ROMANZO WICCA

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view post Posted on 1/2/2009, 15:34

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Dacché ho rimesso piede a Venezia, riabilitato e ufficialmente inserito nel laboratorio dei mosaici, un mucchio di cameriere mi fa la corte nella speranza di sposare un capo artigiano, ma io ho la mente occupata e non si tratta della ragazza degli orecchini.

Non ho scordato Rezia, né è passato giorno che non l'abbia pensata, da più di un mese controllo assiduamente se per caso sia tornata a Venezia. Sera dopo sera, cammino solitario lungo Calle dei Botteri e raggiunte le Fondamenta dell'Olio mi fermo sul bordo del Canal Grande, a fianco delle imbarcazioni che scaricano l'olio d'oliva proveniente da Candia. Seduto sulla riva opposta al palazzo di Rezia, me ne sto con l'animo sospeso nella speranza di vederla affacciarsi al balcone e passo ore e ore a fissare quell'edificio, al punto che ne ho imparato a memoria la posizione di ogni singola mattonella.

Posto a fianco di Ca' Sagredo, il pregevole palazzo è una costruzione a tre piani dotata di un'originale merlatura sul tetto e di un porticato che funge da fondaco a livello dell'acqua. Nei due piani superiori i balconcini dei loggiati possiedono colonnine orientaleggianti ad archi fioriti, intrecciati, e arricchiti elegantemente da preziose fasce e cornici. Sul lato sinistro della facciata ci sono tre semplici finestre quadrate, una per ciascun piano al centro di uno spazio di parete spoglia. Ancora più a lato, presso l'angolo che delimita la parete, c'è un raffinato balconcino ad ogiva. L'arco acuto del balconcino è ornato alla sommità da un giglio sistemato tra due cerchietti che, ciascuno col punto nel centro, sono i simboli astronomici del sole. Per finire, finissime decorazioni in oro aggiungono sfarzo ai marmi traforati e alle tinte delicate dell'intero rivestimento.

Le gondole in arrivo si assicurano alle strisce bianche e rosse dei pali dipinti con i colori araldici della casa; alcune persone scendono ed entrano nel palazzo, altre si riuniscono nel fondaco e ripartono, ma di Rezia nessuna traccia.

Ogni sera come di consueto, un lume si accende all'imbrunire nel balconcino che fa angolo. Se fosse la sua stanza? Lei potrebbe essere tornata a Venezia e il marito geloso potrebbe averle proibito di affacciarsi al balcone, magari l'ha rinchiusa nel palazzo ed è ripartito per la Romania.

Nel morboso attaccamento a quel genere di illusioni che traggono alimento da se stesse pur di non darsi per vinte, grido il suo nome a squarciagola:

«Rezia! Rezia!».

Niente, nessuno si affaccia. Patetico e imperterrito mi risiedo sull'argine, restio ad abbandonare il Canal Grande, e continuo a fissare ossessivamente quel lume acceso.

L'invincibile attrazione esercitata dall'arco fiorito e intrecciato del balconcino mi indurrà a perseverare nel quotidiano pellegrinaggio a quella dimora, anche ora, che è arrivato di nuovo il Carnevale e non vedo più uomini e donne approdare in gondola al palazzo ma uno spettrale andirivieni di maschere, evanescenti gelide immagini di un vuoto incolmabile che, in me, ha nome nostalgia.

Rezia è tornata ad essere ciò che era in principio, la misteriosa signora dell'ultimo di Carnevale, la donna senza volto celata dietro una qualsiasi delle maschere che arrivano in gondola a palazzo. Potrebbe essere lei là alla tremula luce delle torce, dietro quella doppia maschera d'argento, vestita di carminio e guanti bianchi. Lei, avvolta in ampi veli rosa, con il gran turbante sul capo e il mazzo delle sette mascherine colorate. Lei, quella che ride al centro dell'allegro gruppetto o l'altra ancora... E forse è proprio così che la voglio, darle ancora un volto significherebbe negare la sua essenza impalpabile, poiché a me è dato possederla intimamente solo attraverso un velo trasparente che lasci appena indovinare le linee dolci del suo corpo. La custodisco priva di qualifiche, perfino del suo stesso nome, perché anche solo un nome può offuscare la bellezza inesprimibile della sua velata nudità.

Ottobre a Venezia. Un mese che dichiara subito guerra all'incombente grigiore dell'inverno. Il Carnevale è appena cominciato e già impazza nelle calli. Didi, la ragazza degli orecchini, appare in fondo a campo S. Maria Formosa puntuale all'appuntamento che le avevo fissato pochi giorni prima, durante un trasbordo in gondola.

Quel giorno ero salito nella sua gondola alla fermata di riva Ca' da Mosto; le gondole multicolori sovraffollavano il Canal Grande cariche di passeggeri, si facevano strada in mezzo a una baraonda di barche e barconi, di burchi e burchielli, incrociavano le grosse imbarcazioni da trasporto colme di mercanzie o le zattere vuote degli ortolani chioggiotti che avevano già scaricato all'Erbaria i loro prodotti.

Le puntavo addosso lo sguardo protetto dalla maschera. Aveva gli occhi color dell'ambra, almeno ventidue anni, un bel colorito acceso e un qualcosa nei lineamenti che mi era stranamente familiare. Mi cullavo in quella sensazione di affinità, mi piaceva che ricordasse vagamente mia madre. Finché mi ravvidi, ricostruendole sul volto l’identità un tempo nota: in realtà quella ragazza era mia cugina, da bambini si giocava sempre insieme in Campo della Fava, ma a 13 anni lei e la sua famiglia se n'erano andati da Venezia. A motivo della maschera che ora portavo, mia cugina non m'aveva riconosciuto e così avevo colto lo spunto per corteggiarla per ischerzo, fino a quando non gli avessi rivelato chi ero. Grintoso, attaccai discorso col pretesto del fermaglio a falce di luna che raccoglieva con cura i suoi capelli castani, dissi che la sua pettinatura alla moda denotava buon gusto e la sommersi di complimenti, che mi venivano tanto più bene in quanto recitavo la mia parte senza la tipica ansia delle conquiste impegnative. Allegra e vivace, ella si mostrava una ragazza piena di spirito e intanto la gondola rosa salmone, drappeggiata di seta multicolore, passava ondeggiando sotto il ponte di Rialto. Raggiunto il centro sinuoso del Canal Grande, appena dopo Ca' Barzizza la gondola si fermò sulla destra a Ca' Businello. Scesero gli altri due passeggeri e restammo soli con il nostro fiacco gondoliere che un po' ammiccando, un po' prendendoci in giro, non trovò di meglio che mettersi a fischiare una sdolcinata melodia. Arrivati al traghetto di San Toma, ove l'angolo del Canal Grande si fa più acuto, la mia cuginetta mi saluta e si prepara a scendere; a me sarebbe toccato di proseguire e allora, stringendole la mano "voglio vederti ancora, incontriamoci un pomeriggio...", così con fare convincente ho fissato lì per lì un appuntamento galante e lei ci è cascata.

Rieccoci al pomeriggio dell'appuntamento in campo S. Maria Formosa. Didi si sta avvicinando. Sono venuto senza la maschera e voglio vedere la sua faccia quando mi riconoscerà, il divertimento sta tutto qui.

Si ferma a un passo da me. Ho un orecchino per mano e in piedi, rigido davanti a mia cugina, attendo che mi lanci le braccia al collo felice di rivedermi. Invece no, saluta e mantiene le distanze contegnosa. Rimango immobile e inespressivo.

Cerco di aiutarla:

«Allora, sai chi sono?».

«Come posso saperlo se non mi hai ancora detto il nome».

Rimango impalato come un fesso con i due orecchini che penzolano dalle mani trattenuti tra pollice e indice:

«Ehm, già è vero. Mi chiamo Pe... Pe…».

«Peppe Nappa» anticipa e ride del mio disorientamento.

Le metto addosso gli orecchini d'ambra e le sussurro:

«Hanno lo stesso colore dei tuoi occhi. Ascoltami bene, c'è un legame di... io...» sto per dirle che sono suo cugino ma i suoi occhi mi fissano con una tale affettuosa dolcezza che le parole mi vengono meno e prima ancora di richiudere la bocca inceppata, le sue labbra si posano sulle mie in un bacio leggerissimo, un breve istante che stabilisce l'umido contatto fra lingue.

Il gioco ha oltrepassato il limite, mi affretto a chiudere lo scherzo con la canzonatura finale:

«Io abito in Campo della Fava!» e soffermandomi sul doppio senso della fava, con gesto goliardico mi porto la mano in mezzo alle cosce.

Lei però non coglie, cambia repentinamente umore, si fa ombrosa, non parla più, sembra diventata timida e impacciata.

«Dunque ti ricordi di me?» insisto.

«No!».

Mi sa che sta mentendo. Ha intuito ma tarda ad ammetterlo, sta di fatto che adesso ormai più di così non ce la faccio a spiegarglielo e se lei non vuole saperne d'intendere... io non ne ho colpa.

Nel concordare gli appuntamenti successivi, benché ella abiti in Merceria San Salvador cioè sulla strada che faccio ogni giorno per andare al lavoro, la cuginetta mi impone di incontrarci nella parte opposta della città, nel lontanissimo campo di S. Giacomo dell'Orio, e questa stranezza, unita al perseverare di una certa sua reticenza, mi fa appunto ben supporre che abbia perfettamente capito chi sono e che tuttavia voglia far finta di niente.

Spero non si sia innamorata di me, macché! Sta piuttosto tramando qualcosa, vuole architettare una caustica vendetta per farmi perdere la faccia davanti a tutti i miei parenti. Chissà, forse non si espone perché ha un altro amante o magari è già sposata da un pezzo, comunque io non voglio darmi troppa pena né sforzarmi di indagare: i Veneziani, si sa, in politica e in amore sono sempre stati misteriosi.

Ma alla fine di ottobre, dopo un'assidua frequentazione, ecco la reciproca, dolorosa presa di coscienza. E' sera inoltrata. Didi, si appoggia sfinita ad una colonna della chiesa di S.Giacomo dell'Orio, non ce la fa più a tenersi dentro il suo silenzio, mi fissa accorata con i suoi occhi color dell'ambra e finalmente si sfoga tra la vergogna e le lacrime:

«Io sono tua cugina Diana. Una delle figlie di tuo zio. Non ti ricordi quando giocavamo insieme da piccoli? Avevo i capelli tagliati corti come un ragazzino. Andavamo insieme a Cannaregio a caccia di quaglie con l'arco e le frecce, e si tornava sempre con un magro bottino - accenna al riso asciugandosi le guance -. Ricordi a Carnevale quella volta che ci siamo dipinti la faccia con l'impiastro bianco che non veniva più via?

Il seguito lo sai, a 13 anni ho finito l'apprendistato nella corporazione delle setaiole e la mia famiglia si è trasferita nell'Elide, giusto di fronte all'isola di Zacinto. Poi qualche mese fa siamo tornati, tuo fratello ci ha detto che eri lontano in pellegrinaggio... non sapevo fossi tornato. Perdonami ti prego. All'inizio non mi ero accorta di nulla, ma quando mi hai detto dove abitavi... è stato... è stato un colpo per me».

Diana cerca di indovinarmi i sentimenti scrutando i miei occhi allungati e socchiusi come due fessure. Sono imbarazzatissimo. Solo adesso mi avvedo quanto sia stato crudele lo scherzo di cui l'ho resa bersaglio e a stento trovo la forza per denunciare la responsabilità della mia leggerezza:

«Io me ne ero accorto fin dal primo momento e adesso non so più cosa dire, sono sconvolto... Son passati otto anni ma mi ricordo tutto come fosse ieri. Un mese prima che tu partissi avevo preso l'abitudine di spiarti dal buco della serratura mentre facevi il bagno nuda, che spettacolo! Ero inebetito dallo sbocciare della tua giovinezza; eri un frutto proibito, ancora troppo acerbo per essere colto. Le emozioni risvegliate dal guardare il tuo corpo adolescente erano dardi avvelenati che avevano per bersaglio il mio cuore, diffondevano il loro veleno in ogni goccia del mio sangue ed erano la fonte maliziosa di una febbre incurabile. Mai un nemico mi fece tanto danno quanto i miei occhi.

Beh, ma ora che importa, anche se siamo un po' consanguinei... mica siamo fratello e sorella» dondolando la mano in aria.

«Poco ci manca, mio caro. L'incesto cade entro il quarto grado di parentela, noi siamo cugini stretti, abbiamo peccato ed è tutta colpa mia».

«Sei sicura che sia proprio peccato?» fissandola.

«Guglielmo il Conquistatore aveva sposato sua cugina Matilde ed è stato scomunicato».

«Sì, però poi è stato incoronato lo stesso re d'Inghilterra».

Diana abbassa gli occhi:

«Ho timore del giudizio degli altri. Ieri sera abbiamo fatto l'amore».

Le passo la mano sui capelli:

«Perché hai preferito tacere quando ti ho fatto capire chi ero, perché non volevi parlarne?».

«Avevo paura di perderti, mi sono innamorata di te dal primo momento, non so come sia potuto succedere... mi sembravi così convincente, mi ispiravi sicurezza. Ai sentimenti non si comanda, l'amore è un tiranno, non è in nostra facoltà decidere quando innamorarsi e di chi innamorarsi. Io brucio come dentro una fornace, non sono più padrona delle mie intenzioni» conclude mentre posa la testa con tenerezza sul mio petto.

Le afferro la nuca con la mano:

«La sincerità è il primo dovere del maschio e se vi rinuncia perde ogni sua forza, ma tu sei donna e ti è lecito nascondere i tuoi pensieri. Tu nascesti per me... il resto non conta» e nel gioco di un'altalena, ora lei si riposa fra le mie braccia ora io mi abbandono nelle sue.

Diana è una ragazza semplice e dolce, nei mesi successivi cerca di compiacermi in ogni cosa e mi riempie costantemente di tutte le attenzioni possibili ed immaginabili, come se avesse da farsi perdonare quella consanguineità che teme sia un impedimento al nostro amore.

Dopo un anno di fidanzamento deciderò di sposarla. A quell'epoca avrò compiuto trent'anni. La data del matrimonio resterà fissata per il 23 settembre 1252, giorno dell'equinozio d'autunno. Quel giorno davanti all'altare, nella Basilica d'Oro, il padre di lei la consegnerà sotto la mia tutela con le parole di rito:

«Ecco io ti do questa mia figlia per onorarla come sposa, per la metà del tuo letto e delle tue chiavi».

Quindi ci porgerà un calice di vino da bere insieme secondo l'usanza.

