Dacia Maraini

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view post Posted on 14/5/2009, 22:42

ottimo

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Mio marito
Milano, Bompiani 1968
Milano, Rizzoli 1999



Prima raccolta di racconti di Dacia Maraini

leggi racconto......L'altra famiglia
Pietro e Paolo mi svegliano la mattina saltandomi sul petto. Apro gli occhi con un senso di soffocamento. Pietro mi sta seduto sulla pancia, a gambe larghe e va su e gi첫 come se cavalcasse un asino; Paolo mi sta inginocchiato sulle gambe e ride.
짬Mamma, e l'ora di alzarsi.쨩
짬Che ore sono?쨩
짬Le sei.쨩
짬Posso dormire ancora un po'?쨩
짬No, devi aiutarci a vestire e poi devi preparare la colazione. Alzati.쨩
짬Ma che ore sono?쨩
짬Le sette.쨩
짬Che bugiardo. Mi dici un'ora per un'altra eh, per farmi alzare, che bugiardo! Lasciatemi dormire ancora un po'.쨩
짬La mamma vuole dormire Pietro, levati di l챙.쨩
Mi rivolto dall'altra parte e cerco di riaddormentarmi. Ma il silenzio dei miei due figli mi insospettisce. Infatti, giro la testa e li trovo intenti ad accendere un fuoco al centro della stanza, con delle carte e dei fiammiferi.
Mi alzo di corsa, li prendo a schiaffi, ritorno a letto. Ma ormai non riesco pi첫 a dormire. Rimango ancora qualche minuto distesa, le braccia incrociate dietro la testa, gli occhi socchiusi, cercando di abituarmi alla luce che entra dalla finestra spalancata, quindi mi alzo e comincio la giornata.
Vado in cucina a preparare la colazione per i bambini e per Giorgio. Alle otto siamo tutti seduti attorno alla tavola. Pietro cerca di convincere il fratello maggiore a giocare con lui: si riempie la bocca di latte e glielo spruzza addosso.
짬Di' a tuo figlio di smetterla.쨩
짬Smettila Pietro.쨩
짬Anche Paolo lo fa.쨩
짬Smettetela tutti e due.쨩
짬Di' a tuo figlio di smetterla.쨩
짬Gliel'ho detto.쨩
짬Dagli uno schiaffo.쨩
Pietro scappa prima che faccia in tempo ad acciuffarlo. E quando mi avvicino, correndogli dietro, mi spruzza una boccata di latte caldo sulla faccia.
짬Picchialo!쨩
짬Perch챕 non lo picchi tu?쨩
짬Io sono contrario alla violenza, lo sai. Ma tuo figlio 챔 un imbecille.쨩
«È anche tuo figlio.»
«È anche mio figlio, ma assomiglia a te. Paolo è più simile a me. Infatti, se non fosse per Pietro, sarebbe diverso, buonissimo.»
짬Adesso uscite, che 챔 tardi. Dove sono le vostre cartelle?쨩
짬La mia cartella si 챔 rotta.쨩
짬Come, si 챔 rotta! Dove l'hai messa?쨩
짬L'ho buttata. Era tutta rotta.쨩
짬Ma come hai fatto a rompere una cartella di legno?쨩
짬Pietro ci ha giocato a palla.쨩
짬Di' a tuo figlio che 챔 un delinquente oltre che un imbecille쨩, grida mio marito.
«È stato Paolo, te lo giuro.»
짬No, sei stato tu.쨩
짬E digli che 챔 anche un bugiardo oltre che un delinquente. Ma dagli uno schiaffo no."
«Gliel'ho già dato.»
짬Dagliene un altro.쨩
짬Non posso passare la giornata a dare schiaffi a Pietro.쨩
짬Io sono contro la violenza, ma con quel cretino, ci vuole.쨩
Io rincorro Pietro per la casa, Paolo e il padre stanno a guardare, le grosse ciotole di latte fra le mani, i capelli ravviati, gli occhi seri e imbambolati.
Infine riesco a mettere i due ragazzi nell'ascensore. Chiudo la porta e me ne torno in casa. Giorgio sta preparandosi per uscire anche lui.
짬Quando vai a Milano?쨩 mi chiede.
짬Domani.쨩
짬Questo tuo lavorare un po' qui e un po' a Milano mi fa venire i nervi.쨩
짬Perch챕?쨩
짬Perch챕 non riesco ad abituarmi. Qualche volta penso: ecco oggi siamo soli, perch챕 Elda 챔 partita. Invece torno a casa e ti trovo che giochi coi bambini. Altre volte penso: ecco adesso torno a casa e racconto a Elda la barzelletta che mi ha soffiato nell'orecchio Strapparelli, a scuola. Ma quando apro la porta, sento puzza di bruciato e improvvisamente ricordo che tu sei partita e capisco nello stesso tempo che Pietro sta bruciando qualcosa, come al solito.쨩
짬Il mio lavoro 챔 questo. Cosa ci posso fare se mi costringe a fare la spola fra Milano e Roma?쨩
짬Potresti trovarne un altro.쨩
짬Non credo. Con questo lavoro guadagno bene. I tuoi soldi non bastano, lo sai.쨩
짬Ma per lo meno dovresti fissare dei giorni precisi, in modo che io non mi sbagli continuamente.쨩
짬Non posso. Dipende dal lavoro, non da me.쨩
짬Qualche volta penso che tu abbia qualcuno a Milano che ti aspetta.쨩
짬Chi vuoi che abbia?쨩
짬Un altr'uomo.쨩
짬Che sciocchezza!쨩
Giorgio sorride soddisfatto. Si china a baciarmi sulla guancia, si mette a posto la cravatta con due dita ed esce.
Io do qualche ordine alla donna di servizio per la colazione, poi mi chiudo nello studio a lavorare. Preparo le mie relazioni, studio i casi nuovi, scrivo. La mia testa 챔 completamente vuota. Lavoro meccanicamente, quasi senza accorgermene.
All'una la porta viene spalancata violentemente. Pietro entra correndo e mi abbraccia e mi bacia incollandomi le labbra appiccicose di gelato sulla faccia.
짬Com'챔 andata a scuola?쨩
짬Bene. Non ci sono andato.쨩
짬Come non ci sei andato. E Paolo?쨩
짬Paolo 챔 venuto con me. Siamo andati a giocare a pallone.쨩
짬Cosa dovrei farti, dimmi?쨩
«Sono un imbecille, lo so. Ma papà dov'è? Non glielo dire, per favore.»
짬Non glielo dico, ma ti do uno schiaffo lo stesso.쨩
짬Quando parti per Milano mamma?쨩
짬Domani.쨩
짬Mi porti con te?쨩
짬No.쨩
짬Perch챕 no?쨩
짬Perch챕 ho da fare, lo sai.쨩
짬Ma io starei buono ad aspettarti in albergo. 쨩
짬Ho detto no e basta.쨩
A tavola, Pietro e Paolo mangiano avidamente, in silenzio, poi scappano a giocare sulla terrazza. Giorgio legge il giornale. Subito dopo ci stendiamo tutti e due sul letto per riposare.
Alle quattro Giorgio esce di nuovo. Pietro e Paolo vanno ai giardini con i loro amici. Verso le sette e mezza tornano per fare i compiti, ma e troppo tardi e poi sono stanchi. Dopo dieci minuti che sono seduti al tavolino, si addormentano sui libri. Passo la serata a fare i compiti per loro.
«Pietro sta corrompendo Paolo. Diventeranno due buoni a niente, due delinquenti. Sarà colpa tua. »
짬Perch챕 mia?쨩
짬Perch챕 non li educhi a dovere.쨩
짬E tu?쨩
«Io ne ho già abbastanza di educare quaranta ragazzi a scuola. Quando torno a casa sono stanco. Sai che ti dico, abbiamo fatto male a fare dei figli; non siamo due persone adatte a una famiglia numerosa.
«Forse hai ragione. Avremmo dovuto stare noi due soli, e basta. Ma allora forse ci saremmo già separati.»
짬Perch챕?쨩
짬Perch챕 la vita in due 챔 molto noiosa. Ad un certo punto, non si sa pi첫 cosa dire.쨩
짬Dici sempre delle cose sgradevoli. Perch챕 non andiamo al cinema stasera?쨩
짬Non ce la faccio. Sto morendo di sonno. Vacci tu.쨩
짬No, senza di te, no.쨩
짬Allora andiamo a letto."
La mattina dopo, sono svegliata alla solita ora da Pietro che mi sale a cavalcioni sul petto e mi salta su e gi첫 come se fossi un somaro.
짬Che ore sono?쨩
짬Le cinque e mezza.쨩
짬Tirami gi첫 la valigia dall'armadio, Pietrino.쨩
짬Lo fa Paolo. Io sono occupato adesso.쨩
짬Scendi, mi fai male.쨩
짬No. Un cavallo non pu챵 dire al cavaliere, scendi. Chiudi gli occhi e galoppa. Voglio andare a Milano. 쨩
짬Scendi, se no ti faccio cadere.쨩
Preparo la valigia, la cartella con la causa da discutere, la borsa, il cappotto ed esco. Pietro mi accompagna gi첫 al taxi, Paolo rimane col padre e tutti e due si affacciano alla finestra per salutarmi.
In aereo dormo. È l'unico momento in cui mi sento del tutto a mio agio. Il rumore mi stordisce e il leggero movimento dell'apparecchio mi culla. Mi sveglio poco prima di atterrare. Apro gli occhi proprio mentre l'aereo sta passando dall'azzurro pulito e luminoso dei quattromila metri nella fascia di nebbie opache sparse di nuvole biancastre e lucide che copre la Lombardia.
All'aeroporto ormai mi conoscono: appena arrivo, entro nel bar, poso a terra la valigia, prendo un caff챔, poi compro un gettone e telefono a casa.
짬Sei tu Carlo?쨩
짬Quando sei arrivata?쨩
짬Adesso.쨩
짬Fatto buon viaggio?쨩
짬Buono si, ho dormito.쨩
짬Vengo a prenderti.쨩
짬Non c'챔 bisogno, ho qui un taxi pronto.쨩
Quando apro la porta di casa, trovo Gaspare e Melchiorre in piedi che mi aspettano. Sono ben vestiti, ben pettinati, ossequiosi e servizievoli.쨩
짬Come state?쨩
짬Gaspare ha avuto dei bei voti a scuola.쨩
짬Anche Melchiorre ha avuto dei bei voti.쨩
«Il papà?»
«Sta bene. È uscito adesso per andare alla messa.»
짬Che famiglia pia e ordinata che ho.쨩
짬Vuoi mangiare qualcosa mamma?쨩
짬No. Devo scappare in ufficio. Ci vediamo all'ora di colazione.쨩
Il lavoro che trovo accumulato nello studio di Milano 챔 sempre pi첫 di quanto mi aspetto e finisco per tornare a casa tardi. Quando entro,trovo la tavola apparecchiata e i miei due figli e mio marito seduti ad aspettarmi.
짬Non dovevate aspettarmi. Dovevate cominciare.쨩
짬Volevamo mangiare con te.쨩
짬Hai avuto molto da fare?쨩
짬Molto si. Mi sento stanchissima.쨩
짬L'aereo stanca.쨩
짬S챙, l'aereo stanca.쨩
짬Anche cambiare aria stanca.쨩
짬S챙, anche cambiare aria stanca.쨩
짬Anche alzarsi presto la mattina stanca.쨩
짬S챙, anche alzarsi presto la mattina stanca.쨩
짬Com'챔 andata a Roma?쨩
짬Bene.쨩
«È una città* molto noiosa Roma.»
«Sì, è una città molto noiosa.»
짬Ci sono tanti semafori inutili.쨩
«È vero, ci sono tanti semafori inutili.»
짬E poi la gente non ha voglia di fare niente.쨩
짬La gente non ha voglia di fare niente.쨩
짬Siamo noi milanesi che manteniamo la penisola.쨩
짬Quale penisola?쨩
짬L'Italia no?쨩
짬Ah, l'Italia.쨩
짬Gaspare, Melchiorre, andate a fare i compiti.쨩
«Sí, papà. A più tardi mamma.»
짬Stanno diventando due ipocriti.쨩
짬Chi?쨩
짬I tuoi due figli.쨩
짬Sono anche tuoi.쨩
«Sono anche miei, ma assomigliano a te. Silenziosi e ipocriti. Fingono di essere bravi. Ma ne combinano di tutti i colori. Hanno già imparato a recitare la loro parte alla perfezione. Se ne fregano di me.»
짬Cosa hanno di tanto terribile?쨩
짬Sono finti, ti dico, finti e bugiardi.쨩
짬Allora, hai finito il tuo libro?쨩
짬No, tesoro. Ma sono a buon punto. Mi mancano solo otto capitoli.쨩
짬Che storia 챔? Non me l'hai mai raccontata.쨩
«È a storia di un uomo che ha due vite.»
«Interessante. Ma perché non ti sbrighi a finirlo? È da molti anni che trascini avanti questo libro.
짬Perch챕 ci devo pensare sopra. D'altronde, pi첫 ci penso e pi첫 le cose si complicano. Tu credi che un uomo possa avere contemporaneamente, non dico due donne, ma due famiglie?쨩
짬Credo di si.쨩
짬Credi che sia morale?쨩
짬No.쨩
짬Beh, questo 챔 il problema che mi interessa; come conciliare la morale con ci챵 che 챔 pi첫 vitale e pi첫 profondo in noi, il sesso, il bisogno dell'indipendenza, il gusto dell'anormale.쨩
짬Lo finirai entro l'anno?쨩
짬Si, certo. Anche se lavoro poco, lavoro.쨩
«E chi te lo pubblicherà?»
짬Non so. Un editore lo trover챵, immagino. Ma 챔 difficile, difficile.쨩
Nel pomeriggio porto al cinema i miei due figli, mentre mio marito resta a casa a lavorare. Quando torniamo. lo troviamo seduto nell'ingresso che gioca col gatto. Gli chiediamo se ha lavorato. Lui risponde di s챙. Gaspare e Melchiorre sorridono increduli.
Alle otto e mezza andiamo a tavola. Io mi sento cos챙 stanca che non ho pi첫 fame. I ragazzi mi raccontano delle storie noiose. Poi ci sediamo tutti davanti alla televisione e fino alle undici non ci muoviamo. Io non riesco a seguire i programmi perch챕 dormo a occhi aperti, le palpebre mi bruciano, ho le pupille fisse e cieche. Gaspare e Melchiorre mi svegliano ogni tanto con le loro risate stridule.
짬Quando parti per Roma, mamma?"
짬Gioved챙.쨩
짬Allora questa volta resti quattro giorni con noi.쨩
짬Si quattro giorni.쨩
짬Quando mi porti a Roma mamma?쨩
짬Mai.쨩
«Io ci vorrei andare a Roma, per vedere se e proprio così brutta e sporca come dice il papà.»
Alle undici, i due ragazzi vanno a letto e nella stanza buia, rischiarata dallo schermo azzurrino della televisione, restiamo soli, Carlo ed io.
짬Senti, dimmi se ti piace questo inizio.쨩
짬Di che parli?쨩
짬Del mio romanzo, tesoro.쨩
짬Ah, s챙. Come comincia?쨩
짬Questo 챔 l'inizio del decimo capitolo: In una ventosa e tiepida serata estiva in cui le foglie del leccio tremavano leggermente riempiendo l'aria di un fremito verde... ti piace?쨩
짬Non 챔 un po' troppo lunga questa frase?쨩
짬Niente affatto. Stai a sentire: In una ventosa e tiepida serata estiva in cui le foglie del leccio che intravedevo dalla mia finestra, che sta in fondo alla mia stanza, tremavano leggermente
riempiendo l'aria di un fremito ardente... Credi che sia meglio ardente o verde?쨩
짬Non lo so.쨩
짬In una ventosa e tiepida serata estiva in cui... senti come suona bene; 챔 un'onda che avanza lenta e potente, e tu la senti arrivare e aspetti che si rompa, aspetti e trattieni il fiato, non 챔 cos챠? 쨩
짬Come continua poi?쨩
«In una ventosa e tiepida serata... forse al posto di tiepida metterò calda, che ne dici? Dà più il senso dell'afa. Perché l'afa ci vuole. Intanto l'onda avanza. La senti arrivare. Eccola... in cui le foglie del leccio tremavano leggermente riempiendo l'aria intorno a me... ecco voglio aggiungere intorno a me, è meglio cosi, non ti pare? Dunque intorno a me, di un fremito, come ho detto poi?»
짬Andiamo a letto?쨩
짬Tu vai pure, io continuo a lavorare.쨩
짬Cosa devi fare?쨩
짬Devo trovare la frase giusta. t molto importante trovare la frase giusta.쨩
짬Penso che non pubblicherai mai questo libro.쨩
짬Perch챕?쨩
짬Perch챕 non hai voglia di farlo. Come ti 챔 venuta in mente l'idea delle due vite?쨩
짬Quando ero ragazzo ho amato una volta due donne contemporaneamente. Ma stavo cosi male. Mi sentivo in colpa.쨩
짬E com'챔 finita?쨩
짬Male. Non ci si pu챵 dividere a lungo. Si diventa malati.쨩
Il giorno dopo riprendo la solita vita milanese. Gaspare e Melchiorre vanno a scuola, io vado in ufficio, Carlo si chiude nello studio a scrivere il suo romanzo. All'una pranziamo insieme. Nel pomeriggio io torno a lavorare, Carlo gioca col gatto e i due ragazzi fanno i compiti. Qualche volta, verso le sette, andiamo al cinema, oppure passiamo la serata davanti alla televisione.
Alcuni giorni dopo io preparo le valige, riempio la cartella di cause da studiare, di lettere, di conti, e me ne torno a Roma. Carlo mi accompagna all'aeroporto.
짬Ciao. Cerca di finire il tuo romanzo.쨩
짬Ci lavoro molto, lo sai. Entro l'anno, conto di finirlo. Dopo sar챵 io a mantenere te. Ti far챵 fare la signora.쨩
Appena arrivata a Roma, compro un gettone, mi dirigo verso il telefono pi첫 vicino e chiamo casa.
짬Sei tu mamma?쨩
짬Sono arrivata adesso.쨩
짬Sai che Pietro ha dato fuoco allo studio di papa.쨩
짬E lui che gli ha fatto?쨩
짬Niente. Aspetta che tu torni per punirlo. Ha detto che vuole che tu lo frusti con la cintura del tuo vestito.쨩

Dacia Maraini - Da "Mio marito"
 
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view post Posted on 17/5/2009, 20:15

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L'Uomo tatuato

Guida 1990


leggi racconto.......Appoggiando le braccia robuste — mai viste delle braccia così robuste, da sollevatore di pesi, da facchino, da boxeur, da spaccapietre -appoggiando le braccia sulla tavola Giordano dice: «Solo qualche cartolina».
Con una voce molto dolce. Perch챕 lui 챔 dolce. Un uomo che ha scelto di sposarsi giovane e rimanere fedele alla moglie, di fare cinque figli e di vivere con loro fra i boschi e le piogge di una cittadina del nord della Francia.
Strano modo di imbattersi l'uno nell'altro, in una città sconosciuta, in un teatro che poi non era un teatro ma una sala da karaté, fra luci finte e luci vere, in una oscurità calda di fiati.
Dunque Buenos Aires, dunque estate dell'84. Giordano portava una sciarpa rossa trionfante mentre girava per la Palermo argentina con le scarpe da tennis e i blue jeans, inalberando un sorriso da angelo del vecchio testamento.
Lei, Sara era andata allo spettacolo perché ne aveva sentito parlare con entusiasmo. Voleva vedere come si muoveva sul palcoscenico quel funambolo dell'intelligenza teatrale, in un mondo ridotto all'essenziale che lui gonfiava dall'interno con crudezza. In quel buio di teli neri Giordano saltava come un cosacco. Poi si accucciava e dal suo membro usciva un rivolo di sangue violetto. La gente sgranava gli occhi. Il suo teatro di ferocia e nudità li scandalizzava. Ma lo stesso accorrevano. Era un modo di fargli divorare se stessi e i propri nascosti sogni di abiezione. Il teatro di Giordano escludeva le parole. Era un teatro dai fiati sospesi, lucido e segreto, che apre le porte all'aldilà.
Forse ho già vissuto in quelle stanze remote, pensava Sara, forse ho già sentito questo odore di fiori marci e ferro denudato.
E nel momento che meno se lo aspettava una testa 챔 rotolata ai suoi piedi. Il pubblico ha gridato. Ma lo sguardo 챔 rimasto irretito dalle iridi azzurre, le ciglia palpitanti della testa mozza.
Dopo lo spettacolo Sara ha raggiunto il grande attore dietro le tende che cadevano creando labirinti dal soffitto basso. In un odore di sudore rappreso e di cipria di riso l'aveva visto nello specchio macchiato che le sorrideva. Sembrava che la aspettasse.
Aveva rimesso gli occhiali. Le guance ancora sporche di biacca, l'orlo degli occhi ancora carichi di nero. Le braccia uscivano indiscrete dall'accappatoio, assolutamente incoerenti col resto del corpo: spalle magre, collo esile, polsi sottili, mani lunghe e leggere. Ha una grazia da cavaliere errante, si dice Sara; qualcosa di aspro che fa pensare a una vita di viandante, deserti e ferrovie e letti di crine. Sul palcoscenico per챵 perde quest'aria da pellegrino assetato per diventare leggero come un passero tutto piume e scaglie.
Impossibile per lei sapere come era arrivata in quel teatro e perché. Può indovinare che la incuriosiva quello spettacolo senza parole, tutto muscoli e spiritualità. Voleva assistere alla trasformazione miracolosa che aveva appena indovinato in un vecchio documentario teatrale. E così aveva preso un biglietto. Si era seduta, guidata gentilmente da uno della compagnia, su una seggiola dura in prima fila. Sapendo di partecipare a un mistero più che a uno spettacolo. Le luci appena accennate: due mozziconi di candele appoggiate per terra, pochi oggetti e bellissimi: due ali bianche, frangiate, una culla di legno di olivo, un sasso, un paio di ciabattine cinesi, un canestro venezuelano, dei coltelli ricurvi.
La storia non c'era, n챕 era previsto che ci fosse. Era una vicenda che comprendeva tutte le vicende, qualcosa che riguardava la nascita, lo stupro, la fuga e l'emigrazione... C'era un vecchio che accendeva un fal챵, una bambina vestita di bianco che cantava delle nenie orientali, una donna che ballava come un fuoco fatuo, un angelo sterminatore, un giudice nudo.
Nello specchio Sara vedeva la faccia capovolta di Giordano. La fatica gli tirava le palpebre in una smorfia rattrappita. Le due braccia trionfanti le facevano venire in mente il vecchio Popey con la pipa fra i denti, qualcosa del vecchio divoratore di spinaci che la divertiva da bambina. Ma dirglielo sarebbe stato un sacrilegio. Era tutto cos챙 sobrio e casto e assoluto intorno a lui. Quelle tende nere, quel pavimento tirato a lucido, quel leggero odore di incenso, quelle ali spugnose e terribili che sfioravano il pavimento, quel sangue che sgorgava dal ventre, quella testa mozza e quella bellissima bambina cieca. La gente tratteneva il fiato mentre l'incenso saliva nei loro occhi e il ritmo dei piedi di lui si faceva pi첫 intenso, pi첫 rapido. Il miracolo si era compiuto ancora una volta nella lentezza lancinante dei gesti degli attori, alla luce cruda di quelle due bianche candele, in una tensione da grotta del dragone.
Sara 챔 andata dietro le tende per dirgli che l'aveva rapita con i suoi sortilegi visivi e che tutto era stato come si aspettava: perfetto.
Lui si stropicciava gli occhi neri con una crema e sorrideva paterno. «Questa è Alix» aveva detto e per un momento Sara aveva pensato che fosse la moglie. Ma non lo era perché la moglie non recita e rimane in quella città francese piena di torri a badare ai figli piccoli. Alix è la «mia attrice». E basta. Essendo l'unica donna di una compagnia di quattro persone di cui lui è regista, autore e attore.
짬Vieni a cena con noi쨩. Non era un invito ma una ingiunzione. E Sara aveva aspettato con pazienza che lui si togliesse ogni traccia di nero e di bianco dalla faccia, che si facesse la doccia e si rivestisse dei suoi blue jeans e della sua camicia rosa.
Lo guardava mangiare, con una furia che contraddiceva la sostanza aerea, spugnosa del suo gioco sul palcoscenico. Mangiava come uno che ha attraversato un continente, a digiuno. Facendo a pezzi le costate di bue, i rotoli di intestini di agnello fermati in forma di rosa, le zampette di porco abbrustolite sulla brace, i testicoli di toro gocciolanti sulla fiamma; come si usa in un paese dai grandi pascoli e dalle molte mandrie.
Era silenzioso. Interrompeva il suo divorare per sorriderle con una dolcezza che creava buchi nel cuore. Solo dopo, nello spiazzo sotto la tettoia dove i ragazzi ballavano al suono di una orchestrina fragorosa le aveva detto che si erano già conosciuti. Ma dove? «In Sicilia, a casa tua». Quando lei aveva tredici anni e lui dodici. Ma lei non ricordava niente. Lui invece ricordava che le aveva stretto una mano con tale forza che lei aveva cacciato un urlo. Per Sara erano cose mai esistite. Aveva pensato che lui stesse inventando se non fosse stato per alcuni particolari che solo chi c'era stato poteva conoscere. Presa dai sorrisi cannibaleschi di Giordano, Sara aveva trascurato Alix. E dopo le era dispiaciuto. Giorni dopo, ripensando alla sua magnifica faccia di leonessa malata aveva capito che molto dell'equilibrio dello spettacolo dipendeva proprio da lei e dal suo modo di muoversi così perfettamente consapevole e nello stesso tempo così dimenticato di sé. La sua aspra affettuosità nell' avvicinarsi alla culla, il suo "annacarla" come si dice in Sicilia, col piede nudo; il suo diventare bambina e poi donna senza che nessuno mettesse in dubbio la verità scintillante di quella trasformazione repentina. I suoi movimenti delicati e lunatici davano respiro a quel rovello di uccello notturno che apparteneva a lui sulla scena. Nella memoria di Sara era rimasto vivo il gioco dei capelli di Alix che si facevano ora tenda, ora coperta, ora scudo, ora pioggia di seduzione, ora scure di carnefice e si portavano dietro gli occhi abbagliati della sala.
Ma Giordano aveva già afferrato la mano di Sara sotto la tavola. E Sara improvvisamente si era ricordata di allora, in Sicilia e di come fosse stata lei ad afferrare la mano di lui e a stringerla chiudendo gli occhi.
Cosa avrebbe detto al suo amato che la aspettava all'Hotel Colon? Lui non amava il teatro, aveva preferito dormire. E Sara con quel biglietto in tasca si era lasciata trascinare da Giordano al ristorante. Lo aveva guardato mangiare come un lupo affamato, aveva ascoltato la voce cantilenante di Alix che raccontava della loro avventurosa tournée fra gli indios del Venezuela, e l'arrivo a Buenos Aires, della grandiosa accoglienza di un pubblico sempre curioso delle novità che arrivano da oltre oceano.
Sara si chiedeva se Giordano le piacesse. Ma quella mano già stringeva le sue dita, rendendola complice senza volerlo. O forse sì, volendolo, con i polsi e le punte delle dita prima che il desiderio si facesse strada nel cervello appannato. «Andiamo a ballare»? anche gli altri andavano. Ma Giordano l'aveva trattenuta. «Lasciamoli andare avanti». E avevano preso un taxi da soli.
A Sara piaceva che fosse lui a decidere per lei: non si sarebbe mai decisa, senza quello strattone, ad abbandonare dentro un letto d'albergo di una città straniera l'uomo che amava. Era vile da parte sua, ridicolmente vile ma le sembrava che fossero i suoi piedi a decidere di camminare e non lei. Ed ecco che nel taxi già si baciavano e Sara senti va l'odore di cipria di riso e di lozione alle rose che gli saliva dal collo. Si appoggiava alle braccia da sollevatore di pesi quasi che potessero sollevarla e portarla fino al paese dei lunghi fagioli dove gli orchi mangiano allegramente i teatranti incoscienti e le nuvole fioriscono di begonie. La balera dal pavimento di cemento. L'orchestra sollevata in alto come un presepe sull'altare. Piccoli uomini scuri vestiti di bianco bagnati da una luce verde smeraldo. Non era musica da locale notturno ma canti d'assalto. Il presepe si scatenava lassù fra cornamuse, balalaiche, fisarmoniche elettriche, tamburi grandi e piccoli mentre sul pavimento di cemento le coppie si gettavano in avanti e indietro con uno scotimento del ventre e un battere di piedi eccitati.
Giordano non ballava. Beveva un liquido verde iridato che Sara si chiedeva cosa fosse. Il corpo del danzatore era rimasto sul pavimento della sala da karaté, fra le tende nere, assieme alle due ali dell'uccello voluttuoso…

[…]

Dacia Maraini - Da "L'uomo tatuato"

Il Giornaled’Italia, 7 aprile 1990

Il teatro d'amore a Buenos Aires
di (c.b.) Quasi contemporaneamente sono stati pubblicati due lavori di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucr챙a, da Rizzoli, ed un racconto breve, L'uomo tatuato, con le edizioni Guida.

