| Un bambino, mia moglie, un trovatore, l'innocenza, la dolcezza, l'eloquenza, ecco le visite cui tengo in più alto rispetto...
Il bambino entra di corsa nel vestibolo della cupola volteggiando dall’estremità di un bastoncino due nastri gialli che serpeggiano lunghi in aria. Si ferma di colpo e mi osserva con il visino all’insù. Sono sospeso sull'impalcatura e sto lavorando agli ultimi ritocchi della figura di Giuseppe venduto a Putifarre, il capo delle guardie del Faraone. Il mio visitatore ha nove anni e dice di chiamarsi Marco, dal vestire e dall'aspetto curato riconosco la sua origine nobiliare.
Appena ha la parola inizia a tempestarmi di domande:
«Chi è quello lì?» indicando con il braccino teso la figura.
«E' Giuseppe schiavo degli Egiziani» gli spiego e proseguo a incollare pietruzze per finire la pelle scura e rugosa dei mercanti di schiavi.
Egli osserva tutto in silenzio con l'espressione vivace di un cucciolo, si gratta la testa coperta dal caschetto di capelli biondi e poi ricomincia a fare domande:
«Perché disegni favole sul muro?»
Il quesito non facile mi costringe a riflettere un attimo per imbastire una risposta adeguata, finché risolvo così la questione:
«I grandi non credono alle mie storie, povero me, e allora mi sono messo a disegnarle per i bambini, questa è la favola delle sette mucche magre che mangiano le sette mucche grasse».
«Le mucche mangiano solo erba, me l'ha detto la mia mamma» esclama.
Mi ha incastrato, comunque sono entrato nelle sue simpatie e ogni giorno viene a trovarmi, per un po' si ferma a guardare serio le nuove figure che ho creato, quindi vuole che mi pieghi e che lo faccia salire a cavalcioni sulle mie spalle per vedere più da vicino le figure. Poi scende a terra, furtivamente mi sottrae qualche pietruzza colorata e scappa via di corsa nella piazzetta adiacente a giocare a mosca cieca con gli altri bambini.
Marco mi da da pensare. Si dimostra troppo avveduto e coscienzioso per essere un bambino, potrei sospettare in lui la reincarnazione di un sapiente del passato se credessi come Platone nella metempsicosi. Ma non ci credo, o meglio, ritengo che l'anima di un uomo sia sì di natura immortale ma possa incarnarsi in un altro corpo solo attraverso il veicolo dei propri figli, modellandone le sembianze fisiche e operando le loro scelte fondamentali senza che essi se ne accorgano. Ne deriva che ogni uomo ha in sé una particella dell'anima di tutti i suoi predecessori ed è davvero una grande responsabilità per ciascuno di noi, sapersi il frutto delle lotte e delle sofferenze di una innumerevole schiera di antenati, indietro, indietro nel tempo, fino ai giganteschi Titani, dalle cui ceneri nacque il genere umano.
I bambini sono nanetti ma a cavalcioni sulle spalle dei giganti possono vedere più lontano di loro.
I lavori nella cupola proseguono senza tregua.
Nella posa finale di un pezzo di mosaico i ritmi di lavoro si fanno più pressanti, spesso lavoro ininterrottamente per ore e ore dimenticandomi perfino di mangiare, finché crollo dalla fatica e mi addormento, disteso sul sedile di pietra che corre parallelo alla parete della cupola.
E' quello che è successo oggi e sto dormendo un sonno così pesante che nessun sogno è ancora venuto ad allegerirlo. Qualcuno si avvicina in silenzio e posa delicatamente le labbra sulle mie palpebre chiuse. Aprendo gli occhi in fessura, a poco a poco metto a fuoco la figura di una donna vestita di rosa sgargiante e i suoi lunghi capelli e i due grandi cerchi d'argento ai lobi delle orecchie. Ha gli occhi color dell'ambra, luminosi e trasparenti.
Mia moglie Diana ha voluto farmi una improvvisata, è una novità dacché prima d'ora non aveva mai messo piede nella cupola.