Dopo lo scambio degli anelli, il prete aggiungerà in tono solenne:

«Che il giogo che ella dovrà portare sia un giogo di pace e amore».

Si tratterà in vero di un caso di impossibilità di matrimonio a causa della nostra consanguineità e il prete non avrebbe assolutamente consentito a celebrare il rito non fosse per il fatto che Diana era gravida già da sei mesi ed il padre non era altri che io.


 
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view post Posted on 1/2/2009, 20:18

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L'oro delle streghe
Capitolo VI


Lavora lavora e passa un anno consacrato alla storia di Giuseppe. La stesura dei mosaici della cupola è andata avanti sotto la mia direzione, in ossequio ai requisiti didattici imposti dal Doge e alla devozione verso l'evangelista Marco.

Di tanto in tanto camminavo rasente ad un braccio della Basilica, entravo in una sua costruzione rotonda detta casa capitolare e chiedevo al sacrista la Bibbia in prestito (se avessi dovuto comprarne una di tasca mia sarei stato costretto come minimo a vendere la casa). Il nostro sacrista era un personaggio d'alto rango, cortese e rispettato, e aveva la responsabilità di tutto ciò che fosse attinente alla sacralità, i riti, le reliquie, i paramenti e ovviamente i testi sacri.

Ma l'otto di ottobre del 1252 il vecchio sacrista non c'è più, è diventato vescovo oltre confine e dentro la casa capitolare trovo ad accogliermi un nuovo sacrista, più giovane. E' magro e alto, ha i capelli rossicci con la tonsura tonda sul vertice e indossa una tunica bianca, stretta e lunga fino ai piedi, ornata da pietruzze colorate e da fasce ricamate in oro che circondano le spalle e gli ampi margini delle maniche. Dopo mille preamboli finalmente il pedante spilungone si decide ad esaudire la mia richiesta, si fa strada tra i sontuosi paramenti che i ministri del culto hanno deposto alla rinfusa sopra i cassoni, sposta in un angolo il bastone pastorale, apre le ante intagliate di un armadio e afferra la Bibbia a due mani, la trasporta appoggiata al petto e infine la posa sul tavolo, spostando più in là il grande candelabro ingemmato.

Con un cenno il sacrista mi invita a sedere sulla panca di legno mentre lui, in piedi a fianco, cerca il capitolo di Giuseppe sfogliando le pagine con le sue dita secche e affilate:

«Questa Bibbia è un pezzo unico, la prima traduzione in lingua veneta, anche se vi mancano parecchi libri dei Profeti. Considera tuo obbligo leggerla entro la sacrestia e riporla ogni volta al suo posto, e ricordati di fare il segno della croce ogni volta che la apri. Inoltre, prima di consultarla, devi lavarti le mani se sono sporche di malta e poi devi manipolarla con cura, senza stropicciare le pagine».

Lo spuzzetta non mi crede capace di leggere e fa sfoggio della sua cultura prodigandosi in un riassunto a voce:

«Ecco qui. La storia di Giuseppe è nel libro della Genesi, primo Libro del Pentateuco.

I fratelli di Giuseppe erano invidiosi della considerazione che egli aveva ottenuto fra la gente grazie alle sue qualità profetiche. Pieni di astio, lo accusavano d'essere uno stregone e un giorno lo catturarono con l'intento di gettarlo dentro un pozzo profondo.

Però, al momento della cattura, i suoi fratelli videro passare una carovana di mercanti diretta in Egitto e concordarono di venderlo come schiavo anziché ucciderlo come era nei piani. Quindi congegnarono di intridere la sua tunica col sangue di un becco per mostrarla al loro padre Giacobbe, magari dicendo che Giuseppe era finito nelle fauci di una belva selvaggia.

Vedendo la tunica strappata ed insanguinata Giacobbe esclamò sconsolato: ahi il mio figliolo è stato sbranato, una bestia feroce l'ha divorato!

Invece era in Egitto presso il nuovo padrone, il capitano delle guardie del Faraone, e come schiavo Giuseppe era giunto a godere di grande fiducia e responsabilità, tanto che il capitano aveva messo nelle sue mani l'amministrazione dei propri beni e gli aveva consegnato perfino le chiavi di casa.

Colpita dal suo bell'aspetto, la padrona di casa lo condusse tuttavia in tentazione e una sera gli propose di giacere a letto con lei. Giuseppe rifiutò di peccare adducendo che in nessun modo avrebbe tradito la fiducia incondizionata del capitano. La donna non intendeva cedere e infuocata dalla lussuria gli strappò di dosso il mantello, il servo diede allora il buon esempio e fuggì sdegnato dalle braccia della sua padrona. Ma quella moglie perversa si sentì offesa e volle vendicarsi con la calunnia, raccolse da terra il mantello e lo mostrò infuriata alle ancelle gridando che Giuseppe aveva tentato di sedurla.

Subito fu catturato dalle guardie e tradotto in carcere».

«Ora vengono i sogni» con impazienza.

«Calma, ci stavo arrivando. In prigione, egli usò le sue doti profetiche per interpretare i sogni dei due compagni di cella, entrambi condannati per offese al Faraone.

Il panettiere aveva sognato tre uccelli, divoravano dai canestri le paste pronte per il Faraone e Giuseppe sentenziò senza mezzi termini: fra tre giorni il Faraone ti farà impiccare ad un albero e gli uccelli sbraneranno le tue carni.

Il coppiere aveva sognato che piegava i tre tralci di una vite e ne spremeva l'uva in una coppa, per porgerla quindi nelle mani del Faraone, e Giuseppe commentò: fra tre giorni verrai liberato e pienamente reintegrato nel tuo ufficio presso il Faraone.

Il destino dei due compagni di cella si avverò esattamente come previsto, il panettiere fu condotto al supplizio e il coppiere ritornò a corte. La notizia dei portentosi poteri di Giuseppe si diffuse in poco tempo ed il Faraone in persona lo volle interpellare per un sogno che lo aveva molto turbato: sette vacche magre che divoravano sette vacche grasse. Giuseppe diede un responso che col tempo si rivelò esatto e cioè sette anni di carestia che sarebbero seguiti a sette anni di abbondanza.

Il Faraone riempì allora i granai di riserve e alla fine ricompensò Giuseppe nominandolo viceré».

Cerco di liberarmi del sacrista:

«Va bene, grazie per il riassunto. Non oso trattenerti oltre», con le braccia conserte.

«Ti garba conoscerne l'interpretazione morale? Resterò qui con te a darti una mano» addolcendo il tono della voce mentre si siede al mio fianco a tastarmi confidenzialmente il braccio.

«No, non ce n'è bisogno, voglio arrangiarmi da solo» rispondo risoluto.

«Dunque il Doge ha dato a te l'incarico della cupola, - soggiunge inalberandosi in una smorfia di sufficienza - e come mai fa dirigere il laboratorio a uno come te, che non conosce neanche la Genesi?»

«Perché farò il mosaico più bello della Basilica».

Si mette a canzonarmi con la voce in falsetto:

«Ma va e perché il più bello di tutti?"

«Perché creerò il mosaico, - pronuncio in tono solenne a braccio destro sollevato - a mia immagine e simiglianza».

Scatta in piedi indispettito e scandisce:

«Petrangésio... Mago Vanesio!» la solita tiritera che circola in Basilica.

Finalmente se ne va via sdegnato sollevando il mento e mi lascia solo con il testo, a ridacchiare cinicamente.

Procedo al mio ennesimo ripasso e continuo a leggere e rileggere la storia di Giuseppe, il primo romanzo dell’umanità.

Nel proiettarne l'intreccio sulla cupola dei mosaici, vi ho inserito a poco a poco la dottrina dei Magi d'Egitto. In che modo? Ricorrendo a un messaggio che raggiunge il destinatario al di sotto della soglia cosciente ma che pur ridotto ai minimi termini è capace di provocare delle impressioni profonde, legate a significati nascosti che possono divenire coscienti solo se del messaggio è nota la precisa chiave di lettura. Sicché gli Inquisitori non potranno avvedersi dello scherzetto che sto giocando loro: mi servo di un edificio consacrato alla religione per propagare sotto gli occhi di tutti una dottrina in sapore di eresia. Con perversa sottigliezza mi sto prendendo la rivincita su coloro che mi hanno ostacolato e imprigionato. La miglior vendetta è mettere in ridicolo il proprio aguzzino, farò gioire i maghi di passaggio che dei mosaici sapranno decifrare il codice di lettura, a loro mostrerò i simboli più classici della magia sviando invece i prelati sulla falsa riga di un innocente fine ornamentale e quando pure nel popolino si spargerà la voce di oscuri significati magici rideranno tutti alle spalle dell'Inquisizione, tutti coloro che passeranno sotto la mia cupola nei secoli dei secoli e finché la Basilica rimarrà in piedi.


***


Un felce profumata adorna l'ingresso laterale del vestibolo della Basilica, entrando stacco un rametto e noto subito che la sua struttura ramificata richiama l'intero fusto; poi, dal rametto stacco una fogliolina e mi accorgo come anche la foglia riproduca in piccolo il rametto; dunque le varie parti, se pur a diversa scala, hanno la medesima forma per autosomiglianza.

In un più ampio gioco di risonanze e coincidenze, i momenti salienti della mia stessa vita ricalcano stranamente la storia di Giuseppe, a sua volta la storia di Giuseppe collima con la struttura della dottrina dei Magi d'Egitto e il tutto si corrisponde, esattamente come la foglia sta al ramo e il ramo alla pianta.

Grazie al principio dell'autosomiglianza ecco vorrei scoprire in qualche angolino inesplorato della mia mente la sede originaria dell'ispirazione.

E' sera, la cupola è deserta. Mi distendo ad occhi chiusi sulla panca di pietra.

Non ancora del tutto addormentato né più completamente sveglio rimango fra i due come sospeso e lasciandomi trasportare da una girandola di luci colorate cerco di abbozzare le varie forme da selezionare, mi occorre l'idea per le decorazioni delle fasce da porre a cornice della rappresentazione musiva.

Sorgono splendidi e variopinti colori in un vorticoso spiegarsi di motivi geometrici, ogni volta il disegno dell'intero soggetto ritorna su se stesso nei particolari sfrangiati dei contorni: vedo le macchie figlie sulle estroflessioni dei bordi e vedo palloni ricoperti di schiuma e vedo palline infuocate che rotolano e immagini spezzate simili a lampi o simili a bracci di stelle riavvolte a spirale.

Come sullo scudo disegnato sullo scudo, l'immagine si concentra nell'immagine, e nell'infinito ossessivo riproporsi del tema colgo sempre le medesime tinte gialle e verdi e blu, le stesse fantastiche forme l'una all'interno dell'altra, differenti solo per la scala, sempre più piccola, sempre più minuscola.

Vedo chiazze di colore con gradazioni progressivamente più intense, tali da dare al centro la sensazione di profondità insondabili, la mia immaginazione penetra nei recessi dell'abisso e si spaurisce, nello sfiorare l'ultimo inafferrabile confine.

Rifaccio il percorso a ritroso, dalla scala più piccola alla più grande. Le immagini si concretizzano in schematiche imitazioni di oggetti reali: una cattedrale gotica dalle grandi e piccole guglie, un acero riccio con i fiori gialli e le foglie palmate, gradini di catene montuose dal profilo frastagliato.

Ecco, le idee che cercavo trovano posto nella mia cupola e vanno ad ornare le decorazioni circolari: alla base dei mosaici una fascia verde con dei gradini che formano scale ascendenti e discendenti, iscritte l'una nell'altra; ed ancora petali grandi e piccoli nei fiori degli archi che salgono dalle colonne portanti; e più in alto sopra i mosaici di Giuseppe, una fascia rossa di foglie di acero larghe e lobate; in cima alla cupola una grande stella raggiante, circondata da stelle di media grandezza a loro volta mescolate ad un cielo di stelle più piccole.

L'arte è sublimazione della follia, creare dal nulla un mondo di illusioni, un coro di voci che ammalia come la lira di Orfeo. L'artista si esalta in questa magia, fa sorgere animali e figure umane, ricopia archi e colonne, e iscrive scene di vita la dove c'era solo una nuda e insignificante parete.

Nelle tendenze artistiche di questi anni domina il carattere naturalistico ispirato alle concezioni estetiche dei primi cristiani, un ritorno alla purezza e alla semplicità originaria. Spesso si prende spunto dalla sensibilità dell'arte macedone pur senza rinunciare agli apporti della tradizione locale, eccelsa in quanto a sapiente senso del colore. Il gusto delle tinte vivaci è chiaramente veneziano e alla base della gamma cromatica ritroviamo sempre gli stessi colori, azzurro e oro, i colori araldici di Venezia.

La Grande Opera dei Magi d'Egitto?

Entro la rappresentazione delle vicende di Giuseppe ho già iniziato a indicare i principali passaggi delle operazioni magiche. Tali arcane operazioni si riferiscono ad effettivi procedimenti di laboratorio ma possono essere lette anche nel senso di operazioni interiori, elaborate nell'individuo stesso anziché all'interno di un laboratorio vero e proprio. I Magi d'Egitto tengono strettamente associati questi due aspetti ritenendo che il procedere delle operazioni sul piano fisico comporti di pari passo un progredire sul piano psichico.

Mi alzo dalla panca di pietra su cui ero disteso e in piedi al centro della cupola riesamino quel che finora ho realizzato, tanto per cominciare l'emblema base delle operazioni: la materia prima, ciò che si trova nella miniera allo stato grezzo e mescolato (da non confondersi con la Prima Materia!). Eccola nel mosaico del panettiere e del coppiere sottoposti a giudizio, ricordandomi della mia esperienza nei Pozzi ho legato strettamente i due alla cintola in modo da evocare l'idea di un solo corpo con due teste.

E' il simbolo più classico della magia: il Rebis, res-bis cioè la Cosa Doppia.

E' quella maschera con due teste che mi aveva fatto morire di spavento quand'ero piccolo.

Per prima aveva posto il rebus:

«Com'è che da Cosa Doppia nasce la Cosa Unica?"

In che modo la nobilissima Pietra dei Magi deriva da una cosa vile e disprezzata come la materia prima?

Lo spiegherò nei mosaici ancora da stendere, intanto a fianco e a destra del precedente riquadro prosegue la storia e compaiono il panettiere e il coppiere coricati sui materassi della cella. Sognano l'uno i grappoli d'uva da spremere nella coppa, l'altro i panieri ricolmi divorati dagli uccelli.

Un quadretto di grande armonia, realizzato dalla mano che piega i tralci carichi d'uva, dal fremere d'ali degli uccelli che beccano e dal sopore dei due prigionieri sognanti: sono molto soddisfatto del risultato estetico, questo mosaico è veramente bello.

