In pratica, è come se lo fossi».

«Raccontami qualcosa di te. Non mi parli mai della tua vita privata» e mi siedo sul pavimento ad ascoltarlo.

«Ereditai il diritto al cavalierato da una nobile famiglia di Vannes, in Bretagna. Ho quarantun anni e sono il maggiore tra due fratelli, ma come cavaliere feci voto di povertà rinunciando al feudo della famiglia in favore del fratello minore. Partii da casa a diciotto anni e andai errando per la Francia. Alcuni mesi dopo ero già in procinto di partire per la crociata, che come si sa è viaggio oltremodo lungo e incerto, per cui volli prima salutare la mia famiglia. Cavalcai giorno e notte, attraversai il Ducato di Aquitania, superai a Nantes le acque della Loira e giunsi stremato in Bretagna.

Avevo avvistato i dolmen e i menhir, finalmente ero nelle vicinanze di Vannes. Arrivai davanti al cancello di casa mia, ma con sorpresa lo trovai sbarrato, il passaggio era bloccato da quattro guardie armate e minacciose. Feci loro presente che ero il fratello maggiore ma queste non vollero sentir ragioni, avevano ricevuto ordine perentorio di non lasciarmi passare, mio fratello temeva che fossi tornato a rivendicare i possedimenti della famiglia. Quel pomeriggio mi sarei accontentato di un letto per riposarmi dall'estrema stanchezza, mi sarebbe bastato un po' di zuppa per rifocillarmi e invece mi avevano sbattuto la porta in faccia.

Amareggiato, girai il mio cavallo e me ne tornai via. C'era la bassa marea, le spiagge avevano acquistato una smisurata profondità e si erano ricoperte di alghe scure. Il granito rosa delle scogliere mutava colore al tramonto e sulle rocce si stampavano ombre viola, grigio perla e blu notte; calato il sole, forme inquietanti s'impossessarono dei profili creati dall'erosione, vedevo le silhouette di enormi diavoli e streghe, di mostri e draghi spaventosi.

Dov'erano finite le amate scogliere della mia fanciullezza, avevo forse vissuto in sogno la mia vita? Improvvisamente il mio paese, la mia gente, la famiglia in cui ero cresciuto, tutto mi appariva estraneo e mi faceva sentire un intruso».

Come mai - rimugino fra me - un uomo ricco, affascinante e coraggioso come lui, ha voluto abbandonare ogni cosa per una vita di privazioni?

«Dimmi Teobaldo, se ti è lecito farmene confidenza, cosa ti ha spinto ad abbracciare la cavalleria crociata?»

«Un amore infelice per una ragazza della Bretagna. Si chiamava Aretusa. La vidi per la prima volta mentre assisteva al nostro torneo. Eravamo quindici contro quindici in una finta battaglia senza spargimento di sangue, la mia squadra ottenne la resa degli avversari e li catturammo tutti, io mi ero messo particolarmente in mostra e alla fine del torneo andai al palco della fanciulla per renderle omaggio. Lei mi sorrise e mi gettò in pegno il suo fazzoletto carminio. Da allora presi i suoi colori e mi vestii sempre di rosso.

Suo padre però non accettò mai la mia corte. Fu irremovibile, aveva già deciso di darla in sposa ad un altro, un certo Odoardo».

«Ma lei lo amava?».

«No, Aretusa non lo amava affatto e si rifiutò di obbedire al padre, che per castigo la recluse nel palazzo».

«Perché la ragazza non ha fatto ricorso al tribunale ecclesiastico?».

«In Francia i preti non difendono le donne che denunciano nozze forzate, il consenso all'unione è diritto primario dei genitori».

«Potevi rapirla».

«Ci ho provato... una volta, ma il tentativo è fallito. Credimi, ho fatto di tutto per impedire che quel matrimonio andasse in porto. Ho perfino sfidato Odoardo ad una giostra, volevo incontrarlo a cavallo in duello armato, l'avrei disarcionato e combattuto a terra, vinto al giudizio dei punti e umiliato davanti agli occhi di Aretusa, ma quel vile ha rifiutato di misurarsi. In preda al più cupo sconforto, ho deciso di andarmene lontano dalla Bretagna e di prendere i voti cavallereschi; voto di castità compreso, pure quello, tanto non potevo avere in mente altra donna all'infuori di lei».

«Davvero la gente si sbaglia quando dice che i Bretoni sono incostanti e volubili».

«Ora vivo di ricordi, dei dolcissimi momenti trascorsi con lei alla fonte... L'acqua sgorgava da sotto le rocce ricoperte di muschio e, ben nascosta dalla fitta vegetazione, ella si bagnava nuda con me in mezzo al galleggiare delle ninfee. Avrei voluto mutare me stesso in acqua e avvolgere per intero ogni centimetro della sua pelle, toccare nello stesso istante davanti dietro e a lato ogni rotondità del suo corpo, lambire ogni piega dei suoi arti, agitare come alghe i suoi capelli e inumidire come muschio il suo pube. Che bello! Essere fresca limpida corrente che accarezza l'intimo delle sue cosce e dolcemente culla il suo peso su invisibili braccia d'acqua che appena increspano la superficie.

Invece per mala sorte, un demone invidioso si è impossessato di quelle acque, l'ha terrorizzata chiamandola ripetutamente per nome, l'ha risucchiata e inghiottita nel vortice di un gorgo senza ritorno. Irrimediabilmente preclusa ai miei sensi, ella espia la mia inabile virtù. Mai più le mie mani potranno raggiungerla, le acque di quella fonte sono sprofondate tumultuosamente nell’oscurità della terra e si sono immerse in caverne insondabili e inarrivabili.

Oh mia Aretusa, fonte proibita che sei dolce nel momento d'amore e amara nel ricordo».
 
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Oggi è l'ultimo giorno. La nostra permanenza tra i frati è al termine. Nella spoglia chiesetta del monastero, Teobaldo fissa nel vuoto con i suoi occhi cinerei, sembra che sogni il sogno di un orizzonte illimitato. Mi inginocchio al suo fianco:

«Hai negli occhi la Terra Santa?».

«Sì... Quando vi sbarcai per la prima volta fui sconcertato da quel deserto di arida sabbia, raramente interrotto da oasi di palme e melograni e verdi alberi da frutto. La conformazione del territorio era esattamente speculare a quella dell'Argoat, il mio paese delle foreste, che è una sconfinata distesa di alberi interrotta da poche radure abitate. Ma col tempo lo smisurato silenzio del deserto mi affascinò.

Laggiù le piste si perdono dritte davanti a te a perdita d'occhio e la terra riempie ovunque lo spazio, tutto intorno, fino al cerchio lontano dell'orizzonte. La sabbia è rosso-dorata oppure bianca e finissima, pulita, i granelli scorrono fra le dita come acqua. Le dune sembrano immobili e invece il vento le sposta in modo impercettibile, ne cambia continuamente il profilo e la notte, quando giganteggia la luna piena, un gioco di ombre le trasforma in un mare di onde di cristallo.

Nel deserto non c'è nulla, quel che ti pare di scorgere è soltanto un miraggio lontano, acqua che non esiste, golfi, insenature, isole illusorie, carovane di cammelli che non si avvicineranno mai. Eppure il deserto vive e non solo nell'effimero rinverdire che segue il prodigio di una pioggia: il deserto miracolosamente vive nel pulsare delle città dei bambini. Ho ancora impressi negli occhi i ragazzini che uscivano a nugoli dalle rovine degli insediamenti cristiani, piccole oasi di speranza nel cuore del deserto».

Nel raccoglimento della chiesetta decido di mettere al corrente l'amico delle mie disavventure con la Santa Inquisizione:

«Teobaldo, sono ricercato dall'Inquisizione per colpa della stregoneria».

Egli si volge a fissarmi preoccupato:

«Mon Dieu! La stregoneria proviene da Lucifero, in principio una gemma di luce era al centro del suo diadema, ma si è staccata quando l'angelo più splendente del cielo è precipitato nell'abisso a causa della sua superbia».

«Il profeta Isaia» accenno dalla Bibbia.

«Come sei caduto dal cielo, o Lucifero che nascevi all'aurora! Sei stato abbattuto a terra, tu seduttore delle genti, tu che dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al di sopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono, sederò sulla sommità delle nuvole e sarò simile all'Altissimo! Sarai invece trascinato negli Inferi, nel profondo della fossa».

Teobaldo rimane per un po' in preghiera in ginocchio sul banco. Poi, siccome gli ho salvato la vita si sente in dovere di sdebitarsi e decide di aiutarmi. Mi rivela una confidenza fattagli di recente dai monaci:

«Il 21 giugno, alla vigilia del Corpus Domini, i crociati di Kolossi prenderanno dal loro forziere un calice dorato e lo porteranno segretamente nella cappella di San Eustathios, chiesetta che appartiene ai monaci e sta entro le mura del cortile, sul davanti della fortezza. Nel pomeriggio i signorotti del castello vi si recheranno per l'adorazione.

La coppa era di proprietà della famiglia veneziana dei Morosini, di quella parte di loro che si era trasferita a Bisanzio. Un avo del Doge Morosini la ricevette in dono di nozze quando sposò la figlia del re d'Ungheria. A Bisanzio rappresentava l'oggetto più prezioso della comunità veneziana: ha un valore inestimabile, è tutta in oro finissimo, rubini grossi come mandorle ne adornano in cerchio il bordo superiore e a metà manico, da parte a parte, v'è incastonato un diamante giallo che brilla degli stessi riflessi dell'oro, si tratta di una pietra enorme ed appartiene ad una varietà estremamente rara.

Nel lontano 1171 a seguito dei soliti tumulti tra la colonia veneziana e quella genovese, le guardie dell'imperatore Manuele Comneno avevano colto il pretesto per precipitarsi ad arrestare i Veneziani di Bisanzio e sequestrare loro tutti i beni. Fra gli oggetti tolti ai Veneziani c'era appunto il calice dei Morosini che finì nel tesoro della Basilica di Santa Sofia e lì rimase».

«Come mai è finito a Kolossi?».

«Con la caduta di Bisanzio ed il sacco della città da parte dei crociati, il calice cadde nelle mani degli Ospitalieri che lo trasferirono nella loro sede di Cipro, la fortezza di Kolossi.

Se tu vuoi riscattarti, impadronisciti della coppa d'oro e riportala al Doge Morosini, in tal modo ti sarà facile ottenere i suoi favori e la libertà, o per lo meno una pena meno grave poiché sei spontaneamente comparso a riconoscere il tuo errore. La notte del 21 giugno dovrai agire da solo, io non posso entrare con te nel castello, mi riconoscerebbero subito.

Non puoi fuggire tutta la vita, è ora di tornare nella tua città a chiedere umilmente perdono».

«Sì, hai ragione, devo tornare a Venezia e affrontare le mie responsabilità, ci sono obiettivi nella vita di un uomo a cui non si può sfuggire. Ti ringrazio per avermi indicato la via giusta».

«Non devi ringraziare me, le giuste aspirazioni nascono dentro l'Anima del Mondo» mentre i suoi occhi cinerei tornano a guardare lontano.

Viene l'ora di separarci e di continuare ognuno per la sua strada. Ci avviamo insieme al portone principale del monastero. Martedì scorso, a sua insaputa, avevo venduto al mercato di Limassol i due preziosi speroni cesellati in cambio di uno scudo d'oro, la moneta francese di re Luigi. Però adesso, dopo la sua confidenza sul calice Morosini e le amichevoli esortazioni a redimermi, mi sento tremendamente in colpa. Appena raggiunto il portone del monastero decido di tornargli lo scudo francese e mi scuso per quell'azione indegna:

«Questo è l'oro dei tuoi speroni servirà per ricomprarti la spada, ti prego di perdonarmi».

Teobaldo prende la moneta senza replicare. Ha il capo fasciato da una benda, tiene lo scudo da crociato al gomito e indossa la veste scarlatta sopra la maglia ferrata. I monaci chiudono alle nostre spalle il pesante portone.

Al momento del congedo definitivo, veniamo raggiunti dagli occhi supplicanti di un giovane ragazzo che striscia verso di noi reggendosi sulle braccia tese poiché i suoi arti inferiori, rattrappiti e deformati dalla malattia, sono ridotti ad inutili appendici. Teobaldo, tira fuori lo scudo d'oro e lo consegna al ragazzo.

«Dove andrai Teobaldo Spadalunga?» gli chiedo nascondendo a stento la commozione.

«In Terra Santa. Laggiù ho ancora un compito da svolgere» risponde sorridendo.


* * *


Osserverò per prima cosa l'ubicazione della chiesetta di San Eustathios e le abitudini del sacrestano, devo elaborare un piano molto accurato se voglio impadronirmi del calice senza correre rischi. Vestito da frate, attenderò dentro il confessionale il giro di chiusura del sacrestano e mi metterò il più possibile all'interno del confessionale, starò schiacciato nell'angolino dietro la tenda sicché, semmai gli venisse in mente di controllare, anche spostando la tenda non mi vedrebbe, e se per maledetta sfortuna mi dovesse proprio scoprire, posso sempre dire che sono un frate di passaggio. Poi, a notte inoltrata, esco dal confessionale, forzo la porticina dell'altare con il piede di porco e mi impadronisco del calice ingemmato. Semplice! Per uscire basterà togliere la spranga dal catenaccio del portone principale, la porta laterale viene sempre chiusa a chiave... ma accidenti, se c'è un giro di chiave anche nel portone principale, sono spacciato! Non è detto, basta avere un arnese affilatissimo con cui intaccare il legno, mi devo portare dietro anche uno scalpello. Posso lavorare comodamente tutta la notte intorno alla serratura, ammorbidire e carbonizzare il legno col fuoco dei ceri... finisco con tutta calma il lavoretto ed entro le prime luci dell'alba la serratura è già divelta. Mi resta soltanto da uscire dalla chiesetta, il ponte levatoio viene regolarmente abbassato al mattino presto.

Se però i crociati di guardia alle mura mi dovessero vedere nel momento in cui esco dalla chiesetta? Finirei impiccato. La paura mi stringe un nodo alla gola.

Arriva subito il 21 giugno, vigilia della grande festa del Corpus Domini. Nel pomeriggio mi mescolo alla folla del castello. Il vasto cortile antistante è cinto tutto intorno dalla cerchia di mura esterne che partono dai due angoli della facciata nord della fortezza. Ho sottratto ai monaci di Sant'Elena un saio dalle maniche svasate e ampie fin quasi a toccare terra.

Il Granmaestro degli Ospitalieri ed i signori di Kolossi hanno terminato l'adorazione preliminare e con gran boria se ne escono dalla chiesetta dei monaci; controllo che nelle immediate vicinanze non vi sia alcuna sorveglianza armata, tutto è calmo come nelle sere precedenti; osservando bene da lontano mi accerto che non entri più nessuno e in orario prossimo alla chiusura muovo spedito verso il suo portone.