Sento di volerla con tutta l'anima. L'oggetto del desiderio è qui davanti a me, dentro la sua pelle vellutata, è una realtà che adesso posso toccare e tuttavia si mescola alla favola che ho dipinto sulla cupola.
Come posso sapere dove termina il sogno e dove comincia la vita?
Strade parallele mi hanno portato alla realizzazione dei miei sogni:
meta impalpabile del mio volere è ciò che ho raggiunto nella Pietra dei Magi e solo per vie traverse, tra l'opposizione dell'Inquisitore e l'aiuto di Zagreo, la magia mi ha infine condotto alla Cosa Unica e alla consapevolezza della sua natura;
tangibile punto di partenza dell'osare, docile bersaglio della mia voglia maschia, è questo fiore di ragazza, in lecito servaggio a me aggiogata in dono da Venezia e dai suoi canali poi che smisi d'esserne disgiunto.
Le accarezzo il viso ed ella ricambia il gesto passandomi le dita sui capelli, e va alla nuca e al collo, scende sotto la tunica a tastarmi il torace, accarezza a due mani i miei fianchi, mi massaggia il dorso delle cosce, poi prende le mie dita e le succhia piano con la lingua.
Perché proprio Diana è la mia sposa e non un'altra fra migliaia di donne che popolano la città? Non lo so. orse lei, perché ha saputo entrare nella mia favola, rubare il posto al servo coppiere, saldare l'intreccio delle nostre anime intorno a un sogno vissuto insieme.
Per chi sogna il sognare è realtà fin tanto che l'illusione non si spenga al risveglio, viceversa per colui che è desto, la realtà è realtà, solo che il sonno non gli rubi le membra.
Ma c'è per me un confine d'amore misto di vigile torpore ove scivolano le sue carezze dulcamare, tenere e inflessibili, loquaci e pur mute nel loro dolce tacere.
Prendo in mano la cazzuola, lei prende la brocca e versa acqua sulla malta.
Alcuni giorni dopo finirà il mese.
Nella prima quindicina del dicembre 1252 un flusso di ricordi accompagna di pari passo il rallentamento dei lavori nella cupola.
Un ciclo, un ciclo di due anni si è compiuto e i miei pensieri si ripiegano all'amaro rimpianto di Zagreo.
Chissà? Forse ho sbagliato a crederlo morto, posso anche aver male interpretato le allusioni di Cengio, le parole di un ubriaco non sono attendibili. Ma la salma che ho visto trascinare quella notte? L'uomo avvolto nel lenzuolo poteva essere un altro, lo strangolato che hanno visto seppellire pure, forse il mio trovatore è vivo, probabilmente resterà nei pozzi a vita e comunque non si può mai dire... la grazia di un prigioniero politico, uno scambio di prigionieri.
No, forse mi sto solo illudendo, dubito che lo vedrò apparire un giorno sul portale della basilica, con i riccioli arruffati e la barba nera, col mare di Grecia negli occhi in quel suo sguardo fiero e dolce.
Di fatto, ecco un trovatore venire alla cupola, ma non gli assomiglia per niente, è molto diverso da Zagreo tanto nel fisico che nel carattere. E' in abito da cavaliere, avrà più di trentacinque anni, biondissimo e longilineo sovrasta tutti in altezza e porta sull'elmo lunghe piume di gallo.
Mi colpisce il tipico aspetto da uomo dell'estremo Nord:
«Qual'è la vostra patria cavaliere?»
«L'Islanda. Paese governato dalle forze contrapposte della natura, il calore delle eruzioni vulcaniche e il gelo dei ghiacci eterni».
«Ah».
«Ora sono alloggiato a Rialto nel fondaco dei Tedeschi. Mi chiamo Snorri, sono un trovatore».
«Onorato. Fui molto amico di un trovatore greco, non ho mai dimenticato la bellezza dei suoi inni, l'eco della sua voce credo mi accompagnerà per tutta la vita».
«Dov'è quel trovatore? Incontrare un collega d'arte mi fa sempre piacere, è una delle ragioni per le quali ho scelto la vita errante».
«Quel greco dovrebbe essere morto».