Sul lato opposto all'apice della colonna interna, ecco la prima delle sei operazioni dei Magi d'Egitto, la Separatio. Il mosaico raffigura il panettiere sottoposto al supplizio mentre viene divorato vivo dal terzetto degli uccelli; essi rappresentano i tre princìpi individuali che il mago deve opportunamente separare all'inizio, il corvo per il Sale, l'uccello marino per il Mercurio ed il rapace per lo Zolfo; i quali altro non sono che l'Ecate nera, Ecate bianca ed Ecate rossa dell'antica religione.

Il panettiere è appeso a una croce che passa sotto le ascelle. L'espressione del suo volto, con le labbra rinserrate e gli occhi socchiusi, è piena di mestizia.





 
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Tornano le eterne domande: Quando? Dove? Cosa fare? Chi? Come? Quale? Perché? Le risposte mi consentiranno di valicare i sette cancelli di diverso metallo (piombo, rame, ferro, stagno, mercurio, argento, oro) per salire i livelli logici del Caduceo.

Ad autunno inoltrato, causa il Carnevale si registra in città un sensibile aumento dell'affluenza di stranieri, il vestibolo della Basilica è frequentato da una moltitudine di gente di passaggio in aggiunta alle solite assemblee, alle rappresentazioni e ai mercati che si tengono al suo interno; fatico a trovare la concentrazione necessaria al mio lavoro, così cerco di tenere lontano i curiosi con gli steccati di vimini e spesso sono costretto a scacciare con male parole i giocatori di dadi che si piazzano a lato della cupola e mi infastidiscono con i loro continui schiamazzi. Ma alle volte si avvicinano personaggi speciali, che lasciano in me una scia di emozioni e turbamenti.

Tra loro, i primi tre che mi vengono in mente sono individui di bassa lega: un barbone, una cortigiana e uno scaricatore di porto...

Il barbone mi piombò fra i piedi nella confusione di un sabato sera; sul muro intonacato di fresco stavo mettendo ad una ad una le tessere di mosaico, scartavo e sceglievo fra quelle dello stesso colore alla ricerca della tonalità adatta, quando percepisco un odore cattivo alle mie spalle. Con la coda dell'occhio guardo giù dall'impalcatura dove sono seduto e scorgo un uomo attempato con la barba incolta, si appoggia a un bastone di bambù, tiene in mano una lampada ed è vestito di stracci con tanto di pezze ai piedi.

«Uh che puzza! -esclamo- Ma il Comune... non si era preso l'impegno ufficiale di scacciare i vagabondi?»

«Il non lavar le membra è un preciso dovere cristiano», risponde quello semiserio.

Sospendo il lavoro, mi giro completamente verso di lui e squadrandolo dall'alto in basso noto al suo dito un grosso anello nero:

«Che pietra è quella? Carbone».

«Onice di Charchan».

«Onice! Stattene alla larga, non lo sai che l'onice attira gli incubi notturni? Certo che sei un tipo curioso - scrutandolo come per indovinare il suo passato -. Mi devi spiegare che diavolo di attività facevi per poterti guadagnare onestamente quella pietra?»

«Beh, diciamo, il commerciante».

«Chissà che fini investimenti al mercato delle pulci».

«E smettila di sfottere! Sei un caga alto con la puzza sotto il naso».

Per un attimo si fa severo nello sguardo, ma poi riprende confidenzialmente la conversazione e mi parla spensieratamente della sua condizione, quasi la trovasse divertente:

«Passo il tempo senza preoccupazioni e senza obblighi di sorta, vado in giro tutto il giorno a vagabondare. La gente mi evita e mi disprezza vedendomi così conciato, mi danno la carità tanto per liberarsi della mia presenza, ma non sanno che i veri poveri sono loro. Mi ghe sboro, no voio storie. Mi basta trovare qualcosa da mangiare e sono contento».

Interpreto le sue parole come una richiesta di cibo, salto giù dall'impalcatura, tiro fuori dalla bisaccia una grossa pagnotta e gliela porgo. Egli la tasta per sentire se è fresca di giornata, estrae un falcetto dalla tasca e la taglia a meta tornandomene una parte.

«Accidenti che falce tagliente», commento sorpreso.

«I barboni che mi ronzano intorno sono pronti a rubarsi fra loro anche le pulci, ma se qualcuno si azzarda a toccarmi l'anello, sacramento gli taglio le balle.

Beh, grazie del pane tornerò a trovarti fra non molto, sempre se ti onori della mia amicizia...»

«Perché no, non mi dispiace avere un amico pezzente. Chi trova un amico trova un tesoro».

«A proposito, ti porto i saluti di un certo Zagreo».

Balzo dalla sorpresa e gli afferro il torace per la veste:

«Zagreo, tu lo conosci, dov'è? E' vivo?»

«Il 15 dicembre del 1250 un prigioniero dei pozzi è stato sepolto nella notte, recava i segni dello strangolamento, ma non v'è la certezza che fosse proprio lui».

«Posso essere edotto su come la signoria vostra sa tutte queste cose» mollo la presa mentre continuo a fissarlo negli occhi.

«Sono amico intimo dei becchini. Piuttosto, dimmi, pare che tu conoscessi molto bene Zagreo? Sei l'ultimo che l'ha visto prima dell'arresto».

«Si, e allora?»

«Dovresti sapere dove è finita una certa lettera?»

«Certo che lo so - estremamente irritato -. Ma non lo dirò mai a un fottuto spione come te e ora vattene all'inferno!»

Quel barbone non l'ho più rivisto per un pezzo.

Ho visto di meglio...

Una mattina, ecco apparire sulla soglia una ragazza belloccia e formosa, viene verso di me ondeggiando languida languida col passo della colomba:

«Mi occorrono smeraldi, lapislazzuli, acquamarina... un bel mucchietto di pietre preziose per farne gli occhi dei pesci».

Apre in fessura il mantello e il verde chiaro della tunichetta aderente e scollata, mi aiuta a ricordare chi sia. E' la cortigiana che avevo intravisto l'altro Carnevale sulle Fondamenta delle Tette, quella che poi era finita a letto con il butterato; la veste è la stessa ma il seno, pur sodo e appuntito, non è fuori della scollatura come quella sera... con i capezzoli dipinti di carminio.

«Come è fatto il tuo costume di Carnevale?» mi informo prima di indicargli i mucchi di pietruzze colorate.

«Pesci finti attaccati a una rete da pesca che mi fa da vestito», spiega con gli occhi scintillanti.

«E sotto la rete?»

«Sotto nuda».

Un brivido di eccitazione mi stuzzica i sensi, inghiotto un fiotto di saliva:

«Ma come, dentro una rete trasparente? Senza coprirti...»

«Che c'è di strano, io mi vesto da povero pesciolino finito nella rete e i pesci sono nudi: hai mai visto un pesce che si copre la mona?», con una risata sguaiata.

Le mostro in terra i cesti ripieni di pietruzze, ogni cesto per un diverso colore. Mentre lei si accovaccia, chinata in avanti a scegliere le pietre più belle, la gonna le scopre fino alla radice la coscia bianca e liscia come il marmo. Dove la coscia finisce, risalgo a spogliarla con la coda dell'occhio guidato dal desiderio di costruirmi un'immagine mentale del suo corpo, così da poterla fantasticare nuda sotto la rete. Inebetito, desidererei allungare la mano sulla coscia e d'istinto lo faccio, ma alla sua risata sguaiata mi ritraggo cercando di controllarmi. Nel far mente locale prendo atto di come una signora dedita all'onorato mestiere di cortigiana sia penetrata nel recinto di un luogo sacro.

Ha importanza? I preti di questi tempi non danno certo il buon esempio in fatto di castità, visto e considerato che i parroci si consolano volentieri con le perpetue, che molti vescovi mettono al mondo figli con le mantenute e che addirittura, un vescovo incline agli affari ha fatto costruire un bordello.

Mentre distolgo gli occhi dalla cortigiana china sulle ceste, si profila alle mie spalle una incredibile sorpresa.

E' grosso come un manzo, pare un giovane capo pronto per la macellazione. Emana un sudore che sa di corteccia d'aloe, effluvio che si mescola all'odore di cuoio dei suoi bracciali.

Erimanzio, si è imbarcato nuovamente alla volta di Venezia. Anche oggi è di cattivo umore, mi fa sapere che per un pelo volavano botte da orbi.

Lui aveva posato a terra sulla banchina la carne di cinghiale, per caricarla poi sulla nave, ma due marinai gliel'avevano messa dentro un vaso di bronzo: per questo non riusciva a trovarla!

Mentre rievoca i futili motivi della discordia e indugia concitato sui particolari dell'odioso battibecco, gli leggo chiaro in volto il gusto per il confronto e per la contesa fine a sè stessa. Ciò cui tiene Erimanzio è soprattutto il mettersi in mostra sempre e dovunque; anche se ora i suoi discorsi non interessano la cortigiana, che lo ascolta distrattamente senza degnarsi di interrompere la sua occupazione.

Per far rabbia a quel guastafeste, mi diverto a aizzarlo ancora di più e pretendo dare ragione ai due marinai. Obietto che egli ha torto ad infuriarsi a quel modo con chi fa semplicemente il proprio lavoro, il vaso di bronzo era un recipiente idoneo al trasporto, dovevano forse lasciare la carne per terra, nella sporcizia? Era loro diritto metterla al suo posto dentro il vaso.

Erimanzio replica che loro non dovevano immischiarsi in quello che faceva lui e che il diritto è del più forte e che la ragione sta sulla punta della spada, che tutto il resto non conta e via così. Dunque egli non può darla vinta a dei rammolliti, non è la prima volta che quei due lo prendono in giro e oggi ne hanno sentite tante che non oseranno più fiatare per un pezzo. Così hanno imparato a rispettarlo.

A conclusione del discorso, Erimanzio gonfia le spalle stirando fin quasi a strapparla la tunica scarlatta, contrae i bicipiti delle braccia erculee e scaraventa il pugno chiuso a percuotere sonoramente il palmo dell'altra mano. Allo schiocco la cortigiana solleva il capo dalla cesta, si gira e lo squadra.

Improvvisamente Erimanzio si rilassa, tutta la sua collera è svaporata, sembra quasi un'altra persona. Incuriosito dalla cupola, fissa attentamente i mosaici del soffitto e pur in tono amichevole, sfodera il suo sarcastico commento:

«Bah, io questi pupazzi non li capisco».

La cortigiana ha racimolato il suo bel mucchietto di pietruzze, abbastanza per i costumi di tutto il bordello, e a titolo di congedo mi da un bacio schioccante sulla guancia... ma non mi è sfuggito che mentre mi baciava ha strizzato l'occhiolino ad Erimanzio.

Ferma sulla soglia continua a fissarlo obliquamente, estende il collo, passa la mano sui capelli e lo invita con calore:

«Ci tengo a che tu veda ultimato il mio costume di Carnevale. Dai, vieni a trovarmi questa sera nella Casa dei bagni pubblici, vicino al Ponte delle Tette. Chiedi di Bellela!»

Mi accosto all'orecchio dello scaricatore e gli dico sottovoce:

«E' una onorata signora di Venezia, possiede un patrimonio in pietre preziose e potrebbe regalartene qualcuna, non lasciarti sfuggire una simile occasione».

Aperto la tunica sul torace, Erimanzio pompa i muscoli, oscilla le ampie spalle, esagera ogni suo movimento agitando ingalluzzito le membra. Scopre infine la serie dei suoi denti un po' guasti e rivolto alla onorata signora annuisce con la testa.

E' cascato nella rete come un baccalà.
C'è chi arranca per vivere e chi vive per arrancare. Zuanne Zusto è il classico rampante che appartiene alla seconda categoria. Orfano di padre per una scorreria del corsaro genovese Alamanno da Costa, ora è diventato Procuratore di San Marco. La carica comunale a vita che detiene ha il compito di amministrare i fondi in dotazione alla basilica, di provvedere alla manutenzione e alla decorazione dell'edificio e di soprintendere ai suoi cappellani, né esulano dalle sue mansioni l'amministrazione dei testamenti e la tutela dei malati di mente o dei minori.

Non nobile ma di famiglia benestante, Zuanne Zusto ha potuto accedere agli onori della carica nel contesto dell'ascesa del popolo grasso, un fenomeno che appena in questi ultimi anni si comincia a registrare. I non nobili vogliono porre fine alla loro esclusione dal potere, a gran voce chiedono di partecipare all'amministrazione e alla politica comunale, sicché il rigido ordine della società veneziana ha dovuto aprire una breccia alle possibilità di carriera di varie figure professionali, concedendo a ciascuna di esse lo spazio per esercitare le specifiche prerogative e competenze.

Zuanne Zusto ha saputo muoversi abilmente in mezzo a questo fermento, sfruttando al meglio ogni occasione per scavalcare i concorrenti. Il popolo minuto non fa che sparlare sul suo conto. S'è arruffianato coi più ricchi tra i nobili di Venezia per ottenere favori e sostegni alla sua carriera politica, fino alla candidatura di Procuratore di S. Marco. La giovialità del suo carattere nasconde in realtà tutta la determinazione e il dispotismo accentratore che l’autorità della sua particolare magistratura gli consente di esercitare, già nella sua mezza età. Comunque, nonostante tutto, gli si deve riconoscere il merito di saper eseguire in perfetto ordine ogni compito che gli venga assegnato.

Nel 1249 fu lui uno degli intermediari delle proposte guelfe presso quei Comuni lombardi che erano ancora fedeli a Federico II. Zuanne Zusto aveva degli ottimi agganci e grazie alla sua abilita negli intrighi, sicchè Como abbandonò gli imperiali ed entrò nella Lega Lombarda.

A mezzogiorno il Procuratore supera il portone della basilica sotto un cielo di nubi minacciose, il suo torace sproporzionatamente grande è avvolto in un largo mantello, il naso aquilino spicca sulla faccia squadrata e i suoi imperiosi occhi celesti mi incutono subito una certa soggezione.

Discutiamo di acquisto di materiali e di stipendi degli operai.

Al termine lo accompagno all'uscita ma una folata di vento ci blocca sul portone e ci ricaccia dentro, un fulmine annuncia con fragore l'arrivo del temporale. Il nubifragio si scatena improvviso e violento.

Al che il Procuratore si ferma sulla soglia e inizia a chiacchierare pacatamente con me:

«La verità è che i giovani d'oggi sono più pronti ad abbracciare il fascino dell'eresia che non i sacrifici della Fede - dice intercalando un lungo sospiro -. Così la Chiesa di Roma si ritrova a dover tener testa a un fronte interno di dissidenti.