[…]

La storia è semplice. Siamo a Buenos Aires, una specie di Palermo americana, come suggerisce la scrittrice, e qui la protagonista (che abita a Roma) incontra un attore di un teatro fatto di pura gestualità, di forza, di vitalità incontenibile: il contrario del teatro di parole, di concetti, di tessitura intellettuale che la stessa protagonista ha caro (e che scrive). Così la protagonista, inevitabilmente, finisce col sembrarci l'ombra dell'autrice, una sua proiezione non esibita, ma non nascosta. Lo spettacolo cui ora assiste è a carico di suggestioni, di miti, di arcaica liturgia: «Un vecchio che accendeva un falò, una bambina vestita di bianco che cantava delle nenie orientali, una donna che ballava come un fuoco fauto, un angelo sterminatore, un giudice nudo». Così Sara finisce con l'accettare uno schema prevedibilissimo: dopo lo spettacolo incontra l'attore, con la sua «grazia da cavaliere errante», con la sua «aria da pellegrino assetato», con la sua sete di vivere e la sua voracità. Si ripropone in pochi incontro (l'ultimo di essi a Roma) la separazione e la distanza che c'è tra i due diversi modi di far teatro, l'impossibile rapporto di due vite attratte l'una dall'altra ma nettamente diverse, incomunicanti. Su un braccio dell'attore argentino è tatuata una piccola barca a vela, che sembra gonfiarsi di vento col movimento o la torsione del corpo.
Sembra una parabola sul teatro, o sui due diversi modi di intenderlo. Il teatro della parola, che da sola riempie di immagini la scena della scrittura, la metafora della vita che un foglio basta a contenere, e il teatro dei corpi che da soli misurano lo spazio della scena e lo rifondano, lo ricostruiscono come un mondo che sorga dalle proprie radici in una nuova alba primordiale. Sara ha bisogno di far risuonare le sue parole sulle assi di un palcoscenico; Giordano crede che il suo corpo sia una treccia di parole e che l'opacità di un gesto sia più splendente di tutte le trasparenze dei versi recitati. Una parabola sul teatro, dunque, l'amore tra Sara e Giordano, la cattura e la seduzione che si opera tra loro, tra le loro asimmetriche esistenze Una parabola che diventa una sorta di itinerario erotico, sofferto e ripetuto, goduto e rifiutato: 짬Forse non stava facendo l'amore con lui ma col suo teatro, si diceva Sara. Forse era l챙 per guardare dentro la bocca di lui per trovarci il segreto di quelle parole o la scrittura veloce di corpi resi divini dalla meraviglia degli spettatori. I due si attraggono e si allontanano con i loro segreti, con le loro scene sognate: 짬Sono i loro corpi teatrali che si separano: lei con le sue parole filanti, schioccanti, sbadate, e lui con le sue luci nere쨩.
 
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view post Posted on 19/5/2009, 13:28

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La ragazza con la treccia
Viviani 1994
Edizione spec



Raccolta 13 di racconti

leggi racconto......Il calciatore di Bilbao
In aereo da Barcellona a Bilbao mi sono trovata seduta accanto ad un uomo pallido dalle labbra scure. L'aereo ballava tanto che non riuscivo a leggere. Il cielo era pulito, chiarissimo. Non si vedeva una nuvola. Ma proprio questa limpidezza doveva essere opera di fortissimi venti che scuotevano l'aereo, lo lanciavano per aria e poi lo spingevano in basso come fosse un fuscello.
Poco prima la hostess ci aveva servito una tazza di t챔. Ma non si riusciva a portare alle labbra il liquido senza rovesciarselo sulle dita.
Per vincere il disagio il mio vicino ed io ci siamo messi a parlare. Ma soprattutto 챔 stato lui a raccontarmi di s챕, del suo viaggio, anzi del suo ritorno poich챕 era la prima volta dopo vent'anni che rivedeva Bilbao.
Così come due pellegrini su una nave in tempesta si confidano a bassa voce per ingannare l'attesa di un evento risolutorio, che sia la morte o la fine della furia naturale, così noi due, con gli occhi fissi sul tè che si agitava nelle tazze, ci tenevamo compagnia. Vent'anni fa l'uomo dalle labbra scure era arrivato in Spagna dal Brasile, "comprato" dalla squadra del Bilbao. Avevano molto mercanteggiato i suoi proprietari brasiliani per venderlo al prezzo più alto. Poi quando sembrava che l'affare andasse a monte, gli avevano detto improvvisamente che era stato concluso e si preparasse a partire. E lui, che non ci contava più, aveva dovuto fare in fretta le valigie e correre a Bilbao, la sua nuova città.
Era la prima volta che veniva in Spagna e tutto gli sembrava estraneo e nuovo, leggermente minaccioso. 1 vecchi tram dal muso di ferro grigliato, i ponti anneriti sul Neviòn, i poliziotti ad ogni angolo di strada, con quel loro elmetto verde e nero, le torri gotiche della cattedrale, la Gran Via che presuntuosa e solenne attraversa tutta la città per finire alla Plaza del Sagrade Corazon con quella gigantesca statua del Sacro Cuore che sembra lì pronta per condannarti.
Aveva vissuto sei mesi nell'infelicità, non riuscendo a fare amicizia con i compagni di squadra che fra di loro parlavano in basco, mangiando da solo nel ristorante dell'Hotel Torròntegui, camminando in lungo e in largo per la città, e stancandosi negli allenamenti fino alla spossatezza.
Verso Natale quando già pensava di piantare tutto in asso e tornarsene alle sue verande di Aracajù, una sera era stato trascinato dall'allenatore che era l'unico a occuparsi un poco di lui, in teatro.
Figuriamoci, lui non era mai stato in teatro in vita sua. Il cinema gli piaceva s챙, ma solo quello d'azione, con molte sparatorie e corse a cavallo.
L'opera gli dava ai nervi con quelle voci troppo acute. Il cabaret l'aveva visto una volta e non l'aveva convinto. In quanto al teatro per lui era un mondo assolutamente sconosciuto.
Ma una volta in platea, al buio, sprofondato in una poltroncina di vecchio velluto dai braccioli lisi, era avvenuto quello che meno si aspettava al mondo: era stato affascinato, incantato dalle parole del testo. Mai la lingua spagnola gli era sembrata cos챙 musicale, cos챙 vicina ai movimenti dell'acqua, quasi uno sprizzare di ruscelli, rivoli e cascate che gli deliziavano l'orecchio.
Si trattava di Calder처n de la Barca che lui ricordava di avere qualche volta sentito nominare a scuola. Ma che non l'aveva mai minimamente interessato.
"La vita 챔 sogno" mi dice il vicino dalle labbra scure lanciando un'occhiata di sbieco al finestrino. Stavamo slittando a muso in gi첫 come su una carriola delle montagne russe. Gli dico che qualche volta vado a teatro anch'io.
La parte di Rosaura era interpretata da una attrice che subito aveva colpito la sua fantasia. Il perch챕 non lo ricordava. Non era bella, per lo meno nel senso a cui era abituato lui nel suo mondo: aveva occhi scurissimi e lontani l'uno dall'altro, il che dava al suo sguardo una curiosa espressione di disorientamento. Era piccola e nera di capelli e di pelle, quasi una india, con un corpo minuto e ben fatto.
Di questa donna aveva subito amato la voce quieta, profonda e il suo muoversi per la scena come fosse nella sua casa, con la perfetta naturalezza del pi첫 grande artificio.
Aveva seguito parola per parola tutta la tragedia. Aveva sofferto con Sigismondo, aveva trepidato con Rosaura, era stato re e pellegrino, prigioniero e capo di eserciti.
Ne era uscito sconvolto. E qualche sera dopo, senza dire niente all'allenatore, era tornato in teatro da solo a rivedere "La vida es sue챰o".
Si era seduto al buio, dubbioso, convinto che non avrebbe più provato le emozioni della prima sera. E invece, dopo appena due minuti era stato ripreso dall'incanto. Come se non conoscesse già la storia aveva di nuovo sofferto per Sigismondo, aveva di nuovo trepidato per Rosaura e se ne era tornato all'albergo Torròntegui carico di voci amiche.
La sera dopo, stanco morto per gli allenamenti, si era seduto di nuovo nella poltroncina dai braccioli lisi del teatro Arriaga, a bersi le parole degli attori.
E cos챙 ogni sera, fino a che era durato lo spettacolo a Bilbao, per quanto presto si dovesse alzare la mattina dopo, per quanto stanco fosse dopo i salti, le corse, le esercitazioni.
Ormai conosceva tutte le parti a memoria. Ma questo anzich챕 saziarlo sembrava dargli pi첫 fame. Tutto il giorno ripensava a quell'atrio buio del primo atto, la prigione di Sigismondo e di come in sonno venisse trasportato nelle lussuose sale della reggia, per poi tornare alla sua tana.
La notte sognava Rosaura in abiti maschili che saliva su per le rocce lamentando il tradimento di Astolfo. Voleva fare qualcosa per lei ma non riusciva ad avvicinarla.
In teatro qualcuno nel frattempo si era accorto della sua assiduità. E questo qualcuno era proprio Rosaura, ovvero Concha Alvarez, la giovane prima attrice della compagnia.
A furia di vederlo in prima fila, si era abituata a quegli occhi accesi che la seguivano per la scena, a quella testa attenta che beveva le sue parole. Ormai lo aspettava. E la sera, prima che cominciasse lo spettacolo, andava a spiare da una fessura del sipario per vedere se lui era già arrivato.
Il giorno dell'ultima replica l'uomo dalle labbra scure si sent챙 perso. Come avrebbe fatto senza Rosaura? Avrebbe voluto parlarle, ma come fare? Non gli era mai successo niente di simile e non sapeva come si usasse in un mondo tanto diverso dal suo. E se poi mi disprezzasse? Cos'챔 un calciatore rispetto ad un'attrice che semina parole cos챙 fertili e profonde nel buio della platea? Cos챙 pensava tormentandosi nel dubbio.
Ma fu lei stessa a fare la prima mossa. Alla fine dello spettacolo, durante i ringraziamenti, lo guard챵 dritto negli occhi e gli sorrise con una tale dolcezza che lui ne fu stordito. Poi, con un dito, gli fece cenno di aspettarla l챙 dov'era.
Così lui fece, torcendosi le mani. E quando tutti se ne furono andati, e le luci furono spente, e già si immaginava che l'avrebbero preso per il collo e buttato fuori come un ladro, senti il fruscio di un vestito accanto a sé.
Per giorni e giorni l'uomo dalle labbra scure e Concha camminarono per la città. Lei parlava, parlava. Si era messa d'impegno a fargli amare Bilbao che lui detestava. Per questo lo portava lungo il fiume in certe strette stradine dove si vendeva uva passa profumata involtata in foglie di vite. E poi in piccoli ristoranti del Campo Volantin dove si mangiavano il baccalà con le olive e il latte dentro delle ciotole di terracotta. E l'aveva portato a Begona a vedere la festa dei tori e al parco di "Las Tres Naciones", nonché al mercato dell'artigianato de la Tenderia.
Erano tutti e due timidi e impacciati e non avevano osato baciarsi finch챕 non avevano preso confidenza. La notte la passavano camminando e parlando.
Non ci era voluto molto all'uomo dalle labbra scure per innamorarsi di Bilbao. E alla fine non sapeva se gli piaceva la città per via di Concha o se gli piaceva Concha per via della città.
Concha finiva le prove verso le otto. E lui, dopo una rapida doccia che lo liberava del sudore degli allenamenti, correva a prenderla, coi capelli ancora bagnati, una calda sciarpa di alpaca intorno al collo.
Alla fine dell'anno sportivo il calciatore era stato però venduto, contro la sua volontà, alla nazionale brasiliana. Ed era dovuto tornare alle verande ormai dimenticate di Aracajù.
L챙 aveva cercato disperatamente di farsi raggiungere da Concha per sposarla. Voleva fare dei figli con lei. Ma Concha era legata con un contratto alla sua compagnia e non poteva muoversi. Cos챙 lui si limitava a parlarle per telefono. Delle lunghe conversazioni da una parte all'altra dell'oceano che lo spossavano e lo alleggerivano di buona parte dei suoi guadagni.
Per sentirsi vicino a lei, andava spesso a teatro, da solo. Nessuno della sua squadra amava la prosa. Anzi lo consideravano un po' matto per i suoi gusti e gli ridevano dietro. Ma lui non se ne curava. Sperava sempre di assistere ad un'altra rappresentazione di "La vida es suei챠o". Ma a Rio De Janeiro dove giocava anzich챕 Calder처n si dava soprattutto Valle Inclan.
Quando aveva qualche giorno di libertà, prendeva l'aereo e si precipitava a Bilbao. Concha lo aspettava paziente e innamorata. Passavano la giornata a camminare per la città come facevano ai tempi che lui abitava ancora a Bilbao. Poi si coricavano insieme e dormivano abbracciati dopo avere fatto l'amore per tutta la notte.
Un giorno, mentre l'uomo dalle labbra scure si recava da Aracaj첫 a Rio per una partita importante, fu rincorso da un fattorino che gli consegn챵 un telegramma. Veniva da Bilbao. "Mi sposo, ti amo, Concha".
L'uomo rimase col foglio in mano, vuoto di ogni pensiero. Poi, spinto dai compagni, fece quello che doveva fare. Ma gioc챵 malissimo e si prese i fischi dei tifosi.
Appena ebbe due giorni di libertà partì per Bilbao. Ma lì non trovò la sua Concha. "E in viaggio di nozze" gli disse l'amica con cui divideva la casa. "E dov'è andata?" aveva insistito lui testardo. "Non lo so, forse a Rio".
Come a Rio? Il calciatore aveva fatto un salto, colpito da un dubbio terribile: e se lei fosse andata a cercarlo mentre lui stava qui? Prese di corsa un altro aereo e torn챵 a Rio. Si chiuse in albergo aspettando una telefonata di lei. Nell'attesa non riusciva pi첫 n챕 a mangiare n챕 a bere. Andava su e gi첫 per la stanza nudo, dando calci ai mobili. Ogni volta che squillava il telefono si precipitava e quando sentiva che non era lei buttava gi첫 senza neanche rispondere.
Da allora non ha mai saputo pi첫 niente di Concha. Sono passati gli anni. E lui si 챔 rassegnato alla perdita. Quasi non ci ha pensato pi첫. Si 챔 sposato con una bella brasiliana da cui ha avuto due bambini. Ha smesso di fare il calciatore. Ora dirige una palestra al centro di Aracaj첫. Fa soldi. Si considera in pace col mondo e con se stesso.
Ma qualche mese fa sua moglie 챔 morta e lui ha deciso di venire di nuovo a Bilbao per risolvere dopo molti anni il mistero di Concha.
Intanto il nostro aereo, dopo tanti sussulti e piroette e scivolate, finalmente era arrivato in porto. Siamo scesi malconci, pallidi e nauseati.
Ho salutato l'uomo dalle labbra scure. Me ne sono andata in albergo. Ho venduto le stoffe italiane per cui ero andata a Bilbao. E dopo tre giorni sono tornata in aeroporto per prendere un DC9 per Barcellona e da l챙 proseguire per Roma.
In aereo, questa volta nella calma di una giornata umida e afosa, senza vento, ho riincontrato l'uomo dalle labbra scure. 1 capelli tagliati corti, il collo taurino, gli occhi azzurri malinconici. Mi ha sorriso. Gli ho sorriso.
"Ha scoperto il mistero di Concha?" gli ho chiesto sedendomi vicina a lui.
"Nessuno sa niente di lei, n챕 al teatro, n챕 a casa sua. Sembra sparita nel nulla", mi ha detto con voce spenta.
È arrivata la hostess con il tè. Ha posato le tazzine sui tavolinetti ribaltabili e se n'è andata. Ho guardato l'uomo dalle labbra scure che strappava l'angolo della bustina dello zucchero, rovesciava la polvere nella tazza. Sembravamo tutti e due sorpresi e affascinati dalla assoluta immobilità del liquido nel recipiente di plastica.
"Se questo 챔 stato un sogno non dir챵 / cosa ho sognato... certo 챔 l'ora di destarsi..." l'ho sentito ripetere accanto a me le parole di Sigismondo mentre l'aereo volava morbido come su un tappeto d'aria, senza una scossa.

Dacia Maraini - Da "La ragazza con la treccia"
di Lucia Battaglia

I tredici racconti che compongono il libro sono stati pubblicati nel 1994 e ancora una volta ci rivelano una scrittrice abile nel cogliere episodi di vita quotidiana e capace di trasferirli sulla carta con uno stile sobrio, vivace, venato a volte di melanconia, ma spesso di umorismo; in questo modo ella riesce a dare una nuova luce ai valori che in fondo sono alla base della nostra vita. Certo in questi brevi ritratti e la figura femminile quella che esce vincente, mentre nell'altro sesso prevalgono infantilismo, poco senso di responsabilità ed egoismo: pur di cambiare giocattolo certi individui non si fanno scrupolo di rovinare la vita delle persone. Questo si evidenzia nel primo racconto, "La ragazza con la treccia", che parla appunto di una quindicenne che «è arrivata da un paese in mezzo alle montagne. E le strade di Roma sono per lei così lunghe che rischia di perdersi, i caffè sono così luminosi che a volte li scambia per gioiellerie le case sono così alte che le danno la vertigine anche solo a guardarle». Le esperienze che fa nella grande città non sono sempre positive; non è certo stimolante l'incontro con il cupo Vaccarella, meticoloso e pignolo anche nel rapporto amoroso, sempre silenzioso; una sera le confessa di essere sposato, aggiungendo che «amava questa moglie come se stesso». C'è poi il professor Caetani col quale ha un fugace tansporto; scoprirà ben presto che anche lui è felicemente sposato. Figure maschili che valgono poco: egoiste, fredde e prive di umanità a fronte di una quindicenne che da sola, coraggiosamente, decide di assumersi tutte le sue responsabilità. Un clandestino a bordo e la storia di un amore, di un rapporto tra due persone che suscita nell'autrice una domanda: «È possibile che Ia persona che si ama e da cui si e amati nasconda dei segreti che lo rendono un perfetto estraneo, nonostante Ia vicinanza e l'intimità di anni?». L'ultimo racconto, "Il bottone giallo", è triste e inquietante nello stesso tempo. E' Ia storia di un cacciatore di lontre che uccide una lontra ed il suo compagno, privando i cuccioli dei loro genitori. II cacciatore «nota con stupore che la grossa lontra non ha lasciato coi denti la compagna... sembrano incollate». Per un momento questo uomo prova un senso di pietà per le due creature che hanno cercato di aiutarsi con tanta tenacia, «ma una voce che lui identifica col buon senso gli dice che Ia vita e così, crudele, che la morte e una esperienza comune, e gli uomini forti devono saperla dare, e saperla ricevere senza tanti sentimentalismi».

Lucia Battaglia
 
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view post Posted on 19/5/2009, 13:52

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Mulino, Orlov e il gatto che si crede una pantera
Stampa Alternativa 1995



Tre racconti su tre animali, un cane, un cavallo e un gatto


leggi racconto.....Orlov
Orlov ha venticinque anni. È un vecchio cavallo dai denti gialli, coperto di cicatrici. Ma conserva una linea elegante e svelta. I fianchi che una volta erano morbidi e lisci, color latte, oggi sono segnati dalle costole sporgenti. Gli occhi, forse l'ultima cosa che invecchia in un animale, sono vivi, dolci e secchi. Fra me e lui è nato un grande affetto. Una intesa, non saprei come spiegarla. Qualcosa che ci avvicina e ci fa amici.
Orlov è stato un cavallo bellissimo. Il re dei cavalli. Un Lipiziano dal muso affusolato venuto da terre fredde e nebbiose. Potrebbe essere nato in una campagna ungherese, oppure fra le valli della Iugoslavia, non lo so. Non so niente della sua vita prima che approdasse al Circo Orfei. Immagino che sia passato da una mano all'altra come è destino dei cavalli, conoscendo prima un padrone e poi un altro, in compagnia di cavalli e cavalle a cui si sarà affezionato ma a cui sarà stato strappato senza riguardi. È la sorte degli animali domestici, legati ai capricci e agli interessi dei loro possessori. E il cavallo, questo animale quieto e potente che potrebbe con una zampata uccidere un uomo, si fa docilmente trasportare, guidare, comandare, mettere al basto, tirare di qua e di là senza un lamento.
Cosi 챔 arrivato al Circo Orfei, nelle mani di Anita Orfei che per fortuna 챔 una donna generosa che ama gli animali e li tratta con molto riguardo.
Naturalmente doveva fare i suoi numeri: entrare di corsa nell'arena, alzarsi sulle zampe posteriori allo schiocco di un frustino, giocare con le zampe davanti come un boxeur, farsi montare al volo da una figuretta leggera in scarpine di pezza che avrebbe saltellato sulla sua groppa mentre correva in tondo sulla sabbia. E li ha eseguiti questi numeri per tanti anni, con delicata ubbidienza, spostandosi da una città all'altra della nostra lunga Italia, viaggiando, sotto l'acqua e il sole dentro un camion buio dal pavimento coperto di fieno.
Ogni tanto veniva affittato ad una ditta per la pubblicità. Come è successo con la Vidal che ne ha fatto il protagonista di un film in cui lo si vedeva correre al rallentatore sui prati scintillanti con la criniera bianca sciolta al vento.
Finch챕 챔 diventato vecchio, tanto da non potere pi첫 alzarsi sulle zampe posteriori. Ha subito una operazione ai tendini ed ha cominciato ad uscire in pista sempre di meno. Da ultimo si era ridotto a starsene chiuso nella stalla--tenda a mangiare tristemente la sua razione di avena, fu un asino zoppo e un cammello asmatico.
A questo punto devo parlare di Kriss, una ragazza australiana che 챔 stata a lungo con gli Orfei, facendo la trapezista prima e la domatrice di cavalli dopo. Una ragazza piccola, fotte come un torello, la testa aguzza, gli occhi vivaci, un sorriso infantile.
Ho conosciuto Kriss in casa di una inglese che tiene un maneggio a Formello. Mi ha subito ispirato simpatia per la sua schietta ingenuità. In lei nessuna malizia, nessun pensiero recondito, nessuna strategia. Niente, neanche per difendersi. Infatti la vita le passa sopra con crudeltà, senza trovare resistenza. C'è qualcosa di curioso in questo contrasto fra la forza eccezionale del suo piccolo corpo di domatrice e l'assoluta candida delicatezza del suo animo.
Kriss sa fare di tutto: piantare i pali per una stecconata, ferrare un cavallo, rompere il ghiaccio sui tetti, aggiustare una sella rotta, domare il pi첫 difficile dei cavalli, suonare la chitarra, curare un cane malato, camminare sul filo, fare il doppio salto mortale. E fa ogni cosa con molta allegria, senza lamentarsi mai, qualsiasi orario le tocchi fare. Solo a momenti 챔 presa da una ira furibonda che la rende pericolosa come un vento di tempesta.
Sebbene fosse ben trattata e guadagnasse nella fattoria in campagna Kriss non ha saputo resistere alla chiamata del Circo. Un giorno che andava a fare una visita al Circo, Anita le ha chiesto di tornare sotto la tenda. E lei ha deciso su due piedi di piantare il lavoro fisso in campagna, la casa, gli amici, per ricominciare a girare l'Italia con la roulotte, fra i leoni in gabbia, gli elefanti, i cani, le scimmie, i cavalli.
Ora non fa più la trapezista, ma ha un numero tutto suo con un cavallo nero chiamato Chiurlo. Un cavallo ralmente intrattabile che nessuno riusciva ad avvicinare. Solo lei, con la pazienza e la tenacia di una innamorata è riuscita a domarlo e per questo l'ha avuto in regalo. Credo che sia la prima proprietà della sua vita di zingara povera. Lo tratta come un gioiello pulendolo, strigliandolo, lucidandogli gli zoccoli e la coda. La sera Kriss si veste in ghingheri, con un gonnellino corto, le calze a rete, una giaccherta coi lusrtini ed esce in pista seguita dal suo nerissimo e possente Chiurlo che lei ha saputo rendere docile e leggero come un ballerino spagnolo.
È stata Kriss a parlarmi per la prima volta di Orlov, l'ex cavallo meraviglia ormai posto a riposo e sempre meno sopportato in un Circo che ha bisogno di animali giovani robusti che producano sempre nuovi numeri di attrazione.
Sono andata una sera a trovarla quando il Circo Orfei aveva piantato le tende in via Cristoforo Colombo. Era una sera di pioggia e tirava un vento umido srtacciato. Ho chiesto ad un indiano che stava dando da mangiare alle tigri dove fosse Kriss e lui mi ha indicato una tenda scura. Mi sono avvicinata, ho alzato il lembo di tela cerata guarnito di cuoio e mi sono trovata davanti ad una scena da mille e una notte: illuminati da una grossa lampada a petrolio quattro giganteschi elefanti hanno sollevato contemporaneamente la testa per guardarmi masticando fieno. Una zampa incatenata ad un grosso chiodo sporgente dal terreno, le teste grigie quasi a lambire il soffitto della tenda a strisce bianche e rosse, gli occhi piccoli e miti. Muovevano la testa insieme, come seguendo un ritmo interno, lontano e dolente.
Ma Kriss non c'era. Ho chiesto ad un altro indiano. Che mi ha indicato una tenda pi첫 lontana. Ed eccomi, con l'ombrello in mano che salto le pozzanghere davanti alla seconda tenda, pi첫 lunga e pi첫 vasta dell'altra. Entro. E in mezzo ad una trentina di cavalli dai bei dorsi lucidi ecco Kriss con un secchio di avena in mano.
Mi ha portata subito a vedere Orlov che stava in piedi in un angolo, triste e magro, coperto di cicatrici, i denti rovinati, gli occhi appannati. Mi ha guardato con l'aria annoiata e spenta di chi si sente di troppo e sa che non l'aspetta niente di buono.
짬Anita dice che dovrebbe farlo abbartere, ormai non fa niente ed 챔 una bocca in pi첫 da sfamare. Ma non vuole ucciderlo, gli 챔 affezionata, 챔 un regalo che ha fatto il marito per il suo compleanno dieci anni fa, vorrebbe che avesse una vecchiaia felice... tu hai una casa in campagna, perch챕 non lo prendi? te lo regala, paghi solo il trasporto... 쨩.
L'ho guardata un poco sospettosa. E se diventa un peso, un cavallo malato vecchio, che me ne faccio? ho pensato. Ma poi qualcosa nello sguardo di lui mi ha attirato. Forse capiva che si stava decidendo del suo destino. Allargava le pupille liquide brune smettendo di mangiare come per ascoltare il verdetto.
È bastato questo per farmi prendere dalla voglia di portarlo via. «Va bene» -ho detto -«ringrazia Anita per la fiducia che mi dà. Cercherò di tenerlo bene».
Il giorno dopo Orlov è stato preso da un furgone e portato in campagna da me. Da principio sembrava sbalestrato, in crisi, non sapeva che fare, girava in tondo con l'aria persa. Il non sentirsi più legato, imbrigliato, costretto in uno spazio minimo, sballottato da un camion all'altro l'ha talmente sorpreso che non riusciva a crederci. Era libero di girare, di mangiare, di dormire quando voleva. Questa eccessiva libertà lo rendeva perplesso quasi si aspettasse qualche punizione. In pochi mesi Orlov è rifiorito. Ha messo su carne, ha fatto gli occhi scintillanti, gli sono scomparsi i bozzi che aveva sulla testa per via del continuo sfregare delle corde al palo.
Ora la domenica ce ne andiamo a spasso lui ed io, nel bosco, senza fare sforzi come si conviene ad un cavallo anziano. Ogni tanto mi fermo, scendo e lo faccio brucare l'erba. Lui gironzola, alza la testa per guardarmi come a dire 짬posso ancora?쨩 e col calare del sole ce ne torniamo a casa.
Ha conservato un portamento da cavallo di Circo; il collo eretto, la testa leggermente piegata sul petto; il trotto corro e saltellante, un'aria altera e gigiona.
Kriss mi scrive dalla Sardegna dove sta con gli Orfei per sapere come sta. «Bene» -rispondo -«siamo diventati amici». Abituato com'è alla convivenza stretta con gli uomini, mi sembra che capisca più degli altri cavalli. Ha l'orecchio fine, pronto a distinguere le voci, quando qualcuno gli è antipatico lo lascia avvicinare e poi gli dà un colpo di testa oppure gli si impenna davanti pronto a qualche zoccolata. È ghiotto di zucchero, e quando esco mi porto sempre dietro una manciata di zollette. Ingordo, furbo, gentile, gli sorprendo a volte lo sguardo ostile di chi si aspetta il peggio dal mondo. Quasi incredulo che lo tenga li senza chiedergli lavori massacranti. Lo rassicuro con una carezza, con uno zuccherino. E lui solleva le grosse labbra bianche a chiazze rosa, mostra i dentacci gialli e mi ringrazia a modo suo dandomi dei colpetti col muso sul braccio.