«Dovrebbe?»
«Vivo... morto... non so. Di certo vive nella mia memoria».
«Ah, l'immortatilità è il privilegio di pochi, poeti ed eroi che hanno lasciato una traccia nel ricordo degli uomini».
«Voi piuttosto, come mai così lontano dalla vostra terra?»
«Giovanissimo approdai in Prussia dall'Islanda. I Prussiani tenevano in alto conto i doveri dell’ospitalità, io facevo il trovatore nel castello di un certo Pipino, ma dopo qualche tempo si abbatté su di noi una catastrofe».
«Cos'è successo?»
Snorri si toglie l'elmo e si mette a sedere sulla panca di pietra, ha i capelli biondi tagliati corti a spazzola:
«Ecco, i Prussiani erano poligami e adoravano il dio della folgore. Erano gente abituata a non avere padroni. I contadini possedevano i campi di grano senza dover rendere conto a nessuno e ciascuno poteva pascolare le proprie mucche dove voleva, poteva raccogliere il miele, cacciare ovunque nella foresta e pescare liberamente nei laghi. I loro nobili erano semplici capi militari, in tempo di pace non avevano alcun potere e le decisioni importanti venivano prese all'interno dell'assemblea generale degli uomini liberi.
Ma erano pagani e la crociata dei Cavalieri Teutonici invase le loro terre con il pretesto di convertirli. Nel 1230, forte dell'appoggio di Federico II, l'Ordine Teutonico si radunò nella Marca di Lusazia e attraversò la Vistola per entrare in Prussia. In pochi anni i Teutonici assoggettarono la regione e vi governarono con estrema durezza, trattando come schiavi i Prussiani convertiti.
Pipino, il mio signore, pur essendosi convertito al Cristianesimo fu giustiziato atrocemente e solo per essersi ribellato all'Ordine Teutonico».
Snorri corruga la fronte assumendo un'espressione tesa e corrucciata.
«Dalla Prussia dove ti sei diretto?»
«In Baviera. A Ratisbona ho stretto amicizia con Tanhuser, un famoso trovatore del Minnesang. Poi sono andato a corte».
«Dove?»
«Nel castello di Wolfsteine, presso Landshut.
Per inserirsi nelle corti tedesche lo straniero deve superare grandi difficoltà, ma io ero entrato nelle simpatie del conte Mainardo di Gorizia che mi ha presentato alla consorte dell'Imperatore Corrado IV».
«Vuoi dire Elisabetta, la madre di Corradino di Svevia?»
«Sì, ero al castello quando è nato Corradino, il 25 marzo di quest'anno».
«Caspita, la corte Sveva!»
Il trovatore indossa la maschera dell'attore ed entra nell’espressività dei suoi temi poetici:
«Col liuto cantavo gli ultimi giorni di Thor, Odino, Freya e di tutte le potenti divinità dei Popoli del Nord. Annunciavo la fine dei tempi: il corno del Valhalla che sta per suonare l'ora del Ragnarok, il crepuscolo degli dei».
«Ragnarok, la sola parola mi fa venire i brividi».
«Alla caduta degli dei un violento terremoto aprirà la crosta terrestre ed il lupo Fenrir, incatenato nel mondo degli inferi, uscirà allo scoperto e inghiottirà il sole e la luna. Le stelle cadranno dal cielo, il cielo si spaccherà in due e dallo squarcio sbucheranno al galoppo i Giganti di Fuoco a seminare ovunque la distruzione. Naglfar, la nave fatta con le unghie dei morti, salperà dalla Spiaggia del Cadavere ove attendeva questo istante da tempo immemorabile.
Quando il corno del Valhalla avrà suonato, gli eroi del bene e del male si annienteranno a vicenda combattendo in duello: Thor, con l'invincibile martello riuscirà a spaccare il cuore del Serpente del Mondo ma dopo nove passi cadrà esanime, ucciso dal suo fiato velenoso; Odino lanciato al galoppo contro il lupo Fenrir verrà inghiottito per sempre nell'abisso delle sue fauci spalancate; a nessuno sarà dato sopravvivere. L'universo scomparirà nel grande collasso di un cataclisma di fuoco ritornando ad essere ciò che era in principio: caotico, informe, silenzioso nulla».