A Como, in Lombardia, l'eresia catara è in grande crescita proprio fra i giovanissimi, i catari sono dei fanatici manicheisti...»

«...dei pazzi furiosi» aggiungo.

Una saetta cade nelle nostre vicinanze, tuona e illumina il volto arcigno del Procuratore mentre si infervora in un crescendo di anatemi:

«Ogni religione deve fare i conti in casa con una setta di svitati, i Mussulmani hanno i sufi, Israele i cabbalisti, i Cristiani hanno la peste dei catari. E non basta, non esiste mica solo un tipo di eretici, ce ne sono di tutte le specie e crescono come la zizzania, le streghe al rogo non si contano più, stanno diventando un numero spropositato, e ci sono i maghi, e ci sono i filosofi della natura, quelli dalle idee troppo particolari, troppo contrarie ai dogmi della religione. La Chiesa ha il preciso dovere di difendersi, deve trarre le armi migliori dal suo arsenale e usarle a manifesta battaglia contro i nemici».

I discorsi che infiammano Zuanne Zusto cadono immancabilmente sul medesimo tema, troppo esperto ed informato nel campo degli eretici egli si accende non appena se ne parli.

Ho il sospetto che faccia l'informatore per l'Inquisizione e inizio a sondarlo con tatto e circospezione:

«La cosa più difficile è stanare gli apostati».

«Ne esistono ancora? Se si voglia individuare i rinnegati che tornano al paganesimo è d'obbligo fare riferimento alla situazione precedente il Messia.

Rispetto a Roma centro del mondo esistevano i pagani del Nord, del Sud, dell'Est e dell'Ovest, differenti fra loro ma provenienti da un unico ceppo diabolico. L'idolatria non è stata estirpata alla sorgente e nonostante l'avvento dell'unico Dio ai quattro angoli dell'Europa il male serpeggia ancora fra i cristiani, occultato come un fiume sotterraneo».

«Fammi un esempio».

«A occidente ad esempio sopravvive la magia dei Druidi, ben camuffata nella leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda alla ricerca del Santo Graal. Oggi c'è un gran rifiorire di quei racconti perversi e circolano libri sulle profezie di Mago Merlino, la Chiesa dovrebbe proibirne la lettura perché sono fonte di corruzione e invece li ignora perché pensa si tratti di banale letteratura».

«Lasciami indovinare, i pagani del Sud onoravano gli dei della mitologia greca e i pagani dell'Est?»

«Alle porte dell'Oriente, molto prima del Messia gli uomini umiliavano la loro virilità davanti a una dea, quella che con minimo sforzo delle dita spalanca le fauci del leone. E' scolpita sul secondo arcone del portale centrale della basilica, se osservi con attenzione la puoi vedere con le chiome al vento fra la serie che rappresenta le virtù.

L'immondezza mascherata da Fortezza testimonia che gli apostati hanno costume di frammischiarsi a noi» conclude sottovoce fissandomi allusivamente.

Un brivido di terrore mi fa accapponare la pelle. Ho l'impressione che sappia molte cose sul mio conto e vacillo all'idea che possa scoprire i significati segreti della mia cupola. Da come sfoggia la sua vasta cultura intorno ad ogni tipo di eretici ed eresie, non mi stupirei se fosse così esperto e smaliziato anche nel territorio della Magia Egizia.

Accenno:

«Gli Iperborei, allora? Gli adoratori di Apollo dove li metti?»

«A Nord».

«Ecco, a mio modesto parere ti sbagli, voglio dire che la classificazione dei pagani secondo i punti cardinali mi sembra un po' artificiosa, troppo teorica, non tiene conto delle migrazioni. Gli Iperborei non si possono collocare soltanto a Nord».

«E perché no, tutti gli autori greci li hanno posti a Nord».

«Gli Iperborei non rientrano in particolare in nessuno dei quattro gruppi perché da Nord si sono mossi a Sud, da Sud a Est e da Est a Ovest, se vuoi ti posso anche dire l'itinerario, precisamente essi migrarono dall'Apollonia in Macedonia, dalla Macedonia sbarcarono in Anatolia e infine, dall'Anatolia vennero a occidente portandosi seco il culto apollineo».

«E adesso dove sarebbero finiti secondo te, questi indecisi?»

«Qui».

«A Venezia? Ma sei matto!»

«No, è vero».

«Devi dimostrarlo, spiegami ad esempio in che modo sia sopravvissuto il loro culto, visto che a Venezia minima traccia di costoro non s'è percepita».

«Lo posso testimoniare in base a quanto mi ha confidato personalmente un trovatore greco» spavaldo.

Gli strizzo l'occhiolino e assumo un'aria di complicità.

Il Procuratore si fa guardingo e inizia a parlarmi sottovoce:

«Fidati di me, io non amo i sotterfugi, tu hai sentito or ora il mio parlare esplicito, il carattere che ho mi impedisce ogni comportamento che non sia chiaro e dritto come la spada della giustizia.

So di quel trovatore greco... quell'apostata di Candia.

Qualcuno mi ha incaricato di controllare se ti mantieni ligio al giuramento dell'abiura, ma non temere io ho una buona opinione di te, so che vuoi perseverare nel giusto... e allora, quale mezzo è migliore per affermare la tua estraneità all'eresia se non, conoscendone alcuni come tali, denunciare gli eretici all'Inquisizione?

Sono certo che hai qualche informazione da darmi».

E' uno scaltro agente dell'Inquisizione, stavo scherzando con il fuoco. Mi vengono i sudori, sbottono il colletto della mia tunica rossa e azzurra:

«L'arte, la musica, la raffinata ricerca del bello, ti palesano niente? Sono l'evidente sopravvivenza del culto apollineo degli Iperborei» in tono sibillino.

«Continua, dove vuoi arrivare? A buona informazione buon prezzo, alludi forse ai tuoi compagni d'arte? Voglio prove precise sugli adoratori di Apollo, un segno inequivocabile della loro presenza, un qualche emblema distintivo che ci indichi con certezza il loro covo».

«Una buona manciata di piccoli?»

«Avrai le tue monete».

«Quand'è così ti consegnerò la prova lampante, il segno che dissuggella e rende flagrante ciò che hai in animo di sapere."

La pioggia è cessata, lo afferro per la manica della tunica e lo trascino fuori in piazza S. Marco.

A braccio teso gli indico la colonna del leone:

«Ecco!»

«Ecco cosa?» e fa un gesto interrogativo.

«Il grifone di Apollo Iperboreo! Aveva le corna e le hanno scalpellate».

«Ma va all'inferno. Non ho tempo da perdere con gli scherzi di Carnevale, ho cose ben più serie per la testa!» impreca allontanandosi seccato.
 
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view post Posted on 1/2/2009, 21:07

ottimo

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Un bambino, mia moglie, un trovatore, l'innocenza, la dolcezza, l'eloquenza, ecco le visite cui tengo in più alto rispetto...

Il bambino entra di corsa nel vestibolo della cupola volteggiando dall’estremità di un bastoncino due nastri gialli che serpeggiano lunghi in aria. Si ferma di colpo e mi osserva con il visino all’insù. Sono sospeso sull'impalcatura e sto lavorando agli ultimi ritocchi della figura di Giuseppe venduto a Putifarre, il capo delle guardie del Faraone. Il mio visitatore ha nove anni e dice di chiamarsi Marco, dal vestire e dall'aspetto curato riconosco la sua origine nobiliare.

Appena ha la parola inizia a tempestarmi di domande:

«Chi è quello lì?» indicando con il braccino teso la figura.

«E' Giuseppe schiavo degli Egiziani» gli spiego e proseguo a incollare pietruzze per finire la pelle scura e rugosa dei mercanti di schiavi.

Egli osserva tutto in silenzio con l'espressione vivace di un cucciolo, si gratta la testa coperta dal caschetto di capelli biondi e poi ricomincia a fare domande:

«Perché disegni favole sul muro?»

Il quesito non facile mi costringe a riflettere un attimo per imbastire una risposta adeguata, finché risolvo così la questione:

«I grandi non credono alle mie storie, povero me, e allora mi sono messo a disegnarle per i bambini, questa è la favola delle sette mucche magre che mangiano le sette mucche grasse».

«Le mucche mangiano solo erba, me l'ha detto la mia mamma» esclama.

Mi ha incastrato, comunque sono entrato nelle sue simpatie e ogni giorno viene a trovarmi, per un po' si ferma a guardare serio le nuove figure che ho creato, quindi vuole che mi pieghi e che lo faccia salire a cavalcioni sulle mie spalle per vedere più da vicino le figure. Poi scende a terra, furtivamente mi sottrae qualche pietruzza colorata e scappa via di corsa nella piazzetta adiacente a giocare a mosca cieca con gli altri bambini.

Marco mi da da pensare. Si dimostra troppo avveduto e coscienzioso per essere un bambino, potrei sospettare in lui la reincarnazione di un sapiente del passato se credessi come Platone nella metempsicosi. Ma non ci credo, o meglio, ritengo che l'anima di un uomo sia sì di natura immortale ma possa incarnarsi in un altro corpo solo attraverso il veicolo dei propri figli, modellandone le sembianze fisiche e operando le loro scelte fondamentali senza che essi se ne accorgano. Ne deriva che ogni uomo ha in sé una particella dell'anima di tutti i suoi predecessori ed è davvero una grande responsabilità per ciascuno di noi, sapersi il frutto delle lotte e delle sofferenze di una innumerevole schiera di antenati, indietro, indietro nel tempo, fino ai giganteschi Titani, dalle cui ceneri nacque il genere umano.

I bambini sono nanetti ma a cavalcioni sulle spalle dei giganti possono vedere più lontano di loro.

I lavori nella cupola proseguono senza tregua.

Nella posa finale di un pezzo di mosaico i ritmi di lavoro si fanno più pressanti, spesso lavoro ininterrottamente per ore e ore dimenticandomi perfino di mangiare, finché crollo dalla fatica e mi addormento, disteso sul sedile di pietra che corre parallelo alla parete della cupola.

E' quello che è successo oggi e sto dormendo un sonno così pesante che nessun sogno è ancora venuto ad allegerirlo. Qualcuno si avvicina in silenzio e posa delicatamente le labbra sulle mie palpebre chiuse. Aprendo gli occhi in fessura, a poco a poco metto a fuoco la figura di una donna vestita di rosa sgargiante e i suoi lunghi capelli e i due grandi cerchi d'argento ai lobi delle orecchie. Ha gli occhi color dell'ambra, luminosi e trasparenti.

Mia moglie Diana ha voluto farmi una improvvisata, è una novità dacché prima d'ora non aveva mai messo piede nella cupola.

Sento di volerla con tutta l'anima. L'oggetto del desiderio è qui davanti a me, dentro la sua pelle vellutata, è una realtà che adesso posso toccare e tuttavia si mescola alla favola che ho dipinto sulla cupola.

Come posso sapere dove termina il sogno e dove comincia la vita?

Strade parallele mi hanno portato alla realizzazione dei miei sogni:

meta impalpabile del mio volere è ciò che ho raggiunto nella Pietra dei Magi e solo per vie traverse, tra l'opposizione dell'Inquisitore e l'aiuto di Zagreo, la magia mi ha infine condotto alla Cosa Unica e alla consapevolezza della sua natura;

tangibile punto di partenza dell'osare, docile bersaglio della mia voglia maschia, è questo fiore di ragazza, in lecito servaggio a me aggiogata in dono da Venezia e dai suoi canali poi che smisi d'esserne disgiunto.

Le accarezzo il viso ed ella ricambia il gesto passandomi le dita sui capelli, e va alla nuca e al collo, scende sotto la tunica a tastarmi il torace, accarezza a due mani i miei fianchi, mi massaggia il dorso delle cosce, poi prende le mie dita e le succhia piano con la lingua.

Perché proprio Diana è la mia sposa e non un'altra fra migliaia di donne che popolano la città? Non lo so. orse lei, perché ha saputo entrare nella mia favola, rubare il posto al servo coppiere, saldare l'intreccio delle nostre anime intorno a un sogno vissuto insieme.

Per chi sogna il sognare è realtà fin tanto che l'illusione non si spenga al risveglio, viceversa per colui che è desto, la realtà è realtà, solo che il sonno non gli rubi le membra.

Ma c'è per me un confine d'amore misto di vigile torpore ove scivolano le sue carezze dulcamare, tenere e inflessibili, loquaci e pur mute nel loro dolce tacere.

Prendo in mano la cazzuola, lei prende la brocca e versa acqua sulla malta.

Alcuni giorni dopo finirà il mese.

Nella prima quindicina del dicembre 1252 un flusso di ricordi accompagna di pari passo il rallentamento dei lavori nella cupola.

Un ciclo, un ciclo di due anni si è compiuto e i miei pensieri si ripiegano all'amaro rimpianto di Zagreo.

Chissà? Forse ho sbagliato a crederlo morto, posso anche aver male interpretato le allusioni di Cengio, le parole di un ubriaco non sono attendibili. Ma la salma che ho visto trascinare quella notte? L'uomo avvolto nel lenzuolo poteva essere un altro, lo strangolato che hanno visto seppellire pure, forse il mio trovatore è vivo, probabilmente resterà nei pozzi a vita e comunque non si può mai dire... la grazia di un prigioniero politico, uno scambio di prigionieri.

No, forse mi sto solo illudendo, dubito che lo vedrò apparire un giorno sul portale della basilica, con i riccioli arruffati e la barba nera, col mare di Grecia negli occhi in quel suo sguardo fiero e dolce.

Di fatto, ecco un trovatore venire alla cupola, ma non gli assomiglia per niente, è molto diverso da Zagreo tanto nel fisico che nel carattere. E' in abito da cavaliere, avrà più di trentacinque anni, biondissimo e longilineo sovrasta tutti in altezza e porta sull'elmo lunghe piume di gallo.

Mi colpisce il tipico aspetto da uomo dell'estremo Nord:

«Qual'è la vostra patria cavaliere?»

«L'Islanda. Paese governato dalle forze contrapposte della natura, il calore delle eruzioni vulcaniche e il gelo dei ghiacci eterni».

«Ah».

«Ora sono alloggiato a Rialto nel fondaco dei Tedeschi. Mi chiamo Snorri, sono un trovatore».

«Onorato. Fui molto amico di un trovatore greco, non ho mai dimenticato la bellezza dei suoi inni, l'eco della sua voce credo mi accompagnerà per tutta la vita».

«Dov'è quel trovatore? Incontrare un collega d'arte mi fa sempre piacere, è una delle ragioni per le quali ho scelto la vita errante».