Entro. All'interno, le fresche pareti imbiancate. Sono spoglie. Semplicemente una preziosa icona dell'arcangelo Raffele ricorda la sacralità del luogo. E' sopra l'altare. Ritto in piedi con due brocche, l'arcangelo alato solleva un gomito per travasare il vino dalla brocca d'argento alla brocca d'oro che sorregge in basso con l'altra mano. E' una raffigurazione molto elegante, con i colori scelti egregiamente.

La cappella è deserta. Mi dirigo verso il confessionale e mi siedo ad attendere dietro le tende rettangolari. D'improvviso sento dei passi pesanti e decisi, devono essere dei crociati, sussulto dallo spavento e rabbrividisco sotto la tonaca. Li sento inginocchiare con un tonfo, la punta delle loro spade batte sul pavimento, il silenzio amplifica i minimi rumori. Intuisco che si dirigono all'altare, sento sbattere e richiudere a chiave la porticina metallica, dietro è nascosto il calice, probabilmente ne controllano la presenza.

Tutto il piano è andato in fumo. Di nuovo i passi pesanti, si stanno avvicinando al confessionale. Sono paralizzato dalla paura.

Un crociato sposta la tenda col guanto:

«Padre, ho bisogno di confessarmi».

Non fiato per timore di avere la voce tremante.

Il crociato si inginocchia sul pavimento a lato della tenda e comincia con voce lamentosa:

«Devo confessarle un peccato, è successo una settimana fa dopo gli scontri sotto la fortezza. Deve comprendere, ero ancora eccitato dalla frenesia della battaglia, avevo combattuto in duello con un cavaliere, l'avevo ferito al braccio e stavo per ucciderlo ma è riuscito a sfuggirmi grazie all'intervento del suo scudiero.

Noi avevamo vinto, piegato definitivamente gli avversari e ancora sporchi di sangue ci siamo lanciati al saccheggio di Palamidi, l'ultimo covo dei ribelli».

«Vieni al sodo, io non capisco molto bene il Francese» con un filo di voce.

«Voilà. In compagnia del mio scudiero mi sono precipitato a Palamidi alla ricerca del cavaliere che avevo ferito, sapevo bene dove abitava...

Aveva una ricca casa di pietra. Lo stemma scolpito sopra il portone era un mostriciattolo, donna nella meta superiore e serpente dall'ombelico in giù. All'interno lui non c'era. Abbiamo trovato sua moglie, teneva fra le braccia un bambino di pochi anni. Lo scudiero le ha strappato dalle mani il bambino, io l'ho preso per i capelli e ho minacciato di sgozzarlo con la spada se la moglie non mi avesse consegnato tutto il denaro. Terrorizzata, è subito corsa a tirar fuori uno scrigno da sotto il focolare e l'ha messo sul tavolo. Conteneva monete d'argento e qualche gioiello.

Poi ho voluto controllare se il marito ferito fosse nascosto in casa, ho spalancato un armadio, e niente, ho aperto una cassapanca e sorpresa, ho trovato dentro una ragazza rannicchiata. Era la figlia sedicenne del cavaliere, pallida di paura. L'ho tirata fuori per un braccio. E' stata colpa sua: si era nascosta come un serpente e la cosa mi ha irritato, se si fosse mostrata subito non mi sarei sognato di toccarla, così invece... le ho strappato la veste con uno strattone e l'ho violentata lì per terra».

«La ragazza ha fatto resistenza?» chiedo.

Il crociato fa una breve pausa, non si aspettava che questo particolare potesse interessare al confessore:

«All'inizio sì, si divincolava e contorceva le gambe, ma poi le ho dato un ceffone col guanto ferrato e si è lasciata allargare le ginocchia».

«Avevi ancora addosso l'armatura?».

«Ero in guerra padre, portavo ancora l'elmo e la maglia ferrata».

Fa un'altra pausa.

«E' finita la confessione?» chiedo.

«No».

«Avanti allora».

«La madre, che assisteva alla scena, ha tirato fuori un coltellaccio dalla cucina e mentre ero offuscato dal piacere è scivolata alle mie spalle per tentare di sorprendermi. Ma il mio fido scudiero si è accorto appena in tempo e girandosi di scatto ha estratto la spada dal fodero e gliel'ha puntata sul cuore. Io mi sono rialzato, ho ordinato alla donna di consegnarmi il coltello e con un sorriso malevolo ho fatto cenno al mio scudiero di godersi pure la figlia».

«Poi?».

«Ho atteso con calma che lo scudiero finisse, ho fatto sedere la madre sul bordo del tavolo e l'ho stesa giù con la schiena, aveva dei grossi seni, poi... poi le ho tagliato la veste col coltello e le ho fatto un piccolo sfregio sulla pelle di un seno... ho piantato la punta del coltello sul legno del tavolo e da in piedi l'ho violentata».

«La condizione di cavaliere ti obbliga alla difesa dei deboli, non ad approfittarti di loro, devi ricordare che il tuo ordine non è solo militare ma anche monastico». Taglio corto perché non voglio addentrarmi nel catechismo, un campo dove per ignoranza potrei dire qualche sproposito. Borbotto l'assoluzione. Non vedo l'ora che se ne vada, per penitenza gli ordino solo tre avemarie.

Se la cava con poco, meriterebbe le multe salatissime che sono in vigore a Venezia. Qui invece, chi rischia la peggior punizione sono io: avendo ascoltato una confessione e avendo assolto un penitente senza essere sacerdote, ho sufficienti motivi per farmi consegnare in direttissima al braccio secolare.

Il crociato si congeda. Scosto in fessura la tenda e vedo che finito di pregare va all'esterno a raggiungere il compagno a guardia della cappella. Ha richiuso il portone alle sue spalle.

Devo agire subito, adesso o mai più. Il sacrestano non ha ancora fatto il giro, devo anticiparlo.

Rapido mi dirigo all'altare, sono davanti alla porticina metallica, uso la mia sbarra incurvata e col minimo rumore faccio saltare la serratura: splendente oro massiccio, sul bordo superiore una moltitudine di rubini che brilla alla luce soffusa delle candele, ai quattro lati quattro grossi smeraldi e incastonato a meta manico... un magnifico diamante dai riflessi dorati, enorme, raggiante come la stella del mattino che annuncia l'aurora.

Nonostante l'incombente pericolo indugio a rimirare incantato la pregevole manifattura del calice: porta incise in rilievo delle figure di spighe di grano, un lavoro d'artista dal disegno ben riuscito ed accurato ma purtroppo destinato a sfuggire all'attenzione della gente, penso fra me.

Il calice è vuoto. Lo corico mentre la mano sinistra ne sorregge il peso e infilo il pugno entro la sua concavità. Ho incrociato i polsi a manicotto e li premo contro l'addome contratto, il calice è ben nascosto entro le ampie maniche che pendono fino alle ginocchia.

Guardo verso il portone d'uscita. Lungo il pavimento faccio le prove per quella che dovrebbe essere una camminata disinvolta. Con l'aiuto di un gomito apro in fessura il portone e lo spalanco poi con la punta del piede.

Le due guardie oseranno perquisire un frate? Sono una per parte di fianco al portone. Passo in mezzo a loro senza cappuccio e con gli avambracci ben incrociati. L'Ospitaliere che ho appena confessato mi saluta riverente, gli rispondo con un cenno del capo.

Faccio quattro cinque passi e mi blocco, mi giro su me stesso, fisso il crociato dritto in mezzo agli occhi finché vi scorgo dei segni di imbarazzo, quindi gli dico severo:

«Mi raccomando, fate bene la guardia al calice, è molto prezioso!»

Il ponte levatoio è ancora abbassato, ancora per poco, comincia già ad imbrunire. Lo attraverso in scioltezza. Le sentinelle non mi degnano di uno sguardo. Un secondo dopo possono vedere soltanto le mie spalle.

E' fatta, ha funzionato, e non so che santo ringraziare... beh, potrei ringraziare il dio Mercurio, protettore dei ladri. Anche se in realtà, sto semplicemente riportando il calice Morosini al suo legittimo proprietario. Dopo un duecento metri tolgo il saio, ne strappo il cappuccio per inserirvi la coppa e avvolgo il rimanente su di una pietra che getto nel fosso. Dai cespugli mi giro a contemplare il ponte levatoio mentre viene sollevato, le prime ombre della sera conferivano alcunché di fosco ai contorni del castello.
 
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Il 25 giugno è atteso a Paphos lo scalo della carovana partita in agosto da Venezia e ora sulla rotta di ritorno dopo aver svernato in Oltremare nella città di Acri.

In groppa alla mia fedele cavalcatura, ho raggiunto il porto di Paphos dopo un'intera notte di viaggio. Mentre aspetto con impazienza l'arrivo della carovana ho dovuto sacrificare il docile compagno dalle lunghe orecchie, l'asinello che come me rimpiange il dolce peso di Rézia. L'ho venduto a dei contadini. Volevano macellarlo a tutti costi ma non l'hanno fatto, sono riuscito a convincerli ad usarlo come animale da lavoro. L'asino aveva denti ancora buoni, gli ho scurito il pelo con un colorante e l'ho spacciato per un cucciolo della Catalogna, invano i villici avrebbero atteso che crescesse per diventare enorme e forzuto.

In questi giorni di trepida attesa ho avuto il piacere di conoscere un uomo sicuramente più forte di qualsiasi animale da soma. Nel porto lo si nota subito, è parecchio grosso, di corporatura robusta e massiccia, muscoloso ben al di sopra della media. Sale in bilico sulle passerelle del molo e scarica a bordo la merce. Indossa una tunica logora che gli arriva al ginocchio e tiene i piedi scalzi per meglio aderire ai gradini abbozzati sul dorso delle passerelle.

E' un cipriota, uno scaricatore di porto, e nel vederlo trasportare sulle spalle quei sacchi pesantissimi non si può esimersi dal manifestargli ammirazione:

«Chi sei per sollevare pesi del genere? Ercole in persona?».

«Ellah, veneziano» il greco mi saluta con entusiasmo senza rilasciare quella rigidezza muscolare che fa sembrare esagerato e sovrabbondante di energia ogni suo movimento. «Riconosco il tuo accento, ho navigato su navi veneziane» dice in Francese continuando a lavorare.

Quando finisce di caricare i sacchi sulla nave si concede una pausa e mi viene vicino, la fronte gronda un sudore che odora di legno di sandalo e i muscoli delle mandibole gli guizzano nervosamente sotto la pelle:

«Amico mio! Tu conosci le fatiche d'Ercole?».

«Beh, la fatica del cervo...».

«Non del cervo, la fatica della cerva dalle corna d'oro!» precisa.

«Sulla facciata della Basilica di Venezia c'è un Eracle piuttosto gracile che porta una cerva sulle spalle, è scolpito in un bassorilievo, un genere di rilievo appiattito ispirato ai codici tedeschi; io nella Basilica ci lavoro però a dire il vero nessuno mi ha mai raccontato la fatica nei suoi particolari».

«Te la racconterò io, Erimanzio - stringendomi con forza la mano come se avesse intenzione di stritolarmi le ossa -. Ercole mosse alla cattura della cerva di Cerinea confidando nella sua forza prorompente, armato di una clava ricavata da un tronco di oleastro e protetto dall’invulnerabile pelliccia del famoso leone Nemeo. La cerva era consacrata ad Artemide ed era empio non solo ucciderla, ma anche semplicemente toccarla. Le sue corna d'oro avevano attirato l'attenzione della dea come pure le sue quattro magnifiche ed enormi compagne, ma mentre queste ultime erano state catturate ed aggiogate alla quadriga divina, la cerva di Cerinea era riuscita a mettersi in salvo».

«Le cerve non hanno corna, poteva trattarsi unicamente di una renna, la sola specie che si adatti al traino di un carro e la sola in cui la femmina sia cornuta» puntualizzo a mia volta.

«Non è vero, mia moglie non è una renna eppure ti assicuro che le corna le ha.

Chiamala come vuoi, la cerva possedeva zoccoli di bronzo incredibilmente veloci e aveva corna d'oro lucenti come i raggi del sole. Il monte di Cerinea era avvolto in un alone carico di mistero, Ercole percepiva la costante presenza di un qualcosa di incorporeo che condizionava i suoi passi. Egli inseguiva sul fango impronte eccezionalmente grandi e profonde, si fermava davanti i segni lasciati sulle cortecce da denti terribilmente aguzzi, la cerva rimaneva però confusa nel fitto fogliame. Per un anno intero Ercole s’impegnò in una difficile e affannosa ricerca, finché un giorno riuscì a stanarla... ma la cerva non si lasciò domare e balzò via veloce e irraggiungibile.

Lontan d'ogni sentiero ora scendeva ora saliva, valli e monti essa varcò, attraversava in un lampo infinite foreste ed Ercole fu costretto in luoghi ostili e selvaggi pur di seguire le sue tracce. Solo di tanto in tanto, sulle cime delle colline dirette a settentrione, egli poteva veder luccicare in lontananza le corna d'oro della cerva. Imperterrito Ercole continuava ad inseguirla. Attraversò l'Istria, varcò il Po, si inoltrò a nord lungo la via dell'ambra e arrivò fin nel paese degli Iperborei, agli estremi confini lambiti dal Mar Baltico.

Lassù egli la raggiunse, in un giardino ove crescevano degli alberi carichi di splendide mele d'oro. Tese fra quei rami la sua rete e riuscì a catturarla senza recarle offesa. Quindi, con il benevolo permesso di Artemide, Ercole caricò la cerva sulle proprie spalle e la riportò in Grecia».

Arriva un carro ricolmo di sacchi e si ferma poco distante, il conducente scende. Seguo Erimanzio che si avvia silenziosamente verso il carico.

Gli parlo alle spalle:

«Ho capito, il racconto deve avere un significato allegorico, mi spiego, hai presente l'Unicorno?».

«No».

Ai bordi del carro Erimanzio piega il ginocchio verso un sacco che pesa oltre il quintale, emette un grido soffocato, contrae l'addome e con uno sforzo poderoso alza il sacco sulla spalla destra. I muscoli del dorso si gonfiano, le vene del collo si inturgidiscono e le sue braccia possenti stringono il sacco come morse d'acciaio.

Cammino al suo fianco mentre si dirige con il carico verso la passerella:

«Mi ascolti?- con voce stridula - Si dice viva nelle Indie, ha un unico corno sulla fronte, grosse zampe da elefante, pelle glabra e molto spessa simile a un'armatura. E' raffigurato sul pavimento della Basilica di Venezia e ti assicuro, non è il docile animaletto che il popolo si figura in braccio alle vergini».

«E allora?».

Erimanzio si blocca a un passo dalla passerella e scaraventa a terra il sacco, visibilmente irritato.