Dacia Maraini - Da "Mulino, Orlov e il gatto che si crede una pantera"
 
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Buio
Milano, Rizzoli 1999



Sei racconti sulla violenza sui bambini.

Ha vinto il premio Strega 1999


leggi racconto.....Il bambino Grammofono e l’uomo piccione
Il padre l'ha chiamato Grammofono. È piccolo per la sua età. Ha le orecchie a sventola e una faccia tutta punte con due occhi accesi e mobili.
Grammofono, detto Grani, compie fra pochi giorni
sette anni. Quando cammina, saltella. Quando ride, si piega in due perch챕 ridere gli fa venire mai di pancia.
Soffre di una rinite cronica e ogni tanto il naso prende a colargli
irrefrenabilmente. Allora lui si pulisce col dorso della mano che poi si stropiccia contro i pantaloncini corti.
La madre gli dice che lascia tracce lucenti come le lumache. 짬Invece che Grammofono dovevamo chiamarti Lumachino. E ride, facendogli il solletico. La madre ha solo ventitre anni e con questo figlio ci gioca come con un compagno un po' goffo e buffo. Lo afferra per le orecchie, gli soffia in bocca, lo solleva da terra come fosse un cagnolino, o si diverte a farlo cadere lungo disteso con uno sgambetto inaspettato.
Il padre non è quasi mai a casa. Nessuno sa che lavoro faccia. Esce di mattina e torna la sera, quando torna. Porta i capelli lunghi sulle spalle, qualche volta stretti da un laccetto colorato. «È bello come Cristo» dicono di lui i negozianti quando lo vedono entrare per comprare il latte e i biscotti al suo bambino.
A Gram piace giocare con il. lungo orecchino in forma di minuscola campana che pende all'orecchio del padre: «posso tirare, pà?».
짬No che mi fai male, Gram.쨩
짬Posso fare din don?쨩
짬Lo faccio io, guarda.쨩 E scuote la testa in modo che l'orecchino ciondoli e suoni proprio come una campanella gioiosa.
Anche la madre si assenta spesso e non torna che a sera inoltrata. Il bambino rimane solo a giocare con i trenini. Ne ha una decina che corrono come frecce sui binari che il Padre gli ha amorevolmente sistemato lungo i corridoi di casa.
Ogni tanto Gram esce sul balcone e rimane incantato a guardare i piccioni che svolazzano in su e in giù cercando cibo. A volte urla «attento» verso un piccione particolarmente ardito che si posa in mezzo alla strada per raccogliere una briciola di pane nell'intervallo fra una macchina e l'altra. Il bambino si porta una mano al cuore come per calmarlo: se la bestiola venisse schiacciata dalle ruote di una auto gli salterebbe tanto nel petto da uscirgli di bocca. Ma i piccioni si salvano sempre: riescono a scappare in volo proprio un attimo prima che l'auto li investa. Allora Gram sorride contento e caccia indietro le lagrime che già gli spuntavano sotto le palpebre.
Una mattina, mentre segue il volo dei piccioni, vede arrivare sul terrazzino una pietruzza. Da dove può venire? Guarda verso il cielo ma non sembra che piovano pietre. Spia in basso, verso la strada, ma, salvo le macchine,non vede niente di anormale. Forse verrà dai giardinetti, al di là della strada. Infatti, spingendo lo sguardo sotto i platani, scorge un uomo seduto sopra una panchina che lo sta osservando. Raccoglie pietruzze da terra e ci gioca, facendole saltare sopra le ginocchia. Da lontano il grigio della giacca luccica come fosse di piume iridescenti. Le scarpe gialle, poi, assomigliano a delle zampe di uccello. Che sia un piccione gigante?
Da quel giorno Gram si precipita, la mattina, a guardare fuori dalla finestra per vedere se il piccione gigante sia ancora l챙. E sempre lo trova allo stesso posto, seduto sulla panchina a giocare con le pietruzze mentre guarda in su verso di lui.
Una mattina verso le undici, ch챕 quella 챔 l'ora in cui lo vede arrivare, Gram si rende conto che il piccione gigante gli fa dei segni con le dita che ruotano come fossero cento anzich챕 dieci.
La sera ne parla con la mamma: 짬c'챔 un piccione che mi guarda dal giardinetto e fa delle ruote con le dita쨩.
짬Le dita, un piccione?쨩
«È un piccione grande, un po' uomo, un po' uccello. »
짬E come 챔 possibile?쨩
짬Ha le scarpe gialle. I piccioni possono avere le scarpe gialle?쨩
짬La tua non 챔 una testa di bambino, 챔 una trottola. Fermala un poco, Gram, mi fai venire il mal di mare.쨩
Il giorno dopo, l'uomo 챔 ancora l챙 e gli fa un sorriso che sembra l'aprirsi e il chiudersi di un becco. Non si muove dalla panchina e pare preso da una stanchezza mortale. Si porta spesso la mano alla fronte come per cacciare un pensiero fastidioso. I capelli - o sono le piume della testa - gli scivolano sulla fronte e lui li caccia indietro aprendo le dita a rastrello. Quando l'uomo vede che il bambino lo osserva, riprende i suoi giochi con le dita che si aprono a ventaglio, e si richiudono ruotando, soffiando piume.

Ma ora il segno si fa pi첫 chiaro. 짬Scendi gi첫쨩 gli dice l'uomo piccione e Gram lo guarda ammaliato. Poi, improvvisamente decide di disobbedire alla mamma: si infila le scarpe da ginnastica rosse, scende a precipizio le scale, attraversa la strada dopo avere diligentemente guardato a destra e a sinistra e si avvia verso i giardinetti. Quando arriva alla panchina vede l'uomo piccione che apre il becco per dargli A benvenuto. Ha gli occhi tondi e neri e lo scruta con una attenzione che non ha mai visto nello sguardo degli adulti.
짬Ciao, ti aspettavo.쨩
짬Sei un piccione, tu?쨩
짬S챙 e tu?쨩
짬No, io sono Gram.쨩
짬Che nome 챔 Gram?쨩
«È mio nome.»
짬Allora, Gram, ti piacciono i piccioni?쨩
짬Sai anche volare?쨩
짬Qualche volta.쨩
«Chissà come ride la mamma quando le racconto di un uomo piccione che sa anche volare»
짬No, se vuoi vedermi volare non devi dire niente alla tua mamma.쨩
짬Ma perch챕?쨩
짬Perch챕 le mamme non capiscono niente di queste cose쨩
«Allora lo dico al papà.»
«Assolutamente no. Hai mai visto un papà che vola?»
Il bambino ci pensa sopra. Non trova risposta. Intanto sente un'ala dell'uomo che si posa sulla sua spalla, leggera e protettiva.
짬Vuoi diventare piccione anche tu?쨩
짬Io no. Ho paura di volare.쨩
짬Prova a fare cos챙 con le braccia.쨩
E bambino solleva le braccia e le agita come vede fare all'uomo.
짬Potresti provare a volare un po'. Se poi non ti piace, smetti.쨩
짬Ma se ho paura?쨩
짬Non avrai paura accanto a me che volo da anni.쨩
짬E dove si vola?쨩
짬Lass첫. La vedi quella collina? l챙 dove ci sono quei pini fitti fitti, li vedi? l챙 si vola. Andiamo.쨩
짬Ma io ... 쨩
짬Vieni, ti dico.쨩
L'uomo piccione prende per mano il bambino Grammofono e lo conduce verso una automobile parcheggiata all'angolo della via.
짬Ma ci andiamo in macchina?쨩
짬S챙, per raggiungere quei pini ci vuole la macchina. Se andassimo a piedi sai quanto ci metteremmo? un anno.쨩
짬E non possiamo volare da qui?쨩
짬Non si pu챵 volare in salita. Solo in discesa.쨩
짬Allora andiamo.쨩
L'uomo apre lo sportello, lascia che il bambino salga e richiude abbassando con un gesto deciso la sicura. Poi entra al posto di guida e mette in moto. Il bambino lo guarda e vede che i capelli sono proprio delle piume grigie, da piccione maturo.
짬Ce l'hai la mamma, tu?쨩 gli chiede.
짬Certo. Una mamma picciona. Pesa cento chili.쨩
«Anche il papà?»
«Il papà è morto. Qualcuno se l'è mangiato.»
짬Si mangiano, i piccioni?쨩
짬Certo, arrosto.쨩
짬E chi li uccide?쨩
짬Io.쨩
짬Non 챔 vero... Qui, dove siamo?쨩
짬Stiamo salendo in piccionaia.쨩
짬Ci saranno molti piccioni?쨩
짬Moltissimi.쨩
짬Ecco gli alberi. Sono proprio alti. Ma i piccioni dove sono?쨩
짬Adesso arrivano. Ma ora levati la maglietta e i pantaloncini.쨩
짬E perch챕?쨩
짬Perch챕 se ti spuntano le piume, sotto i vestiti non si vedono.쨩
짬Non mi va.쨩
짬Levateli, ti ho detto.쨩
Il bambino si agita sul sedile. Possibile che l'uomo abbia cambiato voce? Non 챔 pi첫 il gorgoglio gentile del piccione che esce dalla sua bocca, ma il suono rauco e cattivo del corvo affamato.
짬Dove sono i piccioni?쨩
짬Ora arrivano.쨩
짬Mi fai vedere come voli?쨩
짬Ora basta con questa storia, levati la maglietta, se no te la levo io쨩
짬No.쨩
Arriva un ceffone. Il bambino si porta le mani al viso arrossato. Le lagrime gli scivolano gi첫 per le gote.
짬Voglio tornare a casa쨩 dice Piagnucoloso. L'uomo gli sbatte il dorso della mano sulla bocca. E bambino tace allibito.
L'uomo ora ha fermato la macchina fra due cabine dei lavori stradali, sprangate. Non c'챔 nessuno in giro fra quei pini. Le mani pennute si allungano verso il bambino; gli allargano il collo della maglietta, gli slacciano la cintura dei pantaloncini. Il bambino prende a scalciare disperato. L'uomo gli torce un braccio fino a fargli perdere il respiro. Poi arriva un altro schiaffo e un altro ancora. Il piccolo Grammofono ha gli occhi velati. Non ce la fa neanche a piangere. Ma continua a tirare calci.
L'uomo ora gli 챔 addosso. Lo tiene stretto. Gli urla
nell'orecchio: 짬se continui a tirare calci ti ammazzo쨩.
E bambino gli dà una ginocchiata nel ventre. L'uomo urla di dolore. Prende il bambino per il collo e stringe rabbiosamente le dita sulla giugulare.
Intanto un piccione si 챔 posato con leggerezza sul cofano della Bravo celeste. Ha le piume di un bellissimo grigio fosforescente e A becco giallo, screziato.
Il piccione volge lo sguardo distratto dentro la macchina mentre si riposa dal volo e vede un uomo che singhiozza e sussulta mentre, stretto a s챕,tiene un bambino dal capo reclinato e molle.
La mattina dopo lo spazzino trova il cadavere di un bambino mezzo nudo, con le scarpe da ginnastica rosse ai piedi nella pineta sopra la città.

Intanto papà e mamma Pazzariello hanno sporto denuncia per la sparizione del figlio di sette anni, Grammofono Pazzariello. Chi ha visto il bambino uscire dal
portone? chiede disperato il padre, scuotendo la testa e facendo ballare il lungo orecchino in forma di campanella.
Sul tavolo della commissaria Adele S챵fia arrivano insieme le due carte: quella che denuncia la sparizione del bambino e quella del ritrovamento del cadavere da parte dello spazzino comunale.
Vengono Interrogati gli abitanti del palazzo in cui viveva il. piccolo Grammofono Pazzariello. Intanto si prepara l'autopsia. La quale rivelerà, a tre giorni di distanza, che il bambino è stato violentato e ucciso fra le undici e le tredici del tre maggio.
Nel frattempo gli uomini del commissariato di zona stanno spulciando i registri per vedere se ci sono state denunce per molestie sessuali nel quartiere. Ma risulta che i due casi pi첫 recenti di "aggressioni" hanno come autori due bambini di dodici e tredici anni che sono ancora chiusi in riformatorio.
Al terzo giorno la giovane madre, che non smette di piangere, si ricorda che A figlio le ha parlato di un uomo piccione che lo guardava dai giardinetti.
짬Cosa voleva dire, suo figlio, con "uomo piccione"?쨩 chiede la commissaria alla donna.
짬Non lo so. Mi ha chiesto se i piccioni possono portare scarpe gialle.쨩
짬Non pianga pi첫, signora, la prego, cerchi di ricordare, 챔 importante: quante volte suo figlio le ha parlato di quest'uomo?쨩
짬Una volta sola. Ma io non l'ho preso sul serio. Pensavo ai piccioni... come ho fatto? come ho fatto? l'ho ucciso io, signora commissario, l'ho ucciso io ... 쨩
짬Non dica sciocchezze. L'ha ucciso una persona precisa, con nome e cognome, che ritroveremo. Perch챕 suo figlio chiamava quell'uomo piccione?쨩
짬Non lo so ... 쨩
짬Gli piacevano i piccioni a suo figlio?쨩
짬Molto. Stava ore sul balcone a guardarli volare.쨩
Ma la commissaria Adele S챵fia viene interrotta d'urgenza dall'ispettore Marra che ha trovato una testimone. 짬Vengo subito. Chi 챔?쨩
짬E la fornaia, dice di aver visto un uomo che si allontanava con un bambino.쨩
La donna ha un negozio di fianco ai giardinetti. Da dietro i vetri ha seguito con lo sguardo un uomo, tutto vestito di grigio, con le scarpe gialle, seduto sulla panchina che giocava con la ghiaia. Verso le undici e mezzo l'uomo 챔 entrato in negozio, dove ha comprato del pane poi 챔 tornato alla panchina e ha iniziato a sbriciolarlo dandolo da beccare ai piccioni.
짬Verso mezzogiorno, forse mezzogiorno e un quarto, l'ho visto allontanarsi mano nella mano con un bambino. Non so se fosse il piccolo Gram, non ci ho badato. Pensavo che fosse suo figlio. Magari aveva aspettato che uscisse da scuola. Lei sa che, a duecento metri dai giardini, c'챔 la scuola elementare Anna Kuliscioff.쨩
«Cerchi di ricordare i particolari. Più o meno che età aveva?»
짬Sui quaranta. Poco pi첫 o poco meno.쨩
짬Capelli?쨩
짬Grigi.쨩
짬Ricci o lisci?쨩
짬Lisci, anzi gli cascavano continuamente sugli occhi e lui faceva un gesto con la mano per tirarli su. Lo faceva spesso, questo gesto, l'ho notato.쨩
짬Occhi?쨩
짬Non ricordo il colore. Mi pare grigi, ma forse castani.쨩
짬Naso?쨩
짬Aquilino, a becco, direi.쨩
짬Bocca?쨩
짬Labbra sottili, senza colore. Un bel sorriso.쨩 a anche sorriso comprando il pane?쨩
짬S챙, ha sorriso e ricordo di avere pensato: che bel sorriso contagioso! Infatti mi 챔 venuto pure a me di sorridere쨩
«L'aveva già visto altre volte quest'uomo?»
짬No, mai. Da due o tre giorni veniva la mattina verso le undici, si sedeva sulla panchina e ci rimaneva fino al'una, all'una e mezzo e poi se ne andava.쨩
짬Quindi lei lo teneva d'occhio?쨩
짬Senza volere, forse. Ogni tanto mi capitava di guardare se fosse ancora l챙.쨩
짬E che faceva su quella panchina?쨩
짬Niente. Guardava in alto.쨩
짬In alto dove?쨩
짬In alto, verso la casa del povero bambino.쨩
짬Ma questo lei l'ha ricostruito a posteriori. Allora dove le sembrava che guardasse?쨩
짬Non me lo sono chiesto. Ho visto che guardava in alto, verso destra.쨩
La commissaria prende il disegno dalle mani del grafico chiamato a fare l'identikit, e lo porge alla fornaia: 짬lo riconosce?쨩.
짬No, 챔 pi첫 chiaro. E senza quelle rughe.쨩
짬Allora, 챔 pi첫 giovane?쨩
짬No. Di faccia 챔 giovane, ma ha qualcosa di vecchio... non so... forse il modo di stare seduto, un po' curvo in avanti come se avesse paura di venire picchiato.쨩
짬Di che colore aveva le scarpe?쨩
짬Gialle, l'ho notato, del tipo inglese, di un bel cuoio lustro e pesante쨩
짬Ha pensato che fosse un poveraccio senza arte n챕 parte o le 챔 sembrato un benestante che prende aria ai giardinetti?쨩
짬No, non ho pensato che era un poveraccio. D'altronde aveva una bella macchina nuova nuova parcheggiata in fondo alla strada.쨩
«Ha visto anche questo? meno male che ci sono persone come lei che osservano tutto. E di che tipo era la macchina? l'avrà certamente notato.»
짬Era una Bravo celeste.쨩
짬E per caso ha visto anche la targa?쨩
짬No, non ci ho fatto caso. Io guardavo lui, non la sua macchina. Ho visto che usciva da una Bravo celeste, l'ho notato perch챕 mio marito se la voleva comprare uguale, ma poi ci siamo tenuti la vecchia Panda. Ho pensato: questo non 챔 del quartiere. Infatti non l'avevo mai visto prima.쨩
«Bene, non rimane che scrutinare tutte le Bravo celesti di recente immatricolazione. Lei può andare, signora. Probabilmente la richiameremo per un confronto. Rimane in città in questi giorni, spero»
짬E dove vuole che vada, ho tanto da fare col forno, io.쨩
짬Lei conosceva il bambino ucciso, Grammofono Pazzariello?쨩
짬Come no! chi non h conosceva quelli l챙.쨩
짬Perch챕 dice "quelli W' storcendo la bocca?쨩
짬Erano strani: il padre con quei capelli lunghi, l'orecchino a forma di campanella, sempre vestito di jeans e giubbotto, con due draghi tatuati sul braccio. La madre, una piccoletta che sembrava la sorella del bimbo, vestita come una tredicenne, i calzettoni arrotolati, le scarpe da tennis bianche, i pantaloni aderenti, la treccia sulla schiena. Erano belli tutti e due ma sciagurati. Quel bambino piccolo piccolo lo lasciavano sempre l챙 sul balcone da solo. Non usciva mai. Ogni tanto la madre se lo abbracciava, se lo baciava, lo portava via con s챕. Ma normalmente se lo dimenticava per intere giornate dentro quell'appartamento al primo piano. Sa quante volte ho pensato di chiamare la polizia, ma poi mi dicevo: non ti impicciare, Margherita, al solito tuo, lasciali perdere, non sono fatti tuoi. Adesso per챵 mi pento di non averlo fatto. A quest'ora il bambino sarebbe vivo.쨩
Due giorni dopo Adele S챵fia tiene fra le mani l'elenco di una ventina di persone proprietarie di Bravo celesti.
Vengono controllati i nomi, le età, le abitudini, gli alibi. Alla fine di un grosso lavoro di selezione rimangono solo quattro sospettabili: un infermiere di trentotto anni che dichiara di essere rimasto quella mattina del tre maggio in ospedale fino alle due, contraddetto da un altro infermiere che dice di averlo visto uscire verso mezzogiorno; un fabbro di quarant'anni che vive solo, dopo avere perso la moglie e il figlio in un incidente d'auto, dichiara di non essere uscito di casa quella mattina ma non ha nessuno che possa testimoniarlo; un insegnante che in quelle ore risulta essere stato a scuola, ma un bidello assicura che spesso si assentava senza che nessuno ci trovasse niente da ridire; e infine un commerciante all'ingrosso che ha comprato la macchina appena da un mese e possiede pure un paio di scarpe gialle.
I quattro vengono invitati in commissariato e mentre parlano con l'ispettore Marra, da dietro uno specchio trasparente Adele S챵fia indica alla fornaia - che per l'occasione si 챔 messa il cappello della domenica - ad uno ad uno i proprietari delle auto sospette. Ma la fornaia, che pure ha dimostrato di avere un occhio acuto e una memoria di buona lega, nega di avere mai visto quegli uomini ai giardinetti di fronte al suo negozio.
짬Ne 챔 sicura?쨩 chiede Adele S챵fia alla donna che, sudata, continua a scrutare quei volti scuotendo ostinata la testa incappellata.
짬Cos챙, siamo punto e da capo. Mi ridia la lista dei proprietari di Bravo celesti, Marra! 쨩
«Ecco, ma abbiamo già controllato.»
짬Un momento. Qui per챵 vedo due cancellature. Che vuol dire?쨩
짬Si tratta di due persone che stanno lavorando con noi. Una, la dottoressa Pargoli e l'altro, l'assistente sociale Paolo Crinale쨩
짬Hanno comprato di recente una Bravo celeste?쨩
짬Si, ma ... 쨩
짬Quanti anni hanno?쨩
짬Lei, cinquantasei. Lui, quarantuno.쨩
«Lasci pure stare la Pargoli. Vada subito a prendere l’altro, il Crinale.»
Paolo Crinale arriva al commissariato con l'aria offesa. Porta pantaloni larghi, celesti e una bella giacca bianca. Ha i capelli grigi pettinati all'indietro, appiccicati alla cute con l'acqua.
짬Li porta sempre cos챙 i capelli, lei?쨩
짬S챙 perch챕?쨩
짬Dove stava il tre maggio fra le undici e le tredici?쨩
짬Ero in ospedale, coi miei bambini down. Ma perch챕
me lo chiede?쨩
짬Lei conosce la vicenda del bambino trovato strangolato. Mi scusi ma non possiamo avere riguardi. Dobbiamo interrogare tutti coloro che hanno comprato recentemente una Bravo celeste.쨩
짬Giusto, lei fa il suo dovere, commissaria. Ma mi peri farle notare che io sono parte in causa in questa Ho partecipato, assieme coi suoi uomini, alla indagine sull'assassino.쨩
짬In che veste?쨩
짬In veste di assistente sociale. Io conosco questi ambienti e chi li frequenta. Conosco anche parecchi pedofili. Ho dato un elenco dei sospetti all'ispettore Marra. Ora non potete mettermi nel mazzo con gli altri.쨩
짬Lei ha comprato di recente una Bravo celeste?쨩
«Signora commissario, ci sono altre trecento persone in questa città che possiedono una Bravo celeste come la mia.»
«Le abbiamo già controllate tutte, salvo la sua. Quando l'ha comprata?»
짬Quattro mesi fa... Vorrei farle notare che io sono un assistente sociale. Lavoro per l'ospedale, per voi. Godo della fiducia dell'amministrazione comunale. Se mi mettete in cattiva luce, anche solo per un sospetto, io rischio di perdere il posto, signora commissaria, ne tenga conto쨩
짬Ne terr챵 conto쨩
짬Non faccia i soliti errori per cui siete famosi.쨩
짬Cosa intende dire?쨩
짬Mettete la gente in galera per un nonnulla, date retta alle parole di pregiudicati senza scrupoli, negli interrogatori torturate la gente ... 쨩
짬Saranno i giudici a decidere.쨩
짬Peggio mi sento. Io temo i giudici, signora. Da un po' di tempo c'챔 aria di caccia alle streghe. Questo 챔 un regime che inquisisce chi non si adegua... Non vorrei, per avere comprato una Bravo celeste, finire sbattuto in carcere ... 쨩
짬Mi dica dove si trovava fra le undici e le tredici del tre maggio scorso쨩
짬In ospedale, gliel'ho detto. Io lavoro coi bambini down.쨩
짬E non si 챔 preso qualche giorno di licenza in maggio?쨩
짬Tre giorni, s챙, ma in aprile, non in maggio.쨩
짬Be', controlleremo il suo alibi.쨩
짬Allora posso andare?쨩
짬No, un momento. C'챔 qui una testimone che ha visto l'uomo in questione allontanarsi col bambino. Solo un piccolo confronto con lei e poi la lascio andare.쨩
짬No, scusi, ma io devo proprio tornare all'ospedale. Se poi un bambino down si fa male perch챕 ero assente, vengo arrestato, si rende conto?쨩
짬Si tratta di un minuto. Vada a chiamare la fornaia쨩 dice all'ispettore Marra e si caccia in bocca un pesciolino di liquirizia. 짬Ne vuole uno?쨩
Ma l'uomo non le dà retta. Si dirige rapido verso la porta deciso ad andare via. Sulla soglia si scontra con la fornaia che alza subito il dito gridando: «è lui, commissaria, lo riconosco».
짬Questa 챔 una pazza scatenata; la tenga al suo posto, commissaria, io devo tornare in ospedale. Arrivederci!쨩
Ma due mani robuste lo trattengono. Nell'urto un ciuffo di capelli grigi si stacca dal cranio e gli scivola sugli occhi. L'uomo automaticamente lo ricaccia indietro aprendo le dita a rastrello.
«Ha visto, commissaria, lo stesso gesto che le avevo descritto. È proprio lui.»
짬Che nessuno mi metta le mani addosso쨩 dice con voce dignitosa l'uomo che improvvisamente, con i capelli per aria e la schiena curva, il naso a becco, si trasforma in un enorme piccione dall'aria inferocita.
짬Che nessuno mi tocchi쨩 insiste. 짬Mi dichiaro prigioniero politico.쨩