«Quel greco dovrebbe essere morto».

«Dovrebbe?»

«Vivo... morto... non so. Di certo vive nella mia memoria».

«Ah, l'immortatilità è il privilegio di pochi, poeti ed eroi che hanno lasciato una traccia nel ricordo degli uomini».

«Voi piuttosto, come mai così lontano dalla vostra terra?»

«Giovanissimo approdai in Prussia dall'Islanda. I Prussiani tenevano in alto conto i doveri dell’ospitalità, io facevo il trovatore nel castello di un certo Pipino, ma dopo qualche tempo si abbatté su di noi una catastrofe».

«Cos'è successo?»

Snorri si toglie l'elmo e si mette a sedere sulla panca di pietra, ha i capelli biondi tagliati corti a spazzola:

«Ecco, i Prussiani erano poligami e adoravano il dio della folgore. Erano gente abituata a non avere padroni. I contadini possedevano i campi di grano senza dover rendere conto a nessuno e ciascuno poteva pascolare le proprie mucche dove voleva, poteva raccogliere il miele, cacciare ovunque nella foresta e pescare liberamente nei laghi. I loro nobili erano semplici capi militari, in tempo di pace non avevano alcun potere e le decisioni importanti venivano prese all'interno dell'assemblea generale degli uomini liberi.

Ma erano pagani e la crociata dei Cavalieri Teutonici invase le loro terre con il pretesto di convertirli. Nel 1230, forte dell'appoggio di Federico II, l'Ordine Teutonico si radunò nella Marca di Lusazia e attraversò la Vistola per entrare in Prussia. In pochi anni i Teutonici assoggettarono la regione e vi governarono con estrema durezza, trattando come schiavi i Prussiani convertiti.

Pipino, il mio signore, pur essendosi convertito al Cristianesimo fu giustiziato atrocemente e solo per essersi ribellato all'Ordine Teutonico».

Snorri corruga la fronte assumendo un'espressione tesa e corrucciata.

«Dalla Prussia dove ti sei diretto?»

«In Baviera. A Ratisbona ho stretto amicizia con Tanhuser, un famoso trovatore del Minnesang. Poi sono andato a corte».

«Dove?»

«Nel castello di Wolfsteine, presso Landshut.

Per inserirsi nelle corti tedesche lo straniero deve superare grandi difficoltà, ma io ero entrato nelle simpatie del conte Mainardo di Gorizia che mi ha presentato alla consorte dell'Imperatore Corrado IV».

«Vuoi dire Elisabetta, la madre di Corradino di Svevia?»

«Sì, ero al castello quando è nato Corradino, il 25 marzo di quest'anno».

«Caspita, la corte Sveva!»

Il trovatore indossa la maschera dell'attore ed entra nell’espressività dei suoi temi poetici:

«Col liuto cantavo gli ultimi giorni di Thor, Odino, Freya e di tutte le potenti divinità dei Popoli del Nord. Annunciavo la fine dei tempi: il corno del Valhalla che sta per suonare l'ora del Ragnarok, il crepuscolo degli dei».

«Ragnarok, la sola parola mi fa venire i brividi».

«Alla caduta degli dei un violento terremoto aprirà la crosta terrestre ed il lupo Fenrir, incatenato nel mondo degli inferi, uscirà allo scoperto e inghiottirà il sole e la luna. Le stelle cadranno dal cielo, il cielo si spaccherà in due e dallo squarcio sbucheranno al galoppo i Giganti di Fuoco a seminare ovunque la distruzione. Naglfar, la nave fatta con le unghie dei morti, salperà dalla Spiaggia del Cadavere ove attendeva questo istante da tempo immemorabile.

Quando il corno del Valhalla avrà suonato, gli eroi del bene e del male si annienteranno a vicenda combattendo in duello: Thor, con l'invincibile martello riuscirà a spaccare il cuore del Serpente del Mondo ma dopo nove passi cadrà esanime, ucciso dal suo fiato velenoso; Odino lanciato al galoppo contro il lupo Fenrir verrà inghiottito per sempre nell'abisso delle sue fauci spalancate; a nessuno sarà dato sopravvivere. L'universo scomparirà nel grande collasso di un cataclisma di fuoco ritornando ad essere ciò che era in principio: caotico, informe, silenzioso nulla».

Balbetto:

«Quando scoccherà quell'ora terribile?»

«E' prossima».

«La profezia sub Flore... Non sopravviverà proprio nessuno?»

«Finito il Ragnarok tornerà il figlio di Odino: Vali, il vendicatore. Lo dice la profezia di Volva la maga Veggente.

Sarà per i popoli del Nord la riscossa contro le oscure forze dell'Anti-Europa, che stanno pianificando l'appiattimento delle coscienze» conclude mentre si alza in piedi rimettendosi l'elmo piumato.


***

Fedele alla promessa è ritornato il barbone, ma il mio primo visitatore è ora pressoché irriconoscibile: sembra più giovane, ha la barba rasata con cura, un ricco vestito addosso e tanto di servitore appresso.

«Però, paga bene il governo per fare lo spione!» lo apostrofo con sarcasmo.

«Ma signore, vi prego, state parlando con il nobiluomo Labia» precisa il suo servitore.

«Ah ah che ridere, il Nobiluomo Labia!»

«E' vero sono uno degli uomini più ricchi di Venezia - senza sbilanciarsi -. Tanto ricco che posso buttare i piatti d'oro dalla finestra».

«Puoi anche andare a fartelo mettere...» mi blocco a meta frase, al posto dell'anello di onice vedo al suo dito un gigantesco diamante. Cambio espressione.

In effetti il suo portamento appare consono al ruolo e se dicesse il vero?

Egli riprende la parola togliendomi d'imbarazzo:

«La mia enorme ricchezza mi consente di avere a disposizione tutto ciò che voglio però, benché il denaro possa esaudire qualsiasi mio desiderio, mi mancava ancora l'esperienza di una sola cosa: la povertà. Quindi vestito a Carnevale ho provato per alcuni giorni a fare la vita del barbone ed è stato un vero spasso osservare le reazioni della gente e divertirmi alle loro spalle, specie di quei citrulli che hanno le narici troppo sensibili».

Sono rimasto senza parole, mi si è inceppata la lingua.

Con un cenno egli allontana il suo servitore e rimaniamo soli, ha una espressione tesa e severa:

«Ora posso parlare liberamente. Il governo ha rotto il trattato con Genova grazie alla nostra fazione filo-lombarda, pochi ma ricchi nobili fortemente contrari agli accordi. Il piano di Zagreo ci era utile per destabilizzare le relazioni diplomatiche tra le due città, ma era un piano fasullo perché il complice di Nicea era pagato da noi».

«Voi avete avete pagato il complice?!»

«Sì ed è il suo complice che l'ha denunciato all'Inquisizione, ha condotto gli sbirri fin sotto la scala dell'albergo e poi se l'è squagliata. Il Doge doveva venire a sapere di un piano congiunto per la liberazione dell'isola di Candia, convincersi di inesistenti proposte genovesi per un nuovo patto di alleanza coi Greci e a favore dei ribelli. ».

«Inesistenti proposte genovesi... Qualcosa però non ha funzionato, perché Zagreo ha nominato soltanto la Verona di Ezzelino».

«La lettera da Nicea, la lettera di risposta ai Genovesi da parte del despota greco Giovanni Vatace».

«Ho capito, carte false per seminare zizzania tra Genova e Venezia: Creta di nuovo sobillata dai Genovesi come nel 1216...».

«La falsa lettera doveva averla con sé Zagreo nella camera dell'albergo al Pellegrino. Invece no. Non sapevamo dov'era finita, si pensava l'avessi tu e per questo, con una denuncia anonima, abbiamo consigliato all'Inquisizione di perquisire la tua casa».

«Ah, siete stati voi - sempre più sorpreso -. E come mai il complice di Nicea è finito in carcere. Qualcos'altro non ha funzionato?»

«No, il complice vero è fuggito, l'abbiamo fatto tornare a Nicea.

Dovevamo comunque rimediare all'intoppo, abbiamo riscritto la finta lettera di Giovanni Vatace e l'abbiamo consegnata al Doge assieme ad uno schiavo greco, uno che era salito a Nicea sulla stessa nave di Zagreo, un mercantile che batteva stendardo genovese.

Naturalmente sotto tortura lo schiavo ha confessato colpe non commesse pur di sottrarsi al carnefice».

«Che infami carogne» voltandogli le spalle e ricominciando a lavorare.

«La Lega Lombarda giova alla nostra difesa, Genova invece lede i nostri interessi commerciali. A Smirne, a Bisanzio, nelle isole di Samo e di Chios, nella stessa Acri, ovunque i Genovesi stanno mettendo le basi della loro espansione commerciale e sempre in diretta concorrenza con i nostri mercati. Dobbiamo guardare lontano, fermare i Genovesi prima che sia troppo tardi, se necessario anche finanziando una flotta per distruggere con la forza le loro colonie».

«Perché sei venuto qui?» girandomi con lo sguardo di fuoco.

«Per farti sapere che se ti azzardi a consegnare al Doge la lettera di Giovanni Vatace finirai arrostito come un fagiano, questa volta abbiamo le prove per incastrarti!»

Queste inquietanti minacce, rinvigorite dalla paura che il nobile Labia o il Procuratore o chi per loro abbia scoperto i significati magici della mia cupola, fa sì che nel sonno di quella stessa notte la mia tensione si risolva in un incubo, un sogno terrifico dalla trama lunga e complicata, sicuramente provocato dalla mia consapevolezza di avere la coscienza sporca.

Non l'idilliaco sogno delle sette vacche magre ma nudi e raccapriccianti sette tra i visitatori della cupola: il nobile Labia nudo e con la maledetta pietra di onice al dito, nuda la puttanella e nudo Erimanzio, nudi altri quattro che sul momento non riconosco. Minacciosi e armati di bambù muovono verso di me dal pascolo di Mas di Sabbe, mi accusano di eresia e mi spingono con la punta delle canne. Cerco di fuggire, temo di venire arrestato, ma le gambe si muovono a rilento come se dovessero vincere una estrema resistenza, il mio corpo non risponde ai comandi, vinto da una fastidiosa sensazione di pesantezza inciampa sotto le spinte, cado in ginocchio a quattro zampe sull'erba. Il nobile Labia mi sputa addosso e mi percuote la natica con un colpo di bambù, ma non sento dolore o meglio patisco orribilmente per il mio stato ansioso, più terribile di qualsiasi sofferenza fisica. Mi rialzo in piedi, zoppico, cerco di allontanarmi ma Erimanzio mi blocca a mezz'aria con un pugno violentissimo alla bocca dello stomaco, mi piega in due, non riesco a respirare, barcollo in preda al panico. Salta fuori una donna nuda con la testa di mucca, è senza bocca e mentre mi morde la mano pur non avendo la bocca, termina il primo spezzone dell'incubo.

Poi ricordo lo specchio di casa mia. Guardandomi dentro vedevo la mia faccia deformata, allungata e stirata verticalmente come se lo specchio fosse concavo. D'improvviso, mi sento risucchiare in un tunnel e mi ritrovo oltre la barriera, dall'altra parte dello specchio.

In una penombra fitta ed inquietante appare la veste del Procuratore di San Marco. Zuanne Zusto ha un magnifico mantello dorato che pende dalle sue spalle in un ampio strascico e sul capo ha diverse corone, una sull'altra. Il Procuratore stringe tra le mani il calice Morosini e lo tiene sollevato in avanti come per porgermelo. Muovo incerto verso di lui, sono stordito e zoppicante, disturbato da lampi di luce a una tempia.

Odo rimbombare l'eco della sua voce metallica:

«Bevi, bevi il veleno. Elixir nelle tue vene. Bevi, bevi...»

E' a pochi passi da me, i suoi imperiosi occhi celesti mi incutono soggezione, protendo le dita e la bocca verso la coppa, ma? Sbatto il naso contro la superficie dura del vetro. Un brivido gelido mi corre sulla schiena, paura e sconforto mi assalgono, mi tolgono ogni desiderio di vivere.

Alle mie spalle echeggia la risata sghignazzante del Procuratore: Ah, ah!... Ah, ah!... Si ripete a intervalli regolari, in modo innaturale.

Mi giro e vedo il Procuratore con a destra una spada dalla lama larga e corta, è riflesso su una serie di grandi specchi disposti a cerchio, colgo un sorriso ironico dipinto sulle sue labbra. Di quelle immagini riflesse una sola corrisponde al vero Procuratore e allora, barcollando come un ubriaco, giro da specchio a specchio, fluttuo dall'uno all'altro. Finché mi accorgo che sto tastando sempre gli stessi specchi, non è il caso di continuare a girare a vuoto, le mie gambe sono instabili e non mi reggono più, cedo, appoggio il palmo della mano sulla superficie riflettente e mi accascio giù desolato, con la mano che striscia umida sullo specchio.

Ma dopo mi ritrovo in piedi davanti a un Procuratore con due spade, una al fianco destro e una al fianco sinistro, mi avvicino, afferro deciso la coppa e bevo il veleno come mi ha ordinato. Il liquido odora di assenzio, il suo gusto è terribilmente amaro, mi impasta lingua e gengive con un sapore che sembra china mista ad acqua di mare. Le labbra mi si torcono in una smorfia di disgusto, apro la bocca in un conato di nausea e la richiudo cercando di raccogliere dalle fauci un po' di saliva per sputare fuori, quando odo l'eco ovattato della voce ferma del Procuratore:

«Devi bere fino in fondo il calice amaro!»

Ad occhi serrati supero l'estrema ripugnanza e ingurgito il liquido.

Arriva l'intensa sensazione di essermi sollevato dall'angoscia. Ero imbrigliato nelle energie negative di un nefasto incantesimo, ma ora posso scegliere attivamente quale direzione dare al mio sogno, ho abbastanza forza per ribellarmi e voglio spezzare il gioco di simmetrie che mi teneva in balia del Procuratore. Di scatto estraggo dal suo fodero la spada a doppio taglio e mi scaravento a rompere gli specchi uno dopo l'altro. Gli specchi si infrangono in mille pezzi, scompare via via l’oscurità del luogo e dietro ogni specchio si rivela la presenza di uno dei miei assalitori, ancora completamente nudo. La donna con la testa di mucca che mi osserva muta, il piccolo Marco che piscia dal naso.

Il Procuratore è sparito non so dove, ma ho in mano una delle sue preziose corone, pomposamente la poso sul capo di Bellela e tutta la sua pelle assume la lucentezza e il colore dell'oro, i capezzoli splendono di luce gialla e i peli del pube si trasformano in sottili filamenti d'oro; faccio un giro intorno al suo corpo da statua e ne osservo ammaliato le curve tonde e intagliate.