«Allora, -proseguo- come l'introvabile unicorno è immagine dello Spirito così la renna dalle corna d'oro è immagine dell'Anima. Ne deriva, se permetti, che la virtù di Ercole non va intesa nel senso della forza fisica, bensì nel senso della forza d'animo».

«Non hai capito un corno! - Esplode gesticolando con le grosse mani. - Come poteva caricare la cerva sulle spalle senza avere muscoli eccezionali? Una cerva enorme e pesante come quella! Cinque uomini robusti non bastano a sollevarla un millimetro da terra. Hai mai visto la forza d'animo sollevare qualcosa?».

«Ma, ascolta...».

«E poi, - concitato - senza le sue gambe grosse e super resistenti ti sembra che Ercole avrebbe potuto inseguire la cerva per mezzo mondo?».

«L'anima sta al corpo come l'intenzione di camminare alle gambe» cerco di spiegare.

Alza le spalle:

«Seghe mentali, seghe mentali... la filosofia dei rammolliti».


* * *


Il 25 giugno non avrei potuto festeggiare meglio il patrono: mentre oggi a Venezia si celebra il giorno di San Marco a Paphos pronuncio davanti al capitano il giuramento prescritto dal codice d'imbarco e puntuale salgo a bordo della carovana.

La mia nave reca mercanzie, le meno voluminose ma le più preziose. E' una galera leggera, mezzo di trasporto molto caro ma altrettanto sicuro, le galere veneziane sono infatti veloci e facili da manovrare e sono in grado di controbattere efficacemente gli attacchi dei pirati. Dai fianchi dello scafo lungo e stretto sporgono le scalmiere che alloggiano il ginocchio del remo. E' una bireme, nel senso che per ogni banco ci sono due uomini, uno accanto all'altro e ciascuno con un proprio remo. Per sfruttare al massimo la disponibilità di posti, ai remi non ci sono degli schiavi ma scalognati passeggeri che si pagano il viaggio remando. Pur essendo adibita a fini mercantili la nave è armata, nel senso che ciascuno degli ottanta uomini di equipaggio deve essere provvisto di scudo, elmo e cotta di maglia; le armi a disposizione consistono in spade, lance e pugnali... soprattutto armi bianche perché il corpo a corpo è decisivo sia negli assalti di una flotta nemica sia per difendersi dai pirati all'arrembaggio.

La stiva è carica del profumo delle spezie che arrivano dall'Oriente e dai lontani mercati dell'India. Un naso esperto vi potrebbe riconoscere ed isolare ciascuna fragranza: la corteccia aromatica della cannella, il pepe, lo zenzero pungente, la noce moscata, i boccioli dissecati dei chiodi di garofano, il cumino, il coriandolo. Sono tutte spezie ricercatissime, richieste da un enorme mercato e pagate a peso d'oro. Il pepe, pur essendo il meno costoso, è quello più resistente al trasporto e le grandi quantità che arrivano in occidente non sono mai sufficienti, tanto che in molte località i diritti di transito sono pagabili in pepe, come pure le imposte e le ammende. Le spezie vengono adoperate per preservare dal deterioramento le carni e gli insaccati, per insaporire i cibi o aromatizzare il vino cotto. Alcune sono utilizzate come droghe medicinali, tipo la noce di galla e la costosa canfora di Sumatra, tipo l'ossido di zinco usato per la cura degli occhi o lo zucchero dalle proprietà sedative.

Un effluvio dolciastro emana dai legni pregiati: aloe odoroso dell’Indocina, sandalo dalle inebrianti varietà bianca e rossa. Col nerissimo ebano si fanno calamai e anche dal verzino si ottiene dell'ottimo legname. L'incenso viene prodotto con l'ausilio degli alberi incidendo col coltello certe cortecce e raccogliendone le gocce resinose; del pari il balsamo è secreto dagli alberi sotto forma di un liquido che a contatto dell'aria diviene vischioso e solido. Ci sono ovviamente i profumi veri e propri, tipo il benzoino o l'ambra grigia, quest'ultima ha l'effetto di un potente afrodisiaco e viene ricavata da una formazione calcolosa del capodoglio, un cetaceo delle coste tropicali del Madagascar.

Il cotone a fiocchi figura nelle capienti stive delle altre navi, da noi al posto della bambagia c'è la bambasina, un cotone più pregiato intessuto in maniera finissima. Abbiamo a bordo anche i coloranti per le stoffe, come la radice rossa di robbia o la gomma lacca. E per concludere in bellezza, ecco il nostro forziere. Le pietre preziose giunte espressamente dall'isola di Ceylon: topazi, zaffiri, granate, ametiste. Le perle dei cacciatori di ostriche e gli enormi diamanti del Deccan e i turchesi del Khorassan, i lapislazzuli della Tartaria.

Tutte queste merci sono state caricate nel porto di San Giovanni d'Acri, capitale del regno di Gerusalemme dopo che la città santa è caduta definitivamente in mano mussulmana. Acri è un centro commerciale attivissimo in cui trovano posto tutte le colonie dei latini, cioè i Pisani, gli Amalfitani e soprattutto, in perpetua discordia coi veneziani, i ricchi coloni Genovesi. La città importa dall'Europa le merci di scambio che i veneziani acquistano nel Baltico e nell'Europa settentrionale, ossia ambra, pelli, pellicce e i pregiati tessuti delle Fiandre.

Nell'entroterra siriano c'è l'altro importantissimo nodo commerciale di Damasco, capolinea delle grandi piste carovaniere provenienti dall'Oriente. Due sono le piste principali che collegano la lontana India con la città: una di esse risale il corso del fiume Indo, supera i colli dell'Hinducush, prosegue nel Khorassan persiano e poi, attraverso Bagdad, costeggia il fiume Eufrate raggiungendo la Siria.

L'altra pista, via mare dalle Indie, raggiunge a ovest il golfo stretto tra continente africano ed asiatico e fa tappa in Arabia nel porto di Aden. Le sue navi risalgono poi le coste del Mar Rosso parallelamente alla lunga barriera rocciosa che argina il deserto arabico, quindi sbarca a La Mecca e prosegue via terra nel Mare di Sabbia a dorso di cammello fino a Damasco.

La Via della seta, grande itinerario terrestre, è invece riservata al broccato, alla mussolina, alle balle di seta greggia e ai drappi lavorati in oro. Il viaggio delle carovane dura circa dieci mesi, parte in Cina da Shangai, attraversa il deserto del Gobi, sfiora Samarkanda e poi raggiunge le rive del Mar Caspio.

Dalla Cina arriva anche il carbon fossile. Per i Veneziani è una semplice curiosità, cioè una pietra nera estratta dalla montagna che arde mantenendo fuoco e calore molto meglio della legna, però presso i cinesi pare sia un materiale usatissimo per scaldare le stufe.

La cosa più bizzarra, la salamandra, arriva dalla Mongolia. Bisogna sapere che essa non è l'anfibio che vive nel fuoco senza bruciarsi, come risulta comune credenza, la salamandra è invece un metallo incombustibile che si estrae dai giacimenti dell'Altai. Il suo vero nome è amianto e si estrae in filamenti flessibili che messi nel fuoco diventano bianchi come la neve. I mongoli vi fabbricano delle tovaglie di tessuto resistente al fuoco sicché, quando le tovaglie si macchiano o si insudiciano, le mettono sul fuoco e le lasciano temprare finché tornano candide.

Messaggero delle inesauribili meraviglie del Levante, lo stormo delle navi veneziane migra da Cipro diretto a Occidente. Le ore di sole sono tante, l'afa di fine giugno è insopportabile e la scalogna di dover remare col caldo vi assicuro è una cosa esasperante. Per fortuna, verso la prima meta di luglio si leva un vento favorevole che gonfia le vele e ci spinge verso l'Anatolia alla costante velocità di quattro nodi.
 
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La leonessa dei mari
Capitolo V


Lasciamo il porto alle nostre spalle. Un altro stretto, questa volta tra le coste della Caria e la fruttifera Kos, l'isola ove Ippocrate giurava ad Apollo. Anticamente vi sorgeva l'Asklepeion, centro insieme medico e religioso dedicato ad Esculapio. L'Asklepeion domina ancor oggi da un'alta collina. Un tempo le sue tre enormi terrazze erano gremite di statue e torme di maestri e allievi nell'arte medica e, ovviamente, di malati con ogni genere di affezioni. Come Rodi e Kos ciascuna delle dodici meravigliose isole del Dodecanneso è in realtà un mondo a sé, ciascuna con la propria peculiare atmosfera raccolta intorno ad un corredo mitologico esclusivo.

Sfiorando l'Anatolia in direzione nord, la nave solca un mare dalle stupende sfumature: gli scogli disegnano sott'acqua macchie di indaco, seguono a distanza strisce di verde chiaro e grigioverde e all'orizzonte un verde smeraldo intenso. In mezzo a quel tripudio di colori attendiamo l'avvistamento della foce del Meandro, il cui bacino fluviale era anticamente abitato dalla tribù dei Carii. Dall'originaria sede iperborea, essi erano migrati a est sotto la guida di Telmisso e presso un'ansa del fiume avevano fondato la città di Laodicea.

Un canuto marinaio del nostro equipaggio, sporgendosi dalla nave riconosce l'antica Didimo e a braccio teso ne indica le rovine sul profilo della costa, là i Carii avevano innalzato un grandioso tempio ad Apollo. Egli l'ha visitato: il tempio ha un dittero che misura 40 metri per 80 e conta in tutto 112 possenti colonne. Sulla parte superiore dell'adito, ai lati di una cetra, sono scolpiti due superbi grifoni, leoni alati sacri ad Apollo. Il loro compito era quello di difendere le miniere aurifere degli Iperborei dagli incauti cercatori d'oro.

Il marinaio, un lupo di mare che ne sa una più del diavolo, fa sorridere la ciurma per il suo accanimento nel sostenere che lo stesso leone alato, in cima alla colonna di Piazza S. Marco, sia originario di quel tempio. Avrebbe avuto funzione di supporto ad una statua di Apollo in equilibrio sul suo dorso:

«Apolo el stava in piè su la schena del leon! E al leon i ha taià col scalpel le do corna, ghe xe 'ncora el segno».

Poco più oltre, tra le coste frastagliate della Caria è sempre lui ad avvistare per primo la foce ove il Meandro conclude la tormentosa serpentina del suo corso. Sulla foce sorgeva anticamente la città di Efeso e oggi restano le rovine del tempio di Artemide, rimasugli del poderoso colonnato innalzato alla sorella gemella di Apollo sulle fondamenta di un precedente tempio di Cibele. La furia distruttrice dei Cimmeri, che per oltre un secolo terrorizzò l'Anatolia costringendo re Mida al suicidio, ha lasciato in piedi una sola colonna e tuttavia la statua di Artemide è miracolosamente sfuggita alla devastazione.

Il vecchio lupo di mare, cui sole e salsedine hanno reso coriacea la pelle, fa divertire il gruppetto dei mozzi mentre mima, con eloquenti gesti delle mani, le decine di mammelle rigonfie che pendono dal petto della dea; descrive due leoni scolpiti sulle aperte braccia e poi sulla gonna fiori, api e ogni specie di animali, e sul collo una collana di grappoli d'uva, e sul capo una torre cilindrica le cui colonne s'innalzano solenni verso il cielo.



* * *



Nel cuore dell'Egeo c'è un ducato veneziano esteso su tredici isole. L'arcipelago delle Cicladi fu conquistato dai Veneziani a seguito di una spedizione privata organizzata da Marco Sanudo nel 1206 ed ora Naxos ne è divenuta la sede principale.

La nostra carovana ha finito di superare le ultime isole settentrionali del Dodecanneso e vira verso il centro dell'Egeo in direzione dell'isola di Naxos, ove come d'obbligo effettua il primo scalo. Chora è il nome della cittadina arroccata sul cucuzzolo della collina che sovrasta il porto. La scelta di quella posizione elevata, serrata intorno alla fortezza, fu dettata dalla necessità di difendere la popolazione dalle feroci incursioni piratesche che in ogni epoca hanno martoriato l'isola.

Mi arrampico per le strette vie di Chora e salgo le gradinate assolate al canto delle cicale in festa. Scale inerpicate sulle facciate delle case o ripidi gradini a semicerchio portano all'accesso delle abitazioni, qualche volta sormontato da stemmi nobiliari. Le porte dei più umili sono invece interrate e semi nascoste nella penombra, sotto il livello del selciato. La sonnacchiosa Chora con le sue case quadrate e imbiancate di gesso, con le sue imposte blu, le porticine blu, le ringhiere blu, i vasi blu e blu ogni cosa che non sia muro, sembra la fiabesca città dei nani.

Dall'alto delle mura della fortezza l'arido terreno dell'isola appare coltivabile. Il mio sguardo è rapito sulle pianure intorno, attratto dal gradevole contrasto tra il verde scuro delle siepi e il colore dorato dei campi di frumento. A tratti l'alternanza di oro e verde si rompe in modo esplosivo nei cespugli fioriti e macchie rosa e arancio si accendono vivide sul bianco delle case. Respiro spazi nuovi ed il celeste è più celeste oltre le dolci colline all'orizzonte.

Uscendo da un sottoportico e nell'imboccare una via in discesa, odo l'accompagnamento musicale di un canto che proviene da dietro il balconcino. Riconosco la famosa canzone dei gondolieri: Venetia mundi splendor. Colto alla sprovvista mi fermo ad ascoltare quelle note, presto sommerso da un'accorata nostalgia. Mi fa uno strano effetto sentire la musica di casa, così lontano e per troppo tempo lontano da Venezia.

E' un mottetto. Due voci femminili si inseguono e si rincorrono agili e sollecite, la voce più acuta scavalca la più bassa, la sorpassa, sale in alto, si esalta, e di colpo si smorza. Ricongiunte, chiare e soavi, le due voci di soprano gorgheggiano sul sottofondo del loro robusto accompagnatore, un trombone, quasi fosse la voce maschile di un tenore. L'Amen conclude il mottetto con l'enfasi di una fanfara, la vocale A viene stirata, sostenuta per un tempo interminabile, librata in aria, fatta oscillare come la coda di un aquilone.

I suoni, danno corpo alle immagini di un tenero tramonto sulle forme bombate di cupole d'oro... le note ne seguono il ritmo dei profili, fanno pausa ai pali del molo per subito riprendere vigore e d'incanto vedo passare i gondolieri che remano in piedi poggiati sui remi e cantano, alla luce delle lanterne.

All'indomani mi sveglio molto presto e già alle primissime luci del giorno salto giù dalla galera ancorata nel porto. A lato, sulla sommità di un piccolo promontorio a dirupo sul mare, si staglia imponente verso il cielo una enorme porta di pietra. Lassù mi sembra di distinguere qualcuno in mezzo ai resti di antiche rovine, c'è un piccolo gruppo di persone. Cerco le tracce del sentierino nella tenue luce di un'alba incipiente e salgo spedito sul promontorio. In cima non faccio domande, non oso turbare il clima di raccoglimento degli enigmatici personaggi fermi sulle pietre con lo sguardo rivolto all'orizzonte.