Balbetto:
«Quando scoccherà quell'ora terribile?»
«E' prossima».
«La profezia sub Flore... Non sopravviverà proprio nessuno?»
«Finito il Ragnarok tornerà il figlio di Odino: Vali, il vendicatore. Lo dice la profezia di Volva la maga Veggente.
Sarà per i popoli del Nord la riscossa contro le oscure forze dell'Anti-Europa, che stanno pianificando l'appiattimento delle coscienze» conclude mentre si alza in piedi rimettendosi l'elmo piumato.
***
Fedele alla promessa è ritornato il barbone, ma il mio primo visitatore è ora pressoché irriconoscibile: sembra più giovane, ha la barba rasata con cura, un ricco vestito addosso e tanto di servitore appresso.
«Però, paga bene il governo per fare lo spione!» lo apostrofo con sarcasmo.
«Ma signore, vi prego, state parlando con il nobiluomo Labia» precisa il suo servitore.
«Ah ah che ridere, il Nobiluomo Labia!»
«E' vero sono uno degli uomini più ricchi di Venezia - senza sbilanciarsi -. Tanto ricco che posso buttare i piatti d'oro dalla finestra».
«Puoi anche andare a fartelo mettere...» mi blocco a meta frase, al posto dell'anello di onice vedo al suo dito un gigantesco diamante. Cambio espressione.
In effetti il suo portamento appare consono al ruolo e se dicesse il vero?
Egli riprende la parola togliendomi d'imbarazzo:
«La mia enorme ricchezza mi consente di avere a disposizione tutto ciò che voglio però, benché il denaro possa esaudire qualsiasi mio desiderio, mi mancava ancora l'esperienza di una sola cosa: la povertà. Quindi vestito a Carnevale ho provato per alcuni giorni a fare la vita del barbone ed è stato un vero spasso osservare le reazioni della gente e divertirmi alle loro spalle, specie di quei citrulli che hanno le narici troppo sensibili».
Sono rimasto senza parole, mi si è inceppata la lingua.
Con un cenno egli allontana il suo servitore e rimaniamo soli, ha una espressione tesa e severa:
«Ora posso parlare liberamente. Il governo ha rotto il trattato con Genova grazie alla nostra fazione filo-lombarda, pochi ma ricchi nobili fortemente contrari agli accordi. Il piano di Zagreo ci era utile per destabilizzare le relazioni diplomatiche tra le due città, ma era un piano fasullo perché il complice di Nicea era pagato da noi».
«Voi avete avete pagato il complice?!»
«Sì ed è il suo complice che l'ha denunciato all'Inquisizione, ha condotto gli sbirri fin sotto la scala dell'albergo e poi se l'è squagliata. Il Doge doveva venire a sapere di un piano congiunto per la liberazione dell'isola di Candia, convincersi di inesistenti proposte genovesi per un nuovo patto di alleanza coi Greci e a favore dei ribelli. ».
«Inesistenti proposte genovesi... Qualcosa però non ha funzionato, perché Zagreo ha nominato soltanto la Verona di Ezzelino».
«La lettera da Nicea, la lettera di risposta ai Genovesi da parte del despota greco Giovanni Vatace».
«Ho capito, carte false per seminare zizzania tra Genova e Venezia: Creta di nuovo sobillata dai Genovesi come nel 1216...».
«La falsa lettera doveva averla con sé Zagreo nella camera dell'albergo al Pellegrino. Invece no. Non sapevamo dov'era finita, si pensava l'avessi tu e per questo, con una denuncia anonima, abbiamo consigliato all'Inquisizione di perquisire la tua casa».
«Ah, siete stati voi - sempre più sorpreso -. E come mai il complice di Nicea è finito in carcere. Qualcos'altro non ha funzionato?»
«No, il complice vero è fuggito, l'abbiamo fatto tornare a Nicea.