Simile a un putto ricoperto d'oro, il bimbo cammina sul prato e comincia a suonare il flauto risvegliando gioia ed ilarità nel gruppetto e così, dorati e incoronati, costoro danzano in cerchio intorno a me in perfetto ordine e sincronia.

Mi ritrovo impalato al centro e la farsa non mi diverte, ecco... in verità io non mi sento affatto soddisfatto. Pur nello stato di sonno, affiora in me la consapevolezza che sto sognando. Mi è capitato altre volte. So perfettamente che sto recitando una parte dentro un incubo e voglio a tutti i costi uscirne, sfondare, tornare alla mia realtà.

Oltre i reconditi significati del sogno, smarrito dietro i sipari dell'alienazione, voglio interrompere la serie infinita di metafore che come uno schermo mi divide dal mondo concreto. Forse il distruggere un sogno mi lascerà dentro un vuoto penoso, mi sbatterà in faccia un'esistenza grigia e monotona, ma non importa, voglio uscire! Sopporterò l'amarezza del risveglio, voglio guardare negli occhi la mia angoscia.

Mentre quelli continuano imperterriti a danzare mi trovo davanti una scala discesa dal cielo.

Oh Gesù, la via d'uscita! Una scala celeste come quella di Giacobbe, il padre di Giuseppe.

Vengo afferrato dall'impulso di salirla, di andare veloce incontro agli angeli. Per l'ultima volta mi giro a guardare in volto quel gruppo di indiavolati cui prima soggiacevo per effetto coordinato di una serie di bastonate, quegli stessi che ora continuano a danzare giocondi ma inconsapevolmente asserviti alla volontà del Procuratore, come marionette nelle sue mani. Li scruto sbrigativamente con l'intento di sondare la loro ingannevole consistenza di fantasmi e finalmente muovo il primo passo sul piolo della scala.

Ma il vertice del capo urta una resistenza, mi sento ricacciare giù, un piede scalzo schiaccia la mia testa. E' il piede del Procuratore in bilico sulla scala. E' vestito da domenicano. Gli bacio i piedi chiedendo umilmente perdono per tutto il male che ho commesso.

Piangevo e gli baciavo i piedi umidi di lacrime, desideravo farla finita con la magia, ritornare all'ovile, riconciliarmi con la Chiesa. Era la sola soluzione possibile, la mia anima risanata avrebbe trovato piena consolazione e allontanato da sé ogni turbamento. Sentivo sulle spalle tutto il peso dei miei peccati, la lista era lunga, spergiuro, tentato omicidio, atti impuri, adulterio, furto, sacrilegio, eresia, ma il cielo perdona a chi si pente, non dimentica il figliuol prodigo e gratifica ogni suo passo verso la conversione. Perfino qui, dentro il regno dei sogni, mi è bastato pensare alla salvezza perché il cielo inviasse apposta per me la scala di Giacobbe.

Ne afferro i pioli.

Proseguendo incontrerò gli angeli del Paradiso che salgono e scendono lungo la scala.

Salgo volteggiando come un acrobata, dopo una cinquantina di metri mi fermo un attimo a osservare in basso, ma i sette che danzavano non ci sono più, al loro posto delle mucche pascolano indifferenti. Salgo rapido verso il cielo, ogni tanto guardo giù e ogni volta vedo le mucche in scala più ridotta, finché non sono altro che un gruppetto di minute formichine che girano per il prato di Mas di Sabbe.

Più oltre scompaiono, come pure le siepi e i filari di Zoldo. Si vedono solo le linee sottili della strade e del corso dei fiumi, gli appezzamenti spezzettati dall'uomo, l'ordine regolare delle coltivazioni suddivise in rettangoli; posso contemplare le sculture in miniatura dei rilievi montuosi, i colli corrugati e solcati dalle vallate, il marroncino della terra brulla e il verde del vello boscoso; accarezzo con lo sguardo i contorni frastagliati dei laghi, gli agglomerati urbani che diradano verso la periferia e si stringono al centro, addossati a un castello.

Penetro attraverso le nuvole, ne sbuco al di sopra, uno strato uniforme di nembi si distende appena sotto di me come un mare candido e soffice, in alto in lontananza i cirri disegnano filamenti delicati. La mia ascesa è gratificata da sensazioni estatiche, però l'aria è gelida e comincio ad avere paura.

D'improvviso l’inaspettato!

Nel nitore della fredda luce i contorni eterei e fosforescenti del cherubino ribelle:

Lucifero è assiso su un trono di imponenti cumuli di nubi, attorniato da schiere angeliche.

E' una visione terrifica. Vengo raggiunto da correnti ascensionali che agitano fischiando le mie vesti e fanno vibrare la scala. Con lo sguardo, cerco disperatamente sul diadema del cherubino e vi riconosco la preziosissima pietra, brillante come l'Astro del Mattino. Le correnti infuriano, vacillo, mi aggrappo disperato alla scala, stento a mantenere l'equilibrio e cado. Precipito dal cielo a velocità impressionante.

Ahi! Il regno dei sogni non rispetta nessuna logica e purtroppo, nemmeno quella dell'assolvere chi si pente.

In pochi secondi sono prossimo all'impatto con il terreno... a quel punto mi desto di soprassalto in preda alla penosa sensazione di cadere.





 
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view post Posted on 1/2/2009, 21:39

ottimo

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Un piccolo tavolo, due sedie e la vasca di legno ricoperta di lino. E' quanto hanno lasciato nella vecchia casa i miei familiari dopo aver tolto i pannelli di tessuto dalle pareti, piegato il tavolo a cavalletto, preso gli scanni e i bauli portatili, e traslocato quasi tutto il mobilio nella loro nuova residenza. Però adesso, il vano unico al piano superiore è rimasto solo per noi due e finalmente possiamo goderci un po' di intimità.

Nel rincasare una fredda sera di dicembre, poco prima di Natale, allungo le mani verso il focolare al centro, col viso illuminato dal chiarore del fuoco che da solo rischiara lo stanzone umido. Mi siedo su una sedia dalle gambe a X, tolgo le scarpe a punta perché sono fradice di pioggia e le poso sul pavimento di legno vicino al caminetto. Mi sfilo da una gamba la calza verde e la calza arancio brillante dall'altra.

Alle spalle mia moglie ha finito di lavarsi nella tinozza e si mette addosso una vestaglia argentea, è gravida al nono mese ed il pancione le sollevava graziosamente la veste. Con gesti premurosi prepara sul pavimento i nostri materassi di paglia, chiude le imposte, chiude le finestrelle che danno sul canale e, ancora intirizzita dall'acqua gelata, prende la sedia dal tavolo e viene a sedersi al mio fianco per asciugarsi e riscaldarsi col focolare.

Diana, per delicatezza, non aveva mai osato chiedere delucidazioni sui miei trascorsi con l'Inquisizione benché ne fosse vagamente al corrente e notasse da tempo il mio scarso fervore verso le funzioni religiose, ma nel clima natalizio di quella lunga notte d'inverno ella venne a dialogo con me:

«Tu vai a messa solo per quieto vivere, lo fai per il tuo lavoro, probabilmente ti basta mantenere una facciata di buon cristiano, ma dentro di te prediligi altri modi di pensare, lo intuisco. Il semplice dubbio nella Fede è già di per sé un'eresia, forse hai rifiutato Dio e sei già precipitato nell'inferno, ma io sono tua moglie...

Petrangésio, sei un ragazzo d'oro e non ti denuncerei mai, nemmeno se tu fossi il diavolo in persona, con me non devi temere di parlare, di confidarti».

«Ti parlerò apertamente. In effetti, mi sento estraneo alla Chiesa».

«Riconosco che siamo in tempi di incertezza ma proprio per questo, per vincere le insicurezze insite in ognuno di noi, bisogna affidarsi alla solidarietà della comunità cristiana. La vita è un duello fra il bene e il male, e nonostante tutti i nostri sforzi e le nostre preghiere è estremamente difficile guadagnarsi il Paradiso.

Cosa pensi di poter fare da solo, isolandoti dal gregge del Buon Pastore?»

«Diana, io sono affascinato dalla magia naturale».

«Innovare è peccato. Bisogna appoggiarsi al passato, alle certezze infuse dell’autorità dei Padri della Chiesa».

«La magia naturale non è invenzione di adesso, si basa sull’autorità di antichi filosofi, ti basti per tutti il nome di Aristotele. Ho potuto scoprirne le radici pagane e ho concluso che in sostanza anche la magia delle streghe non è altro che l'essenza dei miti e dei misteri greci applicati alla conoscenza della natura».

«Che? Intendo solo che sei caduto in perdizione, la stregoneria ti ha trascinato lontano da ogni sentimento cristiano, sei vittima di Lucifero».

Per scaricarmi della tensione raccolgo un ferro e stuzzico le braci sollevando un turbine di faville mentre il fumo sale denso per uscire dal buco in cima al tetto:

«Il mito di Apollo ad esempio, la cui essenza è un cammino verso la luce. Quel messaggio non è andato perduto, vive nell'immaginario dei poeti».

«Sono culti sorpassati, soppiantati in pieno dal Vangelo di Cristo, chi crede più in Apollo? Rischi di essere preso per matto» esclama fissandomi ad occhi spalancati.

«Sarò anche matto, di regola i mosaicisti lo sono...

Apollo è quanto vuoi arcaico, sorpassato, però per un certo tempo ebbe in sorte una pacifica convivenza col Cristianesimo. Poi a Roma i primi papi hanno iniziato ad opporsi all’autorità politica dell'Imperatore e così fu che i cristiani ne subirono le persecuzioni. Usciti dalle catacombe da perseguitati sono diventati persecutori, dopo Costantino il messaggio del Cristo si è diffuso grazie ad una cieca violenza, hanno inaugurato una tradizione di evangelizzazione bellicosa e la loro furia si è abbattuta sui templi di Apollo, li hanno distrutti, ne hanno decapitato le statue e negli stessi luoghi ove sorgevano i templi vi hanno costruito delle chiese».

«E' inutile scavare nel passato, ormai è tutto morto e sepolto sotto quelle macerie».

«L'anima pagana di Bisanzio non è morta e così Apollo, oggi attraverso la magia si può giungere alla comprensione di ciò che veramente fu il nucleo dottrinale del suo credo. Un profondo rispetto dei princìpi naturali è alla base del culto apollineo e la magia, il cui compito è dominare il proprio e altrui destino, recupera quelle valenze universali per evitare il pericolo che una conoscenza sempre più approfondita delle cose porti come unico risultato ad una sterile erudizione fine a se stessa, ad un’innumerevole serie di nozioni in cui la visione globale vada smarrita».

«In pratica, come si intende recuperare questa "visione globale"?»

«Chi conosce se stesso, conosce l'universo e le sue leggi».

«E sul piano morale come ci si dovrebbe regolare?»

«Evitare ogni tipo di eccesso, nulla di troppo; la via di mezzo è una buona regola, come diceva lo stesso Federico II».

Diana, sconvolta, si abbandona all'indietro appoggiandosi allo schienale della sedia:

«Tu dunque obbedisci ad Apollo e credi nella sua esistenza. Sei convinto che vaghi ancora per l'Olimpo con la lira in mano».

«Non sono mica scemo - obietto -. Nessuno degli antichi sacerdoti ha creduto si trattasse di un essere in carne ed ossa.

Il dio delle Muse è un potente nucleo di attrazione attorno cui ruotano concetti sublimi e impalpabili come la chiara luce e la Bellezza. Chi ha mai visto la Bellezza in carne ed ossa? Chi l'ha toccata? Eppure non si può negare che esista, è un concetto che vive dentro le cose. Apollo è nel vigore di un volto maschio o nelle gradevoli proporzioni del corpo di un atleta...»

«La bellezza è apparenza. Solamente coloro che sono in odore di santità, cioè i Santi Cattolici, possono ostentare lo splendore di un volto che riluce di un'aura luminosa, poiché in loro la bellezza emana dalla bontà. Tutto il resto è un effimero capriccio.

A me hanno insegnato che la beltà fisica è maligna per definizione, bisogna semmai umiliare il corpo».

«Ma Apollo vive anche nel sole, nei riflessi dorati delle messi, nella scienza del medico o nella corona di lauro del poeta. In ciascun uomo di questa terra ha dimora una piccolissima, minuta parte del dio, ognuno dovrebbe far sì che essa cresca, si esalti e si espanda sempre più come il colore dorato dell'alba riempie a poco a poco l'intero cielo».

«A me sembra l'esaltazione del narcisismo, per non dire pura superbia».

«Vanità delle vanità, tutto è vanità. "Tutto" e quindi nessuna cosa esclusa, lo dice Salomone stesso nella Bibbia. Onestamente non me ne tiro fuori, tanto più che vanità e superbia sono i difettucci del mio segno zodiacale, il Leone».

«Adesso capisco perché i preti della Basilica ti hanno soprannominato il Vanesio».

«Petrangésio... Mago Vanesio» preciso con autoironia.

Ma Diana non ride rimane seria.

La discussione si è fatta un po' accesa e per smorzarne i toni allungo il braccio a stringere dolcemente la mano di mia moglie.

Segue un breve silenzio rotto solo dal tenue crepitare del fuoco, Diana accarezza la mia mano e mi guarda con tenerezza:

«Tu dimentichi l'Amore del prossimo che è la chiave per entrare nel cuore di ogni uomo».

«Il prossimo? Certo, anch'io come tutti amo i miei simili, chiunque mi sia vicino. Del resto l'amore del prossimo non è un comandamento nuovo: lo predicava già Socrate.

Amo l'amico ma il nemico no, purtroppo non ci riesco e mi dispiace. Un pirata? Come potrei amare un pirata che vuole sgozzare all'istante l'intera mia famiglia».

«E' un caso estremo».

«D'accordo Didi. Comunque ogni qualvolta amo intensamente qualcuno, per forza di cose, mi trovo costretto a odiare chiunque gli sia contro».

«Al di fuori dell'amore, che altro c'è che possa cementare i membri della collettività e unire fra loro tutte quelle persone che gli intrighi del destino pongono a confronto?»

«La leva presuppone sempre l'esistenza di un fulcro grazie cui è possibile controbilanciare qualsiasi altro peso, vincerne la resistenza e ottenere l'equilibrio. Così l'Armonia può conciliare se stessi a chiunque altro, si tratta di installare dei propositi che...»