Che cosa stanno aspettando costoro, davanti la monumentale porta marmorea chiusa per sempre su un passato ormai condannato all'oblio? Ma è chiaro: sono convenuti quassù per il sorgere del sole e ripetono per l'ennesima volta un rito millenario. Supero i miei scrupoli e chiedo spiegazioni a uno dei presenti: trattasi appunto del tempio di Apollo.

L'astro spunta in questo istante imperioso e infuocato, traccia sul mare una scia dorata, una strada di luce compatta e dritta che viene a toccare le rive del promontorio. Me ne sto in piedi impacciato, sono consapevole della sacralità del luogo e ne afferro il momento magico, ma non so come onorare in modo adeguato questa spettacolare manifestazione del divino.

Sette mesi sono trascorsi dai giorni di Zagreo e ho dimenticato le parole dell'inno orfico ad Apollo, tento allora di ricapitolarne il contenuto. In sintesi, l'inno diceva che il dio incoronato d'alloro fu costretto ad una dura lotta con il guardiano di un oracolo. L'insidioso nemico era il serpente Pitone, acerrimo persecutore di Latona quando ancora ella era incinta del dio. Apollo era deciso a vendicare le aggressioni subite da sua madre, perciò puntò l'arco su Pitone tese la corda e scoccò la sua freccia invincibile. Trafitto, l'enorme serpente contorse le spire dal dolore, spalancò le orride mascelle e strisciando cercò di sfuggire, ma Apollo osò inseguirlo nei recessi del tempio della Terra e lo finì, dinanzi al sacro crepaccio.

Mi arriva l'ispirazione e improvvisando con le mie semplici parole, intreccio sugli sfumati ricordi dell'Inno di Orfeo una piccola devota poesia:



«O splendido Apollo dai riccioli d'oro,

bello di luce come il sole raggiante,

lancia dal cielo i tuoi dardi infuocati,

incalza implacabile Pitone il Serpente,

inchioda davanti alla sacra fessura

il persecutore di Latona incinta

e fissalo alla Terra con le frecce dell'alba.



Un canto si leva alto nell'immenso:

ritmo entusiasta è vibrare in sintonia,

giusta misura scoprire l'Armonia,

cogliere poesia, arte e saggezza

in nove sorelle di sublime Bellezza.

Artemide saltella la danza della Corda,

echeggia della lira la soave melodia,

l'aurea catena che riunisce cielo e terra.



Grifone difenderà la porta del tempio,

i doni avvolti nella paglia di frumento,

custodirà fiero degl'Iperborei l'oro».



Al canto del gallo il sole risplende alto nel cielo cancellando i veli arancioni e rosa sul giovane corpo di Eos, la dea dell'alba. Il tempio si svuota. Ognuno scende giù dalla collina e si dirige appagato alle proprie occupazioni. A Chora, già fervono intensi i traffici di carico e scarico dalle navi, presto la carovana ripartirà e i passeggeri si attardano ad affollare le più recondite botteghe dell'isola.

Mentre mi avvio pensoso al porto penso ad Abari, il sacerdote iperboreo che avrebbe conosciuto il segreto dell'invincibile dardo di Apollo (la Freccia del Tempo). Abari la custodiva nel tempio circolare dedicato al dio e la utilizzava di volta in volta per viaggiare a cavalcioni su di essa superando in un baleno gli oceani e i luoghi altrimenti invalicabili. La fatidica Freccia, diceva Zagreo, instaura la direzione univoca ed irreversibile dello scorrere del tempo: ponendo un prima e un dopo nell'ordinata successione che va dal passato al futuro, essa determina il senso implacabile degli eventi.



Candia, Cipro, Naxos... ho già visto tutto della Grecia? Nient'affatto, a mia insaputa mi sto avviando all'appuntamento più stupefacente. Dopo qualche ora di navigazione si delinea in controluce il profilo di un'isola mitica, evanescente e sfumata sullo sfondo. Per un curioso gioco di correnti più la nave si avvicina, più l'isola sembra allontanarsi. Prossimi a lambirne le rive una nube nasconde il sole, interrompe il controluce e la costa si staglia nitida nelle vicinanze, ma subito i flutti ci riportano lontano e l'isola ritorna evanescente.

Delo fu il centro sacro dell'Egeo, la capitale ideale di una nazione che si estendeva entro i confini di un mare, delle sue isole e delle sue coste. Fu l'Ombelico del mondo: qui nacque il cosmo da un punto di densità infinita, in una regione inesplorabile ove anche la Pitonessa esauriva ogni facoltà di predire il futuro. L'Omphalòs veniva custodito nel recinto più interno del santuario ed era una grossa pietra ovoidale che rappresentava il sacro ombelico. In superficie i sacerdoti di Febo vi avevano scolpito una rete intrecciata, per alludere alle infinite curvature dello spazio e del tempo.

Le rovine silenziose di un grande santuario. E' tutto ciò che rimane da contemplare mentre sfioriamo le sue rive flagellate dai flutti, si può comunque riconoscere la Via Sacra che conduceva al tempio di Febo e molti altri diroccati resti degli edifici di culto pagano. Le colonne spezzate e le pietre sparpagliate alla rinfusa sopra i lastricati, lasciano solo lontanamente immaginare cosa potesse essere un tempo quel grandioso baluardo di templi. Sull'isola incolta, oggi ridotta a rifugio di quaglie, cerco di ricostruire il santuario di Apollo nel periodo del suo massimo splendore quando era un luogo di straordinaria magnificenza e attirava re, principi e pellegrini da ogni parte dell'Egeo. A stento posso figurare nella mia mente i templi integri, dorati e dipinti con tinte tenui e ricercate; indovinare eleganti affreschi alle pareti, pavimenti musivi che nulla avrebbero da invidiare a quelli di San Marco e le statue intatte delle divinità sugli altari e i simboli sacri scolpiti da ogni parte. Quanti misteri, quante cose curiose... anche buffe, come ad esempio i grandi, enormi falli di pietra, orgogliosamente innalzati sui piedistalli del tempio di Dioniso.

Come doveva essere affollata la Via Sacra. Colma di pellegrini in atti di devozione, di schiere di novizi, di curiosi, uomini politici di passaggio, sacerdoti dei culti più disparati. Ecco le vesti variopinte, differenti per ogni culto e specifiche per ogni grado iniziatico; spiccano i copricapi egiziani dei sacerdoti di Serapide e le classiche divise dei Rabbini; incantano irresistibilmente i veli trasparenti delle sacerdotesse di Iside, i costumi sensuali e il trucco ammaliante delle siriane, languide veneratrici di Astarte.

In disparte, i sacerdoti delle divinità esotiche stanno a colloquio in civile confronto di idee, poi a gruppetti, abbandonano la ressa, escono dal recinto del santuario di Apollo e raggiungono i loro templi nella collina riservata ai culti stranieri, segno illustre del grande spirito di tolleranza e di rispetto che vigeva in Grecia nei confronti delle religioni altrui!

Odo la preghiera sommessa delle vergini davanti alla sfinge, si recidono una ciocca di capelli e la posano delicatamente sulla tomba di Laodice ed Iperoche. Laodice ed Iperoche, le vergini iperboree che si prodigarono in un lunghissimo viaggio per portare a Delo, avvolti nella paglia di frumento, gli oggetti sacri del culto apollineo.

Nel tempio di Febo risuona la voce ispirata della Pitonessa seduta sul tripode, ha masticato l'alloro e ora annuncia l'oracolo a un fedele ansioso di risposte. Le fa da sottofondo il suono chiaro e puro della lira, un fluire d'acqua cristallina che s'intreccia alla sua voce e al canto dei danzatori intorno all'altare: Ié ié Peana, ié ié Peana. Stanno danzando in cerchio il ballo della Gru e ondeggiano insieme avanti e indietro, indietro e avanti, per ore e ore, finché cadono a terra in preda al capogiro.

Profumo d'incenso esce dai recessi del tempio, si praticano riti segreti in onore a Febo; al termine gli iniziati si riuniscono nella navata e poco dopo dalle colonne del frontone parte una processione solenne, passa davanti alla fila dei nove leoni scolpiti, si snoda lentamente sulle pendici del Monte Cinto e nell'infilare l'entrata dell'Antro incrocia dei devoti che escono, hanno il volto stralunato di chi ha assistito a cruenti sacrifici.

Ben poco rimane oggi a testimonianza di quel sontuoso passato, innumerevoli ruberie hanno spogliato l'isola di ogni tesoro. Gli abitanti l'hanno completamente abbandonata. In quell'isola arida, fatta di strati di scisto e granito, oggi si può scorgere da lontano un unico segno di vita: la macchia verde di una grande palma da datteri radicata nell'esile scoglio al centro di un laghetto perfettamente circolare. Una palma, per ricordare il mito della nascita di Febo.

Leggenda narra che Latona si aggrappò alle fronde di una palma sullo scoglio nudo e sterile che appena affiorava a pelo dell'acqua. Caduto dal cielo come una cometa e sprofondato negli abissi del mare, lo scoglio vagava sommerso ed invisibile nelle acque dell'Egeo. Quando risalì sotto la superficie per diventare la piccola isola di Delo, ancòra non possedeva solido sostegno cui fissarsi e galleggiava sospinto dalla corrente, simile a un gambo di asfodelo cullato ora dal soffio del Noto ora da quello dell'Euro.

Con le spalle appoggiate al tronco della palma e le caviglie nell'acqua, Latona diede alla luce i due gemelli Febo e Artemide. All'istante Delo emerse all'asciutto, ben visibile a tutti i naviganti, e smise di spostarsi perché saldamente ancorata da catene adamantine. Il suolo che accoglieva Febo neonato si tramutò in oro, anche in oro si mutò la folta chioma della palma, come pure il letto del vorticoso torrente Inopo che traboccò colmo del prezioso metallo. Il magico nitore dell'oro faceva rilucere l'isola e per sette volte i cigni, sacri uccelli delle Muse, girarono intorno a Delo emettendo il loro canto melodioso.

Saluto il santuario che pian piano s'allontana. Forse il vasellame di qualche tesoro è ancora sepolto tra quei ruderi, ma non è questo che mi interessa. Ho la tentazione di scendere giù con la stessa foga smaniosa del cristiano a caccia di reliquie. Io mi accontenterei di un frammento del quarzo bianco e lucente che appartiene al basamento del tempio di Febo. E' un vandalico sacrilegio ma reca in sé l'illusione di impadronirsi del chiarore che i raggi di mille albe divine hanno imprigionato nella pietra.

Comunque non mi è possibile, la galera prosegue decisa la sua rotta, attraversa le Cicladi occidentali, entra nel golfo dell'Argolide e costeggia la costa greca del Peloponneso. Modone e Corone sono i due occhi di Venezia incastrati sulla punta della Morea. Il nostro comandante scende brevemente a Modone per raccogliere le ultime notizie sui pirati del Mar Jonio. L'insidia della pirateria è andata scemando negli ultimi anni rispetto alla baraonda d'inizio secolo quando i normanni assaltavano le navi pisane, i greci abbordavano le navi latine, i Veneziani quelle anconetane e i corsari anconetani le navi veneziane. Anche i Ragusei dell'Adriatico meridionale e i Saraceni dell'Africa settentrionale hanno smesso di seminare ruberie e morte. Ancor oggi, tuttavia, il nome del famigerato corsaro genovese Alamanno da Costa o del siciliano Guglielmo Porco risveglia terrore al solo accenno. Ed è purtroppo notizia fresca l'arrembaggio di una nave anconetana da parte di corsari Almissani: hanno depredato i passeggeri e ripulito la nave; hanno sgozzato i bambini, violentato le donne e ridotto in schiavitù gli uomini validi; i rimanenti, vecchi o inabili che fossero, li hanno uccisi e abbandonati sulla riva.

Un paio di ricchi mercanti sono stati orrendamente squartati. Gli Almissani sapevano bene quel che fanno i mercanti appena vedono issare la bandiera pirata: ingoiano le loro gemme preziose. Perciò hanno inciso l'addome dei poveretti e, ancor vivi, tirate fuori le budella ne hanno dipanato il gomitolo per incidere longitudinalmente, col coltello che scivola lungo il tubo intestinale, con le mani nelle feci e nel sangue a frugare in cerca delle gemme.



* * *



Zara rimane una città incline alla ribellione. La lezione della quarta crociata non è stata sufficiente a placarla. La sua fazione di oppositori si appoggia al re d'Ungheria perché promette libertà dai monopoli commerciali veneziani. Per Zara può significare molto, ossia sottrarsi al controllo esclusivo e dispotico esercitato da Venezia sui traffici marittimi, nonché sfuggire all'imposizione di scambiare le merci in nessun altro luogo della Dalmazia e dell'Alto Adriatico all'infuori di Venezia. La rivolta del 1243, l'ultima di Zara e la quinta in ordine di tempo, ha dato adito ad un controllo ancor più severo, evidentemente Venezia non intende rinunciare a quello che considera semplicemente uno scalo di secondaria importanza ove caricare legno bestiame e schiavi, oltre ai consueti rifornimenti di derrate alimentari.

A Zara la nostra carovana fa l'ultima sosta. Ne approfitto per recarmi al cantiere edile della chiesa di Sant'Anastasia. Maestro Bernardo è ad un tempo architetto, ingegnere, capomastro e organizzatore del cantiere; si reca personalmente nella cava e nella foresta a scegliere i materiali da impiegare, né disdegna all'occorrenza di compiere lavori manuali, specie se si tratta di usare lo scalpello per rifinire le statue più importanti e delicate, egli non dimentica di aver cominciato la sua lunga carriera proprio come scalpellino.

Lo scorgo nel cantiere all'aperto: chino sul tavolo sta disegnando una sezione della chiesa mediante un piccolo compasso a puntasecca adoprato su della carta da stracci (la carta da stracci è una nuova applicazione dei mulini ad acqua e sostituisce in pratica le costose pergamene). E' attorniato dai più stretti collaboratori, incaricati di vegliare affinché le sue concezioni vengano materializzate e fedelmente riprodotte. Alcuni di loro, ricopiano il disegno di Bernardo sopra un ampio pannello formato da uno strato di gesso, inginocchiati a terra usano enormi compassi a settore curvo. Incidono il gesso a graffito e ingrandiscono i particolari della sezione per evidenziare con maggior chiarezza i pilastri che delimitano le navate laterali, gli archi rampanti di supporto e i contrafforti di sostegno. Altri collaboratori sono intenti a preparare dei modelli in legno che forniranno ai cavatori le esatte dimensioni cui devono attenersi nel dare forma alle pietre con piccone e scalpello.