Dovevamo comunque rimediare all'intoppo, abbiamo riscritto la finta lettera di Giovanni Vatace e l'abbiamo consegnata al Doge assieme ad uno schiavo greco, uno che era salito a Nicea sulla stessa nave di Zagreo, un mercantile che batteva stendardo genovese.
Naturalmente sotto tortura lo schiavo ha confessato colpe non commesse pur di sottrarsi al carnefice».
«Che infami carogne» voltandogli le spalle e ricominciando a lavorare.
«La Lega Lombarda giova alla nostra difesa, Genova invece lede i nostri interessi commerciali. A Smirne, a Bisanzio, nelle isole di Samo e di Chios, nella stessa Acri, ovunque i Genovesi stanno mettendo le basi della loro espansione commerciale e sempre in diretta concorrenza con i nostri mercati. Dobbiamo guardare lontano, fermare i Genovesi prima che sia troppo tardi, se necessario anche finanziando una flotta per distruggere con la forza le loro colonie».
«Perché sei venuto qui?» girandomi con lo sguardo di fuoco.
«Per farti sapere che se ti azzardi a consegnare al Doge la lettera di Giovanni Vatace finirai arrostito come un fagiano, questa volta abbiamo le prove per incastrarti!»
Queste inquietanti minacce, rinvigorite dalla paura che il nobile Labia o il Procuratore o chi per loro abbia scoperto i significati magici della mia cupola, fa sì che nel sonno di quella stessa notte la mia tensione si risolva in un incubo, un sogno terrifico dalla trama lunga e complicata, sicuramente provocato dalla mia consapevolezza di avere la coscienza sporca.
Non l'idilliaco sogno delle sette vacche magre ma nudi e raccapriccianti sette tra i visitatori della cupola: il nobile Labia nudo e con la maledetta pietra di onice al dito, nuda la puttanella e nudo Erimanzio, nudi altri quattro che sul momento non riconosco. Minacciosi e armati di bambù muovono verso di me dal pascolo di Mas di Sabbe, mi accusano di eresia e mi spingono con la punta delle canne. Cerco di fuggire, temo di venire arrestato, ma le gambe si muovono a rilento come se dovessero vincere una estrema resistenza, il mio corpo non risponde ai comandi, vinto da una fastidiosa sensazione di pesantezza inciampa sotto le spinte, cado in ginocchio a quattro zampe sull'erba. Il nobile Labia mi sputa addosso e mi percuote la natica con un colpo di bambù, ma non sento dolore o meglio patisco orribilmente per il mio stato ansioso, più terribile di qualsiasi sofferenza fisica. Mi rialzo in piedi, zoppico, cerco di allontanarmi ma Erimanzio mi blocca a mezz'aria con un pugno violentissimo alla bocca dello stomaco, mi piega in due, non riesco a respirare, barcollo in preda al panico. Salta fuori una donna nuda con la testa di mucca, è senza bocca e mentre mi morde la mano pur non avendo la bocca, termina il primo spezzone dell'incubo.
Poi ricordo lo specchio di casa mia. Guardandomi dentro vedevo la mia faccia deformata, allungata e stirata verticalmente come se lo specchio fosse concavo. D'improvviso, mi sento risucchiare in un tunnel e mi ritrovo oltre la barriera, dall'altra parte dello specchio.
In una penombra fitta ed inquietante appare la veste del Procuratore di San Marco. Zuanne Zusto ha un magnifico mantello dorato che pende dalle sue spalle in un ampio strascico e sul capo ha diverse corone, una sull'altra. Il Procuratore stringe tra le mani il calice Morosini e lo tiene sollevato in avanti come per porgermelo. Muovo incerto verso di lui, sono stordito e zoppicante, disturbato da lampi di luce a una tempia.
Odo rimbombare l'eco della sua voce metallica:
«Bevi, bevi il veleno. Elixir nelle tue vene. Bevi, bevi...»
E' a pochi passi da me, i suoi imperiosi occhi celesti mi incutono soggezione, protendo le dita e la bocca verso la coppa, ma? Sbatto il naso contro la superficie dura del vetro. Un brivido gelido mi corre sulla schiena, paura e sconforto mi assalgono, mi tolgono ogni desiderio di vivere.