«Parole, parole... che in concreto non si traducono in nulla di buono. In tutto quel che proponi non intravedo il minimo riferimento ad un comune agire che sia costruttivo per le nostre famiglie. Il futuro non si edifica sulle amene nostalgie del passato remoto. Armonia apollinea? L'apostasia ha soltanto un tremendo potere distruttivo sulle nostre usanze consolidate, scalza il centro stesso su cui gravita la Cristianità e il suo veleno porterebbe alla rovina l'intero sistema».

«Ecco tu rifiuti come demoniaca ogni cosa che non rientri nei dogmi della Chiesa. Ma non è mica incompatibile con quanto afferma la Chiesa il voler installare nella propria mente dei semplici propositi di armonia. Benché al di sotto della soglia dell’ufficialità canonica, questa memoria sommersa è anch'essa un qualcosa di costruttivo».

«Cerchi di sedurmi incitandomi all'edonismo, vuoi comunicarmi il desiderio per l'aspetto gradevole del paganesimo, ma non cedo facilmente alla tua presunzione: chi più crede saver manco l'intende.»

«Non è così semplice superare le barriere che mille anni di Cristianesimo hanno innalzato dentro di te. Aiutami a trovare parole che ti aprano la mente».

«Puoi provare con lo sfoderare i miracoli fatti da Apollo, i miracoli Cristo li faceva veramente e anche i Santi».

«No, lasciamo stare i miracoli. Amore mio, ascoltami».

«Ti ascolto».

«Tu mi stai fraintendendo, io non miro affatto a convincerti dall'alto del pulpito: sto solo stuzzicando la tua suscettibilità, voglio cercare nel tuo cuore uno spazio ove poter essere accettato per quello che sono, ove tu accolga con tolleranza uno svitato che la pensa come me».

«Io non sono qui per criticarti severamente, sei libero di pensare come ti pare, il mondo è bello perché è vario.

Sai, solo sento troppo lontane queste cose, sganciate dalla vita comune di tutti i giorni».

«Se accetterai di venire con me a Naxos, all'alba nel tempio di Apollo respirerai l'Armonia del creato insieme al profumo di lauro dell'aria fresca del mattino, allora tutto ciò ti sarà ovvio, come la chiara luce del sole nel cielo limpido e terso».

«Accetto. E non temere, lascerò tutti all'oscuro delle tue confidenze, le terrò sepolte nell'angolino più riposto della mia mente».

Diana copre il fuoco del focolare con un coperchio di terracotta che lascia passare solo l'aria necessaria a tenere vive le braci, nel buio mi prende per mano e mi conduce al nostro giaciglio.


***


Arnaldo come Bernardo, l'uomo di scienza e l'artista, due maestri che mi hanno consegnato lo stesso sublime messaggio ed hanno posto la Pietra magica a fine ultimo delle mie più nobili aspirazioni.

Allo scadere di dicembre, non avendo scordato la promessa di oltre un anno fa, viene a farmi visita alla cupola Arnaldo da Villanova. Indossa il berretto da medico e i lunghi guanti di camoscio, mi abbraccia festante.

Ultimamente il lavoro alla cupola procedeva molto a rilento ma a sprazzi si riaccendeva febbrile grazie all'entusiasmo degli apprendisti che ho istruito di persona nella Corporazione. Sono quasi riuscito a completare i mosaici e, parallelamente, la descrizione in codice di tutte le operazioni della Grande Opera dei Magi Egiziani.

Metto in libertà gli apprendisti e appena siamo soli inizio ad illustrargli la cupola adiacente, quella ultimata da Mastro Apollonio. Puntando il dito in alto, indico Giuseppe che sta per essere calato nel pozzo dai suoi fratelli e poi, nella scena accanto, Giuseppe mentre ne viene estratto per essere venduto ai mercanti di schiavi. Arnaldo concorda con la mia tesi e conferma come in effetti "il pozzo" sia classicamente associato al mercurio magico.

Faccio un paio di passi verso la mia cupola e gli spiego che ho preso spunto da questa fortuita associazione per scegliere il personaggio che doveva incarnare il Mercurio nei mosaici miei. Mi fermo con Arnaldo sotto il mosaico di Giuseppe acquistato in Egitto da Putifarre e gli faccio notare la stella a otto raggi disegnata nello scudo in cui si specchia Giuseppe, un ulteriore espediente per rafforzare la connessione tra il simbolismo del Mercurio e il protagonista del mio romanzo musivo.

Anticipando le mie parole, Arnaldo alza gli occhi al vertice della cupola e ammira un identico astro che domina in posizione assiale. E' la stella polare al centro di un rosone ove le stelle del firmamento traspaiono in fondo all'intreccio di un colonnato.

Mi chiede ove io abbia preso l'idea del rosone di stelle, forse da qualche basilica bizantina?

No, lo persuado che si tratta di una idea mia, sorta mentre ero in procinto di partire per la Romania e dirigendomi al molo guardavo estasiato la volta celeste.

Ad Arnaldo sembra quasi di percepire il vento stellare suscitato dal movimento rotatorio del rosone. Si complimenta con me e mi onora col definirmi un vero artigiano.

Attiro l'attenzione del mio visitatore sulla doppia chiave nelle mani di Giuseppe che supera la soglia. Siamo alla seconda operazione magica, la Sublimatio. Qui Giuseppe evoca la doppia facoltà del Mercurio di "aprire" e "chiudere" le porte del regno dello spirito. Sulla soglia si affaccia una donna vestita di una tunica bianca e di un velo verde: nei panni della moglie del capitano questa donna rappresenta per noi la Prima Materia.

«La Prima Materia, - esclama inebriato il sapiente medico - la materia oscura che permea l'intero universo».

Così giungiamo ad affrontare la chiave di volta della dottrina alchemica: l'apoftégma Solve e Coagula. Nel mosaico a lato ho inteso alludere velatamente al Solve mediante la proposta amorosa della moglie di Putifarre che sussurra a Giuseppe "Dormi mecum" e tende verso di lui le braccia. Giuseppe al suo fianco solleva la mano destra col dito indice e medio uniti, un gesto canonico ispirato ai dettami dei Dattili, i sacerdoti che per primi avevano scoperto la fusione dei metalli. Gesto di unità nelle mie intenzioni, poiché dovrebbe richiamare la mirabile correlazione esistente nella dimensione spirituale: in questa, le distanze non contano e da un capo all'altro dell'universo gli esseri restano perennemente in necessaria e reciproca corrispondenza a motivo della loro comune origine dalla Prima Materia.

Tuttavia, con il Solve siamo solo a meta dell'Opera e guai a chi si ferma qui per attaccamento ai godimenti celesti. Bisogna andare oltre: Solve e Coagula! Dice l'apoftégma. Con la Coagulazione il Mercurio passa dal regno dell'invisibile a quello del visibile e nelle vesti di Giuseppe varca in senso inverso la soglia, richiudendola alle sue spalle. Nei miei mosaici la moglie di Putifarre rivela alle ancelle la presunta colpa di Giuseppe ed esibisce pubblicamente il mantello che gli ha strappato di dosso, ma che significa? Significa appunto "svelare", cioè togliere il velo e rendere visibile ciò che in precedenza non lo era.

Arnaldo coglie lo spunto per lanciarsi in uno sfoggio di erudita sapienza. Secondo lui, prima di venire osservate le cose non hanno una forma fisica definita, rimangono cioè intrinsecamente indefinite fino all'istante in cui non divengano oggetto di percezione. La materia non osservata si trova in una sovrapposizione coerente di tutti gli stati possibili ma non appena il mago decide di intervenire direttamente e la forza in un unico stato, la materia si colassa e coagula. Dalle infinite possibilità di stati del microcosmo egli conduce la materia a convergere in un unico stato, manifesto e visibile nel dominio macroscopico del tempo. Così muovendo dall'ignoto al manifesto, il mago esercita il supremo potere di creare e annichilare, di cristallizzare la configurazione desiderata e poi cancellarla e ancora ripristinarla a suo capriccio.

Entusiasmato dalle sue sottilissime speculazioni, passo con decisione a completare il commento della mia opera:

«Entra in scena la quinta operazione, la Fissatio.

Compare lo Zolfo magico, ossia il Faraone assiso sul trono con le gambe incrociate e con la corona ottagonale sul capo. Chi c'è al suo fianco? Ad impersonare il Mercurio magico non è più Giuseppe ma il servo coppiere che, reintegrato nel suo ufficio, porge al Faraone il vino rosso versato nel calice d'oro. Il coppiere ne solleva con delicatezza il piedistallo per avvicinare la coppa al Faraone che va ad afferrarla saldamente per il manico.

Da notare i due rappresentanti del Secco e dell'Umido, Cioè il pezzo di pane sul tavolo e la bottiglia di vino sul vassoio."

«Mi ricorda un po' i mosaici di Ravenna. Il vassoio d'oro nelle mani di Giustiniano, il grande imperatore bizantino» rammenta dalle sue peregrinazioni.

«Vedi sul tavolo del Faraone un volatile arrostito?» chiedo.

«Allora il cigno arrostito sarà il pasto del Re. Dicono i testi».

«Vedi quella P ricamata sul mantello d'oro del Faraone crinito?» incalzo.

«Sì, la riconciliazione tra il servo e il padrone è dunque la pacificazione degli opposti. Dice testualmente il mago Olimpiodoro: la Realtà coesiste di quiete e movimento, sono cioè gli opposti uniti che danno origine al mondo reale. Trovata la Pietra magica, ora manca solo l'ultima operazione» anticipa il medico.

«Esatto la Trasmutatio et Multiplicatio, ed ecco sotto la scritta "Acrae devoraverut picues" l'immagine delle sette vacche magre che affondando i denti sulla coda delle sette vacche grasse.

Significano la trasmissione della natura aurea ai sette metalli e la loro trasmutazione in oro».


La Serenissima è una finta gerontocrazia. Dietro i suoi dogi vegliardi, talvolta ultraottantenni e minati nel fisico, si nasconde l’attività frenetica di una giovane e vitalissima oligarchia tutta protesa a far valere i propri interessi economici. In effetti, il doge ha scarso peso nelle decisioni del Comune e deve anzi difendersi dall'esasperante controllo esercitato sulla sua persona, tanto che al doge non è concesso ricevere regali da parte di nessuno e addirittura non gli è consentito leggere in privato le lettere a lui stesso indirizzate. Tutto ciò è di illustre esempio, mentre in Europa regnano dinastie di tiranni che arrogano alla propria persona un potere indiscutibile ed assoluto.

Il doge precedente, Jacopo Tiepolo, aveva cercato oltre misura di affidare cariche potenti ai suoi quattro figli maschi. Memore di quelle iniziative, il Comune si era messo prontamente all'erta e alla Promissione del nuovo doge aveva imposto al Morosini di giurare, non solo la consueta rinuncia alla successione ereditaria, ma anche la rinuncia ad ogni carica ed ufficio per i suoi figli. Così il Morosini, seppure di ingegno brillante e di eloquio efficacissimo non era riuscito ad imporre i suoi familiari nemmeno nei fatti più marginali. Valga come esempio lo smacco subìto da sua moglie Maria Maddalena nella scelta ove deporre le reliquie di San Giovanni Elemosinaro. A nulla erano valse le sue insistenze, com'era giusto, per la chiesa di San Giovanni di Rialto, gli oppositori l'avevano spuntata e le reliquie erano state trattenute in San Giovanni in Bragora.

Eppure, benché esautorato del reale potere politico, il doge resta il simbolo vivente della Serenissima, l'emblematico rappresentante di un sacerdozio regale, si direbbe nient'altro che una figura retorica, se un forte legame di affetto non lo legasse ad ogni cittadino.

Ai miei occhi il doge ha perso i tratti del giudice austero ed inflessibile che ho conosciuto nella Sala del Tormento, ora è solo un simpatico e tenero vecchietto che dai gesti e dalle parole rivela una venerabile saggezza. Con me è generoso, la mia paga di capomastro è buona e fra non molto mi consentirà di accumulare denaro sufficiente per pagare la cambiale del papiro (per mia fortuna il libraio non è ebreo ma cristiano e come tale la legge non gli consente di chiedermi gli interessi, anche a distanza di tanto tempo).

Il doge Morosini è solito far visita alla cupola mentre noi si lavora, intima di non interrompere le occupazioni e ama stare a guardarci all'opera. Però alla vigilia del nuovo anno, contrariamente alle sue abitudini ordina che sia io ad andare al Palazzo Ducale.

Nella saletta delle udienze, il doge entra indossando corno dogale e mantello lavorati con il medesimo fregio: foglie dalla venatura in rilievo e larghi fiori rosa su un fondo dorato. Il colletto del mantello si chiude stretto al collo ove, sotto il mento, vanno ad allacciarsi i lacci del fazzoletto triangolare che scende dal corno dogale a ricoprire le orecchie. Le rughe sulle fronte sono sollevate e i suoi occhi azzurri sono assenti, il volto ha un'aria affranta al pari di chi si trovi suo malgrado a sostenere un peso più grande delle proprie forze.

Mi saluta con un cenno degli occhi, si siede, ha in mano il mio papiro:

«Come mai i lavori procedono così a rilento?»

Guardo il pavimento passando la mano sui capelli:

«I rigori dell'inverno ne ostacolano i ritmi, ma siamo ormai prossimi alla conclusione, manca solo in cima alla colonna la messa in opera dell'ultimo mosaico, il Faraone che giace sul suo letto immerso nel sonno».

«Ah, il re addormentato: il Sale dei Magi!»

Il Sale? Spalanco gli occhi e rimango a bocca aperta come uno scemo. Il doge ha scoperto l'inganno che pensavo di giocare a lui e agli Inquisitori, gli preme che io concluda alla svelta i mosaici per potermi consegnare a puntino la meritata ricompensa.

Egli recita con enfasi:

«Ciò che viene dalla terra deve tornare alla terra, poiché sta scritto che salendo dalla terra al cielo e ridiscendendo dal cielo in terra si riceve la potenza, la virtù e l'efficacia di ciò che è in alto e di ciò che è in basso.

Vis ejus integra est, si in terram conversa fuerit.»

«Ehm certo, come no... Sua Serenità».

«Tieni, ecco il tuo manoscritto, a questo punto non ci serve più» con un sorriso complice venato di ironia.

Mi congedo con l'aria sconvolta, imbarazzato e confuso.

Il doge ha recitato parole di ovvia natura magica, ha voluto darmi ad intendere che mi ha smascherato, evidentemente ha decifrato il messaggio in codice della cupola e con le sue frasi sibilline ha dimostrato di possederne l'esatta chiave di lettura.