Dacia Maraini - Da "Buio"
 
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view post Posted on 19/5/2009, 19:47

ottimo

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Storie di cani per una bambina
Milano, Bompiani 1996



Racconti per bambini

ha vinto il premio Andersen 1996

Illustrazioni di AntonGionata Ferrari



leggi racconto.....di Antonio Faeti

Venuti dalla luna
L'estate scorsa, a Pesaro, una sera, poco dopo il tramonto, ho visto un cane che aveva deciso di suicidarsi. Era proprio in mezzo a un viale dove, per fortuna, transitavano poche automobili, credo a causa di una deviazione e dell'assenza di molti abitanti di quella zona, per le ferie. La malinconia e il dolore, espressi in un primo tempo, furono presto cancellati: gli occhi del piccolo cane, certo molto giovane, si velarono come di mistero, diventarono quasi trasparenti, e lui stava l챙 come se fosse di porcellana, ad aspettare una sorte, il compiersi di un destino che ormai aveva scelto. Era stato certamente abbandonato, lo si poteva capire da molti indizi, per esempio dal fatto che non sembrava in alcun modo un cane randagio, aveva il pelo lucido e molto pulito, possedeva un grazioso e costoso collarino. E la sua determinazione, la sua ostinazione, alludevano senza dubbio a una frattura tremenda, a una ferita che si era prodotta nella sua esistenza, in modo improvviso: un episodio assolutamente ingiusto e per cui non c'erano spiegazioni. Ma alcune ragazze riuscirono poi a trasportarlo lontano dal luogo in cui aveva pensato di farla finita, e una di loro volle poi tenerlo con s챕. Mi capit챵 poi di leggere, in un episodio di Dylan Dog, una storia molto simile a quella che avevo mentalmente composto guardando il cane di Pesaro, per챵 con un finale tragico, cos챙 feci anche un articolo in cui mescolavo le due vicende, sempre pensando che i cani hanno un grande senso della tragedia, che forse nasce in loro anche perch챕 considerano con la stessa forza anche l'amicizia.
È molto bella e piena di significato, la storia in cui Dacia Maraini immagina che i cani provengano dalla luna: in tanti fumetti, in tanti cartoons i cani appaiono anche come una sagoma nera che si staglia contro la luna, e questa è anche una collocazione di sogno, che rende un poco conto dei grandi misteri che si riferiscono ai cani. Presentando un altro volume di questa collana, il numero ventisette, Trick storia di un cane di Fulvio Tomizza, ho già alluso a molte storie di cani raccontate in libri che leggo e rileggo. Scopro ora, però, che avevo dimenticato la leggenda del Santo Levriero e la «novellina» del cagnolino troppo intelligente. La prima è una leggenda, diffusa soprattutto in Francia, in cui si racconta di un uomo ricco, in epoca medioevale, che tornava a casa dopo una lunga assenza e si vide venire incontro il suo levriero festante e gioioso, ma con la bocca bagnata di sangue. Insospettito, corse fino alla culla del suo bambino, e io vide coperto di sangue. Impazzito per il dolore, prese la spada e uccise il cane con un colpo solo. Ma subito udì le grida di gioia del bambino che lo chiamava. Rientrò e finalmente capì. Un serpente era entrato, era salito fin sopra la culla, stava per mordere il bambino, ma il cane, che faceva buona guardia, lo aveva ammazzato. Non aveva potuto certo pulire, il cane e il bambino erano in quel momento soli in casa, il padrone aveva sgozzato il buon levriero che gli aveva salvato il bambino e, con rabbia, lo aveva anche scagliato in fondo al pozzo del giardino. Fu proprio il che nacque l'abitudine .di portare i bambini, accanto al pozzo, i bambini deboli, malati, mal formati, in punto di morte. Come pregando un «santo», le madri chiedevano al levriero, morto davvero come un martire, per salvare un bambino, di rendere la salute o la vita anche ai loro bambini. La leggenda del levriero «santo», guaritore dei bambini in pericolo di vita, durò tanto, nei secoli, che ancora poco più di sessanta anni fa c'erano donne che portavano accanto a quel pozzo i loro figli sofferenti.
La novellina del cane e del vecchio professore l'ha scritta uno scrittore italiano, Alfredo Panzini, oggi spesso dimenticato, ma un tempo molto famoso. Racconta di un cagnolino che, andando a prendere il giornale per il suo amico che vive solo e pensionato, trova il modo di acquistare una focaccia, e di mangiarsela, ogni giorno, perch챕 챔 astuto e goloso.
Il mio amore per i cani e per le storie di cani 챔 nato con la lettura della 짬novellina쨩 di Panzini, per챵 챔 tutto intriso anche della leggenda del Santo Levriero. Li penso cos챙, i cani Come se fossero incerti di fronte a due tipi di esistenza, a due scelte molto diverse. In una vita sono burloni, giocherelloni, furbi, scanzonati, pagliacci Nell'altra sono tragici e sapienti, ricordano il Mito, le Fiabe, le Leggende. Ma, per via dei cani che ho avuto nella mia vita, e di uno, soprattutto, vissuto in casa mia per dodici anni, dopo che mio fratello Benny lo aveva salvato dall'annegamento nel corso dell'alluvione del Polesine, sono quasi costretto a leggere con sincero interesse le storie di cani contenute in questo volume, dimenticando quelle di altro tipo.
Qui si esplora la sofferenza che tanto spesso accompagna la vita dei cani Vivono accanto a noi, ma loro e noi abbiamo tempi di vita diversi, loro vivono di meno. Cos챙, a chi ama davvero i cani
accade di vederne soffrire e morire un certo numero. E Dacia Maraini ci descrive con cura e con finezza queste malattie e queste morti È un momento, nella vita dei cani, di cui si è scritto poco, di cui, spesso, si vuole anche tacere. Dacia invece ci parla di tante lunghe giornate, di attese, di conclusioni impreviste, di lunghe amicizie dolorosamente interrotte. Queste attente vite quotidiane ci fanno conoscere cani diversi da quelli che appartengono al cinema, ai fumetti, a certi libri per i ragazzi Raccontata tenendo anche presente la sua conclusione, la vita di un cane prende un tono diverso. In tante forme di spettacolo il cane è una specie di giocoso guerriero che va avanti tra imprese, burle, salvataggi, conquiste, eroismi Oppure è anche uno sciocchino che combina guai perché non sa regolarsi e limitarsi E appare anche come un amico dell'uomo un po' troppo generico, capace di folli affetti tutti uguali Sono spesso cani come quelli che saltellano nelle pubblicità degli alimenti per cani.
Ma i racconti di Dacia mostrano cani anche guardati attraverso il dolore, e li sorprendono nella loro stranezza, li colgono negli aspetti pi첫 diversi, quelli di cui nessuno dice nulla. La tradizionale divisione che le fiabe, le novelle, le leggende, le poesie, hanno stabilito tra il gatto e il cane, il primo furbo, sleale, imprevedibile, viziato, curioso, infedele, lunatico, il secondo ligio al dovere, stretto al suo padrone da un affetto privo di dubbi e di incertezze, perfino monotono in un attaccamento che non subisce mai modificazioni o fasi alterne, qui si attenua o scompare. Anzi, sono proprio i cani a essere ricondotti verso la luna, e resi protagonisti di sogni poetici e misteriosi dove ci accorgiamo di sapere troppo poco di loro.
Sono coinvolti nella nostra vita, fanno parte delle nostre vicende, ma non hanno perduto originalità, individualismo, apertura verso le stranezze, senso del rischio, dell'avventura, della sorpresa. Questi altri cani guardati, rammentati, osservati, raccontati da Dacia, sono cani più cani, sono più completi Dopo aver letto questi racconti guarderete i vostri amici con occhi diversi, e forse perderete quella superbia che noi un poco abbiamo, nei confronti dei cani Ci sentiamo padroni, siamo propensi a comandare in modo sbrigativo, ci attendiamo semplice, pronta obbedienza. Impariamo quindi a guardar li anche quando sono tragici e strani, sconosciuti e sorprendenti, inquieti e bizzarri, come se fossero appena giunti dalla luna.


Antonio Faeti

leggi racconto.....Il visitatore notturno
Mia nipote Sabina che ha sette anni mi chiede sempre che le racconti qualche "storia".Anche quando 챔 in viaggio con mia sorella, sua madre, mi telefona e mi chiede se le racconto una storia. Mi pare di vederla, ritta accanto al telefono, con il vestitino rosso lacca, le scarpine color ciliegia, lo zainetto verde bottiglia, che alza un piede e lo appoggia contro il ginocchio, proprio come una gru.
L'altra sera mi ha telefonato da Venezia dove 챔 andata a trovare suo padre. 짬Mi racconti una storia, zia?쨩
짬Ho fretta adesso, te la racconto domani.쨩
Ma lei non è il tipo che si arrende. «Un amico di papà racconta delle storie che durano meno di un minuto.»
짬E tu vorresti che te ne raccontassi una breve ora, subito?쨩
짬S챙, cos챙 stasera andando a letto me la riracconto.쨩
짬Guarda che tuo padre si scoccia se tu tieni occupato tanto a lungo il telefono. E poi costa.쨩
짬Allora metto gi첫. Cos챙 tu mi richiami e lui non pu챵 protestare.쨩
Ho messo giù il ricevitore. Ho pensato: le telefonerò domani. Ma poi l'ho vista, appoggiata al muro che aspettava la mia telefonata, e ho ricomposto il numero di mio cognato. Non ha fatto in tempo a fare uno squillo che lei aveva già risposto.
짬Allora?쨩
짬C'erano una volta due sorelle.쨩
짬Vivevano in un lago ed erano pesci?쨩
짬S챙.쨩
«Me l'hai già raccontata, zia.»
짬C'era una volta un bambino che viveva dentro un albero.쨩
짬La so.쨩
짬Non mi viene in mente niente altro, Sabina.쨩
짬Raccontami di te.쨩
짬Che vuoi sapere?쨩
«Tu viaggi tanto. Ci sarà una storia che ti è capitata, una cosa buffa.»
짬Non mi viene in mente niente.쨩
짬Dai, una piccola storia, anche di due parole e poi ti lascio tranquilla.쨩
짬Allora, vediamo... un mese fa ero a Sydney. Sai dove sta?쨩
짬S챙, 챔 la capitale dell'Australia, vuoi che non lo sappia? Sono fortissima nelle capitali. Vuoi che ti dica di fila tutte le capitali del mondo?쨩
짬S챙, dimmele.쨩 Pensavo di guadagnare tempo.
짬Se mi racconti la storia lo ti dico le capitali. Raccontami di Sydney.쨩
짬Va bene, allora, ero a Sydney in un albergo tutto foderato di moquette con dei fiori in ogni angolo. Un po' tranquillo e silenzioso. Ero stanca del lungo volo dall'Italia e mi sono messa a dormire su quel letto estraneo come se fossi a casa. Avevo poche ore di sonno prima di presentarmi in teatro per assistere alle ultime prove prima del debutto della mia commedia.쨩
짬E allora?쨩
짬Allora sprofondo nel sonno in un attimo. Ma nel mezzo della notte vengo svegliata da un discreto ma deciso bussare alla porta. Mi alzo. Vado macchinalmente ad aprire. Giro la chiave, spalanco la porta. Fuori non c'챔 nessuno. Penso: nel sonno avr챵 sentito male, pu챵 darsi che bussassero alla porta accanto.쨩
짬Torno a letto. Mi riaddormento subito ma di l챙 a poco vengo di nuovo svegliata da quell'insistente bussare. Ma questa volta non vado ad aprire. Rimango distesa ad ascoltare. Sembra proprio che bussino alla mia porta. Mi alzo, accosto l'orecchio, capisco che non stanno bussando alla porta ma alla finestra che sta sull'altra parete, non lontano dalla porta.쨩
«Ascolto, forse è un ramo che sbatte, penso, contro la finestra. Intanto è cessato ogni rumore. Torno a letto. Ma non riesco più a prendere sonno. Capisco che aspetto di sentire quel toc toc di prima. Infatti, dopo un poco, eccolo di nuovo. É un bussare con metodo, insistente, assillante, come qualcuno che dice: apri, sì o no? Non posso restare così a lungo ad aspettare qui fuori.»
짬Cos챙 mi decido e vado alla finestra. Apro prima i vetri e sento ormai vicinissimo quel bussare inquietante, prolungato. Aprire o no? Poteva essere un ladro. Ma da quando in qua i ladri bussano? E poi chi poteva arrampicarsi fin lass첫? Da quanto avevo intravisto, sbirciando prima di chiudere gli scuri, la finestra dava sul vuoto di un palazzo di una decina di piani. Ma forse c'era un balcone che non avevo visto o un terrazzino vicino. Il bussare intanto continuava sempre pi첫 ossessivo. Mi decido infine, col cuore zoppicante, pronta a chiudere nel caso che mi fossi trovata di fronte una faccia minacciosa. Cos챙 ho scostato le persiane con un movimento lento dei polsi e ho visto ... 쨩
짬Un fantasma.쨩
짬No.쨩
짬Un uomo nero.쨩
짬No.쨩
짬E allora?쨩
짬Un enorme uccello. Non so di che razza. Era buio fuori. E lui stava appoggiato con le zampe su un filo d'acciaio che passava proprio davanti al davanzale della finestra. Il vento gli scompigliava un ciuffetto di penne ritte sulla fronte, di un tenero colore rosato. Aveva l'aria sfrontata e soddisfatta. Finalmente gli avevo aperto. Mi guardava dritto negli occhi con un'aria di sfida solenne e decisa. Non ho avuto paura. Non aveva l'aria di volermi assalire. Era l챙 ritto sulle zampe e sembrava solo che volesse farsi vedere. Ho richiuso lentamente i vetri. Faceva freddo fuori e non volevo che entrasse in camera. Lui mi ha guardato con condiscendenza. Poi l'ho visto allungare il collo con grazia e battere due colpetti sul vetro: toc toc, come se volesse dirmi qualcosa: Ma cosa? Era l챙, fuori dal vetro e mi fissava protervo. Non aggressivo come gli uccelli del film di Hitchcock. Era un uccello monumentale, conscio della sua mole, con qualcosa di nobile e di stanco, come se si riposasse dopo un lungo volo. Un volo che lo aveva portato l챙 dal centro di qualche isola perduta in mezzo all'oceano, o da un paese sospeso per aria, fra rocce scolpite dal vento, volante e leggero nella sua cristallina compattezza, come certe isole dei quadri di Magritte.쨩
«Ho provato a mettere un dito sulle labbra, come a dirgli di fare silenzio, che dovevo dormire. Ma lui mi ha guardato con commiserazione. Come se mi vedesse non dall'altra parte di un vetro, ma al di là di un tempo lontano, dal fondo di un passato antichissimo e perduto.»
«Che fare? I suoi occhi erano così decisi, così ribaldi e ironici che non ho avuto il coraggio di richiudere le persiane e tornarmene a letto. Non ho neanche avuto il coraggio di fare dei gesti bruschi per cacciarlo via. Mi piaceva guardarlo. Le lunghe piume grigie dalle striature bianche erano così eleganti e morbide, il ciuffo sulla fronte si muoveva con tanta allegria, le zampe stringevano il filo di ferro con tale intelligente determinazione che non ho potuto fare a meno di rimanere lì a contemplarlo. E lui si beava del mio sguardo ammirato. Ma senza vanità inutili, come se pensasse che era la sola cosa giusta da fare.»
짬Credi che fosse un uomo trasformato in uccello쨩
짬Forse s챙, Sabina, non lo so. Appena lo mi distraevo un momento, lui cominciava a bussare col becco, toc toc. Aveva qualcosa di un musicista. I suoi toc seguivano un ritmo felice, quasi una misura matematica dai ritmi scanditi, razionali.쨩
짬E poi?쨩
«E poi niente. Siamo andati avanti così, fino al mattino: lui al di là del vetro che mi fissava indomito e altero, intollerante di ogni mia distrazione e lo che lo guardavo sempre più affascinata e morta di sonno. Appena chiudevo gli occhi sentivo il suo toc toc autoritario che li riportava alla veglia.»
짬E poi?쨩
짬Solo quando il sole gli ha acceso il ciuffo sulla fronte, i suoi occhi si sono chiusi, ma con uno strano scatto metallico, con un movimento curioso delle palpebre che andavano dal basso verso l'alto e non dall'alto verso il basso come succede a noi. Sembravano due piccole saracinesche di pelle infiammata.쨩
짬Poi il sole si 챔 posato sulla coda grigia che 챔 diventata splendente, come d'argento. Lui ha scosso un poco la testa, ha allargato le zampe allentando la presa sul filo d'acciaio. Mi ha guardato ancora una volta con aria di sfida e poi si 챔 voltato dall'altra parte. Ho approfittato di quel gesto per chiudere un attimo gli occhi stanchi. Ma subito ho sentito un toc allarmato. Si era di nuovo voltato verso di me e batteva col lungo becco color avorio contro i vetri. Insistente e perverso come una folle creatura della notte.쨩
짬Ho spalancato gli occhi indolenziti, ho trattenuto uno sbadiglio. In quel momento lui ha lanciato un breve grido rauco ed 챔 partito allargando le lunghe bellissime ali frangiate. Ho seguito con apprensione il volo ampio, morbido che disegnava dei cerchi nel cielo pulito e celestino. Poi, con un guizzo, 챔 sparito fra le case, lanciando in avanti quel temibile e affascinante ciuffo rosato.쨩
짬Grazie zia, lo sai che 챔 strana questa storia dell'uccello... adesso vado e me la riracconto... vuoi che ti dica le capitali?쨩
짬No, Sabina, grazie, ma ho fatto tardi, devo andare. Buonanotte.쨩
«Notte» mi ha risposto lei e l'ho sentita appoggiare con lentezza sognante il ricevitore. Era già entrata nella storia. Sapevo che il mio strano essere notturno avrebbe camminato nei suoi sogni.

Dacia Maraini - Da "Storie di cani per una bambina"
 
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view post Posted on 19/5/2009, 20:09

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La pecora Dolly
Milano, Fabbri editori 2001



La pecora Dolly e altre storie per bambini

Contiene le favole:
Il cavolo viaggiatore; Scarpe di vernice; Dalla cucina di un re; La cornacchia del Canadà La pecora Dolly; La pelliccia di volpe; Una famiglia in una scarpa; L'uccellino al circo; Spil, figlia di nani; Cani di Roma.