Alle mie spalle echeggia la risata sghignazzante del Procuratore: Ah, ah!... Ah, ah!... Si ripete a intervalli regolari, in modo innaturale.
Mi giro e vedo il Procuratore con a destra una spada dalla lama larga e corta, è riflesso su una serie di grandi specchi disposti a cerchio, colgo un sorriso ironico dipinto sulle sue labbra. Di quelle immagini riflesse una sola corrisponde al vero Procuratore e allora, barcollando come un ubriaco, giro da specchio a specchio, fluttuo dall'uno all'altro. Finché mi accorgo che sto tastando sempre gli stessi specchi, non è il caso di continuare a girare a vuoto, le mie gambe sono instabili e non mi reggono più, cedo, appoggio il palmo della mano sulla superficie riflettente e mi accascio giù desolato, con la mano che striscia umida sullo specchio.
Ma dopo mi ritrovo in piedi davanti a un Procuratore con due spade, una al fianco destro e una al fianco sinistro, mi avvicino, afferro deciso la coppa e bevo il veleno come mi ha ordinato. Il liquido odora di assenzio, il suo gusto è terribilmente amaro, mi impasta lingua e gengive con un sapore che sembra china mista ad acqua di mare. Le labbra mi si torcono in una smorfia di disgusto, apro la bocca in un conato di nausea e la richiudo cercando di raccogliere dalle fauci un po' di saliva per sputare fuori, quando odo l'eco ovattato della voce ferma del Procuratore:
«Devi bere fino in fondo il calice amaro!»
Ad occhi serrati supero l'estrema ripugnanza e ingurgito il liquido.
Arriva l'intensa sensazione di essermi sollevato dall'angoscia. Ero imbrigliato nelle energie negative di un nefasto incantesimo, ma ora posso scegliere attivamente quale direzione dare al mio sogno, ho abbastanza forza per ribellarmi e voglio spezzare il gioco di simmetrie che mi teneva in balia del Procuratore. Di scatto estraggo dal suo fodero la spada a doppio taglio e mi scaravento a rompere gli specchi uno dopo l'altro. Gli specchi si infrangono in mille pezzi, scompare via via l’oscurità del luogo e dietro ogni specchio si rivela la presenza di uno dei miei assalitori, ancora completamente nudo. La donna con la testa di mucca che mi osserva muta, il piccolo Marco che piscia dal naso.
Il Procuratore è sparito non so dove, ma ho in mano una delle sue preziose corone, pomposamente la poso sul capo di Bellela e tutta la sua pelle assume la lucentezza e il colore dell'oro, i capezzoli splendono di luce gialla e i peli del pube si trasformano in sottili filamenti d'oro; faccio un giro intorno al suo corpo da statua e ne osservo ammaliato le curve tonde e intagliate.
Simile a un putto ricoperto d'oro, il bimbo cammina sul prato e comincia a suonare il flauto risvegliando gioia ed ilarità nel gruppetto e così, dorati e incoronati, costoro danzano in cerchio intorno a me in perfetto ordine e sincronia.
Mi ritrovo impalato al centro e la farsa non mi diverte, ecco... in verità io non mi sento affatto soddisfatto. Pur nello stato di sonno, affiora in me la consapevolezza che sto sognando. Mi è capitato altre volte. So perfettamente che sto recitando una parte dentro un incubo e voglio a tutti i costi uscirne, sfondare, tornare alla mia realtà.
Oltre i reconditi significati del sogno, smarrito dietro i sipari dell'alienazione, voglio interrompere la serie infinita di metafore che come uno schermo mi divide dal mondo concreto. Forse il distruggere un sogno mi lascerà dentro un vuoto penoso, mi sbatterà in faccia un'esistenza grigia e monotona, ma non importa, voglio uscire! Sopporterò l'amarezza del risveglio, voglio guardare negli occhi la mia angoscia.
Mentre quelli continuano imperterriti a danzare mi trovo davanti una scala discesa dal cielo.