Chissà come l'ha trovata, potrebbe averla ricavata dalle confessioni dei torturati o da qualche libro requisito; forse è colpa mia che non l'ho occultata abbastanza bene, forse è troppo facile da scoprire, ma no! Ecco: è stato Labia a spifferare tutto al Doge. L'aveva detto che possedeva le prove per incastrarmi, sarà stato informato da quel maledetto lupo del Procuratore. Di sicuro adesso la collera del doge si abbatterà su di me da un momento all'altro. L'Inquisizione... il rogo. Ci sono cascato come un pollo. Ora concluderò arrostito la mia carriera di capomastro, me l'aspettavo. L'incubo di quella notte era profetico, è la vendetta della cricca dei ricconi capeggiati da messer Labia, il re dei tramacioni.

Ossessionato dalla paura scendo le scale del Palazzo Ducale, le parole del doge continuano a rintronarmi nelle orecchie:

«Salendo dalla terra al cielo e ridiscendendo dal cielo in terra...» La mia testa è in preda a un turbine di smarrimenti e di emozioni contrastanti, un'invincibile inerzia mi impedisce tuttavia di prendere come una volta la via della fuga.

Aspetterò fatalisticamente il corso degli eventi e comunque sia... mi ghe sboro, finirò la mia cupola e il mosaico del faraone addormentato. Mi rimane una sola timida speranza e cioè, che nonostante la mia colpevolezza, il doge mi sia ancora grato per il ritrovamento del calice Morosini.

Mesto, col manoscritto che pende dalle mani sudaticce e prive di forza, me ne torno a casa.

Indaffarata, Diana sta preparando gli ortaggi per il pranzo, ma non ho certo fame. Mi siedo. Assorto, immerso nei miei pensieri. Fisso la fiamma del focolare. Guardo il vibrare del fuoco e guardo quel rotolo di pergamena consunta.

Questa volta lo brucio davvero! Tanto, anche se ha sfidato i secoli, è solo una raccolta di tinture di cui non m'importa niente.

Allungo il braccio e giocherello con il papiro arrotolato, lo faccio passare veloce ed immune tra le fiamme, poi lo avvicino lentamente al fuoco, il bordo del papiro comincia ad annerire dal calore... ma lo tiro via di scatto un attimo prima che venga avvolto dalla fiammata. Ricomincio da capo. Una fiammella si accende sul bordo e la pergamena comincia a fumare.

Diana se n'è accorta e con un movimento repentino mi strappa il papiro dalle mani e lo sbatte sul tavolo per spegnere la fiammella:

«Sei impazzito, bruciare un papiro con quello che costa! Lo possiamo vendere al mercato».

Diana fa spazio sul tavolo, sposta il cavolfiore che ha cucinato e suddiviso in spicchi, apre il papiro e lo stende con le due mani:

«Che lingua è?»

«Greco» rispondo senza girarmi e senza distogliere lo sguardo dalle fiamme.

«E questo pezzo, è in latino?»

«No Didi, è tutto in greco».

Diana mi porta davanti agli occhi un secondo foglio che era stato inserito entro il rotolo del papiro.

Glielo stappo di mano e leggo il titolo a voce alta:

«Il Mirabile... segreto... Il Mirabile segreto della Trasmutazione!" Il testo che segue è in volgare veneziano. A fianco del testo sono disegnati dei segni magici, riconosco il triangolino dello Zolfo con sotto la croce, il cerchietto del Mercurio dei Magi con sopra le orecchiette e sotto la croce.

Salto in fondo al foglio a leggere il nome dell'autore, leggo:

«Alberto Magno, Padova anno 1223».

Lo richiudo e lo appoggio sulle ginocchia, gli occhi mi scintillano:

«Il doge... il doge Morosini, l'ha inserito lui, l'ha fatto per me, incredibile».

Poi lo leggo con calma, il testo è comprensibile ed il suo significato mi appare chiaro alla luce delle conoscenze magiche che ho accumulato nel tempo. Limpidamente, in pochi essenziali passaggi, vi trovo esposti i princìpi della trasmutazione di un metallo in un altro e alla fine la trasmutazione del piombo in oro.

Voglio provare. La teoria esposta è realistica e possibile. Un ulteriore difficile passo per convertire questi concetti in pratica di laboratorio ed è fatta! Sulla via mi ero consacrato solo alla magia speculativa, ma ora mi sento confuso dall'eccitazione e non so più discernere il confine tra l'oro magico e l'oro materiale, da un certo punto di vista sono la stessa cosa... questa volta il doge potrà aiutarmi, anche lui segretamente ammira la magia ma per ragion di stato e per via dell'Inquisizione, lo tace. Sì, devo continuare a lavorare alla cupola e attendere fiducioso la sua prossima visita, per parlargli.

Ho grandi progetti per la mente, in base ai dettami di Alberto Magno potrò usare il costoso carbon fossile al posto della legna da ardere, ma non basta. La nostra piccola fucina per la soffiatura dell'oro sviluppa un calore insufficiente allo scopo, è indispensabile che il Doge, in segreto, magari di notte quando è proibito lavorare, mi ceda a prestito i potenti forni della zecca di Stato, forni a soffieria con i mantici azionati dall'energia idraulica. Il Morosini lo farà. Lo alletterò con la proposta di trasmutare il piombo in oro per sfornare ogni giorno centinaia di ducati d'oro. Venezia è in ritardo rispetto al genovino e al fiorino d'oro, ma d'ora in poi il metallo nobile delle monete veneziane non sarà più l'argento dei grossi, coglieremo al volo l’opportunità del conio in oro. Se la Trasmutazione ci riesce, per Venezia significherà niente meno che "il ritorno all’età dell'oro".

Ma ecco che il 12 gennaio dell'Anno Domini 1253 alla cupola di Giuseppe arriva un triste carro accompagnato da un drappello di giovani operai. Con mia sorpresa, un sepolcro viene scaricato all'interno e posato su dei piccoli pilastri posti tra le due nicchie della parete.

E' un grande sepolcro in pietra, diviso anteriormente in due rettangoli, nel rettangolo superiore sono scolpiti i dodici apostoli e il Cristo con la mano destra posata sul cuore, nel rettangolo inferiore compare la Vergine fra sei turiboli alternati a santi in atteggiamento di preghiera; sulla cornice, c'è infine una piccola croce al centro fra due uccelli.

Nessuno mi ha avvertito, perciò mi rivolgo a quei ragazzi:

«Soto questa bea cupola, l'ha da eser manco duro anca el sono de'a morte.

Diseme fioi, chi xe?»

Fra gli operai riconosco Rafael, i suoi chiarissimi occhi celesti sono lucidi di commozione:

«El doxe Morosini. El nostro cuor sia l'onoratissima so tomba, e el più puro e el più grande so elogio le nostre lagreme».


***

Come fumo al vento si dilegua il sogno chimerico di Petrangésio, l'artigiano della Basilica d'Oro. Fabbricare l'oro in laboratorio: chimera? Sogno? Realtà? Illusione? Altri raccoglieranno la sfida e per Giove un giorno ci riusciranno, trasmuteranno gli elementi, certo! In laboratorio trasmuteranno gli elementi dal piombo in oro e allora chi oserà più ridere della sua saggia follia?

Su consiglio del Procuratore di S. Marco la morte del doge Morosini verrà comunicata alla popolazione di Venezia solo alla fine del febbraio 1253. L'oligarchia filo-lombarda la terra nascosta alla città col pretesto di non interrompere i profitti del Carnevale, in realtà per portare a compimento indisturbata i propri piani anti-genovesi. Il ricchissimo Silvano Labia userà questo lasso di tempo per manipolare ulteriormente le false notizie che andava diffondendo sui Genovesi e per sfruttare senza scrupoli l'alleanza con la Lega Lombarda ai fini di impedire ogni possibile canale di mediazione da parte Comune di Milano.

Alcuni anni dopo Petrangésio, già papà di due gemelli, cederà al mercato di Rialto il Papyrus di Micca, come pure il manoscritto di Alberto Magno intorno al Mirabile Segreto della Trasmutazione. Un giovane cavaliere di Palma di Maiorca, conoscitore di molte lingue tra cui arabo e greco, li acquisterà per due ducati d'oro.

(Il ducato veneziano contiene 3 grammi e mezzo di oro fino e vale 10 volte un eguale peso d'argento. Vi è raffigurato nel dritto il doge inginocchiato in atto di ricevere le insegne da S. Marco e nel rovescio il Cristo Redentore assiso in piedi tra le stelle, mentre regge con una mano il vangelo e benedice con l'altra).

Due ducati d'oro sono il doppio del debito con il libraio perciò con un ducato Petrangesio salderà la cambiale e con l'altro comprerà un abito di seta, finalmente la seta Jasdi di Persia per sua moglie Diana.

Muoiono i re, muoiono gli imperatori, ma Petrangesio resta testimone dell'inesorabile procedere della storia di Venezia: una Venezia sempre più bella e fiorente.

Chiusa la breve parentesi della reggenza Morosini, il doge successivo sarà Ranieri Zen, ex capitano generale da mar che a suo tempo aveva comandato la flotta alla riconquista di Zara. Sotto di lui Petrangesio, soldato semplice delle truppe veneziane, dovrà suo malgrado partecipare alla crociata indetta dal papa e guidata da Azzo degli Estensi contro Ezzelino.

Ezzelino aveva sposato Selvaggia, la figlia naturale di Federico II, e con l'aiuto dell'Imperatore era riuscito ad estendere i propri domini dall'Oglio fino a Trento, includendo via via le città di Verona Vicenza e Padova nell'obiettivo di creare alle spalle di Venezia una grossa entità regionale. Egli seppe sfruttare abilmente la propria posizione geografica, di fondamentale importanza strategica per l'Impero, e pretese in cambio dell'alleanza il permesso di esercitare un dominio quasi indipendente, nel consapevole tentativo di creare uno stato sopracittadino nella Marca Trevigiana.

Fu precursore o fu tiranno, chi può distinguere tra l'eroe e l'assassino?

Ezzelino non assunse mai cariche ufficiali, rispettò l'esistenza dei podestà cittadini e dei consigli, né si può negare l’efficienza delle sue amministrazioni comunali... ma fu feroce con gli avversari.

Dopo la morte dell'Imperatore, quell'accanito fautore dei ghibellini era rimasto isolato. La sua lunga esistenza al potere iniziava ad essere minata dall'incubo della rivalità mantovana, dalle scorrerie che devastavano le campagne e sorprendevano i castelli, dalle congiure e dalle insidie celate negli intrighi della vita cittadina. I suoi eccessi sanguinari, l'abitudine di reprimere crudelmente ogni opposizione tagliando le mani ai nemici e castrando i figli impuberi delle famiglie avverse, avevano finito per scatenare la rivincita di tutti quei guelfi che finora lo avevano temuto più del diavolo. Tempo addietro le preghiere e le esortazioni di Sant'Antonio da Padova, il saggio eremita che nella foresta aveva resistito alle tentazioni del maligno, non erano state sufficienti a placare la fredda determinazione della sua natura spietata.

Ora, alla resa dei conti, la crociata contro di lui avrà successo, Trento verrà ripresa dal vescovo, Padova gli verrà sottratta nel 1256 e a nulla sarebbe valsa la feroce vendetta di Ezzelino che truciderà 11000 padovani arruolati nel suo stesso esercito. Tre anni dopo Ezzelino fallirà un tentativo di prendere Milano di sorpresa con l'aiuto dei fuoriusciti ghibellini e bloccato sulla via del ritorno verrà definitivamente sconfitto sul ponte di Cassano sull'Adda. Ferito a un piede da una freccia e tradotto in carcere, Ezzelino si lascerà morire rifiutando le cure mediche e la riconciliazione con la Chiesa.

All'inizio della nostra storia si ricorderà il 13 dicembre 1250 e la morte "sub Flore" di Federico II di Svevia, l'Imperatore della Fine dei Tempi. Nell'ora estrema a Castel Fiorentino di Puglia egli aveva nominato suo successore Corrado, ma questi era mancato prematuramente e la reggenza era stata assunta dal figlio illegittimo Manfredi, direttamente eletto dai baroni siciliani. Manfredi era riuscito in un primo momento ad arginare le minacce papali ma nulla poté contro Carlo d'Angiò (fratello del re Luigi di Francia), quando questi decise di invadere il suo regno sotto le esortazioni pontificie. Abbattuto sul campo insieme a molti nobili siciliani Manfredi fu sepolto da scomunicato, senza alcuna cerimonia ecclesiastica.

L'ultima romantica speranza dei ghibellini fedeli alla causa sveva sarà il figlio di Corrado, quel Corradino di Svevia cui Manfredi aveva usurpato la corona. Al crepuscolo dell'Impero, un Corradino ancora sedicenne scenderà in Italia alla testa degli esuli meridionali e toscani, confidando nella ribellione dei baroni siciliani all'invasore francese. In Sicilia la colonia Saracena di Lucera innalzerà il vessillo svevo e perfino il re di Tunisi accorrerà volenteroso in aiuto. La magnifica città di Roma, in mani ghibelline per l'ennesimo tumulto dei suoi turbolenti popolani, tributerà grande giubilo e festeggiamenti all'ultimo degli Hohenstaufen. Onorerà quel supremo potere che alla caduta dell'Impero Romano fu trasferito ai Bizantini, quello stesso che dopo il grande legislatore Giustiniano passò ai Franchi e che fu poi trasmesso da Carlomagno ai Longobardi, da Ludovico ai Sassoni, da Ottone agli Hohenstaufen... quel supremo universale potere che ora pendeva dall'incerto destino di un adolescente.

Nel 1268 ecco i due eserciti si misurano a Tagliacozzo. I ghibellini inizialmente hanno la meglio sulle truppe provenzali e francesi, ma poco dopo l'austero Carlo d'Angiò, in agguato dietro le alture, scende a travolgere il breve sogno della rivincita sveva.

Corradino riesce a sfuggire, ma raggiunta Roma trova ad accoglierlo una città deserta, inospitale e ostile al perdente. Attraversa allora la campagna col batticuore e giunto al mare vola col pensiero alla madre che si affaccia presaga al castello di Hohenschwangau, Corradino tenta di imbarcarsi, ma viene presto raggiunto dai nemici e catturato. Verrà sottoposto a pubblico processo.

Bello e di gentile aspetto, solo... con i suoi sogni troppo grandi, l'aquilotto ha spiccato entusiasta il primo volo ed è rimasto irretito nel florido e fatale paradiso del meridione. Ma appena il giovane Imperatore universale, altero, posa sul ceppo la bionda chioma lancia al cielo il guanto. Qualcuno lo raccoglie. L'Europa risorgerà, unita nell'ideale ghibellino.

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34 replies since 10/11/2008, 15:16   5691 views
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