Illustazioni di Nicoletta Ceccoli

Leggere favola....La pelliccia di volpe
Una bella signora bionda scendeva per la strada con addosso un cappotto foderato di pelliccia.
All’altezza del semaforo incontrò una volpe dalla zampa ferita che camminava zoppicando con l’aria affaticata.
“Povera volpe “ disse la donna osservando la zampa ferita, “posso fare qualcosa per te”?
“Sono giorni e giorni che cammino, ho fame” disse la volpe agitando la coda,
“Vieni a casa mia, ti curerò la zampa”.
“Che persona gentile”! disse la volpe che era abituata ad essere cacciata da tutte le parti.
“ Vieni con me, come ti chiami”? chiese la signora bionda.
“Mia madre mi chiamava Tu-tu.”
“ Vieni Tu-tu che ti metto del disinfettante sulla ferita”.
La volpe seguì la signora bionda in fondo alla strada dove c’era un cancello di ferro . La donna spinse il cancello accompagnata dall’animale e poi aprì la porta di casa e fece entrare la volpe.
“Che fai in giro per la città”? chiese la signora bionda.
“Sto cercando la mia mamma che è scomparsa da un mese.”
“E il papà dove ce l’hai”?
“Il papà non ce l’ho mai avuto. La mia mamma è rimasta incinta di un volpino rosso che poi è sparito e non si è fatto più vivo”
“Non ha scritto nemmeno una cartolina”?
“Nemmeno una cartolina”.
“Ma che strano: anche mio padre se n’è andato quando io ero bambina senza dire dove e non ha mai scritto nemmeno una cartolina”.
“Me lo dai qualcosa da mangiare”?
“Vuoi una caramella, un cioccolattino”? disse la donna mettendosi a cercare per tutta la casa.
“No, vorrei un pollo”.
“Non ho polli, mi dispiace. Ma ora vieni qui che ti disinfetto la zampina”.
E con molto garbo e molta delicatezza la donna pulì con l’acqua ossigenata la zampa della volpe. Gliela fasciò e ci mise pure un cerottino per fermare la garza.
“Ma dimmi, come te la sei fatta questa ferita”?
“Mi daresti un uovo”?
“Non ho uova”.
“Forse nel frigorifero hai un vecchio uovo di gallina”.
“No. Io mangio sempre fuori,. IN casa ci sto poco, vivo sola dopo che mio marito è morto . Vuoi una ciliegia candita”?
La volpe si grattò la testa. C’era uno strano odore in quella casa, di animale morto. Ma per quanto si guardasse intorno, la volpe non vedeva tracce di animali.
“Penso che sarai stanca e magari hai anche la febbre. Se vuoi ti puoi mettere sul letto della mia bambina che ora sta con la nonna in Francia. Vieni”! disse la donna bionda e la portò in una cameretta tutta rosa con tante bambole sedute sugli scaffali.
La volpe Tu- tu si sdrai챵 sul letto e subito si addorment챵 tanto era stanca: aveva camminato notte e giorno per una settimana in cerca della madre scomparsa.
La donna la guard챵 dormire con un sorriso di tenerezza: se non fosse stato per quei peli rossicci, sarebbe potuto essere sua figlia, le assomigliava. Prima di uscire copr챙 la ospite con il suo cappotto foderato di pelliccia e poi chiuse la porta piano per non svegliarla.
Nel mezzo della notte la volpe sentì una voce che diceva “svegliati, Tu -tu, sono qui”. La volpe si alzò, si guardò intorno ma non vide niente altro che la vezzosa camera della bambina sui cui scaffali di legno chiaro stavano sedute immobili le bambole di pezza e di porcellana.
“Sono qui sul letto, guardami”! disse una voce conosciuta e finalmente la vide, sua madre. Era stata cucita dentro il cappotto per tenere caldo.
“Ma tu sei morta. Ti hanno scuoiata” ! disse la volpe figlia alla volpe madre e scoppiò in singhiozzi.
“Non dire alla signora bionda che mi hai trovata. Fatti spiegare dove ha comprato la pelliccia e vai nel negozio a chiedere che ne è stato degli altri pezzi del mio corpo. Senza le zampe e gli occhi non posso tornare da te.”
La giovane volpe fece come le aveva ordinato la madre. Finse di dormire fino all’alba, poi si alzò, appoggiò delicatamente il cappotto foderato di pelliccia su una poltrona e bevve una tazza di latte che le aveva preparato la signora.
“Dove hai comprato questo bel cappotto” ? chiese poi facendo finta di ammirare il soprabito foderato.
“Ti piace? È un cappotto molto caldo. L’ho comprato dalla signora Jole nel negozio in piazza Duomo”, rispose candidamente.
“Allora io vado, ne voglio comprare una uguale per la mia mamma”.
“Ti auguro di ritrovarla. E se hai bisogno di qualcosa torna pure da me”.
La volpe ringraziò e uscì più affamata di prima. Ma non voleva perdere tempo a cercare da mangiare. Si precipitò in piazza Duomo, trovò il negozio della signora Jole e le chiese dove fossero i pezzi della volpe con cui aveva cucito l’interno del cappotto.
La signora Jole , quando vide la giovane volpe, pensò: qui ci verrebbe un altro bel cappotto con l’interno di pelliccia e cominciò a fare domande strane, tipo: “da dove vieni bella volpe? Che ci fai in città? Perché te ne vai sola sola? ”… eccetera. Ma la volpe capì l’antifona e rispose che era venuta in città insieme con un branco di lupi che la aspettavano all’imbocco della metropolitana. La signora Jole non insistette.
Tenne duro invece la volpetta nell’interrogare la signora Jole per sapere dove aveva comprato la pelliccia. E la signora Jole le rispose che veniva da una conceria chiamata Paradiso, il cui proprietario aveva nome San Pedro. E’ lì che gli animali venivano scuoiati per fare pellicce.
La nostra volpe salutò e andò alla conceria Paradiso. Appena entrata pensò di svenire: l’ odore di sangue era così forte che non si riusciva a respirare.
Chiese del padrone, San Pedro che appena seppe della volpe arrivò subito e si mise a scherzare con lei: “Sei venuta coi tuoi piedi a farti scuoiare? Sei coraggiosa. Cosa vuoi in cambio? Denaro?”
“Non voglio denaro. Voglio soltanto le zampe e gli occhi di mia madre per seppellirla nel nostro cimitero”
“Ho centinaia di zampe e di occhi” disse San Pedro, “come faresti a riconoscere quelli di tua madre”?
“Dall’odore” rispose la volpetta
“E allora provaci. Se ci riesci ti darò in regalo una cintura ”.
E San Pedro condusse la giovane Tu- tu nel mattatoio dove le volpi venivano uccise con un colpo di martello in testa. Dopo, una macchina le scuoiava , le privava degli occhi e delle zampe così che fossero pronte per farne delle pellicce. Il muso qualche volta lo tenevano per farne dei ‘renard’ . Ma gli occhi in quei musetti appuntiti e levigati erano finti, di vetro. Gli occhi veri, senza vita, infatti diventano opachi. E invece quelli erano lucidi e brillanti come bottoni.
Tu- tu vide un gruppo di volpi dalla pelliccia argentata chiusi in gabbia che giravano in tondo.
“Che fanno quelle volpi”? chiese ingenuamente.
“Aspettano di essere scuoiate” rispose San Pedro, “ma non sono affatto scontente, se la passano bene, prova a chiederglielo”.
La volpe si avvicinò alla gabbia e chiese: “Siete infelici”?
“No” risposero ridendo.
“E come mai”?
“Qui mangiamo tanto e cose prelibate, beviamo a sazietà, dormiamo sul morbido e non dobbiamo fare niente.” Rispose una bellissima volpe argentata dalla coda che sembrava una via lattea.
“Non dobbiamo andare in giro tutto il giorno a cercare cibo, non dobbiamo rincorrere topi e serpenti, non dobbiamo girare di notte per afferrare una stupida gallina. Qui abbiamo perfino il tempo di giocare a carte” aggiunse un volpetto fulvo dal ciuffo biondo offrendo una sigaretta all’ospite.
“Incoscienti” disse la volpe, “non sapete che sarete scuoiate”? “Campa cavallo!” rispose un vecchio volpone dai baffi grigi, “prima che arrivino a noi passano i mesi. E intanto mangiamo e scherziamo e poi non è detto che non venga il terremoto e ci liberi a tutti “
“Hai visto”? disse San Pedro, “qui stanno bene, nessuno ha mai tentato di scappare. Vuoi entrare anche tu nella gabbia? C’è una grossa scodella di carne di bue pronta per te. Hai una bella pelliccia, anche se un poco sporca.”
“Quasi quasi” disse piano la volpe, che aveva una fame terribile e al pensiero di un piatto pieno gli veniva l’acquolina in bocca. Ma poi si riprese. “Devo cercare mia madre” enunciò continuando a camminare.
“Anche se la trovi , è bell’e morta. Che te ne fai”?
“Voglio seppellirla nel nostro cimitero” disse la volpe ricordando l’ammonizione materna ..
“Bene, ecco il deposito delle zampe e degli occhi “ disse San Pedro aprendo una porta blindata.
La volpe entrò e si trovò davanti una montagna di zampe e di occhi di volpe. Vacillò per l’orrore. Pensò di morire lì sull’istante, ma la voglia di ritrovare sua madre fu più forte e la aiutò a resistere.
“Cosa ve ne fate di tutte queste zampe”? chiese trattenendo il respiro.
“Le vendo ad una azienda che le macina, ne fa farina e la rivende agli allevatori come mangime per gli animali”
“Se mi lasciate sola cercherò di trovare i pezzi di mia madre. Con voi davanti non riesco ad annusare bene: l’odore dell’uomo è più forte di quello animale”.
“Veramente siete voi che puzzate di selvatico” disse ridendo l’uomo che non era cattivo ma faceva solo il suo mestiere.
Appena si fu chiusa la porta, la volpe Tu-tu si sedette per terra piangendo. Come avrebbe fatto a trovare sua madre fra tutte quelle zampe tagliate e tutti quegli occhi strappati?
Ma proprio mentre si soffiava il naso sconsolata sentì una voce che diceva “sono qui, bambina mia, sono qui” . Alzò la testa e vide quattro zampine che danzavano sul pavimento. Due occhi piccoli e azzurri si posarono come due piccole uova sul suo grembo.
La volpetta prese le zampe e gli occhi e fece per andarsene. Ma mentre si avvicinava alla porta sentì dietro di sé un mormorio sommesso. Cosa c’è? si chiese e voltò la testa. Allora vide tante zampette che ballavano sul pavimento e tanti occhi che volando come uccellini in giro per la stanza, le si avvicinavano, le si posavano sulle orecchie, sulla spalla. “Anche noi, anche noi” dicevano quelle zampette e quegli occhi. La volpe spalancò la porta e loro uscirono schiamazzando felici.
“Dannata volpaccia”! gridò San Pedro quando si accorse che tutte le zampine e tutti gli occhi delle volpi uccise correvano sulla strada ballando e ridendo. “Ora ti prendo e ti metto in gabbia che tu voglia o no”!
Ma la volpe fu più rapida dell’uomo che era grasso e si muoveva male. Fece una corsa giù per la strada, cambiò velocemente direzione in modo che lui la perdesse di vista e continuò a correre finchè non ce la fece più.
Quando fu al sicuro, tirò fuori le zampette della madre e le chiese: “Cosa devo fare adesso mamma”?
“Torna dalla signora bionda, fatti dare con una scusa il cappotto foderato e portatelo via. Poi scuci la pelliccia, rimetti le zampette e gli occhi al loro posto e io tornerò a correre.
La volpe Tu- tu fece quello che la madre le ordinava. Tornò dalla signora bionda e le chiese il cappotto in prestito. Ma la signora bionda non glielo volle dare. “Cosa te ne faresti di un cappotto così lungo”? disse ridendo “e poi è un regalo di mio marito, non posso darlo a qualcun altro. Se vuoi ti do un impermeabile rosso di quando mia figlia aveva sei anni che ti dovrebbe stare a meraviglia.”
La volpe si grattò la testa perplessa. “Ce l’hai una banana”? chiese alla donna che fece cenno di no con la testa. “Ne ho vista una in giardino, vado e torno” disse Tu- tu che uscì di corsa, pestò con un piede un pezzo di bottiglie e si procurò una ferita che buttava sangue. Zoppicando vistosamente tornò indietro e disse “La banana non l’ho trovata ma mi sono ferita dinuovo”.
La signora bionda fu felice di pulirle la ferita e metterci la pomata e fasciarla con una lunga garza.
“Ora vado”, annunciò Tutu.
“A quest’ora della notte? E con la zampa ferita? Non te lo permetto. Stenditi sul letto di mia figlia. Le bambole ti terranno compagnia per la notte”.
Era quello che voleva Tu- tu che entr챵 con disinvoltura nella camera rosa della bambina , diede uno sguardo alle bambole allineate e si stese sul letto dai mazzetti di ciclamini lilla.
“Ho freddo, mi metteresti addosso il tuo cappotto”? chiese con voce gentile.
“E se poi me lo rubi, non mi fido” disse la signora bionda, “voi volpi siete furbe e leste, non vorrei trovarmi senza il mio cappotto prediletto”
La volpe Tu-tu non sapeva pi첫 come fare. Percepiva le zampette della madre che scalpitavano sotto la camicia, sentiva gli occhi che si muovevano inquieti nella tasca. E ora? si chiedeva disperata.
“Beh, buonanotte” disse la signora bionda e si ritirò nella sua stanza, portandosi via il cappotto foderato.
“Buonanotte” bofonchiò la volpe e rimase stesa al buio con gli occhi spalancati.
Quando l’orologio battè le tre sentì una voce che diceva: “E’ il momento buono, bambina. Vai nella stanza della signora bionda, porta via il cappotto foderato e tornatene di corsa nella tua tana.”
La volpe Tu-tu ubbidì. Uscì silenziosamente dalla camera , percorse in punta di piedi il corridoio. Appoggiò l’orecchio sulla porta della signora bionda per capire se dormisse. La sentì russare dolcemente. Allora, con estrema circospezione girò la maniglia. Ma, disdetta, scoprì che la porta era chiusa a chiave dall’interno. “L’aveva detto che non si fidava, e ora che faccio”?
Tornò in punta di piedi nella camera della bambina. Si sedette sul letto a meditare. Ma non riusciva a trovare una soluzione. “Mamma, mi senti? Ho fatto come tu dicevi ma la signora bionda ha chiuso a chiave la porta e io non posso portare via il cappotto. Che faccio”.
Nel buio sentì qualcuno che si schiariva la gola. “Mamma sei tu”? chiese ansiosa Tu-tu.
“No, sono io” rispose una vocetta misteriosa.
“Io chi”?
“Io Federica, detta Fede”.
“ Sei una volpe anche tu”?
“ Guardami scemo, ti sembro una volpe?”
Tu-tu accese la luce ma non vide nessuno nella stanza. Chi poteva essere? Sent챙 ancora una risatina che veniva dagli scaffali. Sollev챵 gli occhi e vide che tutte le bambole sedute sulla mensola ridacchiavano.
“Che avete da ridere? “
“ Se vedessi la faccia che hai”! rispose una bambola tanto grassa che aveva quattro braccialetti di carne attorno ai polsi. Mentre rideva muoveva le gambette cicciotte che finivano in un paio di scarpette di vernice nera col fiocco dorato sopra.
“C’è poco da ridere”, disse la volpe e cercò disperata le zampette della madre sotto la camicia per cercare conforto. Ma le trovò fredde e inerti, proprio come quelle zampette portafortuna che si vendono nelle bancarelle.
“Se vuoi ti posso aiutare” disse la bambola cicciotta.
“E come”?
“Facciamo così, che tu chiami la signora bionda dicendole che hai male alla ferita. Lei verrà a curarti perché è una donna caritatevole e ama molto fare la infermiera, anche se è sospettosa. Mentre ti cura io vado di là e prendo il cappotto.
“Ma se hai le gambe di pezza” obiettò la volpe Tu-tu, “come fai a camminare? E poi il cappotto pesa dieci volte più di te, come potresti portarlo fin qua”?
La bambola cicciotta si mise a ridere indisponendo ancora di pi첫 la piccola volpe rosata che pens챵: questa mi sta prendendo in giro.
Ma la bambola insistette: “aspetta che mi consulto con le mie amiche e poi ti dirò come fare. Vedrai che ci riusciremo.”
La volpe vide la bambola cicciotta che si protendeva verso le altre bambole e tutte presero a sussurrare e ridacchiare. Finalmente, dopo un bel po’ di consultazioni la cicciotta disse:
“Vai a chiamare la signora e lascia le porte aperte. Noi ti recapiteremo il cappotto ”.
La volpe si fidò. D’altronde che altro poteva fare? Uscì mogia dalla camera da letto, infilò il corridoio, si fermo davanti alla camera da letto della signora bionda e prese a tossire miserevolmente.
“Che c’è”? disse la signora sentendo quella tosse.
“Non mi sento bene, Ho paura di avere la febbre. La ferita ha ripreso a buttare sangue. Mi volete aiutare”?
La signora bionda aprì la porta. Era in camicia da notte e sembrava un angelo tutto bianco, con un paio di pantofole di piuma rosa. “Siete bella come un colibrì” disse la volpe sinceramente sorpresa di quella visione e la donna ne fu lusingata.
“Andiamo in bagno, vorrei che mi lavaste la ferita e me la fasciaste dinuovo. Mi fa male”
“Povera volpe! Sei proprio sfortunata. Vieni che ti medico io.”
E cos챙 andarono in bagno tutte e due, Tu-tu davanti con la coda strasciconi per terra, e la signora bionda dietro con la lunga camicia bianca ricamata e le pantofole pennute che lasciavano ogni tanto una piumetta sul pavimento.
La volpe mise la zampa sul bordo della vasca e la signora bionda gliela lavò,gliela disinfettò e gliela bendò. “Ora starai meglio” disse gentile e la accompagnò fino alla camera da letto. Le diede un bacio sulla testa e uscì chiudendosi dietro la porta.
La volpe si guardò intorno. Le bambole erano sparite dagli scaffali. Ma dove si saranno ficcate? “Ehi? dove siete?” disse a voce bassa per non farsi sentire dalla signora.
Lì per lì non ci fu risposta. Poi improvvisamente vide un trenino che si snodava vicino alla finestra. Sopra, sui vagoni, c’erano tutte le bambola e nel vagone merci c’era, arrotolata un enorme rigonfio che indovinò subito essere il capotto della signora con dentro la sua mamma scuoiata e cucita.
“Eccoci qui” disse la bambola cicciotta e rise agitando le bracciotte con gli anelli di carne. “Noi non sappiamo camminare ma il trenino sa viaggiare.”
Risero tutte le bambola e con un salto tornarono a sedersi in fila lungo lo scaffale sopra il letto.
“Ora facci vedere come fai tornare in vita la tua mamma”, disse il trenino che ancora ansava per la fatica di avere portato quel grande peso.
La volpe Tu-tu tirò fuori dalla camicia le quattro zampette che si misero subito a ballare. Tirò fuori dalla tasca le due ovette degli occhi che si misero a svolazzare per la stanza. “Ora scucimi” disse la madre con voce dolce.
“Ma come faccio che non ho le forbici”? disse la volpe Tu-tu e si mangiava le unghie per la disperazione.
“Ce le ho io le forbicine” disse una voce dall’alto.
La volpe guardò in su e vide una bambola vestita da massaia che tirava fuori dalla tasca, forbici aghi e fili. “Ecco qua, prendi” disse porgendogli pure un ditale che in qualche momento era in effetti inutile. Ma la volpe Tutu prese ogni cosa per non essere scortese con quella bambola dal grembiule sporco di grasso che diceva di sapere cucinare e cucire e anche stirare.
In pochi minuti la pelliccia fu scucita dal cappotto. Le furono attaccate le zampette e piano piano prese la forma di un corpo molto simile a quello di Tu-tu che saltava per la gioia di rivedere finalmente la mamma.
Quando la mamma volpe fu tutta intera, con il muso al suo posto e gli occhi dentro le orbite, le bambole in coro fecero “oh che portento”! e batterono le mani per la meraviglia. Anche il trenino fu sorpreso e disse che un prodigio simile non l’aveva mai visto. “E’ l’amore che fa miracoli” disse il trenino che essendo un viaggiatore ne sapeva più degli altri.
“E adesso correte”! disse la bambola cicciotta ridendo a più non posso, “se no fate tardi. E salutateci le altre volpi”.
“Addio e grazie” dissero insieme madre e figlia volpe lasciandosi calare giù dalla finestra e sparendo nella notte, tenendosi zampa nella zampa.

Dacia Maraini
 
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La bionda, la bruna e l'asino

Milano, Rizzoli 1987



Raccolta di articoli degli anni ’70 e ’80 in cui Dacia Maraini parla dei temi del mondo femminile attraverso fatti di cronaca, libri letti, fatti della vita quotidiana.


Prefazione di Dacia Maraini

Riflessioni sui corpi logici e illogici delle mie compaesane di sesso
di Dacia Maraini

Sono in campagna. In una casa senza telefono. A cinque chilometri dal paese pi첫 vicino. In un punto che si chiama Cava del Bruciore. In effetti qualcosa che brucia c'챔: un odore di erbe secche, un crepiti o dell'aria troppo tesa quasi sul punto di incrinarsi e sbriciolarsi.