Oh Gesù, la via d'uscita! Una scala celeste come quella di Giacobbe, il padre di Giuseppe.
Vengo afferrato dall'impulso di salirla, di andare veloce incontro agli angeli. Per l'ultima volta mi giro a guardare in volto quel gruppo di indiavolati cui prima soggiacevo per effetto coordinato di una serie di bastonate, quegli stessi che ora continuano a danzare giocondi ma inconsapevolmente asserviti alla volontà del Procuratore, come marionette nelle sue mani. Li scruto sbrigativamente con l'intento di sondare la loro ingannevole consistenza di fantasmi e finalmente muovo il primo passo sul piolo della scala.
Ma il vertice del capo urta una resistenza, mi sento ricacciare giù, un piede scalzo schiaccia la mia testa. E' il piede del Procuratore in bilico sulla scala. E' vestito da domenicano. Gli bacio i piedi chiedendo umilmente perdono per tutto il male che ho commesso.
Piangevo e gli baciavo i piedi umidi di lacrime, desideravo farla finita con la magia, ritornare all'ovile, riconciliarmi con la Chiesa. Era la sola soluzione possibile, la mia anima risanata avrebbe trovato piena consolazione e allontanato da sé ogni turbamento. Sentivo sulle spalle tutto il peso dei miei peccati, la lista era lunga, spergiuro, tentato omicidio, atti impuri, adulterio, furto, sacrilegio, eresia, ma il cielo perdona a chi si pente, non dimentica il figliuol prodigo e gratifica ogni suo passo verso la conversione. Perfino qui, dentro il regno dei sogni, mi è bastato pensare alla salvezza perché il cielo inviasse apposta per me la scala di Giacobbe.
Ne afferro i pioli.
Proseguendo incontrerò gli angeli del Paradiso che salgono e scendono lungo la scala.
Salgo volteggiando come un acrobata, dopo una cinquantina di metri mi fermo un attimo a osservare in basso, ma i sette che danzavano non ci sono più, al loro posto delle mucche pascolano indifferenti. Salgo rapido verso il cielo, ogni tanto guardo giù e ogni volta vedo le mucche in scala più ridotta, finché non sono altro che un gruppetto di minute formichine che girano per il prato di Mas di Sabbe.
Più oltre scompaiono, come pure le siepi e i filari di Zoldo. Si vedono solo le linee sottili della strade e del corso dei fiumi, gli appezzamenti spezzettati dall'uomo, l'ordine regolare delle coltivazioni suddivise in rettangoli; posso contemplare le sculture in miniatura dei rilievi montuosi, i colli corrugati e solcati dalle vallate, il marroncino della terra brulla e il verde del vello boscoso; accarezzo con lo sguardo i contorni frastagliati dei laghi, gli agglomerati urbani che diradano verso la periferia e si stringono al centro, addossati a un castello.
Penetro attraverso le nuvole, ne sbuco al di sopra, uno strato uniforme di nembi si distende appena sotto di me come un mare candido e soffice, in alto in lontananza i cirri disegnano filamenti delicati. La mia ascesa è gratificata da sensazioni estatiche, però l'aria è gelida e comincio ad avere paura.
D'improvviso l’inaspettato!
Nel nitore della fredda luce i contorni eterei e fosforescenti del cherubino ribelle:
Lucifero è assiso su un trono di imponenti cumuli di nubi, attorniato da schiere angeliche.
E' una visione terrifica. Vengo raggiunto da correnti ascensionali che agitano fischiando le mie vesti e fanno vibrare la scala. Con lo sguardo, cerco disperatamente sul diadema del cherubino e vi riconosco la preziosissima pietra, brillante come l'Astro del Mattino. Le correnti infuriano, vacillo, mi aggrappo disperato alla scala, stento a mantenere l'equilibrio e cado. Precipito dal cielo a velocità impressionante.
Ahi! Il regno dei sogni non rispetta nessuna logica e purtroppo, nemmeno quella dell'assolvere chi si pente.
In pochi secondi sono prossimo all'impatto con il terreno... a quel punto mi desto di soprassalto in preda alla penosa sensazione di cadere.
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