Tutto intorno brulicano gli operai indaffarati, chi controlla il muro col filo a piombo, chi verifica lo spigolo con la squadra, chi misura la facciata con pertiche di ferro. Il cantiere è un alveare in costante attività. I manovali stanno scaricando dal carro una decina di grosse pietre tagliate e le portano via con le barelle. I muratori spalmano uno strato di malta con la cazzuola, vi posano sopra la nuova pietra e raschiano via la malta di troppo, poi controllano l’orizzontalità della pietra con la livella ad acqua e se pende da un lato, la aggiustano col martello finché si allinea perfettamente. In cima ai muri doppi della facciata ci sono delle impalcature: alcuni muratori lavorano lassù, sospesi sulla parete a strapiombo, sorretti soltanto dalle piattaforme dei graticci di vimini; a terra i compagni tirano su per loro le tinozze di malta, a forza di braccia e carrucole. Gli archi di pietra del colonnato non sono stati ancora eretti, però i carpentieri hanno già innalzato dei modelli curvi sopra i quali si potranno posare ad una ad una le pietre a cuneo destinate a dare agli archi la forma definitiva. Su tutto domina il maglio di contro all'incudine, accompagnato dal concerto degli scalpelli che echeggiano sui fregi di pietra.

Si sta mettendo in movimento la cosiddetta gabbia di scoiattolo. Somiglia ad una grande botte di due metri e mezzo di diametro e gira come una ruota attorno ad un grosso asse centrale. Sull'asse è avvolto un cavo di canapa collegato al peso da sollevare. Il marchingegno viene azionato dall'interno, dentro la gabbia c'è un uomo che si limita semplicemente a camminare in avanti ed è sufficiente il peso del suo corpo per farla ruotare su se stessa. L'uomo nella gabbia sta sollevando una pietra enorme, pesa almeno 500 chilogrammi e probabilmente si tratta di una chiave di volta.

Bernardo da Treviso alza gli occhi e mi riconosce. In un attimo si disimpegna dai suoi fratelli muratori, zoppicando mi viene incontro col regolo in mano e mi cinge le spalle con la mano libera. Attraversiamo un angolo della chiesa, i muratori stanno chiudendo il tetto di una cupola tonda, usano un'asta di legno con un estremo fisso ed uno mobile, fissano un capo dell'asta al centro geometrico della cupola e spostano l'altro capo verso l'alto in tutte le direzioni, a mo' di raggio della calotta in costruzione.

Entriamo in una baracca che funge da deposito di attrezzi. Sono emozionato:

«Ti ammiro Mastro Bernardo, innalzare una cattedrale è sempre opera d'inaudita arditezza».

«Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere completata la costruzione. Così potrei tornare a vivere a Venezia. Tu, hai per caso intenzione di fermarti a Zara, nel nostro cantiere?».

«No, Maestro non posso... sono di passaggio, vengo dalla Romania».

Egli posa il regolo sul tavolo:

«Peccato. Certamente avrai imparato qualcosa di utile dal tuo viaggio».

«Beh... ecco qualcosa sì, ma non riguarda direttamente il mio lavoro, ricordi quando accennavi ai tre arcani del medaglione, Mercurio - Sale e Zolfo, l'uomo che cavalca il mostro mezzo cane e mezzo ariete? Ebbene da allora ho iniziato a vedere le cose con occhio diverso e grazie ad un'improvvisa rivelazione ho finito per scoprire il significato anche dell'altro medaglione, il Pavone assiso sulla sfera.

La sua ruota dai cento occhi è l'emblema della Prima Materia, è lo specchio della verità, e chiunque vi si rifletta con gli occhi dello spirito immediatamente si riconosce nella sostanza dell'universo. Credimi Maestro non si tratta affatto di un concetto astratto, sebbene la Prima Materia sia pura potenzialità assoluta ho potuto sperimentarne direttamente la tremenda potenza e darei la vita perché ogni essere umano possa provare altrettanto. Questa esperienza mi ha cambiato profondamente, ora non ho più interesse per le ricchezze terrene: ho fra le mani una coppa preziosissima, se volessi venderla diventerei ricco all'istante e invece... invece la restituirò a coloro cui era stata sottratta, la famiglia del Doge. Lo vedi, se ora bramo dell'oro è soltanto quello magico, poiché la diretta conoscenza della Prima Materia vale più di tutto l'oro del mondo messo insieme».

«Lascia stare i voli pindarici della magia, smetti di fare il sognatore e torna coi piedi sulla terra. Causa l'inverno, a dicembre abbiamo fermato i lavori della cattedrale e abbiamo ricoperto i muri con paglia e letame perché il gelo non facesse danni. Della pausa ho potuto approfittare per riflettere sul progetto ma ho trovato anche il tempo per ascoltare un po' di sana filosofia: un frate di Zara ha avuto la bontà di parlarmi delle opere di Aristotele tradotte in latino da Giacomo da Venezia».

«Forse l'erudita filosofia di Aristotele nega valore ad esperienze come la mia?».

«Stai tranquillo, la via alla conoscenza era concepita da Aristotele non come sterile erudizione ma come una serie di esperienze e di stati d'animo che accentuano fortemente la sensibilità interiore. Per una filosofia rivolta più alla terra che al cielo la Prima Materia resta un concetto intelligibile, in altre parole è possibile accedere ad essa con un atto di pensiero e dunque pur essendo priva di forma può essere oggetto di esperienza diretta. In concreto...».

«Scusa se ti interrompo. Però, per quanto eccellente filosofo, Aristotele non ha mai trovato...».

«La pietra filosofale? Chi te lo dice, la pietra filosofale non è soltanto quella che trasmuta il piombo in oro, la si può intendere anche come espressione simbolica di una operazione interiore che richiama le operazioni di laboratorio solo per analogia. In questo senso Aristotele corona la ricerca della pietra filosofale nel concetto del Sinolo, cioè l'unione della sostanza e della forma nell'armonioso equilibrio tra l'Essere e il Divenire».

«Grandioso!».

«La pietra grezza così com'è nella cava è sostanza che giace in potenza, diventa forma sotto l'azione dello scalpellino che la trasforma in pietra tagliata, ma solo nel cubo perfetto della pietra cubica si ha il compimento, l'equilibrio e la stabilità che ci consente di usarla come pietra angolare su cui basare l'intera struttura dell'edificio».

«Sei un vero filosofo Maestro Bernardo, quel che dici è pieno di saggezza. Mi resta un ultimo dubbio... da molto tempo c'è un problema che mi assilla: io mi domando ove sia la dimora della Realtà.

E' nel Divenire, nell'implacabile scorrere del tempo? O è nella quiete dell'Essere che al tempo invece si sottrae? Che ne dice Aristotele?».

«A dire il vero... il frate non me ne ha parlato».
 
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view post Posted on 31/1/2009, 20:32

ottimo

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Non c'è un filo d'aria. Pur essendo in grado di bordeggiare, la nostra galera fa una sosta in alto mare insieme ai vascelli pesanti, la loro andatura risulterebbe così lenta che l'intero convoglio preferisce gettare le ancore e aspettare l'arrivo di un vento favorevole. Ne approfitto per tuffarmi in mare, il bordo del parapetto è solo a un paio di metri dalla superficie. Il tuffo carpiato mi riesce abbastanza bene, penetro in acqua a braccia tese, risalgo in superficie e afferro la corda che pende dal fianco della nave. Mi arrampico a forza di braccia puntando le gambe contro lo scafo, guadagno il parapetto, lo scavalco e approdo sul ponte.

Il ponte unico della nave è sovraffollato, le donne ricamano, i bambini giocano a rincorrersi, gli uomini si allenano con le armi e in disparte, alcuni mercanti fiamminghi discutono animatamente fra loro. Infilo la tunica sulla pelle bagnata e mi fermo ad osservare due uomini che si affrontano a torso nudo con delle mosse di lotta greco-romana. Il milanese, più alto e robusto, stringe le braccia come una morsa d'acciaio, le aggroviglia con le membra dell'avversario, lo atterra e lo costringe alla resa. Quindi si rialza dando la mano all'avversario, si gira sorridente e mi saluta appena mi riconosce.

Alberto Rossi è un trentenne del Comune di Milano e ha combattuto con la Lega Lombarda a Cortenuova. E' imparentato alla lontana con una famiglia di banchieri all'apogeo della ricchezza, ma a causa della loro avarizia non vi ha tratto alcun vantaggio e deve perciò guadagnarsi il pane facendo il servitore al soldo dei mercanti fiamminghi. Al contrario dei suoi parenti, i fiamminghi sono molto prodighi anche se lo costringono ad un incessante impegno per soddisfare le loro esigenze perché sono ghiotti, fannulloni e molli come il burro.

Sul ponte della nave il sole cocente batte sulle nostre facce e risfavilla negli occhi di Alberto, egli mi soverchia di ben tutta la spalla e la bruna capigliatura gl'inonda il collo e le ampie spalle. Mi intrattengo piacevolmente col nuovo amico mentre rievoca le ultime battaglie contro Federico II, non abbiamo opinioni comuni di contro alla politica imperiale, qualcosa ci differenzia e traccia una linea di demarcazione tra le nostre rispettive posizioni.

Egli narra che nell'autunno inoltrato del 1237 Federico II li trasse in inganno e fece loro credere di ritirarsi a Cremona, per il riposo invernale delle truppe. Gli uomini della Lega fecero altrettanto e levate le tende da Pontevico, risalirono a nord lungo la riva sinistra del fiume Oglio per muoversi alla volta di Milano. Raggiunto il terreno ormai molle e fangoso di Cortenuova, stavano iniziando il trasbordo sulla riva opposta del fiume quando furono colti di sorpresa da un'avanguardia di Cavalieri Teutonici e di masnadieri di Ezzelino. Seguì ben presto il grosso dei ventimila imperiali alla carica. Con il fiume alle spalle i Lombardi erano sul punto di venire travolti e schiacciati, ma loro, duri sotto la pioggia, si schierarono intorno al carroccio carico degli stendardi consacrati, della croce e delle reliquie. Fu una autentica carneficina, ma riuscirono a resistere caparbi fino al calar del sole, allorché le due parti si ritirarono esauste negli accampamenti.

Le prospettive di dare battaglia il giorno seguente erano pessime, perciò approfittarono delle tenebre per andarsene di nascosto. Fu una disfatta umiliante: il carroccio con le ruote impantanate nel fango venne abbandonato al nemico, il podestà di Milano (un Tiepolo) fu ridotto in catene a Cremona, si contarono diecimila perdite tra morti e prigionieri, molti detenuti furono mutilati, e le vedove e gli orfani costretti a subire ogni sorta di tribolazioni.

Segue il mio turno:

«Mio malgrado, anch'io fui in armi contro Federico II, dodici anni fa, durante la crociata anti-imperiale di papa Gregorio IX. Ero sotto il comando dell'ammiraglio Marco Zorzano e ho partecipato alla battaglia navale contro Ancona. La Marca Anconetana, ex feudo pontificio degli Estensi, era ritornata da non molto sotto il controllo di un vicario imperiale.

Quel giorno il mare era calmo, l'Adriatico era illuminato dai raggi obliqui di un sole già basso e rifletteva il cielo come uno specchio. Vedemmo spuntare il nemico all'orizzonte, un nugolo di vele protese su di noi col vento a favore. Presto le due schiere vennero ad impatto e nei pressi della costa si addensò una moltitudine di navi che si cercavano a vicenda nella mischia. Una lunga galera anconetana sfiorò la nostra a tutta velocità e i tiratori di balestra arrampicati sugli alberi ci scagliarono contro uno sciame di frecce. La balestra è veramente un'arma micidiale: accanto a me uno dei nostri uomini fu trapassato da parte a parte da una freccia d'acciaio e venne proiettato all'indietro contro il castello di prua, rimase appeso in piedi con la punta della freccia conficcata nella parete, impallidì e morì sul colpo.

Appena il vento cambiò direzione, ne approfittammo per dirigerci a tutta forza verso una nave vicina puntandole contro gli speroni della prua... ci fu un boato, l'urto si accompagnò ad una scossa violenta, la nave vibrò paurosamente e ci aggrappammo per non cadere a terra.

Subito le voci secche dei comandi, rumore di ferraglia, di armi sguainate: arrembaggio, arrembaggio!

I nostri armeggiano con ramponi e catene di ferro per saldare i fianchi delle due navi, alcuni appoggiano le scale e altri si arrampicano a mani nude sui bordi della nave nemica. Gli anconetani lanciano frecce sugli assalitori e li aspettano al varco sporgendo agguerriti le picche».

«Ma tu cazzo hai fatto?».

«Panico, avevo diciassette anni. Scappo indietro e finisco sulla spada spianata di un ufficiale: dal suo sguardo deciso capisco che se faccio un altro passo indietro mi uccide sul posto. E allora corro all'attacco, metto il pugnale fra i denti e salgo su per una scala, supero con un salto il bordo della murata e atterro sulla prua nemica a dare man forte ai nostri. Si cerca di strappare terreno sul ponte, avanziamo a scatti fulminei cui seguono ritirate altrettanto rapide e così avanti e indietro, a ondate, per alcune volte. Ad ogni ritirata il corpo a corpo lascia sul terreno morti e feriti. Gli anconetani non riescono a ributtarci in mare, si asserragliano attorno al trinchetto e si difendono coi coltelli, sembrano meno numerosi e dopo una lunga resistenza all'improvviso si arrendono. Vengono fatti tutti prigionieri. Sui pennoni della galera conquistata viene alzato lo stendardo di S. Marco. I galeotti cristiani vengono liberati dai ceppi e muniti di armi, gli infedeli restano legati ai remi.

La battaglia infuriò cruenta fino a sera, allorché cominciò a volgere a nostro favore. Intorno c'erano gruppi di tre o quattro navi incastrate insieme, i Veneziani passavano speditamente dall'una all'altra alla rincorsa dei fuggiaschi. Gli anconetani allo sbando si tuffavano in mare, nuotavano disperatamente tra i remi spezzati e tra i rottami di carena che galleggiavano mezzi sommersi.

Con una manovra larga, gli equipaggi freschi della retroguardia veneziana si erano portati alle spalle della flotta nemica e l'avevano costretta a rasentare la costa con la chiglia a un pelo dal fondo. Accerchiate e strette in una morsa, le navi anconetane vennero catturate ad una ad una e ammassate al centro. Fu appiccato il fuoco a una galera, divampò rapidamente e si propagò al fianco delle navi vicine. I Veneziani si liberarono in fretta dai vincoli dei ramponi e con una tempesta di frecce infuocate estesero l'incendio a tutte le navi nemiche.

Intorno alla ammiraglia di Marco Zorzano i marinai esultavano per la vittoria e intanto ci si allontanava dalla flotta anconetana in fiamme».