Ho con me lo scartafaccio degli scritti da selezionare: un insieme di testi sulla violenza, sulla famiglia, sulla prostituzione, sulla maternità, sull'amore usciti su giornali e riviste «Paese Sera», «Il Messaggero», «La Stampa», «L'Espresso», «Panorama» e altri) fra gli anni settanta e ottanta.Rileggendoli mi accorgo che alcuni temi tornano con la cocciutaggine mulesca di un pensiero che conosce i suoi pascoli, ama le stesse erbe e gli stessi odori.
Molti articoli mi trovo a scartarli perché troppo legati alla notizia del giorno, alla polemica del momento. E non mi interessa tanto un libro documento quanto un discorso che metta le radici nel passato ma possa riconoscersi, fatto foglia e ramo, nella realtà di oggi. Molti interventi sull'aborto cadono così nel calderone delle cose mangiate e digerite. Riguardavano quasi tutti il «prima della legge». Ora la legge c'è, anche se funziona male come tutte le buone leggi di questo nostro Paese.Ho scartato anche le polemiche coi grandi personaggi perché a rileggerli mi sono sembrate lontane: ci si accapigliava per qualche frase infelice che oggi probabilmente non scapperebbe più fuori (Sciascia aveva scritto che in Sicilia c'è il matriarcato e io lo rimbeccavo; Bocca aveva detto su un giornale che le femministe sono tutte lesbiche che vogliono sedurre le operaie e io lo prendevo in giro; Parise aveva parlato dei sessi come di razze diverse e io lo attaccavo; Carmelo Bene aveva messo in un suo spettacolo teatrale delle donne nude che non dicevano una parola e io gli davo del «ruffiano» ecc.).
Sono rimasti i grandi temi che sono validi ancora oggi: la prostituzione come metafora della condizione femminile; le molte facce di un commercio che mescola le regole del mercato alle regole della morale. Una questione che passa attraverso le spine della convivenza civile ma si porta dietro cento domande sull'uso del corpo, sul senso del piacere, sul concetto di libertà ecc.
La violenza. Non solo come catastrofe maligna che capita fra capo e collo ma come abitudine, pratica quotidiana che provoca calli, ferite che rimarginano malamente e che a volte vengono riaperte con le proprie mani quali segni tangibili del consenso al proprio strazio. Quel tanto di pena fisica che si mescola alle prime gioie della crescita disordinata dei sensi in un mondo di crudeltà travestite da desiderio.
E ancora: il rapporto fra padre e figlia, fra madre e figlio, con quel tanto di cannibalesco che si porta dietro in un accavallarsi di attese, dolori, paure, deliri, nevrastenie, dipendenze e mitizzazioni. La famiglia pu챵 uccidere? I suoi guai dipendono solo dal forzoso e difficile passaggio dal mondo contadino a quello tecnologico o c'챔 un vizio di fondo, qualcosa che non torna nel conto dei sentimenti familiari?
E poi il lavoro casalingo e l'adulterio come ritrovamento di sé, e la vecchiaia come perdita del corpo e l'onanismo e la castità.
Alcune riflessioni prendono spunto da libri letti. Non sono recensioni ma occasioni per scandagli, immersioni nell'acqua torbida del nostro vivere comune. Altre vengono fuori da ritratti di donne che in qualche modo scappano da se stesse, si impegolano in rapporti rischiosi, accendono zolfanelli credendo che siano fuochi d'artificio, prendono a testate il mondo e ne escono scornate o vincenti avendo coltivato il fiore sulfureo della memoria.
Ma ora sono qui a mollo dentro un paesaggio verde smorto che all'orizzonte trema come fosse un miraggio. Mi rendo conto che sono chiusa dentro un silenzio sconosciuto, con le mie idee e le mie carte, quasi in allarme per un ritmo quieto che sento incalzarmi.
A pensarci bene non 챔 neanche un silenzio. Ci sono molti suoni che si accumulano nella conchiglia dell'orecchio, ma hanno qualcosa di diverso dai soliti suoni. Questi sono legati gli uni agli altri come i puntidi uno stesso cucito.
In città i suoni sono isolati, senza connessione fra di loro e colpiscono prima gli occhi che le orecchie. Se è possibile sentire dei suoni con gli occhi, ecco che in città ogni rumore ha il nitore di una immagine quotidiana, lustra e priva di mistero.
Mentre in campagna i rumori si fondono l'uno nell'altro e formano una corrente, un'onda che entra ed esce dalla finestra con un movimento pigro e ossessivo.
È un silenzio a cui sono così poco abituata che mi appare doloroso, inquietante. Le mie dita vanno alla piccola radio a pila, color menta che tengo sul tavolo. Cerco un bandolo, una cima che mi ridia in mano il filo delle cose.
Sento una voce baldanzosa, solerte e ottimista, di un ottimismo melenso e volgare. Richiudo subito. Ma qualcuno da lontano mi incalza: «Cos'è la volgarità signora Maraini?». Assomiglia alla voce di tanti interlocutori che mi trovo davanti nei dibattiti, negli incontri pubblici in giro per l'Italia. È quella voce che ha preso la forma di una accusa in ben cinque processi per oscenità da cui per fortuna alla fine sono stata assolta, ma dopo quanti attacchi e noie!
«Come fa a parlare di volgarità lei che usa in continuazione parolacce, argomenti nudi e crudi?»È il solito grillo che salta su quando si parla di pornografia e di sesso. Come spiegare che non ci sono parole nobili e parole ignobili, parole pure e parole impure, parole belle e parole brutte?
Volgarità è semplificazione, vogliamo metterla così?, quando si taglia la realtà con l'accetta, quando si divide la persona in parti utili e non utili, quando si riduce la complessità di un pensiero a una minestra da cacciare in gola agli ingordi. Quando si falsifica, si agghinda, si consola, si abbellisce, si bamboleggia. Quando si prendono le distanze con sussiego, quando si decide a priori cosa è giusto e cosa no. Quando si edulcora, si ingentilisce per togliere peso, per rassicurare, quando si calcifica lo sguardo, quando... mi accorgo che sto dando un senso morale alla volgarità. Non ne faccio più una questione di gusto.
Ma chi l'ha detto che il gusto non sia una faccenda che mette in moto le domande sul fare e non fare? gli scrittori, a ben leggerli, hanno sempre cominciato il ballo per essere stati morsi dalla tarantola.
La tanto discussa letteratura di evasione, osservandola bene, non è affatto evasiva. I rosa più rosa grondano di moralità, insegnamenti, messaggi, divieti, codici, esortazioni. Il loro successo viene da lì. I romanzi d'amore alla Harmony vogliono insegnare, non distrarre.
I romanzi commerciali vogliono prima di tutto forgiare il pensiero informe, vogliono intervenire nel ventre del mondo con le loro idee, le loro suggestioni morali. La furbizia consiste nel combinare le loro certezze ideologiche con il gusto per l'avventura, l'esotismo, il folklore psicologico. I loro personaggi cadranno preda di grandi sentimenti, faranno continuamente succedere delle cose succose, si agiteranno molto per dimostrare che ci sono. E alla fine i loro tracciati riveleranno un disegno ben definito, riconoscibile, dalla morale sicura.
L'autore non commerciale non si preoccupa di fare continuamente 짬agire쨩 i suoi personaggi ma li segue stupito quasi chiedendosi che cosa stanno combinando. A volte non combinano proprio niente, semplicemente girano intorno.
La volgarità della cosiddetta letteratura di evasione sta proprio nella sua proposta di una distrazione che non c'è. Sta nel promettere ciò che non darà mai: consolazione, bellezza, amore, gioia di vivere, piacere.
Volgarità quindi, caro signore, per me non è altro che una delle tante forme di intervento volontaristico sulla immaginazione altrui. Che questo intervento sia ammantato da pretese di ricreazione, di consolazione, di vacanza della mente affaticata, fa lo stesso. Rimane un atto di autorità rate, che vola come una zanzara a pungere la pelle dell'aria: «Ma esiste una differenza fra scrivere donna e scrivere uomo? e se sì in che cosa consiste?».
Ho visto che Nadia Fusini nel suo ultimo bel libro (짬Nomi쨩) sulle grandi scrittrici ha eluso la domanda. L 'ha spinta leggermente da parte con un moto leggero del polso. Da fine letterata, come di una domanda inopportuna e vagamente fuori tempo.
Mi piace il suo modo ellittico di procedere, tutto incastri e sapienza verbale. Solo mi dispiace che abbia guardato al di là delle Alpi secondo un vecchio insegnamento di Arbasino, dimenticando ingiustamente le grandi madri al di qua delle montagne, quelle donne straordinarie che, come Anna Maria Ortese, EIsa Morante, Lalla Romano, Anna Banti, Fausta Cialente e Natalia Ginzburg ci hanno insegnato a scrivere da donne.
Siamo cos챙 attenti a quello che scrivono i cugini e le cugine di Paesi lontani che non ci accorgiamo di costruire tutto un apprendistato letterario su delle lingue in traduzione. Fra poco saremo invitati a scrivere direttamente in inglese o in francese. Tanto poco vale per i critici il lavoro che si fa su questo neonato faticosamente allattato, questo bambino rachitico che 챔 l'italiano.Nadia Fusini non risponde alla questione sulla scrittura al femminile eppure sceglie un gruppo di autrici, non di autori, quasi a suggerire che la differenza c'챔 ma 챔 data per scontata.
Di solito per scrittura al femminile si intende o si intendeva qualcosa di sentimentale, di delicato, di fumoso e di crepuscolare. Una trama fatta di 짬sensibleries쨩 fragranti e leziose, un vorticare di lucciole e di spore che il vento della critica avrebbe pensato a spazzare via dal mondo della letteratura.
In fatto di volgarità poi gli eufemismi sono spesso peggiori delle cose dette col loro nome. Come dice bene Nora Galli de' Paratesi nel suo libro Le brutte parole gli eufemismi appartengono soprattutto a quei gruppi sociali che meno vogliono esporsi, che più tengono al decoro e a un'apparente stabilità dei rapporti di convivenza. Quasi sempre l'idea di volgarità riguarda l'uso dialcune parole cosiddette oscene. Ma il margine di questa oscenità cambia di momento in momento, di zona in zona. È difficile tenergli dietro. Libri che erano considerati proibitissimi fino a ieri, vengono di colpo letti come innocui.Ma l'accusa di oscenità non riguarda solo le parole «brutte». Spesso si appiglia al modo crudo e impietoso che molti autori hanno di considerare le cose.
Per cattive abitudini prese dalla letteratura «in ghingheri», e per un'innata paura di ciò che si nasconde dietro la porta, i lettori più semplici e incolti chiedono una sistematica edulcorazione della realtà. La vogliono ingraziosita, purgata, ingentilita, resa innocua.
La crudezza insospettisce anche se può attirare. Verso gli scrittori considerati pornografici c'è sempre stato un atteggiamento ambivalente: di attrazione, curiosità morbosa e repulsione, condanna. Pensiamo a Henry Miller, a Bataille, e andando indietro a Lawrence e più indietro ancora al Belli, a Boccaccio.
Nel caso di una donna però pochissimi sono disposti ad accettare l'oscenità. Né l'uso delle parole proibite né una visione troppo cruda del mondo. Dove vanno a finire il sorridente garbo, l'innata dolcezza seduttiva, il pudore femminile?
E qui, altra voce, altra domanda sul pelo delle se È chiaro che di fronte a una visione così limitativa della scrittura al femminile molte romanziere abbiano negato di essere scrittrici. Si sono definite «scrittori» e basta, ribadendo l'asessualità rituale della letteratura.
짬Ma la scrittura 챔 davvero asessuata?쨩 altra voce assillante, altri occhi lucenti che mi guardano da una sala gremita cercando addosso a me il senso dell'essere donna e scrivere, essere donna e utilizzare strumenti per tradizione maschili.
La scrittura con le sue radici che pigramente si allungano nel terreno profondo dell'immaginazione collettiva si nutre di antiche abitudini di pensiero, di aspirazioni segrete, di paure dilatate, di desideri inconsapevoli.
Ma quasi sempre questi desideri, queste aspirazioni, queste abitudini nel loro farsi trama comune hanno caratterizzato gli interessi dell'uomo senza la donna e spesso perfino contro la donna. Basta dare uno sguardo ai simboli pi첫 comuni delle favole, dei miti, alle cosmogonie antiche e moderne.
Il fatto 챔 che per accedere alla scrittura si devono imparare a manovrare tre tipi di strumenti: l) quelli pi첫 meccanici come la macchina da scrivere, il computer, le stampatrici a cui la mano maschile viene guidata fin dalla prima infanzia, amorevolmente, da insegnanti, padri, tutori. 2) Gli strumenti determinati dagli eventi particolari di un Paese, di un popolo, come la lingua con il suo corredo di frasi idiomatiche, forme dialettali, gerghi, modi di dire eccetera. 3) Infine gli strumenti pi첫 delicati e profondi che si pretendono uguali per tutti come la filosofia, la psicoanalisi, la religione, la politica, l'antropologia, la letteratura. Insomma tutta la storia del pensiero della sua epoca a cui lo scrittore in qualche modo fa riferimento.
Si suole ripetere che la letteratura è pura immaginazione e l'immaginazione non può avere sesso. Essa è per definizione libera, insofferente di costrizioni, lacci, corsetti, cinture che la stringano e la limitino. Chi impara a manipolarla la farà sua, uomo o donna che sia.
Questo è quello che tradizionalmente viene detto alle ragazze ingenue che chinano la testa sui libri di studio e si macchiano le dita di inchiostro. L'immaginazione è tua, la scrittura si impara come un qualsiasi altro mestiere, spetta solo a te, alla tua volontà, al tuo talento.
Nessuno le dice che l'immaginazione non 챔 affatto quel gabbiano dalle grandi ali bianche che solca innocente un cielo vuoto. Nessuno le rammenta che essa nasce carica di archetipi, di stratificazioni emotive, di luoghi ricorrenti dello spirito, di ritrovi verbali, di mitologie che la escludono come soggetto fantasticante.
Ma l'illusione di stare sulla stessa barca è fortissima. Basta sfogliare i tanti libri usciti di recente sull'immaginazione erotica delle donne per intendere la profondità della lacerazione. Proprio come un prigioniero il quale, dopo una vita di segregazione, non sa più distinguere la libertà dalla costrizione, essa finisce per innamorarsi torbidamente della sua prigionia e delle sue tribolazioni.
L'immaginazione, pi첫 ancora che l'ideologia, 챔 totalizzante. La parte affidata all'estro personale 챔 piccola. Per il resto essa fa parte di un qui e ora di profonda immediatezza storica. L'immaginazione di un Paese, di un popolo, di un ambiente, di un'epoca, di una situazione pretende l'adesione piena alle sue pi첫 ardite costruzioni, ai suoi progetti per l'avvenire, ai suoi slanci, alle sue limitazioni. Tutte imprese che contengono un carattere androcentrico.
Noi diamo ascolto, senza neanche rendercene conto, soprattutto a quella voce che ci parla, anche nel segreto della coscienza, con tono basso e forte, carico di antica autorità.
L'altra voce, quella leggera, acuta, saltellante, la voce che sa di cucina, di camera da letto, non convince neanche le donne stesse, per la sua totale mancanza di prestigio e di autorità.
La scrittura 챔 lingua e la lingua non si limita a muoversi in bocca producendo come per miracolo suoni pi첫 o meno belli, pi첫 o meno arditi. Ci sono lingue che hanno giaciuto come morticini nelle tombe delle loro bocche e se si vuole credere che i morti pensano, si pu챵 immaginare un pensiero fatto di stracciati fantasmi, di desideri sepolti e incancreniti.
Alla fin fine risulta che si scrive col corpo e il corpo ha un sesso e il sesso ha una storia di separazioni, allontanamenti, segregazioni, soprusi, violenze, afasie, paure, mortificazioni di cui conserva una memoria atavica.
Allora che fare? rinnegare le fantasie da segregate oppure 짬bagnare il panuzzo쨩 come si dice in Sicilia in quella minestra ormai diventata nostra per lunga pratica e amore, di cui conosciamo a fondo il profumo e il sapore?
Credo che a questo punto 챔 impossibile distinguere ci챵 che 챔 nostro da ci챵 che abbiamo ingollato con la benedizione paterna. Non 챔 forse neanche importante. Chi pesca dentro di s챕 trova di tutto e non 챔 il caso di scandalizzarsi.
Per questo molte donne hanno afferrato la tromba. Per farsi sentire nonostante la consegna del silenzio. Con una baldanza a volte strepitosa che rendeva sospettose le altre.
La maggioranza delle scrittrici per superare questi fossati si sono fatte acrobate finissime, equilibriste del pensiero e dei sensi. Hanno camminato con grazia sul filo della divisione, non curandosi del pericolo di precipitare nella schizofrenia; spesso disamorate di s챕, qualche volta fino al punto di desiderare la propria rovina.
Il suicidio di tante scrittrici non fa forse la spia a una lacerazione profonda, come di un cuore pi첫 volte incrinato dalle pene che alla fine cede tutto d'un colpo?
C'era nel malessere di queste donne artigiane, di queste dragonesse della mente, la consapevolezza di usare strumenti non propri su cui gravavano dei tab첫 rigorosi, antichissimi.Sembra facile violarli questi tab첫. La ragione lo richiede e tutti in teoria sono d'accordo che si faccia. Ma quella parte di noi che si prolunga nel passato, quei fantasmi leggeri che continuano ad abitare gli angoli bui dei nostri cervelli, si rivoltano, chiedono giustizia contro chi infrange le preistoriche regole di un dio barbuto e intollerante a cui abbiamo promesso obbedienza.
Nella loro passione per l'invenzione letteraria non si sono accorte le nostre madri romanziere e poetesse che scrivere significa tenere in mano non una penna ma uno scettro, non una matita ma una spada.
Lo scettro e la spada li tengono in pugno i re e i guerrieri. Quando mai le donne sono state re e guerrieri? S챙, c'챔 stata Giovanna d'Arco. Ma non per niente si diceva guidata dalla voce di Dio. Lei stessa si considerava una esecutrice.
La confusione delle confusioni la crea per챵 quella faccenda curiosa che le lettrici sono sempre state pi첫 dei lettori, che gli scrittori sapevano di aprire le loro piume di pavone per un mondo di occhi languidi che decifravano con amore fino all'ultimo segno nero della pagina, chine sotto una lampada a petrolio, dentro una stanza silenziosa. Curioso, no? lettrici sempre, scrittrici mai o quasi mai. Passive anche nel luogo dello scambio intellettuale. Si gettavano loro i bocconi speziati, le eterne storie dell'amore tradito, delle gelosie, delle passioni straziate, i bisticci della vita quotidiana, tenendo per s챕 i segreti ultimi e il significato finale.
È l'architetto che decide come sarà fatta la casa in cui poi abiteranno, prigioniere a vita, le madri e le figlie che si strozzeranno a vicenda con amore.
Così nel mondo della letteratura chi scrive è il padre che amorevolmente porge da bere alla figlia amata i succhi della verità, della bellezza, del desiderio.
Da quella testa di Giove impaziente e irsuta, abitata da solenni capricci divini e genialità creative, sono uscite le Saffo, le Austen, le Sand, le Brontë. Un piccolo corteo di donne che hanno avuto l'ardire, con la compiacenza del padre, di dire in proprio, di prendere in mano la penna, lo scettro, la lancia per buttarsi nella battaglia della sopravvivenza artistica.
Ma cosa pu챵 dire di s챕, delle esperienze che ha in comune con le sorelle, le cugine, le amiche, questa donna dall'elmo che le copre la faccia, il braccio armato di scudo, la spada chiusa nel pugno?
In effetti molte intellettuali hanno sentito così. L'orgoglio della propria diversità le ha spinte verso una società letteraria arrogante, condividendo spesso i suoi atteggiamenti misogini.Solo nel momento in cui si sono chinate sull'orto di casa, queste guerriere hanno istintivamente abbandonato l'elmo, la corazza, la spada.
Si sono trovate, per amore di verità, a fare i conti con le proprie fantasie infantili, gli stupori e le amarezze di una adolescenza femminile, l'amore per il padre, gli scontri con la madre, l'invidia delle libertà maschili, la comune abitudine a guardare il mondo dalla finestra anziché scendere in strada ad affrontare il nemico o semplicemente a bighellonare.
Che poi la scrittura, con il suo vagabondare nelle minuzie quotidiane, il suo accanirsi sulle insensatezze sempre nuove dell'amore, il suo sentimento della lingua come nutrimento, i suoi eroi di tutti i giorni, 챔 profondamente femminile e materna. Soprattutto il romanzo, legato com'챔 al senso del divenire. Non per niente Roland Barthes dice: 짬Scrivere vuol dire giocare col corpo della madre쨩.
Per corpo della madre s'intende la carne e il latte di ogni lingua parlata. Ma, e qui avviene il fatto sorprendente: il linguaggio nato femmina, crescendo diventa, per un repentino rovesciamento delle parti, maschio. Mette su muscoli e peli e pretende la priorità assoluta dei suoi interessi spirituali.
Così il corpo della madre che dà nutrimento e carezze si trasforma nel corpo del padre che richiede ubbidienza in cambio di sicurezza, chiede fedeltà in cambio di grandezza.A questo punto è inutile fingersi diversi, mettersi i baffi, dire che ormai tutto è cambiato, sbarazzarsi delle differenze con un'alzata di spalle. lo non ci casco, io non ci casco, diceva lei mentre era già dentro alla trappola fino ai capelli. Ma i suoi occhi guardavano fieramente lontano.I travestimenti fra l'altro servono solo per ingannare se stessi. Il mondo non si lascia imbrogliare. Tanto meno i critici. Nel mondo delle lettere nessuno mai prenderà una donna che scrive per uno «scrittore».
Lo si capisce andando a cercare del materiale critico nelle biblioteche. Articoli s챙, quanti se ne vuole, ma veri e propri saggi impegnativi, veri studi approfonditi, pochissimi.
Il fatto è che scrivere un saggio è come innamorarsi, anzi come prendere moglie. È difficile che un critico di prestigio voglia maritarsi con il mondo immaginario di una donna. Lo riterrebbe un matrimonio sbagliato, una mesalliance, qualcosa di cui vergognarsi.
La discriminazione infatti non avviene n챕 al momento della scrittura (nessuno impedisce a una donna di scrivere salvo lei stessa), n챕 al momento del rapporto col mercato (sappiamo che le lettrici sono la maggioranza e gli editori non fanno censure, vogliono solo vendere).
Il momento cruciale della selezione, il grande setaccio che si mette in moto per separare il grano dal loglio avviene dopo e sancisce il passaggio da una generazione all'altra.
Saranno le antologie per le scuole, le raccolte degli scritti critici pi첫 autorevoli; saranno gli ordinamenti che mano mano vanno facendo i Grandi Sistematori che ogni generazione si sceglie a tutela dei suoi beni letterari. Saranno i professori universitari, i bibliotecari, gli storici della letteratura, i critici specializzati nelle 짬oggettive vedute d'insieme쨩 delle lettere nazionali, saranno coloro che stabiliscono le graduatorie, le rassegne, gli elenchi, le tendenze, le scuole.
In questo modo ogni generazione perderà le sue intellettuali, le sue poetesse, le sue romanziere. Libere in un mercato libero sono sopportate finché sono in vita ma è difficile che siano ammesse, una volta morte, fra i grandi da onorare, da studIare, da prendere a modello.
Anche quando sono presenti nelle antologie, non sono mai al centro del quadro. Il loro 챔 sempre 짬un caso쨩, 짬una eccezione쨩, 짬un fenomeno쨩 che, si suggerisce, ha dell'eccezionale. Ricordo che Pasolini credendo di farmi un complimento diceva: 짬tu non sei una donna, sei un uomo, hai la testa e il carattere di un uomo쨩. lo cercavo di fargli capire che era offensivo, ma lui non se ne convinceva.
In genere insomma le scrittrici, anche le pi첫 geniali, muoiono quando muore il loro corpo. Le pochissime che si salveranno, saranno tenute l챙 come delle belle bandiere proprio per dimostrare che non esiste una discriminazione letteraria. Ma per una che sopravvive quante scompaiono ingiustamente.
Alle volte bastano solo venti, trent'anni. Non si erano già perse le tracce di Anals Nin tanto per dirne una, tirata fuori per i capelli dall'oblio dalle case editrici delle donne?
Cos챙 챔 successo da noi con Sibilla Aleramo, con Cristina Belgioioso, con Veronica Franco. E perfino Grazia Deledda che ha avuto il premio Nobel in vita, sta scivolando gentilmente fuori dal quadro. Chi si occupa pi첫 di lei?
Una scrittrice può essere molto venduta, molto amata dalle sue lettrici, può anche ricevere qualche elogio dalla critica. Quello che le viene negato è quel prestigio che accompagna ogni grande scrittore e che provoca imitatori, scuole, tendenze e soprattutto un corpo critico con cui ogni studente dovrà poi fare i conti.

Dalla finestra mi raggiunge un mugolio prolungato. Deve essere Mulino, il cane che da quindici anni vive con me. Da giorni giace fuori dalla porta di casa sopra un cuscino verde bottiglia. Le mosche gli si posano insistenti sul muso, ma lui non le caccia nemmeno. Tiene gli occhi aperti, ma non vede. Ogni tanto si alza, cammina in tondo inseguendo una luce, un odore. È doloroso vederlo fermo immobile davanti a una parete con gli occhi sgranati, bui, come se si stesse chiedendo se quelli sono i confini ultimi del mondo.
Non posso farlo entrare perch챕 챔 diventato incontinente. Fa i suoi bisogni ovunque si trovi. A Roma negli ultimi mesi mi ha fatto ammattire: passavo le giornate a pulire dove lui sporcava.Avevo finito per relegarlo nell'ingresso, coprendo il pavimento con un telo di plastica ma comunque bisognava pulire. E lui si 챔 molto offeso che l'ho escluso dalla camera da letto, da quella cuccia sotto il comodino su cui ha dormito per anni. Ho anche provato a mettergli i pannolini per i neonati, ma lui coi denti se li strappava.
Gli amici mi dicono: «Perché non lo fai abbattere?». Non so perché, di una mucca, di un cane, di un orso – che pena quella orsa dello zoo che muore di infezione perché il veterinario è in ferie! – si dice abbattere.
Suona alla maniera della "soluzione finale" nazista: un eufemismo che cerca di ingentilire le cose. Si dice abbattere per non dire uccidere. Un'abitudine che sta dilagando. Non si dice "operatore ecologico"per dire spazzino? non si dice "collaboratrice domestica" per dire cameriera? non si dice "non vedente" per dire cieco?
Modi pretenziosi per camuffare la realtà, mascherarla e farla apparire più gradevole. Ma non per questo i ciechi smetteranno di essere ciechi, gli spazzini smetteranno di spazzare le strade, le cameriere smetteranno di pulire le case.
In quanto a Mulino non lo farò abbattere. Morirà quando deve morire, da solo. Perché togliergli l'esperienza dell'agonia? Il corpo ha un modo suo, lento, profondo, di avvicinarsi alla morte. Troncare a metà questo processo mi sembra un peccato di impazienza tecnologica di fronte alle lentezze capricciose della malattia.
Solo nel caso di sofferenze terribili che spingono il malato stesso a chiedere di essere «aiutato a morire» posso capirlo. Ma in quel caso ci sarà qualcuno capace di parlare, di esprimere la sua volontà, cosa che un cane non può fare.
Mentre Mulino si avvia faticosamente verso la morte, un gattino minuscolo, nero come un'ala di corvo, si avvia faticosamente verso la vita. L 'ho chiamato Carbonello per il suo colore notturno. Appena nato era stato buttato nel sacco dell'immondizia. Da l챙 una mano amica l'ha tirato fuori e nutrito.
Ma è rimasto un gatto minuto, dal collo di gallina, le orecchie a sventola, gli occhi gialli avidi di vita. Sa già di dovere contare solo sulle sue forze. I giochi che fa sono animati da una specie di festosa disperazione. Avendo perduto il corpo della madre, cerca calore di qua e di là cacciando la testa sotto la zampa del cane o strusciandosi contro una caviglia umana. Ma non si lascia mai andare. È vigile, comicamente vigile, con quelle orecchie protese in fuori, il collino misero, gli occhi che frugano diabolici negli angoli più nascosti.
Le giornate in campagna sono scandite da tempi circolari: si sente molto di pi첫 l'alternarsi della notte e del giorno, del freddo e del caldo. Ogni evento si ripete con dolcissima monotonia, accompagnato dal canto ininterrotto, maniacale delle cicale di giorno e dei grilli di notte.La ripetizione 챔 interrotta da brevi fulminanti eventi di morte: il pastore ha ucciso un cane perch챕 abbaiava alle sue pecore, il vaccaro ha macellato tre vacche per venderne la carne, una volpe ha divorato sei galline nella casa dei vicini, il ragno dietro la finestra ha acchiappato stanotte un calabrone e ora lo avvolge nelle sue bave immobilizzandolo come una mummia.
Anch'io mi sento parte di questo mangiamento generale. Non inghiotto la carne di quelle belle mucche dalle corna ampie m forma di lira che incontro nelle mie passeggiate per i boschi?
Stamattina ho avuto la sorpresa di trovare un mio racconto stampato sul 짬Corriere della Sera쨩, pagina romana. Mi ha fatto uno strano effetto. Anni fa, molti, forse quindici, ricordo che avevo spedito un racconto al 짬Corriere쨩 e il direttore di allora aveva risposto: 짬Sul mio giornale non voglio n챕 froci n챕 donne쨩, Non lo disse direttamente a me ma me lo fece riferire, senza vergogna. Il racconto uscito oggi si chiama Il cavallo di A m, paro. E si ispira alla storia vera di un vecchio cavallo da circo che doveva essere 짬abbattuto쨩 e che mi 챔 stato regalato.
Il testo è accompagnato da un commento critico di Antonio De Benedetti. È lui che ha fatto questa scelta di novelle per la pagina romana mescolando con intelligenza giornalistica scrittori conosciuti con intellettuali e politici che non avevano mai scritto di fantasia.
De Benedetti sostiene che sono una scrittrice 짬naturalistica쨩 .
«In Dacia c'è un consapevole deliberato rifiuto di quanto risulta astratto, complicato e inesplicabile. La sua prosa piana sfugge come fossero peccati le preziosità e gli arcaismi. Rifiuto assoluto e totale poi è il suo no ad ogni lirismo.»
«Ma perché tutto questo?» si chiede De Benedetti. «Dietro quanto Dacia scrive c'è evidente un progetto: quello di esprimersi letteralmente esprimendo la realtà. Ma quale realtà?»
E qui ripete una mia frase detta a proposito di 짬Isolina쨩, il mio ultimo libro: 짬Per me scrivere significa mettermi prima di tutto nei panni delle donne쨩.
Da questo De Benedetti deduce che 짬l'affermazione vale come indicazione di metodo e di poetica: mettersi nei panni degli altri, donne e anche uomini storicamente esistenti significa accettare un'idea tutto sommato naturalistica del raccontare... significa raccontare per raccontare, appunto, attraverso delle esperienze vissute, cio챔 delle denunce, tutto quanto nel mondo non va o potrebbe andare meglio쨩.
Continua....
 
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view post Posted on 19/5/2009, 21:06