«Accidenti, chissà che spettacolo impressionante eh? vedere una flotta in preda alle fiamme, galere costosissime e perfette, costruite con lunghe fatiche e distrutte in un baleno».

«Sì, impressionante. Scesa l’oscurità, davanti ai nostri occhi si staglia uno scenario spaventoso: le navi si accendono in rapidi bagliori di fiamme, esplodono tizzoni ardenti che proiettano scie nella notte e, simili a lava incandescente, i riflessi del fuoco sull'acqua si rincorrono vividi. Gli alberi maestri cadono rovinosamente, con uno schianto secco. Si ode un sottofondo infernale di urla atroci, i galeotti incatenati ai remi e impotenti davanti al fuoco. L'odore acre della carne bruciata arriva dalle salme abbandonate sul ponte, divampano in un lampo per effetto dell'intenso calore.

La tragedia delle navi nemiche volge all'epilogo, dopo tanto clamore di battaglia un silenzio mesto e profondo scende sul mare. Gli anconetani s'inceneriscono nei roghi sull'acqua come nel corteo funebre di un funerale vichingo. Il fuoco si consuma divorando ingordo le ultime navi: si tinge di rosso brillante, l'onda che a sera spinge lontano le barche con il rogo, con tremulo baglior di luce muore danzando l'ultima fiamma, nel mare tenebroso».

Un silenzio glaciale segue per un attimo la mia esposizione, guardo Alberto profondamente negli occhi:

«Sarò forse un ingenuo sognatore, ma non riesco ad accettare che tante giovani vite siano finite inutilmente in preda alla morte a causa delle smodate ambizioni di un uomo, uno soltanto, curvo sotto il peso dei rimorsi».

Alberto mi appoggia una mano sulla spalla:

«Telo lì, sua eccellenza l'Imperatore doveva pur sbizzarrirsi a passare il tempo».

«Poteva allora limitarsi alle prede innocenti gettate nelle unghie dei suoi prediletti falconi. Non gli bastava... condurre sul terreno il falco incappucciato tenendolo sul pugno durante la cavalcata, seguire la muta dei levrieri che cercano di scovare gli uccelli e appena avvistata la preda, scappucciare il falcone per lanciarlo alla caccia. Non gli bastava... ammirare il Falco Pellegrino che solleva la testa arrotondata, gonfia il petto chiaro e barrato, spalanca le ali scure e volteggia in alto nel cielo scrutando lontano con i suoi occhi sporgenti. E vederlo d'improvviso chiudere le ali, gettarsi in picchiata sulla preda a velocità vertiginosa: ecco l'impatto, uno sfortunato volatile viene centrato, il falco gli ha sferrato il colpo d'artiglio, lo stordisce, gli fa perdere l'equilibrio e lo finisce con un colpo di becco sulle vertebre cervicali.

Immagino sia un passatempo attraente, misto di forza agilità e abilita di caccia, cruento... ma sempre meglio del lanciare l'aquila imperiale alla conquista dei Liberi Comuni».

«Il fatto è che se non era per quel tedesco figlio di macellaio, ce n'era sicuro un altro al suo posto. In ogni epoca il nostro travagliato mondo ha dovuto subire guerre e distruzioni a causa del prepotente di turno, perché appena un regno raggiunge prosperità e ricchezza subito si avventa sulle regioni confinanti, ed è sempre lo stesso male ricorrente, l'ingordigia sfrenata che schiaccia ed umilia i più deboli.

Quando i Romani cercavano oltre i mari e ai deserti nuovi regni da devastare e incatenavano principi e popoli liberissimi, si sono eletti a ladroni del mondo e hanno inaugurato il vicendevole divorarsi delle nazioni. I barbari, da loro schiavi che erano ne son divenuti i padroni. Terminate le invasioni barbariche sono arrivati i Bizantini e i Franchi e i Longobardi e gli Arabi, e non ha avuto fine la catena delle nazioni che sono oggi tiranne per maturare la loro schiavitù di domani».

«Se è così, ora è il turno dei Mongoli! L'Orda d'Oro dei discendenti di Gengis Khan ha invaso la Russia, ha saccheggiato Kiev e ha sconfinato nella Polonia e nell'Austria. Il gran khan dei Mongoli, ha messo in pericolo le frontiere dei baroni tedeschi, addirittura ha spedito una lettera a Federico II per invitarlo a sottomettersi al suo volere. L'Ungheria è stata invasa e distrutta e le orde tartare incombono ora direttamente sull'Adriatico, a Spalato si sono già affacciate sul Golfo di Venezia.

Quella massa umana spinta dalla violenza preme alle porte dell'Oriente annunciando sciagura al popolo greco: in Asia Minore i mongoli Turcomanni stanno smembrando l'Impero Latino d'Oriente e hanno risparmiato solo la stretta fascia costiera dell'Anatolia occidentale».

«L'indipendenza dei regni è cosa fragile, no?, sotto la continua minaccia di eserciti votati alla conquista. Eraclito diceva bene che la guerra è in tutte le cose, che la giustizia è conflitto e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta. Visto che ferro e fuoco non si possono evitare, non resta che imparare a vivere nel fuoco senza bruciarsi».

«Con la costanza della salamandra?».

«Eh».

«E' un vero miracolo che in mezzo a questa mischia di predoni Venezia sia rimasta indipendente per più di 500 anni e che tuttora rivendichi la propria autonomia sull’autorità dell'Impero e di chiunque altro, fosse anche il Papa».

«Non così per Milano. Noi ci appoggiamo di fatto alla sovranità indiscussa del Papa, sarà che siamo cittadini di un libero Comune e quello che vuoi... ma poi i milanesi, anche se non sembra, sarebbero disposti ad accettare pure la sovranità dell'Imperatore. Eh, sì. La questione non è se i milanesi riconoscano o no sul loro Comune un’autorità superiore, ma quali ne siano i limiti e le prerogative».

«Pure i Veneziani sarebbero dispostissimi ad accettare un Imperatore che, al di sopra delle parti, rappresenti un'Europa unita nella giustizia e nel rispetto dei piccoli popoli; un Imperatore saggio e onesto che si limiti a tenere a bada i ladroni di turno. Se io fossi un nobile sarei ghibellino».

«Io invece sono un guelfo, per la madonna. Mi inchino alla sovranità del Papa e non tornerei indietro neanche se mi ammazzano, senza contare che tra la mia famiglia e i ghibellini c'è sempre stata una vecchia ruggine, il mio bisnonno era andato a giurare a Pontida per la libertà dei Comuni».

«Mi son prima venexian e despò cristian. Finora la Grande Ladrona e la sua alleata non hanno mai posto limiti alle loro prerogative, avide unicamente di preservare e mummificare il loro potere, due mostri sbucati fuori dall'Apocalisse.

La bestia scarlatta e la sua amante seduta sopra a gambe larghe, madre delle meretrici e delle abominazioni della terra, la ricca signora che fornica con le sette lingue e i cento tentacoli della sua compagna. Bestia riboccante di nomi blasfemi, colei che era ed è ancora».

«Porca puttana, mi pare che stiamo esagerando un po'».

«Hai ragione, mi son lasciato un po' trascinare. Però senza la loro oppressiva presenza ogni comune potrebbe vivere in pace sul suolo italico, liberandosi dal fardello delle tasse e della corruzione onnipresente».

«Non è mica facile. Senza il controllo e il benestare pontificio tutto finirebbe nel caos e nella disgregazione. Scusa tanto, ma non vedi l'incontrollabile formicolio di Comuni sparsi sul suolo italico, tutti infarciti di invidie, ognuno in guerra col vicino? Milano contro Cremona, Venezia contro Verona. E' un tale casino. Alleanze, guerre, tradimenti, e nuove alleanze e nuovi voltafaccia si intrecciano a ritmo vertiginoso. Al di fuori della Lega Lombarda non è pensabile altra forma di coesione fra Comuni, se non con i metodi dispotici di Ezzelino da Romano che solo grazie all'uso della forza ha potuto riunire sotto di sé Verona, Padova, Vicenza, Trento e per un paio d'anni anche Treviso».

«La Lega Lombarda ha commesso un errore. E se continua su questa strada non potrà certo estendersi al di là della pianura Padana. Si è intromessa a Verona con il pretesto di ristabilire la pace fra le fazioni in lotta, ha imposto alla città un podestà milanese e poi, quando Ezzelino le ha consegnato in catene il conte Rizzardo di San Bonifacio, lo ha liberato. I da Romano possedevano una lunga tradizione antisveva, Ezzelino era nella Lega, non dovevate beffarlo e sottrargli il sostegno politico per favorire i suoi rivali Estensi».

«Ma cazzo dici, pur dopo molti contrasti e con grande diffidenza Ezzelino era stato confermato nella Lega e se egli ha cambiato insegne è perché comodava ai suoi interessi.

Noi favorire gli Estensi? Bella scusa, ricordati che nella battaglia di Cortenuova, ben cinque anni dopo il tradimento di Ezzelino, gli Estensi erano ancora e sempre schierati dalla parte dell'Imperatore».

«Certo, hanno dimostrato fedeltà... ma voi fin dall'inizio li avevate lusingati per poterli tirare dalla vostra parte in cambio di Ferrara, e che cosa avete ottenuto dalla girandola di alleanze rovesciate? Che la Lega ha perso la Marca Trevigiana e ha guadagnato un avversario scottato e diffidente come Ezzelino. Egli ha combattuto nemici personali ed ex alleati con tanto di avvallo del bando imperiale e ha aperto il passo della Val d'Adige alle migliaia di cavalieri provenienti dalla Germania».

«Niente, non c'è soluzione a queste beghe senza fine».

Interviene sommariamente un genovese che stava ascoltando i nostri discorsi: «La soluzione equilibrata e realistica è una ventina di grandi Ducati, federati in un unico regno. Solo una Lega del genere potrebbe andare bene anche a Genova, perché per essere amici bisogna che ognuno resti padrone in casa propria».

«Forse sì -ribatte Alberto-. Pensandoci bene non è poi un'idea tanto assurda, perfino la Germania è divisa in una ventina di regioni tra Ducati e Contee e in effetti queste sarebbero rimaste libere se non si fossero lasciate comprare dalla moneta sonante dell'Imperatore».

«Certamente -incalza il Genovese-. Ogni Ducato e quello Genovese ne sia d'esempio, può avere in sé la capacità di autodeterminarsi e questo vale per tutti i Ducati l'Europa».

«Un'Europa in cui tutte le lingue hanno il diritto di essere parlate liberamente» ancora Alberto.

«Ecco, hai capito, ovunque c'è una lingua c'è un Ducato da rispettare. La faremo finalmente finita con il Latino, la lingua universale del Sacro Romano Impero, la lingua morta della messa che nemmeno i preti capiscono più. Il futuro sarà nelle lingue volgari» aggiunge il genovese.

L'espressione di Alberto si rabbuia:

«Grazie tante, a me il futuro mi mette in ansia. Cazzo ne so, prima o poi i successori dell'Imperatore potrebbero spuntarla sulla Lega Lombarda. Se questa volta dovessimo cadere sotto il giogo di un nuovo Imperatore sarebbe finita per sempre, non vedo futuro possibile. Quel pirla di Corrado IV si prepara a scendere in Puglia per rivendicare il titolo imperiale, il che è di pessimo auspicio».

«Comunque vada non bisogna mai disperare -conclude il genovese-. Io mi consolo pensando che se fatalità un giorno, vittima di un Mongolo o di un perfido tiranno, il nostro Ducato dovesse cadere sul campo di una formidabile battaglia il popolo genovese continuerà pur sempre ad esistere, poiché se anche vengono cancellati i nostri confini non è detto che muoia la tradizione e la lingua della nostra gente. Ne sia d'esempio l'ammirevole popolo ebraico che senza avere un proprio reame da più di millecinquecento anni e cioè da quando il regno d'Israele fu distrutto dagli Assiri, pur tuttavia ha mantenuto la fermezza di una compagine cosciente della propria peculiarità ed autonomia di pensiero».
 
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view post Posted on 1/2/2009, 14:18

ottimo

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Un preziosissimo calice d'oro massiccio, una moltitudine di rubini sul suo bordo superiore, quattro grossi smeraldi ai quattro lati e incastonato sul manico un diamante enorme, stupendo, raggiante di riflessi dorati come la stella del mattino che annuncia l'aurora: di sicuro non torno a mani vuote dal Levante, ho un tesoro inestimabile da consegnare ai piedi della regina dei mari.

Dopo aver costeggiato la Dalmazia e le coste dell'Istria, le vele della carovana si spingono nel golfo schierate come lo stormo di aironi in arrivo da un lontano continente. L'acqua della laguna è iridata, ha i riflessi mobili e cangianti dell'opale. Nidi abbandonati, costruiti con canne ed erbe palustri, occupano i salici degli isolotti.

In piedi sul ponte della nave fisso costantemente i canneti all'orizzonte. Attendo con ansia l'avvistamento. E' vicina. Lo sento. Da quando la lasciai ho subito una profonda trasformazione e non solo nell'animo, fisicamente sono cambiato al punto di essere quasi irriconoscibile. Sono molto più robusto di quand'ero partito: a forza di remare sui banchi della galera sono diventato muscoloso, pur restando stretto in vita e armonico nelle proporzioni. Sul viso la pelle è liscia e abbronzata, le labbra carnose hanno ritrovato un costante sorriso e i capelli, strapazzati dalla salsedine, si sono ricoperti di ciocche bionde che s'illuminano di riflessi dorati sotto i raggi del sole.

Ecco... Venezia esce dal mare! La prima potenza marittima del Mediterraneo emerge dalle acque. Sei secoli fa, era la sede di una minuta comunità di pescatori e salinai, una remota provincia bizantina sperduta tra paludi e canneti, ma metro dopo metro ha strappato lo spazio per le sue case alla viscida melma della laguna, si è fatta Ducato e Libero Comune, ha ottenuto lode e riconoscimento dagli imperatori d'Oltralpe e con audacia sproporzionata ha proiettato nel lontano Levante le sue ambizioni. Oggi, grazie alla corale volontà di sopravvivere del suo piccolo popolo di mercanti, di falegnami e di artigiani, la città lagunare si impone vincente ad arbitro e protagonista nella scena del Mediterraneo.

L'approssimarsi del molo d'attracco di Riva degli Schiavoni mi comunica una tale frenesia che non sto nella pelle dalla voglia di scendere giù a riabbracciare forte la mia città. Al colmo della gioia, con il cuore che sta per scoppiarmi nel petto, mi sforzo di trattenere le lacrime davanti agli occhi della ciurma.

So che questo momento rimarrà indelebilmente stampato nella mia memoria. Affascinato dall'incanto della visione non riesco a staccarmi dal Leone assiso sopra la colonna della Piazzetta, a fianco delle architetture bizantine del Palazzo Ducale. E' in arrivo un temporale estivo e già si scorgono in lontananza i bagliori dei lampi, ma uno squarcio di cielo terso sovrasta ancora la colonna. Il Leone ha zampe possenti e i riccioli della criniera scendono ondulati sul collo a mo' di raggi solari, il volto ruggente è scolpito come una maschera su occhi imperscrutabili e le sue ali da cherubino si aprono maestose verso il cielo. Questa chimera a me cara sopra ogni cosa è l'emblema vivente di un'unica storia intessuta da milioni di vite. V'è chi la dice antica di mille e più anni, miracolosamente scampata a infiniti tentativi di annientarla, eppure la chimera vive, respira l'arco dei secoli, è ancora qui, integra, a testimoniare l'arcano mistero della Pax profunda ai centomila Veneziani sparsi fra la città e le coste orientali del Mediterraneo.

All'improvviso dall'alto dell'albero maestro un marinaio grida a gran voce:

Viva San Marco! e quel nome, come goccia che cade in un vaso colmo e lo fa traboccare, trae ai miei occhi lacrime irrefrenabili.

Scendo a terra, è il 19 agosto. Che effetto mi farà incrociare lo sguardo terribile del Doge? Quale fine mi toccherà dopo avergli consegnato la Coppa?

Indossando una grande cappa di cotone entro direttamente nel cortile interno del Palazzo Ducale. Mi piazzo sulle panche del porticato con le spalle appoggiate al muro, fatalità sono seduto appena sotto la bocca del mascherone, quello in cui si depongono le denunce segrete indirizzate all'Inquisizione. E' comunque la posizione ideale per osservare indisturbato la scala che scende dal portale interno del Palazzo. Ho l'ampio cappuccio abbassato sugli occhi e spio di traverso fra le colonne e non stacco un momento lo guardo dalla scala, nella speranza di cogliere l'uscita del doge. Al centro del cortile mi fa compagnia un uomo alla gogna con i piedi trattenuti nei ceppi di legno.

Trascorro un giorno intero in trepida ed immobile attesa, nessuno mi riconosce. Solo la tonaca di alcuni domenicani di passaggio mi fa rabbrividire. Finalmente vedo il doge Marino Morosini che esce dal portale e scende frettolosamente la scala, lo seguo con lo sguardo e dalla sua direzione intuisco che va alla Basilica.

La Basilica d'Oro è collegata al Palazzo Ducale ed in pratica rappresenta la cappella personale del doge, tanto che la sede del vescovo sta altrove. Il Morosini non ama mescolarsi alle cerimonie ecclesiastiche ed alle messe sontuose della Basilica, se non quando vi sia costretto da obblighi formali. Egli preferisce raccogliersi entro una graziosa cappelletta basilicale addossata alla facciata che da sul cortile del Palazzo Ducale, appunto di rimpetto alla scala del portale interno.

Proprio alla cappelletta è diretto il doge, solo, senza scorta. E' invecchiato moltissimo; dalla notte del processo sono passati solo otto mesi, un periodo volato per me alla velocità della luce, eppure a vedere lui sembra siano trascorsi dei secoli.

Mi alzo dalla panca e lo seguo stringendo fra le mani la bisaccia che contiene la Coppa. Stremato, incapace di sopportare ulteriormente la penosa incertezza della mia condizione, sono pronto a rischiare il tutto per tutto. Non rinuncerò al compito che mi sono prefissato, un impulso imperativo e categorico mi obbliga a riconsegnare la Coppa al doge, ottenga o no il suo perdono affronterò il mio destino, qualunque esso sia.

Sono davanti alla porta della cappelletta. Busso. Entro al cospetto di Sua Serenità e da in ginocchio che era egli s'alza in piedi con aria interrogativa.

Spiego con voce calma:

«Voglio consegnare un prezioso oggetto: appartenente alla Sua nobilissima famiglia, andato perso quando Manuele Comneno arrestò i Veneziani di Bisanzio, finito nelle mani dei Crociati Ospitalieri col saccheggio della Basilica di Santa Sofia. L'ho ritrovato a Cipro e lo porgo al suo legittimo possessore».

Estraggo il calice dalla bisaccia e glielo presento a braccio teso. Il doge lo afferra in silenzio con lo sguardo pieno di stupore, è ammaliato dal vivace luccicare del suo oro e delle sue pietre preziose, lo innalza sopra la fronte nel chiarore evanescente del tempietto.

La cappella sale slanciata ed elegante verso l'altissimo soffitto, al di sopra dei pilastri sei archi a sesto acuto si riuniscono all'apice e vanno a formare le nervature della volta a crociera. Lo spazio tra i sottili pilastri è interamente occupato da lunghe finestre ogivali che inondano di luce l'interno.

Oh chiara luce! Le vetrate multicolori diffondono un nitòre senza confronti e comunicano la netta sensazione di un luogo in cui regni il soprannaturale. Sospesi sopra la porta d'ingresso spiccano i dipinti degli scudi di famiglie nobili e fra questi lo stemma dei Morosini, una striscia azzurra in campo oro.

Il doge fa qualche passo sulle sue calzature scarlatte e posa la Coppa sull'altare. Prende poi del vino rosso, lo versa nel vaso finemente decorato di spighe e beve dal calice sollevandolo a due mani.

La mia mente arde d'intenso fervore, in ogni particella del mio spirito sento palpitare un'energia sconosciuta, una sensazione di totale pienezza appaga in me i lunghi tentacoli del desiderio. Per un attimo il mio spirito non ha più confini... sprofonda negli abissi del tempo, vi raccoglie la luce dell'anima e vibra all'unìsono con la grande Anima del Mondo.

Il Doge si volge sorridente:

«Ora mi rammento di te, sei Petrangésio, il mosaicista della Basilica d'Oro. Fra tre giorni ti comando da me in udienza al Palazzo Ducale».

Mi inchino ed esco.



* * *



«Il Papyrus di Micca non figura nell'Indice dei libri proibiti - sentenzia il doge seduto nella saletta delle udienze -. E' stato analizzato a fondo dall'Inquisitore, grande esperto di lingua greca latina ed ebraica. Egli me ne ha letto personalmente la versione tradotta.

Manifesta conclusione: il manoscritto è una semplice raccolta di ricette per fabbricare tinture e vernici, non contiene alcun riferimento a dottrine eretiche. Già il suo nome fa sorridere... Micca vuol dire pappa: il papiro della pappa...» e ridacchia fra sè.

In piedi al centro della saletta, alzo gli occhi al cielo e faccio un ampio respiro di sollievo. Sopra le spalle del doge noto soltanto adesso un grande affresco.

Poi chiedo:

«Mi perdoni Sua Serenità, che ne è ... del mio compagno di cella?».

«Il greco?».

«Sì, Zagreo».

«Siamo ancora in attesa che il Consiglio voti la pena» secco.

«Ma, allora è vivo?».

«Il giorno dopo l'interrogatorio abbiamo catturato il suo complice, un greco che ha confessato tutto.

Zagreo ha fatto scalo a Smirne e là, nell'Impero di Nicea, ha incontrato il complice. Hanno fatto il viaggio insieme su un mercantile genovese.

La missione di Zagreo non si esauriva a Verona col raccogliere i fondi di Ezzelino: bisognava consegnare a Genova un messaggio urgente di Giovanni Vatace.

Il messaggio dell'Imperatore di Nicea sanciva la disponibilità dei greci ad accettare il patto loro proposto dai genovesi. Il piano congiunto prevedeva un abbandono degli accordi tra genovesi e veneziani, nonché un trattato di alleanza tra Genova e Nicea per la riconquista di Candia».

Il doge Morosini è seduto su una poltrona riccamente intarsiata e indossa una semplice tunica che unicamente per il suo colore purpureo attesta la regalità del personaggio.

Egli intende conferirmi un incarico ufficiale per il vestibolo della Basilica e cioè la decorazione a mosaico della cupola laterale, proprio quella che esternamente corrisponde al riquadro dei quattro medaglioni della piazzetta dei Leoni:

«Da ora innanzi sei reintegrato nel tuo ufficio presso il laboratorio dei mosaicisti della Basilica d'Oro. Il vostro Capomastro è gravemente ammalato e si è ritirato definitivamente dal suo posto...».

«Oh, Mastro Apollonio, quanto mi spiace».

«Sarà tuo compito dirigere la decorazione della seconda cupola del vestibolo laterale, riprenderai la storia di Giuseppe iniziata da Mastro Apollonio, egli aveva finito la prima cupola ancora vent'anni fa ma il doge che mi ha preceduto, troppo impegnato a trattare con gli Armeni e a combattere Ferrara, non ha completato i mosaici.

Dovrai concepire lo svolgimento della storia come l'illustrazione di una lezione morale. Lo scopo catechetico, anzitutto, prima di quello storico ed estetico. Il mosaico dovrà essere facilmente comprensibile alla gran massa dei popolani che non può apprendere la Bibbia da una diretta lettura.

Poiché ha detto l'evangelista Marco: a voi è dato il mistero del regno di Dio, ma a coloro che ne sono privi, ogni cosa è fatta tramite parabole».

Uscito dall'udienza del doge, ritorno tra le vetrate della cappelletta. Essa è riservata al doge e a pochi altri eletti ma io vi avevo libero accesso in qualità di addetto alla manutenzione dei pavimenti musivi. Al suo interno prego San Marco con devozione, in ginocchio a terra sul mosaico con la punta delle mani giunte a contatto delle labbra. A capo del laboratorio non sono mai stato ed il ruolo di direttore dei lavori è pieno di incognite e responsabilità, perciò chiedo aiuto al nostro evangelista e invoco la sua benevola ispirazione per l'opera di abbellimento della cupola.

Poi alzo lo sguardo dal pavimento e nuovamente assaporo la suggestiva atmosfera che avvolge e satura quel luogo sacro. Osservo la volta che s'innalza con slancio e le altissime finestre istoriate che riempiono le pareti e creano una struttura così aerea che pare sorretta da un incantesimo. La luce del sole attraversa i vetri colorati e li fa rifulgere, l'effetto è carico di fascino, un vibrare di immagini pulsanti che danno vita a personaggi di sogno. Sulla finestra avanti a me è descritta l'apparizione che si verificò nel solstizio d'estate di duecento anni fa, allorché l'evangelista si mostrò ai fedeli della Basilica sotto la forma emblematica di un leone alato.

Mentre lo guardo con occhi trasognati, il leone di San Marco s'illumina sulla finestra, vibra in un gioco di vividi colori, fa risaltare i nitidi contorni della sua immagine e comincia ad animarsi di vita propria... Nel buio si accendono bagliori di fugaci esplosioni e lunghe colate di lava scendono dalle bocche aguzze dei vulcani: tra fiumi infuocati e zampilli ardenti che proiettano scie nella notte si scatena lotta furiosa tra il sulfureo leone e l'aquila d'argento vivo. Agitando ali maestose, l'aquila si difende col becco e con gli affilati artigli, si batte coraggiosa, accanita, ma è sul punto di soccombere e vittima del calore intensissimo del luogo, all'improvviso s'incendia.

Rimane un misero cumulo di ceneri. Ma ecco da questo prende corpo una sagoma d'uccello e tornata miracolosamente in vita l'aquila ricomincia a lottare. Il combattimento sembra destinato a non avere fine, più volte il leone serra le fauci sulle sue ali, la piega, la trascina in terra, cerca di assestarle il colpo di grazia con la zampata, inutilmente: all'ultimo momento, il leone deve ritirarsi veloce per non venire avvolto da un rogo di piume in fiamme. Così, mentre ogni volta l'aquila risorge dalle sue ceneri fresca e rinvigorita, con l'andar del tempo il leone è sempre più affaticato, coperto di ustioni e di profonde ferite.

Al colmo dell'ira il leone spicca un ultimo fulmineo balzo, calpesta rabbioso le ceneri fumanti, e grossi rivoli di sangue scendono lungo le zampe sulle polveri argentee e la cenere si mescola al sangue e il sangue accende la cenere e genera un eccezionale prodigio: il manto del leone riluce d'oro, ali incandescenti si fissano mirabilmente sul dorso felino!


Arnaldo da Villanova è un medico di successo, ha studiato a Montpellier e alla Sorbona di Parigi, la più celebre delle università. Alla Sorbona ha conosciuto i maghi Alberto Magno e Ruggero Bacone e si mormora sia in possesso di una pietra magica. Sempre in giro per l'Europa, noto per alcune sue guarigioni quasi miracolose, è ovunque ricercato da uno stuolo di nobili e popolani bisognosi di cure.

Nel mese di ottobre domino nuovamente la Piazzetta dei Leoni e tornato ad essere l'uomo più informato del sestriere, vengo a sapere del suo arrivo in città. Sono subito preso dal vivo desiderio di conoscerlo e di vedere finalmente da vicino un sapiente in carne ed ossa. Perciò una mattina raggiungo il suo studio e mi metto in coda con i malati, aspettando pazientemente il mio turno.

Tocca a me. Entro e sono alla presenza di Arnaldo da Villanova. Sulla scrivania sono appoggiati i suoi lunghi guanti di camoscio ed il berretto da medico. Dalla sua magnetica persona promana grandezza d'animo, vengo colto da soggezione e tuttavia sono subito esplicito:

«Non sono venuto per la salute del mio corpo, bensì per rendermi partecipe di una briciola del vostro sapere filosofico... qualche lume sulla pietra magica».

«La pietra magica?- perplesso si sofferma un attimo a lisciare il mento ben rasato -. Sono cose da lasciar stare, non val la pena.

Chi vi ha detto poi che io ne sappia qualcosa».

«Vi prego siate caritatevole, non lasciatemi nel dubbio».

Apre la porta per vedere quanta gente abbia ancora in coda, quindi torna a sedere:

«Chi siete?».

«Sono un mosaicista, dirigo il laboratorio della Basilica d'Oro».

Udito ciò, scioglie le sue riserve ed assume un tono franco e cordiale come fossimo amici da lunga data:

«Ah, il procedimento per ottenerla è scritto per intero sui medaglioni del portale centrale di Notre Dame, a Parigi. Quand'ero studente, dopo aver ascoltato la fisica aristotelica di Tommaso d'Aquino, andavo a riflettere in quella severa cattedrale e passavo ore ed ore a meditare sui medaglioni».

Colgo l'occasione per farmi decifrare l'ultimo oscuro medaglione della Basilica d'Oro:

«Anche nella nostra Basilica i medaglioni custodiscono dei segreti magici: sulla facciata laterale v'è un medaglione in cui è scolpito un uomo nudo che avanza tra due alberi di quercia, cavalca un leone sorridente e suona il flauto con gli occhi rivolti al cielo».

«Sì, è chiaro, trattasi della medesima operazione magica che a Notre Dame figura nel medaglione del grifone».

«Grifone, il guardiano delle miniere d'oro degli Iperborei? Lo stesso che veniva scolpito sui templi d'Apollo, le cattedrali dell’antichità?».