ottimo

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Purtroppo sappiamo che nel mondo letterario italiano di oggi che si perde d'amore dietro alla poetica dell'artificio, dell'ambiguità, del sogno, dell'irrealtà, del delirio, la qualifica di naturalismo mette immediatamente fuori gioco.
Essere naturalistici significa, secondo questa poetica, stare dall'altra parte del fiume, dalla parte piatta delle cose dette contro l'irsutaggine delle cose alluse, dalla parte insulsa della chiarezza contro l'ombra suggestiva delle incertezze. Insomma un sospetto di realismo socialista, qualcosa di sconveniente e deteriore, assolutamente fuori moda.
Ma il naturalismo non presuppone una ricostruzione fedele della natura, che mantenga la fragranza delle cose senza l'intervento del sentimento e della ragione?
Lo scrittore che interviene, come De Benedetti sostiene che io faccia, lo scrittore che 짬vuole cambiare il mondo쨩 come pu챵 contemporaneamente astenersi dal giudicarlo?
Paradossalmente è stata soprattutto l'avanguardia a riproporre nuove forme di naturalismo. Con la differenza che il naturalismo ottocentesco copiava fedelmente, a specchio, una realtà totalmente oggettiva in cui si riconosceva come parte di una macchina universale le cui chiavi stavano nella conoscenza scientifica.
Mentre il naturalismo oggi rifà il verso, con altrettanto spirito di astensione critica, a una realtà diventata incomprensibile. Un mondo insensato che produce in chi lo osserva quegli effetti di malessere, di perdita, di delirio, che sono considerati essenziali per l'artista moderno.
Ma sempre di naturalismo si tratta. Applicato alla realtà percepibile dei sensi. Lo scrittore rinuncia ad intervenire sulla materia narrativa, rinuncia a dare una angolazione soggettiva delle cose. Si limita a restituire il disordine così com'è. Il suo lavoro consisterà nel mimare attraverso l'irregolarità verbale e sintattica l'irregolarità del reale.
Comunque devo ringraziare De Benedetti per avere abbozzato, sia pure nei tempi e negli spazi di un lavoro giornalistico, un giudizio critico sulla mia prosa. Di scritti sui miei libri c'챔 pochissimo e quel poco dimostra fretta, nessuna voglia di approfondire, svogliatezza e distrazione.Alle volte vengono da me delle ragazze che intendono fare delle tesi e rimangono sconcertate dalla scarsezza di materiale critico che riescono a trovare.
Purtroppo nella mia stessa condizione si trovano anche scrittrici pi첫 prestigiose di me, dalle pi첫 lontane alle pi첫 vicine nel tempo.
Per quanto si frughi nelle biblioteche, per quanto si cacci il naso nei libri, non si trova che roba smilza e di pochissimo interesse sui libri delle donne.
Sono passati alcuni mesi. Il libro oggi è in bozze. Mi trovo a rileggerlo, a ripensarlo. Ma sarà giusto questo titolo? Non risulterà troppo scherzoso? Sarà giusta la scelta che ho fatto dei pezzi? Sarà giusto mettere insieme testi del lontano '74 con scritti dell'85, '86?
Proprio l'altro giorno una ragazza a Palermo mi ha detto: 짬Hai letto l'intervista che ha dato Rossana Rossanda a "L'Espresso"? No, non l'avevo letta. 짬Leggila, 챔 bellissima... una donna che si mette in discussione, a sessant'anni, e con che coraggio!쨩
Ho comprato il giornale. Ho letto l'intervista. E ne sono rimasta colpita anch'io. La forza con cui Rossana si autocritica 챔 quasi insopportabile tanto 챔 violenta e dolorosa.
짬Che certezze pu챵 avere una rivoluzionaria senza rivoluzione, una comunista senza comunismo?쨩 dice Rossana e mi pare di udire la sua voce calma e piena, di una eleganza aristocratica che nessuna pratica proletaria ha potuto cancellare.
Abbiamo condotto insieme una serie di trasmissioni per RAI Tre qualche anno fa. Era la prima volta che Rossana si presentava a un pubblico quasi del tutto femminile, fra femministe giovani e meno giovani.
Eravamo vicine di settimana lei e io: un giorno toccava a lei e un giorno a me. Ci incontravamo negli studi della RAI a montare le interviste che andavamo facendo in giro fra le donne.
Credo che sia stata quella trasmissione ad avvicinare Rossana Rossanda al femminismo. Ed 챔 stato un incontro felice perch챕 lei 챔 entrata nel mondo della riflessione pubblica femminile col piede giusto, quello della ragione e dell'indignazione.
Oggi Rossana Rossanda fa l'autocritica sulla sua militanza politica. Sul femminismo non dice molto. Ha l'aria di mantenere un rapporto di lealtà e di affetto. Ma si potrebbe dire, parafrasando la sua dichiarazione: «Che certezze può avere una femminista senza femminismo?»
Qualcosa di simile mi viene in mente guardando le macerie che ci circondano: gruppi sventrati, luoghi abbandonati, amicizie perse, solidarietà frantumate, discorsi lasciati a mezzo.
E, come simbolo di questa disgregazione, il teatro della Maddalena a me caro, coi suoi pavimenti che si crepano e si gonfiano d'acqua, i suoi archivi vuoti, l'umidità che si mangia le pareti. I manifesti degli spettacoli? persi. Le fotografie delle scenografie? sparite. Le registrazioni? scomparse. Le lettere? non si sa. Un vuoto, una voragine, un buco nero in cui precipita il nostro passato con tutto quello che ci è costato in fatiche, esperimenti, dolori, scontri, invenzioni e veglie notturne.
Ma cos'è? la difficoltà a storicizzare tipica delle donne costrette da sempre a stare ai margini della storia? o si tratta di un rifiuto di collegare il passato col presente? di dare una ragione alle cose? di credere in quello che abbiamo fatto insieme?
Talmente brave nel recidere, dimenticare, distruggere, pestare da risultare pi첫 attive ed efficaci di quella vecchia amica con la falce e le vesti tutte nere.
La memoria delle donne non conserva, non tesaurizza. È prodiga di sé fino alla dispersione. Essa macina, raccoglie e poi sperde al vento.
Per memorizzare bisogna pur amare il proprio passato e quindi in qualche modo se stessi. Ma le donne preferiscono morire piuttosto che dimostrare della tenerezza e dell'indulgenza per se stesse. Conoscono il narcisismo, quello più chiuso, che porta all'annegamento per amore; ma non conoscono la stima del proprio pensiero con le sue ragioni e le sue necessità. La memoria femminile è ferita, mutilata. Preferisce non voltarsi indietro; teme come Lot di trasformarsi in una statua di sale.
Anche Rossana Rossanda sembra ferita nella sua memoria. E volge contro di s챕 la spada di una guerra che l'ha abbagliata e poi delusa. Con una bellissima faccia di veggente solitaria e fiera, si chiama 짬vecchia rompiscatole쨩, si paragona a una chioccia che rincorre pateticamente i suoi pulcini; 짬Ho lanciato troppi gemiti, troppi ululati쨩 dice, 짬ho praticato un maternage che nessuno mi chiedeva쨩. E si rimprovera di essere stata 짬disumana쨩, 짬rinsecchita쨩... 짬ho portato a spasso la mia coerenza come se fossi l'unica a possederla쨩.
Ci vuole coraggio a infierire contro se stesse con tanta crudezza. Ma 챔 proprio di questo tipo di coraggio che abbondano le donne. Sempre pronte a tagliarsi a pezzi con le proprie mani. Rossana Rossanda con questa presa di posizione dimostra di appartenere, per storia, pi첫 al mondo delle donne che a quello della politica tradizionale.
Mi viene in mente il racconto di quel cuore di madre che pur stando nelle mani insanguinate del figlio assassino, quando lui cade fuggendo dal suo cadavere dilaniato, subito gli chiede: 짬Ti sei fatto male?쨩.
Quanto di questo talento per l'autoflagellazione che ci deriva da una storia di flagelli subiti, è da conservare come un bene tutto femminile e quanto è da rifiutare come pericolosa tendenza all'annullamento di sé? Quanto fa parte di un insegnamento interessato e quanto si è trasformato in una virtù che vogliamo riconoscerci come nostra? Dobbiamo essere orgogliose di questa capacità a soffrire, a sacrificarci, ad autopunirci?
È più importante per le donne conoscere la sconfitta, anche se eroica, anche se gloriosa, delle sue martiri o conoscere il pensiero e il corpo vincente di qualche madre o qualche figlia che, nonostante la vocazione al sacrificio, non si è sacrificata?
Difficile rispondere. L'entusiasmo per la sincerità e la forza di una donna che ammiro mi fanno tentennare. In un mondo di gente che con arroganza difende i suoi errori, la voce nitida e crudele di Rossana Rossanda insegna a tutti qualcosa.
Ma allora perch챕 intignarsi? perch챕 non mollare, (parlo del teatro delle donne, dei gruppi, degli studi sul passato comune e dei momenti di incontro fra sole donne). Solo per puntiglio? o per la consapevolezza che lasciando andare le cose per il verso della corrente, lasciamo andare qualcosa di noi, del nostro comune passato?
Uno degli ultimi luoghi delle donne rimasti in piedi a dimostrare che? l'amore per se stesse? la fratellanza (sorellanza suona monacale)? la fiducia nei nuovi talenti? la solidarietà verso le altre?Ma si può resistere al logorarsi delle cose, degli ambienti, dei ricordi, delle esperienze? non è un peccato di presunzione? mentre tutto si disgrega, si trasforma, muore, tu vuoi sfidare il tempo con un gruppo di donne che si ostinano in questo piovere acqua inquinata e polvere, a ritrovarsi, a pararsi, a fare progetti?
È lecito andare contro corrente, contro la moda, contro le nuove esplosive realtà che ti entrano in gola come un vento impietoso e lacerante?
Forse non 챔 lecito, forse non 챔 normale. Eppure in questo lago di disaffezione, in questo affrettarsi di donne verso l'uscio di casa, in questo abbagliante uso di calze nere e reggicalze di pizzo, in questa riscoperta del matrimonio e dei fasti amorosi mi sembra necessario lasciare, come Pollicino, dei piccoli sassi bianchi che segnino la strada verso il ritrovamento di s챕.
Se mi guardo intorno vedo donne giovani che si infischiano di tutto e partono per l'avventura sopra un guscio di noce; vedo ragazze che mettono su baffi e barba e inforcano la moto come fossero dei nuovi centauri dai seni tagliati. Ecco, in questa ventata di nuove sicurezze mi pare che la mia ostinazione abbia qualcosa di demente. Con quelle scarpe da montanara, su quella strada di spine, verso quella porta che si aprirà sulla felicità femminile. Ma esiste davvero? e che sapore ha? che senso, che stabilità, che forza? Non è molto più gustoso il sapore dolce amaro e ben conosciuto della soggezione e dell'autodenigrazione? Ci siamo talmente abituate a esso che lo consideriamo un carattere innato, tutto nostro.
Le giovanissime soprattutto, oggi portano scarpette leggere e non amano sentire sul collo il fiato di un'altra donna che le incalza, le interroga, le inquieta. Non amano sguardi timidi e domande di solidarietà.
Hanno trovato la felicità del vestirsi come danzatrici orientali, con quel tanto di distacco in più che le fa ardite e sicure. Esse hanno l'illusione della parità che in effetti possono praticare nelle scuole e nelle prime esperienze d'amore.
I guai cominciano dopo, con l'ingresso nel mondo del lavoro e col matrimonio. Anche quando il marito 챔 dei pi첫 moderni, disposto a collaborare, rispettoso della loro indipendenza.
La discriminazione viene da lontano, ha radici profonde. Viene da una organizzazione pi첫 ampia in cui i sessi sono stati divisi in epoche remote, l'uno contro l'altro, l'uno a danno dell'altro. E non c'챔 barba al mondo che riesca a salvare le donne da un lavoro vissuto come destino: quello della casa, dei bambini, dei malati, degli invalidi eccetera. Dodici milioni di casalinghe ancora oggi in Italia, difficile dimenticarlo. Dodici milioni di donne che fanno un lavoro pesante, senza orari, senza stipendio, senza assicurazioni malattie, e soprattutto senza stima da parte di chi questo lavoro lo pretende e lo utilizza.
Ecco, cos챙 mi trovo qui, col mio carico di riflessioni maturate in quindici e pi첫 anni di pratica con le donne e mantengo quel minimo di amore per il passato che mi salva dal pestare queste riflessioni sotto i piedi chiamandole inutili o antiquate, ma anzi le difendo come il meglio che ho.
In tempi di Chernobyl e di AIDS voglio voler credere che abbia ancora un senso riflettere pubblicamente sui corpi logici e illogici delle mie compaesane di sesso.

Dacia Maraini
 
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Cercando Emma
Milano, Rizzoli 1993



Saggio su "Madame Bovary" di Flaubert 1993


leggi brano.....[…]

Ciò che, nel comportamento di Louise, indispone Flaubert è quell'ingenuità da neofita, quel fanatismo da provinciale dello spirito che mostra nel suo collezionare uomini famosi.
Eppure Louise, nel suo entusiasmo, aveva una buona percezione delle qualità degli uomini che ammirava. È stata una delle prime a parlare di «straordinario talento» a proposito degli scritti di Flaubert quando ancora non erano stati pubblicati. «E un grande artista» scrive il 15 gennaio 1852 in una delle pagine del suo frammentario e occasionale diario che lei chiamava mémentos. E questo, nonostante che Maxime Du Camp andasse da lei a parlare male del suo migliore amico.
Flaubert le ha fatto leggere dei frammenti delle Tentazioni di sant'Antonio. Lei li ha trovati 짬bellissimi쨩. Ma Maxime Du Camp, che lo stesso Flaubert le ha messo sulla strada perch챕 ne condividesse l'amicizia, le scrive che 짬l'opera di Gustave non vale niente쨩 e che sarebbe desolato se lui insistesse per farsi pubblicare sulla 짬Revue de Paris쨩 (che Maxime dirigeva assieme con Gautier) perch챕 non saprebbe cosa rispondergli.
«Eppure io lo amo» scrive Louise nel diario, «sono davvero sicura della superiorità di Maxime su Gustave? Per quanto riguarda l'intelletto mi sembra che Gustave sia superiore. Ma cosa sta succedendo? non ci capisco niente. Che influenza ha Maxime su Gustave? prima che Maxime andasse da lui a Croisset, Gustave mi scriveva delle lettere molto dolci. Sono in preda ai dubbi, che angoscia!» (18 novembre 1851)
E infine, dopo tante scortesie, tante «distrazioni» (Flaubert non si accorge della povertà in cui versa Louise, che non ha di che pagarsi le scarpe e non ha mai chiesto un soldo al suo amante), riflette a voce alta sul suo diario: «Gustave l'ho capito ormai, mi ama esclusivamente per lui, con profondo egoismo, per soddisfare i sensi e per leggermi le sue opere. Ma del mio piacere, della mia soddisfazione, gli importa ben poco». (24 dicembre 1851)
In effetti Flaubert era molto attratto dal corpo di Louise che aveva amato all'inizio con generosità, per poi tirarsi indietro, e dopo due anni di silenzio era tornato a cercarla e a farci l'amore, anche se con disdegno e insofferenza.
Ma qualcosa di molto forte, che l'aveva spinto verso di lei, per quanto poi abbia cercato di negarlo, c'era stato.
짬Com'era dolce la pelle del tuo corpo nudo (...) Tu sei veramente la sola donna che ho amato e ho avuto. Prima di te andavo a calmare su alcune i desideri suscitati da altre. Tu mi hai fatto contraddire il mio sistema,
il mio cuore, forse addirittura la mia stessa natura che, incompleta, cerca sempre l'incompleto.쨩 (6 o 7 agosto 1846)
짬Ti penso sempre쨩, le scrive 1'8-9 agosto del '46, l'anno del massimo slancio d'amore 짬sogno sempre la tua faccia, le tue spalle, il tuo collo bianco, il tuo sorriso, la tua voce appassionata, violenta e dolce insieme come un grido d'amore (...) Sei venuta tu e con la punta del dito hai smosso tutto. La vecchia feccia ha ribollito, il lago del mio cuore ha trasalito (...) Devo proprio amarti per dirti questo. Dimenticami se puoi, strappati l'anima con le due mani, camminaci sopra per cancellare l'impronta che vi ho lasciato. Su, non ti arrabbiare. No, ti bacio, ti faccio l'amore, sono pazzo. Se tu fossi qui ti morderei. Ne ho voglia. lo che sono schernito dalle donne per la mia freddezza, io che mi sono fatta la reputazione di non poterlo adoperare tanto poco lo adopero. (...) lo sar챵 il tuo desiderio, tu sarai il mio (...)
Oh com'era bella la tua testa tutta pallida e fremente sotto i miei baci. Com'ero freddo io! Ero occupato solo a guardarti. Ero sorpreso, incantato.
짬(...) Vado a rivedere le tue pantofole. Ah, loro non mi lasceranno mai. Credo che le amo quanto amo te (...) Profumano di verbena e di un odore di te che mi gonfia l'anima.쨩
Ma nello stesso tempo è preso dalla paura dell'intensità del sentimento cresciutogli in petto. «Vorrei non averti mai conosciuta», scrive il 6 o 7 agosto' 46, «(...) e tuttavia il pensiero di te mi attira senza sosta (...) Ogni sentimento che mi arriva nell'anima va in aceto come il vino che si mette nei vasi troppo usati (...) Sei tu che sei una bambina, sei tu fresca e nuova, e mi umilii con la grandezza del tuo amore.»
E cerca di spiegare la sua ritrosia, cerca di razionalizzare la sua paura: «Non ho mai visto un bambino senza pensare che sarebbe diventato vecchio, né una culla senza pensare ad una tomba, la contemplazione di una donna nuda mi fa pensare al suo scheletro (...) Se tu non mi amassi ne morirei, ma mi ami e sono qui apre. garti di smettere (...) Mi dici di scriverti tutti i giorni (...) Ebbene l'idea che tu vuoi una lettera ogni mattina mi impedirà di scriverla (...) Lasciati amare a modo mio, alla maniera del mio essere e con quella che tu chiami la mia originalità. Non mi obbligare a niente. Farò tutto. Comprendimi, non mi accusare.» (6-7 agosto 1846)
Senonché Louise, che non conosce mezze misure, non si accontenterà affatto di «lasciarsi amare». Ma lo amerà ferocemente, tirannicamente, tormentandolo con continue richieste di affetto, di fedeltà, che fIni. ranno per stancare il già poco paziente Gustave.
Di questa Louise amata e temuta da Flaubert Emma ha molte cose: la cieca impetuosità, l'ansia di vivere, una certa disinvoltura nell'amplesso: «Si spogliava brutalmente strappando il laccio sottile del corsetto che fischiava attorno ai suoi fianchi come una serre che sci. vola. Andava sulla punta dei piedi nudi a vedere se la porta era chiusa a chiave, poi, con un solo gesto, faceva cadere tutti insieme i vestiti e, pallida, seria, senza parlare, si abbatteva sul petto di lui con un lungo fremito».
A tutto questo si aggiungano i gusti letterari, molto simili nella loro ingenua mancanza di senso critico. Anche se Louise, che certamente era pi첫 addentro alle questioni letterarie, come si conviene ad una scrittrice, faceva letture pi첫 nobili di quelle di Emma.
Ma oltre al carattere, ci sono nel libro alcune coincidenze e somiglianze di fatti biografici che offesero a morte Louise quando il libro fu pubblicato. Soprattutto dopo che, nella seconda stagione del loro amore, lui le aveva tanto parlato del romanzo che stava scrivendo come se non avesse niente a che fare con lei, mentre evidentemente stava covando il 짬tradimento쨩, la spiava.
Prima di tutto il portasigarette d'argento e agata con la scritta 짬Amor nel cor쨩 che Louise aveva regalato a Gustave nei primi tempi del loro amore e che lui aveva accolto con grandi espressioni di gioia e rassicurazioni d'amore. Nel romanzo il portasigarette trasformato in medaglione, con la stessa scritta incisa sopra, viene regalato da Emma a Rodolphe ed 챔 presentato dall'autore come il regalo di pessimo gusto di una innamorata senza cervello.
Una risposta contenuta, conoscendo il carattere di Louise, 챔 questa poesia che pubblic챵 in 짬Le monde illustr챕쨩, nel gennaio del 1859: 짬La tabacchiera d argento, finemente cesellata, / aveva incisi in oro fiori e frutti /sulla pietra dura era stampata la frase" Amor nel cor",/ un verso toscano colmo di segreta emozione. / .Era per lui, per lui, che lei, am챵 come un Dio / per lui in sensibile ad ogni umano dolore, brutale con le donne. /Ahim챔, ella era povera e aveva poco da dare / ma Ogni regalo 챔 sacro se possiede un anima. / Bene! in un romanzo dallo stile d un commesso viaggiatore / nauseante come un tossico vento / egli sbeffeggi챵 il regalo con una frase piatta, / ma si tenne il bel sigillo di agata쨩.

[…]

E qui arriviamo al famoso episodio della carrozza che tanto ha scandalizzato i benpensanti di allora e che 챔 rimasta come un capolavoro dell'eros in letteratura.
Eppure anche questa famosa scena drammatica è vista con sarcasmo, senza nessun abbandono lirico. Già nel percorso a caso seguito dalla carrozza, perché Léon salendo ha semplicemente detto «andate dove volete», si può sentire la risata sardonica dell'autore. «La carrozza discese la rue Grand-Pont, attraversò piazza Des Arts, il quai Napoléon e il Pont Neuf, e si arrestò davanti alla statua di Pierre Corneille.»
Come non vedere in questo ipotetico tragitto uno sberleffo ai grandi miti del tempo: l'Arte, la Novità, Napoleone? Per fermarsi davanti alla statua del più riverito padre delle lettere francesi, Pierre Corneille?
짬Continuate!쨩 fa una voce dall'interno della carrozza non appena il vetturino accenna a fermare i cavalli. E il fiacre riprende il suo correre insensato. Ma, nell'obbedire, il vetturino prende troppe curve e allora si sente la stessa voce dall'interno che grida: 짬No, dritto!쨩.
Non ci viene descritto cosa facciano i due all'interno della carrozza ma lo possiamo immaginare. E capiamo che le curve infastidiscono il lungo abbracciarsi dei due, e che ogni arresto 챔 un tormento. Come quando si 챔 in treno e si cerca di dormire. Sono le fermate che ci svegliano, mentre lo scotimento monotono del vagone ci induce al sonno.
La carrozza deve sempre procedere di corsa perché i due possano congiungersi in qualche modo all'interno e noi ne seguiamo l'andamento sulla faccia del cocchiere che si fa sempre più perplessa e scocciata. Solo quando il cavallo trotta tranquillo su una linea diritta sembra che vada bene a quei due là dentro. A ogni fermata, a ogni curva si sente una mezza voce soffocata che ordina: «Marchez donc».
Cos챙 procedono per due buone ore finch챕 il cocchiere si ferma, stanco, demoralizzato, e quasi piangendo 짬per la sete, per la fatica e la tristezza쨩.
Il commento di Flaubert: 짬E andando al porto, in mezzo ai carri e ai barili e lungo le strade agli angoli vicino ai paracarri i borghesi spalancavano gli occhi davanti a questa cosa cos챙 straordinaria in provincia: una vettura a tendine chiuse che appariva e riappariva continuamente, pi첫 chiusa di una bara e sballottata come una navicella쨩.
Se fra i due c'챔 stato piacere, ritrovamento, gioia, possesso, carezze, amore, baci, certo noi ne abbiamo visto solo la parte pi첫 sgradevole e burlesca: quella 짬bara쨩 ambulante su cui i buoni borghesi di Rouen spalancano gli occhi stupiti.
Anche con Louise la prima passeggiata amorosa 챔 avvenuta in carrozza. Dopo l'incontro dallo scultore Pradier, che era intento a farle il ritratto: 짬Sai [come] ti rivedo sempre: nello studio, in piedi che posi, con il sole che ti illumina di lato e io che ti guardavo e anche tu mi guardavi쨩 (13 agosto 1846), Flaubert la invita a fare un giro al Bois de Boulogne in carrozza e lei accetta.
Solo che in quell'occasione c'era anche Henriette, la figlia bambina di Louise. E certamente non possono avere amoreggiato troppo apertamente. Anche se Henriette molto opportunamente 짬dormiva쨩. Flaubert ricorda: 짬Come dormiva Henriette sui cuscini! E il dolce movimento delle molle e le nostre mani e i nostri sguardi intrecciati. Vedevo i tuoi occhi brillare nella notte. Avevo il cuore tiepido e molle쨩. (26 agosto 1846)
C'챔 anche una seconda passeggiata in carrozza che si svolge in maniera molto simile a quella descritta nel libro e che viene ridicolizzata da Flaubert qualche anno dopo durante una famosa cena in casa dei fratelli Goncourt: 짬Gustave ci racconta una trombata con la Colet iniziata durante un riaccompagnamento in carrozza, proseguita recitando con lei la parte dell'uomo disgustato della vita, di tenebroso, di nostalgico del suicidio, ruolo che si divertiva a fingere e che lo esilarava al punto da fargli cacciare il naso di tanto in tanto al finestrino per ridere di nascosto쨩. (6 dicembre 1862)

[…]

Dacia Maraini - Da "Cercando Emma"
 
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view post Posted on 19/5/2009, 22:10

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Un clandestino a bordo
Milano, Rizzoli 1996