«Perché no, trattasi della medesima chimera, un animale mostruoso con corpo e zampe da leone ma testa e petto d'aquila. Il grifone simboleggia l'equilibrato compenetrarsi delle due opposte nature.

I maghi nel descrivere la realtà ricorrono a coppie di concetti complementari ognuno esclusivo dell'altro sebbene, pur escludendosi logicamente a vicenda, dipendano l'uno dall'altro per loro stessa definizione».

«Come ci può essere un equilibrato compenetrarsi tra due nature che si escludono a vicenda?».

«Hai studiato la geometria?».

«Un po'».

«Ponendo in connessione l'insieme dei campi del sapere umano si ottiene una visione unificata della realtà: in geometria, per definizione, si considerano enti complementari il punto fisso e la circonferenza tracciati dal compasso».

«Non afferro».

«Pensa alle onde concentriche sollevate da un sasso che cade sulla superficie dell'acqua stagnante».

«Lo so è un'immagine che risveglia armonia».

«Pensa ora al fondersi del cerchio e del punto nella spirale».

«I cerchi concentrici della spirale? Sono un gioco di illusione ottica, non possono descrivere la realtà del mondo».

«Pensa a un mondo costituito da innumerevoli spirali che s'intrecciano l'una all'altra e vibrano insieme all'infinito».

Per un attimo Arnaldo da Villanova rimane assorto in silenzio, assente. Poi continua:

«A te dirò apertamente e in tutta sincerità che entrambi i medaglioni delle nostre care cattedrali simboleggiano la Pietra magica. Nel grifone v'è l'armoniosa fusione del leone sulfureo e dell'aquila mercuriale. Una volta ricongiunti entro la compagine individuale, il Mercurio e lo Zolfo fanno da tramite all'ineffabile unione tra Fisso e Volatile sovra-individuali.

Così, in virtù della grazia divina, gli irriducibili princìpi del Macro e microcosmo trovano finalmente pace nella Pietra magica».

Non riesco più a seguire l'intricarsi dei suoi ragionamenti, ho perso il filo mentre ripensavo al suonatore di flauto. Agitando le dita su un flauto immaginario aggiungo qualcosa giusto per trarmi d'impaccio:

«Perciò nella musica è l'armonia dei contrari, nell'uomo che suona il flauto come nella cetra d'Apollo».

Leggo nell'espressione del suo volto che la mia conclusione non c'entra per niente. Mi inchino, ringrazio e mi avvio per uscire.

La voce del medico mi blocca sulla soglia:

«A cosa stai lavorando, mosaicista?».

«Adorno una cupola della Basilica con la storia di Giuseppe».

«Domattina devo partire per università di Napoli ma sulla via del ritorno passerò per Venezia e verrò a trovarti nella cupola».

«Sarà per me un grandissimo onore».

Ringrazio di nuovo con una serie di inchini ed esco nella calle lasciandolo al suo pressante lavoro.

Il ponte di Rialto. Unico passaggio sul Canal Grande e spina dorsale di Venezia. E' sovraffollato, i venditori ambulanti lo hanno invaso e trasformato in un mercato a sé, mi meraviglio come questo ponte di legno non crolli sotto il peso di una tale densità di passanti. Salgo i gradini. Per avere un po' di spazio a mia disposizione devo fermarmi nel mezzo del ponte, nel tratto levatoio, quello che consente il transito degli alberi alle galere mercantili. Appoggio i gomiti sul parapetto e rifletto sulle parole dell'illustre medico, mi paiono di grande profondità speculativa ma non riesco ad afferrarne a pieno il reale significato.

Forse non sono sufficientemente iniziato al linguaggio contorto della magia o forse mi mancano la grammatica e la dialettica, le basi degli studi classici cui un artigiano come me non può accedere. Il grifone dovrebbe riunire in sé il simbolismo del Cielo e della Terra, magari legati insieme dall'aurea catena di Omero? O forse no, può darsi che gli opposti siano attirati l'uno verso l'altro semplicemente come la calamita attira il ferro...

Accidenti, ecco cos'è, mi sono scordato di porre la domanda cruciale, il dubbio che mi tormenta dal tempo della prigionia nei Pozzi, il mio antico e insoluto problema, risolto il quale scioglierei l'enigma degli opposti.

Dove collocare la Realtà ultima?! Nel Fisso o nel Volatile? In pratica: nel mondano o nello spirituale?

Mi sembra sia questa la questione fondamentale, sapere ove alberghi il reale nell'insanabile contrasto fra due mondi paralleli, quello terreno e quello celeste, l'uno ricettacolo del peccato l'altro espressione della perfezione.

Forse in nessuno dei due?

...nessuno dei due? Ma no, da qualche parte deve pur essere, priva di Realtà la vita perderebbe ogni senso, diventerebbe simile alla storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di rabbia, ma senza significato.



* * *



Mentre scendo i gradini del ponte di Rialto mi viene in mente Didi. Voglio comprarle un regalino, è un modo per ingraziarmela. Ho da farmi perdonare uno scherzo piccantuccio che le ho fatto. No, non si tratta della solita piramide cabalistica, l'oracolo che usai per raggirare quella fanciulla e permettere al mio amico di spassarsela. Didi è una cara ragazza e ne ho abusato fin troppo, non sospetta di niente ma non appena le consegnerò il dono intendo palesarle la burla. Chissà che sorpresa per lei.

Il quartiere commerciale di Rialto attira gente di ogni razza e colore: mercanti di Samarcanda, ricchi sceicchi d'Arabia, commercianti ebrei ed armeni, ambasciatori ungheresi, tedeschi dell'Hansa, trafficoni pisani e amalfitani, servitori neri, schiave egiziane, qualche raro mongolo Ilcano, marinai spagnoli, attori francesi, affaristi inglesi e olandesi. Rialto mi è sempre parso la sintesi del mondo intero sin da quando vi gironzolavo da ragazzino, curiosissimo a spiare le merci esposte alla rinfusa sulle bancarelle, e credevo veramente vi fosse rappresentata la completa varietà delle cose esistenti sulla terra.

Fra i chiassosi richiami dei venditori passo davanti a un commerciante di cavalli arabi, grandi e massicci destrieri da battaglia; dei veneziani si avvicinano mostrandomi sul braccio i girifalchi incappucciati, l'astore e il falco pellegrino; a lato, un commerciante russo invita i nobili a bere la cervogia, la birra con miglio e miele, e intanto declama i pregi delle sue pellicce di zibellino, ermellino, scoiattolo e volpe argentata, piuttosto che consegnarle alla spietata concorrenza dei tedeschi dell'Hansa egli ha preferito venire fin qui, a venderle di persona.

Le nobildonne veneziane chiacchierano rumorosamente sotto il porticato, a gara tastano le stoffe multicolori: i raffinati cremisini e i finissimi zendadi, i tessuti di seta e oro dei Curdi, la seta preziosa di Mosul, la seta Jasdi di Persia. Una ricca signora esce dalle colonne per controllare alla luce viva un drappo in seta colorato con l'indaco e le popolane la guardano con invidia mentre i loro mariti, con finto entusiasmo, chiedono il prezzo del tessuto in pelo di cammello... tutto per distrarle da quella seta costosissima, ben al di fuori della loro portata.

Le scene di quei poveri mariti imbarazzati mi rattristano e penso a Didi che è una setaiola e sbozzola, fila, tesse la seta tutto il santo giorno, ma per ironia della sorte non possiede un solo abito in seta. Ecco, se fossi ricco avrei già trovato cosa regalargli, un bel campione di seta Jasdi, purtroppo nemmeno io ho sufficiente denaro in tasca, devo accontentarmi di un dono più semplice. Mi guardo in giro.

Il pescivendolo ostenta sul banco il viscido prodotto della pesca: i branzini dalle bocche spalancate e dalle branchie vistose; le orate dalle scaglie cesellate, che emettono riflessi azzurrati, gialli e argentei; e lo scorfano, alquanto apprezzato nella zuppa di pesce ma oltremodo brutto e pericoloso, mostriciattolo marino le cui pinne da pipistrello nascondono spine velenifere.

Le chele degli scampi e le zampette dei gamberi brulicano nervosamente, le anguille vibrano nella vasca come serpenti d'acqua e i tentacoli che promanano dal corpo gelatinoso di una seppia s'intrecciano con quelli dei calamari.

Passeggiando, passo bruscamente da un odore all'altro, ho appena abbandonato il banco del pescivendolo e non ho ancora finito di godermi il profumo di un fioraio che mi giunge il lezzo di formaggio del negozio accanto e un attimo dopo, nell'imboccare la Ruga degli Speziali, ecco i profumi pungenti delle spezie d'Oltremare.

Allora mi fermo, entro nella bottega dello speziale e osservo ogni cosa con sguardo indagatore. Le spezie sono etichettate ed allineate sulle mensole di legno, entro vasi di vetro che lasciano trasparire i colori esotici e vivaci... gialli, rossicci, marroncini, lì la galanga, il tamarindo, il turbitto, più sopra il rabarbaro e il cubebe rampicante. Al bancone lo speziale sta pesando attentamente sulla bilancia un pugnetto di una rara pianta aromatica, è una novità giunta dall'oriente e ne orecchio il nome mentre vien detto al cliente: Spigo di Giava.

Come rinunciare al chiosco della fruttivendola? Ligio alla consuetudine mi fermo da questa ragazza prosperosa per scambiare qualche battuta di spirito, mi offro di darle una mano a raddrizzar banane, sorrido e intanto la spoglio con gli occhi. Indugio a lungo sulle sue curve apposta perché lei se ne accorga, so che quegli sguardi indiscreti la gratificano, quasi vada fiera del suo corpo e ci tenga ad esibirlo sulla piazza al pari delle sue ceste colme di frutti e aggraziate con fiori come cornucopie.

Trascinato da scabrose fantasie la succhio e la mangio fino a saziarmi di lei. Ha una bocca rossa come le ciliege, denti bianchissimi di cocco e una lingua tenera come la polpa di caco. Tutto il suo corpo è mangereccio, anche i polpastrelli sono pistacchi e le unghie mandorle acerbe. Il colore verde del vestitino nasconde le sue delizie quanto il manto di un albero da frutto... allora, con le dita scosto delicatamente le foglie di un rametto e scopro due lucide mele al posto delle tette e datteri appiccicosi ai capezzoli. Godo a indovinare liscio e tondo come un cocomero il suo sedere, vellutata come buccia di pesca la pelle delle cosce, e in mezzo, una bella susina succosa.

Arrivato in fondo al mercato, torno indietro verso il cuore di Rialto, svolto in Ruga dei Orefici ed entro nei muri di un edificio che ha le finestre ridotte a strette fessure. E' la gioielleria del mio amico, lui è un furbastro, espone sul banco monili ed anelli ma so bene quanto accuratamente nasconda le pietre più preziose. Per pura curiosità gli chiedo di mostrarmi un diamante del Deccan, egli lo estrae dal forziere e mi invita ad ammirarne la trasparenza ed i riflessi iridati.

Non ho certo le lire di grossi per acquistarlo, tuttavia:

«Mi piace, lo prendo, - scherzando - andrebbe giusto bene per farci un anello di fidanzamento, ti propongo in cambio una enorme pietra di carbon cinese... ti avverto subito che qualcosetta ci rimetti».

«Già, il carbone brucia e ti lascia come ricordo un bel mucchietto di cenere, questo invece è incombustibile e nessuna pietra al mondo lo può scalfire.

Per la tua innamorata ti posso dare... posso scambiare il tuo carbone con quella statuetta di Cupido» e indica sul banco una piccola statuetta di metallo dalle fattezze piuttosto grezze, un uomo adulto con la faretra sulla spalle.

«Ma quello è Apollo. Da dove arriva?».

«Da Montegrotto - risponde -. L'ha trovata un contadino che stava arando il suo campicello».

«Montegrotto, in quale zona della Grecia si trova, è forse un'isola?» chiedo infervorato.

«No, niente Grecia. E' vicino a Padova».

Deluso lascio perdere la contrattazione:

«Lasciamo stare, usa la tua statuetta per turlupinare qualche francese in gita di piacere. Io mi terrò il carbone».

«Prova a venderlo ai Mamelùcchi d'Egitto, quelli sì che sono svegli... Due dinar d'oro in cambio di un grande zaffiro blu, in autentico vetro di Murano».

Saluto ridendo ed esco nel via vai.

Non l'intrico del bazar di Damasco, ma il labirinto di calli e callette di Rialto! Apoteosi del superfluo, vortice di fantasia e tinte smaglianti, provetto ingegno dei manufatti in vetro, avorio e porcellana. Ecco le tovaglie di pizzo e le spade pregiate in acciaio indiano e il muschio afrodisiaco ricavato dal cervo e l'incenso dello Yemen a quaranta bisanti al vaso; laggiù, i vini della fiera dello Champagne, qui a lato l'olio di sesamo e la farina di sagu delle palme della Malesia, poco più in là i coralli del Mar Rosso e le conchiglie dell'Indocina con le loro forme bizzarre, spiraleggianti e uncinate.

Cerco qualcosa di bello per Didi e butto l'occhio distrattamente a destra e a sinistra in mezzo a quel grande assortimento. Finalmente mi decido davanti a una bancarella di bigiotteria, acquisto un paio di graziosi orecchini d'ambra, sono l'articolo più carino e hanno un buon prezzo, sufficientemente all'altezza della mia borsa.

Nell'accingermi a pagare il venditore tiro fuori dal borsellino una moneta consunta che sul momento non riesco ad identificare, la giostro fra le dita, la giro e la volto, osservo una faccia e poi l'altra, e vi riconosco l'uomo e la donna congiunti in amplesso: ad occhi spalancati rivedo il dito di Zagreo che disegna il sole e la luna sulla parete dei pozzi.

La medaglia di Diomede! Sull'istante una folgorazione, ho la chiara consapevolezza di afferrare la Realtà ultima:

«Le molteplici forme del mondo e l'omogeneo sostrato della Prima Materia sono come le due facce di questa medaglia senza valore: la sua faccia visibile e la sua faccia invisibile mi costringono a scegliere senza sosta fra un punto di vista e l'altro, tra un mondo attuale e uno virtuale. Però le due facce sono soltanto aspetti complementari, corrispondenti ad un unico elemento di realtà insito nella moneta in sé.

Ora ne ho la certezza, la Realtà ultima è la Cosa Unica. La Pietra magica è nell'unione del Sole e della Luna! Non a me la gloria ma alla grazia di Dio che sola concilia l'inconciliabile».

Colori, macchie indistinte prendono forma di oggetti, un suono confuso già udito ma non inteso mi desta da un sonno beato. La voce belante del commesso mi rituffa bruscamente nel chiasso del mercato:

«Ti! Ti beo! Utu darme sto scheo?».
 
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34 replies since 10/11/2008, 15:16   5691 views
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