Saggio sulla maternit찼


leggi brano....Un clandestino a bordo
Caro Enzo, *
non ti nascondo che in questo momento Joseph Conrad e le sue navi hanno preso possesso della mia immaginazione e trovo poco spazio per pensare ad uno scritto sull'aborto, come mi hai chiesto.
Sono mesi che rimando questo progetto di un saggio introduttivo alla mia traduzione del breve romanzo (o racconto lungo) di Conrad che si chiama The secret sharer e che uscirà da Rizzoli in primavera.
Ieri notte, dopo avere spento la luce perché ho deciso che «dovevo pur dormire», ho pensato a lungo alla scelta che abbiamo fatto di abbinare la parola «paternità» alla parola «aborto». Erano le tre e avevo gli occhi spalancati nel buio. II sonno, come succede delle volte, era andato a rintanarsi da qualche parte, lontano, chissà dove, come fa il mio gatto che di notte esce a caccia e non riesco a farlo rientrare. Salvo poi sentirlo miagolare dietro la porta verso le quattro di mattina.
Non ti nascondo che la parola «paternità» mi e sembrata più allettante di «aborto». Ho già scritto tanto sull'aborto, in forma di articoli, di cronache, di osservazioni storiche, di costume. Cosa potrei dire ancora?
Ho cercato di portare alla mente qualche immagine. Subito mi sono vista in convalescenza, nel giardino di mia suocera sul lago di Garda, dopo aver perso un figlio al settimo mese. Ero pallida,gonfia e svuotata. Avevo avuto la tentazione di andarmene col bambino non nato che si aggrappava cocciutamente a me senza volermi lasciare, anche se era già morto, come giudiziosamente asserivano i dottori.
Quindi l'aborto pu챵 essere attivo e passivo. Si pu챵 volere la liberazione del proprio ventre da un intruso e si pu챵 volere che l'intruso rimanga, disperatamente rimanga con noi.
E a quel punto, improvvisamente ho scoperto che stavo pensando al bambino non nato come al clandestino della nave di Conrad che viene accolto daI capitano nel suo battello.
N on ci viene detto come si chiami questo battello, n챕 come si chiami il suo capitano. Ci viene detto che si tratta di un bel battello dalle vele bianche, lo scafo profondo e bruno.
In una notte quieta e pacifica un giovane capitano in pigiama si trova sul ponte della sua nave. II mare e in bonaccia, il cielo e nero, seminato di stelle; e il capitano, preso da un improvviso desiderio di restare solo, impartisce un ordine che e contrario a tutte le tradizioni marinare: manda i suoi uomini a dormire dicendo che starà lui al timone.
E come se aspettasse qualcosa, un evento straordinario. Ma cosa? II capitano non lo sa, e si affida con i sensi distesi alla tenerezza misteriosa della notte.
Non e così che si sente una donna quando il suo corpo e quieto, pronto ad accogliere lo straordinario ospite che le cambierà la vita? Nella notte della mia insonnia mi sono salite a galla nella memoria alcune immagini di Annunciazione. Una giovane donna daI capo coperto, il manto azzurro che fa le pieghe attorno alle ginocchia, un libro di preghiere, una mano alzata. Accanto a lei un angelo elegante, dalle ali blu e rosse, l'occhio di Dio in un angolo, delle colombe sugli archi della veranda. Si tratta di un quadro di Carpaccio che mi e sempre piaciuto per quel tanto di casto e leggero, di profano e delicato che esprime. Poca religiosità si direbbe, ma un sentimento dolce e misterioso della maternità; il sentimento dell' attesa felice.
Intanto, sulla nave di Conrad il grande silenzio dell'attesa viene rotto da un leggero fruscio di acque smosse. 11 capitano si sporge sul parapetto e scopre qualcosa che si muove nell'acqua: qualcosa di guizzante e luminoso: un pesce? Guardando meglio scoprirà che si tratta di un corpo umano: un corpo nudo ed esposto, che emana strani bagliori verdastri quasi fosse un essere marino venuto su dalle profondità delle acque.
Una sensazione molto simile la provano le donne quando vengono a sapere che un corpo diverso dal loro si sta formando nel liquido nutriente del loro ventre. Si affacciano sul bordo della nave cercando di capire com'챔 fatto l'intruso, sono curiose e si chiedono chi sia quell'ospite che viene a interrompere l'armonia dell'attesa, quella perfetta comunione con le cose intorno.
L'uomo nudo nell'acqua marina alza la testa e chiede al capitano se sa l' ora. Per la sorpresa di quell'incontro inaspettato il sigaro che stava fra le labbra del capitano cade in mezzo alle onde con un piccolo tonfo e uno sfrigolio di brace che si spegne. «Il capitano dov'è?», gli chiede il naufrago, «Il capitano sono io», risponde lui. E si guardano stupiti l'uno dell'altro. Poco dopo il naufrago si deciderà a salire sui pioli della scala di corda che porta al ponte. Così il capitano si troverà davanti un giovane uomo nudo che nella luce della luna gli apparirà improvvisamente molto simile a se stesso. «Era come se nella notte mi fossi trovato di fronte alla mia stessa immagine riflessa nella profondità di uno specchio scuro e immenso», scrive l' autore che parIa in prima persona e fa tutt'uno col capitano.
Ecco, l'angelo ha dato l'annuncio alla giovane madre: il clandestino a bordo del suo corpo è stato rivelato. Di qualsiasi corpo si tratti, persino deforme, porterà su di sé i segni del volere divino, poiché ogni ospite è inviato da Dio anche se sceglie, nella sua misteriosa volontà, di abitare per nove mesi un luogo buio e silenzioso, immerso nell' acqua come un pesce.
Il clandestino 챔 salito sul battello. Il capitano, per coprirlo, gli consegna un suo pigiama a righe grigie, identico a quello che indossa lui quella sera.
C'è in questo gesto già un adeguare l'altro a sé, accentuandone le somiglianze, rendendolo indistinguibile. Il clandestino è un altro, ma porta le impronte del carattere di chi lo ha salvato, e quindi è una parte di lui, una parte delicata, sconosciuta. Che verrà protetta con tenacia e tenerezza selvaggia come si proteggono e si curano le parti più fragili del proprio corpo.
Il capitano nasconde il naufrago nella sua cabina. Nessuno deve sapere che è sulla nave. Il segreto sigillerà il loro rapporto di complicità affettuosa.
La mattina li troviamo chini sullo stesso minuscolo tavolo, a consultare le carte, oppure stesi sullo stesso lettuccio, con le teste cos챙 simili, accostate, a bisbigliare fittamente. Sono l'uno la proiezione dell'altro, l'uno il doppio dell'altro.
Ma l'idea della duplicità non e meccanica. Non si tratta solo di un caso, ma di una scelta. L' altro, infatti, ha una sua storia che non e solo diversa, ma addirittura opposta a quella del capitano. Il naufrago racconterà di avere ucciso, sebbene contro voglia, sebbene nella furia di una tempesta, un suo compagno marinaio. Perciò e un assassino.
A questo punto potremmo dire che le strade del confronto si diramano veramente: cosa c'entra l'assassinio con il nuovo inquilino nel ventre di una donna?
E invece le affinità possono continuare, se stiamo al gioco delle metafore. Una donna gravida, che sa di esserlo, che ha accolto con qualche trepidazione il clandestino a bordo della sua nave-ventre-corpo, soffre di dubbi e incertezze: come si svilupperà questo corpo estraneo che porto in petto? che destino avrà? come condizionerà la mia vita? A volte la futura madre può anche avere delle tentazioni di rivolta, di rifiuto: chi e questo intruso che vuole accampare diritti sul mio ventre? chi è questo prepotente che pretende di vivere a spese delle mie energie, del mio sangue, del mio ossigeno?
Può anche accadere che desideri di ucciderlo questo figlio, perché non sopporta la sua arroganza, le sue pretese, il suo cieco egoismo. La maternità in natura non e solo fatta di abnegazione e generosità; anche la ferocia può albergare nel cuore di una prossima madre, contro ciò che le sta sconvolgendo la vita.
Mi e venuta in mente, sempre in quel tepore del dormiveglia, la favola del figlio che uccide la madre, le strappa il cuore dal petto per rabbia e se lo mette in tasca. Poi fugge, dopo avere gettato via il coltello. Ma mentre corre, il suo piede incontra una radice e lui cade. il cuore materno gli esce dalla tasca, rotola per terra e si sente una voce femminile che dice: 짬Ti sei fatto male, figlio mio?쨩.
La generosità più sublime può accompagnarsi al più rivoltante egoismo e non e detto che la prima sia più importante del secondo nell'economia della riproduzione.
Intanto, sulla nave di Conrad il capitano si inventa l'impossibile per mantenere segreto il suo clandestino. Con lui chiacchiera di notte, a voce bassissima per non farsi sentire dai suoi marinai.
Con lui stabilisce un rapporto intenso di conoscenza, di comprensione, di indulgenza, di tenerezza. Proprio come fa una madre con il proprio figlio. Il quale potrebbe anche diventare un assassino. E un poco lo e già perché ogni figlio uccide la propria madre, anche se non col coltello, nel proprio cuore, quando avrà bisogno di crescere e farsi spazio. E più la madre e amorosa, sollecita e sacrificale, più il figlio avrà la tentazione di ucciderla, con grandissimo amore.
Ma il segreto, perché? potremmo chiederci. Il segreto spesso segna l'intensità del sentimento. Per questo il rapporto più profondo e intenso che una madre instaura col proprio bambino non ancora nato rimane un segreto dei suoi sensi, anche quando la pancia si fa evidente. Il segreto resta segreto, anche dopo la nascita del figlio. Si tratta del segreto di un legame fatto di una conoscenza carnale profonda, non dicibile, che precede la ragione.
Anche nel bellissimo racconto di Conrad la familiarità fra i due sembra precedere l'incontro, sembra venire da chissà quali lontananze corporee. Il racconto si conclude con la liberazione, rischiosa, del naufrago. Il capitano porterà la nave vicino alla riva col pericolo di sfracellarla contro le rocce per evitare che il suo doppio possa affogare prima di toccare terra. E solo all'ultimo momento, prima che la nave venga stritolata dalle rocce nere di una notte nerissima, darà l' ordine tanto atteso di virare e la nave se ne andrà al largo, salva.
Sembra proprio la descrizione del parto: bisogna liberare il bambino senza distruggere la madre, l'operazione e rischiosa e non sempre riesce. Ogni donna lo sa e lo teme. Ma farà di tutto perché il figlio raggiunga terra, a costo di andare a sbattere con il suo corpo contro gli scogli dell'emorragia o della setticemia.
Ma se il capitano della nave non lo avesse voluto quel clandestino a bordo? Se, quando si e affacciato al parapetto del battello ed ha scorto il corpo lustro e nudo, lo avesse rifiutato?
Ecco che la parola aborto e diventata pesante sulla mia lingua in quel dormiveglia silenzioso. Cosa può succedere che impedisca al capitano di pescare daI mare il suo doppio? sarà la paura di riconoscersi in quel corpo nudo e bisognoso di cure? o l'orrore di vedersi replicato in un altro, come dentro «uno specchio scuro e immenso»?
Spesso le donne accampano ragioni molto più pratiche e sensate. Ricordo che facendo un documentario, ai tempi eroici delle battaglie per la legge sull'aborto, ho incontrato donne dei quartieri poveri che praticavano l'aborto in modo disperato e casalingo, introducendosi un tubicino di gomma nell'utero e poi, una volta provocata l'emorragia, andando all'ospedale a farsi fare il raschiamento. Un aborto dolorosissimo a cui ricorrevano periodicamente, appena saputo che il figlio «aveva attaccato». Molte di loro decidevano così perché avevano già tre o quattro figli e sapevano di non poterne mantenere un altro.
Alle mie domande sul perché non avessero preso precauzioni, mi rispondevano, quasi tutte, che il marito non voleva che adoperassero la pillola, che il prete glielo proibiva. Era considerato «da puttane». La libertà di decidere del proprio corpo faceva paura ai mariti, ai fidanzati, ai padri.
Eppure ho conosciuto altre donne, n챕 povere, n챕 accusate di puttaneria, che evitavano accuratamente di prendere precauzioni. Si calcola che in Italia le donne che usano regolarmente gli anticoncezionali si ano solo il dodici per cento. E le altre?
Certo, bisogna tenere conto delle millenarie proibizioni della Chiesa che e sempre stata drasticamente contraria ad ogni forma di contraccezione. Ma possibile che l'insegnamento della Chiesa, tenuto in così poco conto per quanto riguarda la sessualità in generale, possa essere tanto determinante nella scelta della contraccezione?
A volte mi sono chiesta se rimanere incinta non sia per una donna un modo per provare a se stessa di essere dotata di un potere forte, il solo di cui siano state storicamente dotate le donne: si tratta di un potere che ha perso la sua vera essenza, ma che rimane nell'ombra come il mito di una forza recondita e vitale.
La maternità, nella cultura dei padri, e stata trasformata in un evento di estrema passività per le donne. Nel dormiveglia mi viene in mente un altro quadro: una maternità di Cosmé Tura: una donna grassoccia e il suo bambino bitorzoluto. Ma che grazia e che eleganza in quegli sguardi pieni di sensualità familiare! Lì, come in quasi tutte le maternità che conosciamo, vengono decantati il silenzio, l' accettazione, la ricettività, l' obbedienza, la rassegnazione materna. Le madri sono quasi sempre sole e non si esclude che alcuni di quei figli siano figli di uno stupro consumato fra le pareti domestiche o nel letto matrimoniale.
Di quante immagini di maternità e dotata la nostra memoria figurativa, quante madri bambine dal volto severo e gentile, quanti bambini cicciuti, pensierosi, pesanti e dolci. Siamo tanto saturi di immagini che non riusciamo più a separare la maternità dalla estrema giovinezza e dalla estrema passività femminile. Una madre cinquantenne ci fa orrore. Ma non, come si suol dire, perché prevediamo che il bambino rimarrà presto orfano e ci preoccupiamo per lui. Questa e pura ipocrisia. E l'immagine della madre con le rughe che ci ripugna, ma esteticamente, non moralmente. La prova sta nel fatto che di tanti bambini figli di uomini settantenni nessuno si preoccupa, anzi vengono visti con ammirazione e tenerezza, tale e l' abitudine storica all' accettazione della differenza.
Quindi la maternità tradizionalmente accettata e quella legata al corpo giovanissimo di una madre ignara e sorpresa, silenziosa e arresa al volere altrui. Questa e l'idea di madre che ci viene riproposta, anche distrattamente, anche sciattamente, da tutti i quadri, le fotografie, le statue che ci troviamo intorno da quando impariamo a guardarci intorno.
E curioso, caro Enzo, come vedi, che non riesca a parlare dell'aborto ma continui a girare intorno alle immagini della maternità. Sarà perché per me l'aborto e stato soprattutto un esproprio, qualcosa di non voluto e non aspettato che ha spezzato in me una attesa felice, che non si e mai conclusa con un incontro, l'incontro con l'altro da me. li clandestino a bordo della mia nave e scomparso prematuramente nel buio della notte senza lasciare una traccia, un nome, un ricordo.
Oppure sarà perché in realtà non si può parlare di aborto senza parlare di maternità. Sono legati l'uno all'altra come due gemelli siamesi: l'uno la faccia al sole, l'altra la faccia all'ombra dello stesso astro rotolante nell'universo femminile.
Mi sono chiesta tante volte se in un mondo costruito a misura di donna l'aborto esisterebbe affatto. Probabilmente no, perché l'aborto, sconosciuto fra gli animali, e un prodotto storico, la conseguenza dell'appropriazione da parte dei padri, della capacità di riprodursi, codificata attraverso la costruzione di miti, di norme etiche, di abitudini mentali.
L 'infanticidio esiste in natura, questo SI. I gatti, i cani, e molti altri mammiferi, uccidono i loro piccoli quando sanno di non poterli nutrire. Ma gli animali non conoscono i metodi anticoncezionali; gli esseri umani, SI. Anche se spesso, troppo spesso, non li usano. Perch챕?
Qui entriamo nella dolorosa questione dei rapporti che le donne hanno sempre intrattenuto con chi si e inventato controllore e guida del loro corpo, delle loro teste. Ho visto, nel mio dormiveglia, una sfilata in puro stile felliniano, di uomini di Chiesa daI passo elegante con mitrie d'oro sul capo, anelli luccicanti alle dita, intenti a impartire lezioni di comportamento alle ragazze nelle chiese, nelle scuole. Ho visto uomini di scienza vestiti di nero, gli occhi lucenti di certezze, intenti a spiegare cosa sia una donna rispetto alla scienza e alla natura; ho visto medici daI naso lungo, le mani bianche e ossute pronte a frugare dentro corpi vivi di donna come fossero cadaveri da dissezionare; ho visto gentiluomini in cappotti foderati di pelliccia intenti a insegnare la morale nelle case ombrose di ricchi commercianti; ho visto professori dalle teste chine sui libri in cui si scriveva la storia delle donne; ho visto amorosi padri di famiglia intenti a stabilire cosa fosse bene e cosa male per le loro figlie bambine.
Verrebbe da chiedersi: ma come si regolano quelle popolazioni che non conoscono le istituzioni religiose, filosofiche e morali che costituiscono l'ossatura della nostra civiltà? cosa succede in quei Paesi africani per esempio in cui gli dei sono tanti e sparsi per i boschi? cosa fanno le donne abortiscono oppure no?
In quelle poche popolazioni africane animiste che ho avuto modo di conoscere, e che non erano molto diverse da tante altre popolazioni sparse per il continente, le donne non abortivano, ma facevano figli, tutti quelli che venivano. I figli portavano onore, portavano grazia, portavano ricchezza, portavano potenza anche alla donna. Quindi era impossibile anche solo pensare di abortire. Fra l'altro, l'aborto per loro e naturale ed endemico: una donna e abituata, durante la sua vita fertile, a perdere un figlio su due, sia prima della nascita che dopo.
La donna senza figli e vista con orrore e con biasimo, tenuta separata dalla comunità e usata come serva per le più fortunate. La capacità di concepire e partorire e così importante che una vergine non e considerata un valore per il matrimonio perché non ha ancora dato prova di sé daI punto di vista della riproduzione; mentre una madre di più figli, una volta rimasta vedova, o separata daI marito, e molto ricercata perché dà garanzie sicure di maternità ripetute.
Tutto questo, si capisce, capita presso popolazioni povere che spesso perdono la metà delle loro creature, per cui hanno bisogno di fare tanti figli per salvarne qualcuno. Il loro futuro, messo a dura prova tutti i giorni, dipende daI numero dei figli; e nessuna penserebbe di rinunciarvi.
Il desiderio di aborto comincia 11 dove comincia il benessere, dove la mortalità infantile e ridotta al minimo, dove le donne sono chiamate a decidere drammaticamente fra la dimostrazione distorta del proprio fantasmatico potere riproduttivo e l'adeguamento alle regole del mercato del lavoro.
D'altronde, l'aborto fatto nelle prime settimane e certamente un progresso rispetto all'infanticidio, comune in molti Paesi poveri, di fronte alle nascite non desiderate, sia che si tratti di bambine anzich챕 di maschi, o di storpi o di impediti.
E nondimeno curioso che proprio nei Paesi avanzati, in cui le donne avrebbero i mezzi per limitare a priori le nasci te, Paesi in cui il progresso scientifico ha messo a disposizione delle donne tanti sistemi di controllo delle nascite, proprio l챙 l'aborto e pi첫 praticato. Dobbiamo pensare che il tab첫 religioso agisca come interdizione profonda nonostante l'apparente processo di emancipazione femminile?
Perch챕 non prevenire quello che poi diventa un dolore, un rischio, una causa di depressione e sensi di colpa?
Ma qui ci troviamo di fronte al nodo della contraddizione storica e culturale, nella stretta del quale spesso le donne vengono stritolate. Da una parte il peso di un insegnamento capillare e profondo che e diventato quasi una seconda natura femminile, dall' altra un sentimento vago e incerto del potere che una volta era legato alloro corpo riproduttivo.
In qualche piega sotterranea, in qualche zona pi첫 oscura e difficile da raggiungere con la luce della ragione, un ricordo dell'antico potere solitario e trionfante forse si acquatta silenzioso.
L' aborto sembra essere il luogo maledetto dell'impotenza storica femminile. L챙 dove si rappresenta la perdita ripetuta del controllo sulla riproduzione della specie. L' aborto e dolore e impotenza fatta azione. E l'autoconsacrazione di una sconfitta. Una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro se stesse e il figlio che si e concepito.
L' aborto e un segnale di malessere e di guerra con se stesse per le donne che lo praticano. Un segnale di guasto nel delicato rapporto che lega una madre ad un figlio. L' aborto e la divinizzazione del nulla dopo avere praticato l'imitazione fasulla di un potere perduto nel difficile cammino femminile in un mondo maschile che nega alle donne autonomia e rispetto.
Nell'inimicizia di s챕 che accompagna la sorte delle donne, l'aborto sembra il bisticcio ineluttabile di una contraddizione senza scampo. Le donne, pi첫 sono bistrattate, disprezzate, tenute ai margini e pi첫 sentono il bisogno di provare, in modo tortuoso, disperatamente masochistico e rischioso, quel potere che la storia dei padri ha cancellato dalla loro vita.
Una cosa che mi ha colpita leggendo le cronache del fascismo, rifacendo le bucce alla storia italiana del ventennio, e stata la risposta delle donne alla politica demografica mussoliniana. Nessuno ne ha parlato, nessuno lo sa: ma alla politica demografica voluta personalmente da Mussolini, e che si e espressa con l'emanazione ripetuta di leggi straordinarie, tabù, condanne pubbliche, reprimende e premi, le donne hanno risposto: picche! Nonostante la grande spesa, il magnifico sforzo per diffondere capillarmente una politica demografica che avesse effetto su tutta la nazione, il risultato e stato nullo. Le donne, pur amando il duce, pur vagheggiandolo come possibile meraviglioso amante, hanno detto no alla riproduzione forzata e cieca. Le statistiche ci dicono che durante il fascismo la curva di natalità non ha fatto che scendere, contraddicendo tutte le ottimistiche previsioni del duce. II che sta a significare che le donne praticano una loro forma sotterranea di resistenza che non e facile da vincere.
L 'aborto, sotto il fascismo, e stata un'arma segreta, naturalmente a doppio taglio, con cui le donne si sono difese dall'intervento dello Stato sul loro ventre. Ma l'aborto, come quello filmato da me nei quartieri disperati della cintura romana, l'aborto che le donne si praticavano da sole, con dolori atroci e rischi gravi pu챵 essere considerato una strategia vincente seppure di resistenza? E come se vedessimo un soldato che va alla guerra tenendo in mano una spada affilata anche sull'elsa che perfora la mano di chi la impugna. Con questa arma disperata e autolesiva le donne hanno, in modo distorto, infelice e pericoloso, resistito al volere altrui.
La prevenzione, d'altronde, e una conquista difficile che presuppone consapevolezza e maturità. Chi non ha questa consapevolezza si lascia tentare dalIa straziante «prova» della gravidanza. Per goderne in segreto come di una forza selvaggia che sprigiona daI proprio corpo e di cui ci si sente padroni: per poi intervenire subito dopo drasticamente a cancellare il frutto di questa prova.
È una contraddizione brutale che rivela, se ce ne fosse ancora bisogno, la difficile storia del corpo femminile stretto fra tabù e restrizioni, richieste continue di abnegazioni, sacrifici e nello stesso tempo spinto all'emancipazione.
Nel dormiveglia del mio letto estivo, fra stracci di sogni che stentano a prendere forma, ho visto improvvisamente l'immagine della mia cagnolina bianca e nera che partoriva, senza dolore, con un cieco e dolce abbandono, i sei cuccioli che appena nati venivano da lei puliti con la lingua, amorosamente e pazientemente, per ore.
Avevo preparato in terrazza, dentro lo stanzino delle scope sgombrato per l'occasione, una cuccia molto comoda fatta di teli larghi e cuscini lavabili. Ma alla giovane mamma non piaceva quella cuccia: era troppo lontana dalla mia camera da letto dove era solita dormire, sotto il tavolo che mi fa da comodino e da libreria.
Ci sono sempre una trentina di libri in bilico sul ripiano di legno, e lei ama dormire sotto questo tavolo coperto di carta, fra le quattro colonnine che chiudono lo spazio come una veranda fresca e appartata.
A vendo io portato i sei cuccioli uggiolanti sul giaciglio in terrazza, ho visto la madre andare con passo delicato e sicuro verso di loro, prenderli ad uno ad uno con la bocca e portarseli sotto il mio comodino. Ho provato a rimetterli al loro posto cercando di spiegarle che sul terrazzo sarebbe stata meglio, pi첫 fresca e comoda. Ma lei, dopo avere scodinzolato dolcemente come per dirmi che aveva capito, che apprezzava i miei sforzi per prepararle una bella cuccia per lei e i suoi figli, li ha ripresi in bocca, uno per uno, e ha fatto in senso inverso per sei volte il tragitto che separa la terrazza dalla mia camera da letto.
A questo punto mi sono rassegnata e per quasi due mesi ho dovuto dormire con i cuccioli urlanti sotto il naso mentre la mamma, beata, cercava di distribuire il suo latte a tutti e sei i figli senza fare ingiustizie.
Mi chiedevo disperata come avrei fatto per sistemare quei cuccioli che correvano ormai per tutta la casa pisciando e cacando dappertutto. Ho trovato per fortuna delle persone gentili che si sono prese un cane a testa, ma e stata una fatica che non potr챵 compiere un' altra volta. CoSI ho deciso di farla sterilizzare. Quel proliferare di cagnolini che nessuno vuole e che io mi rifiuto di uccidere o di abbandonare, mi metteva nel panico.
L 'ho portata dal medico che le ha legato le tube. Ma riaccompagnandola a casa, febbricitante, con i cerotti sulla pancia, ho provato rimorso. Non era il mio un comportamento di impazienza crudele? Visto che la prevenzione con i cani non e possibile, l'ho fatta castrare. Adeguandomi così alla mentalità umana dell'intervento drastico, decisivo. La nostra capacità di razionalizzare l'irrazionale non e il sintoma di una stupida volontà di onnipotenza?
Ma cosa c'entra tutto questo, mi dirai, caro Enzo, cosa c'entra con quello di cui stavamo discutendo a proposito dell'aborto? Eppure, ti dico, c' entra, perch챕 quello che io ho fatto con la mia cagnolina e stato fatto e si fa con migliaia di donne in India e in America Latina.
Tutti troviamo bello il parto annunciato, voluto; troviamo giusta l'idea della sacralità del figlio. Ma la proliferazione selvaggia e altrettanto pericolosa per la specie della sterilità, naturale o indotta che sia. Ciascuno tira la coperta dalla sua parte: in Italia si cerca di incoraggiare le donne a partorire più figli paventando una spopolazione del nostro Paese, in Cina si costringono le donne a prendere gli anticoncezionali per non sovrappopolare il Paese. Ma chi deve intervenire per stabilire la modalità della riproduzione?
Le Chiese, gli Stati, i poteri costituiti hanno sempre reclamato a s챕 la regolamentazione del corpo sessuato: come e quando accoppiarsi, come e quando figliare. li controllo della riproduzione e la pi첫 antica preoccupazione di ogni legislatore.
Io ho agito con arroganza sulla mia cagnolina, decidendo della sua libertà di riproduzione. Anche se, dal punto di vista umano e cittadino, ho la ragione dalla mia e qualsiasi persona sensata direbbe che ho fatto bene. Inoltre, e probabile che il rapporto complicato, di affetto e di protezione che si stabilisce col proprio cane, comparti anche la presa di responsabilità sul suo potere riproduttivo. Ma comunque certamente ho anteposto il mio interesse al suo.
Continua....
 
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view post Posted on 20/5/2009, 21:10

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Eppure, mi dico, mentre il sonno si fa strada nella mia mente affaticata mettendo a tacere quel chiacchiericcio mentale che Blanchot chiama «bocca d'ombra»: così come io considero naturale che il mio interesse prevarichi su quello del cane, non è stato considerato naturale per secoli che l'interesse della comunità dei padri prevaricasse gli interessi delle figlie?
Forse sono già scivolata con un occhio nel sonno vero e proprio. Anche se l'altro e rimasto aperto e ha voglia ancora di curiosare. Con questo occhio un poco appannato vedo un uomo dolcissimo dalle grandi ali sul dorso. Lo riconosco, è mio padre; ma da quando e diventato un angelo? Sento che nel sonno ridacchio. Ho riconosciuto la grande maschera del mio amato genitore. Che pure se ne infischia delle questioni della riproduzione. Il suo cruccio si e espresso anni fa quando ha capito che non riusciva a cavare dalla pancia di sua moglie un figlio maschio. Ma ora credo che si sia acquietato.
Con che delizioso sussiego un padre si prende a prototipo universale della dignità umana, modello e imitazione del corpo di Dio! Eppure la metamorfosi non e avvenuta con tanta facilità: il passaggio, dicevo, dalla cultura delle madri a quella dei padri. Ci sono voluti secoli, forse millenni di bisticci e tirannie, astuzie e inganni, c'è voluto Eschilo che, avendo attraversato la conoscenza dei misteri Eleusini, ci ha raccontato la più crudele delle storie di famiglia. Ci ha raccontato che Oreste, perseguitato dalle Furie per avere ucciso la madre, considerato imperdonabile sacrilegio nelle società antiche, ha chiesto il giudizio del tribunale degli dei. Un tribunale tutto di dei, fra cui l'unica donna era Atena, che essendo nata dalla testa di Zeus, non conosceva il ventre materno. L' argomento di difesa che Apollo userà di fronte al tribunale è dei più nuovi e mai sentiti: Oreste non è da condannare, dice il giovane dio, perché non ha colpito il sacro principio della vita, ma ha solo infranto un vaso che conteneva il seme maschile.
La madre quindi non è più all' origine della vita, ma è solo un contenitore di vita altrui. E il padre che concepisce, che dà il soffio dell'energia vitale. La madre non farà che custodire e nutrire il figlio per conto terzi, fino alla nascita. D' altronde la Bibbia non racconta qualcosa di simile? non stabilisce che è la donna che nasce daI corpo dell'uomo e non viceversa?
Le Furie, creature della notte, abituate a venerare e difendere il potere materno, piansero quella notte una sconfitta che si è protratta nei millenni come una maledizione sulla testa delle donne. Era stata annullata, per bocca di nuove e democratiche divinità, la sacralità della madre. Era stato stabilito che il corpo materno era fatto della stessa materia di cui sono fatti i piatti in cucina, e gli orci nella dispensa. Ma che non piangessero tanto le Furie, avrebbero portato disgrazia: per il «bene comune» ritrovassero il sorriso e, soprattutto, cambiassero nome. Così le Furie sono diventate le Eumenidi, benedicenti mestamente i nuovi diritti dei padri.
Come pensare che tutto questo non abbia pesato sulle legislazioni, sui codici, sui costumi, sulle filosofie, sulle morali che si sono susseguite nella storia? Non abbiamo imparato tutte, da bambine, che siamo prima di tutto figlie dei padri?
Il mio occhio ancora desto si sofferma su una tenera immagine letteraria: una donna già adulta, tutta vestita di bianco, seduta sulle ginocchia del padre anziano che le stringe le mani, gliele bacia dolcissimamente.
Ti ricordi, caro Enzo, della marchesa von O.? Avevo letto il breve romanzo di Kleist anni fa trovandolo bello, ma niente di pi첫. L 'ho riletto con occhi pi첫 maturi e attenti; ho scoperto un apologo travolgente sul rapporto padre-figlia. Quello che salta fuori come essenziale dal racconto non e la connessione, pur commovente e coraggiosa, fra violenza e amore, non 챔 neanche lo scontro fra passioni e doveri. Il carattere coraggioso della giovane marchesa che cerca il padre del bambino concepito nello stupro 챔 s챙 in primo piano, ma ci챵 che veramente si rivela come fulcro del racconto e il rapporto, che oggi chiameremmo incestuoso, fra il padre tirannico e la figlia integerrima.
Il marchese non tollera che la figlia mantenga un segreto 짬materno쨩. Il fatto e che la giovane donna non conosce l'origine del clandestino a bordo della sua nave. Non sa chi sia stato a violentarla e a lasciarla incinta. Ma il signor marchese non le crede, perch챕 la fiducia nei riguardi della figlia e inficiata dalla gelosia, una gelosia paterna cieca e intollerante quanto disperata ed egoista.
A tal punto egoista che quando saprà della maternità della figlia, la caccerà brutalmente di casa con il bambino in braccio. Poi, dopo molte peripezie si scoprirà che l'uomo che ha violentato la marchesina e anche colui che l'ha salvata dalla furia dei soldati nemici. Come conciliare la gratitudine con la ripugnanza e il rancore? Il salvatore si guarderà bene daI confessare la sua doppia identità e cercherà di farsi amare nel suo aspetto migliore. In puro stile militaresco cercherà di pagare il suo debito, e così cancellare il «suo disonore» sposando la donna che ha salvata e violentata.
Infine, la verità verrà pure fuori, ma ormai il male e stato ripagato con l'unico rimedio possibile: il matrimonio. E il signor marchese è pronto a perdonare la figlia.
A questo punto Kleist ci mostra una scena a dir poco sbalorditiva: il padre si chiude in camera con la figlia, la fa accomodare sulle sue ginocchia, pretendendo che la madre resti fuori della porta, e prende a carezzarla lascivamente, alternando gli abbracci ai baci sulla bocca.
Naturalmente Kleist finge di non capire l'ambiguità della scena, rimanendo dietro la porta, con il lettore e la madre che spia dal buco della serratura. Non c'è da scandalizzarsi, ci dice pacifico, anche se noi stiamo assistendo alle tenerezze decisamente impudiche di un padre verso la figlia, siamo nella norma dell'intimità familiare, e tutti ne sono consapevoli e contenti. Ristabilita la gerarchia degli affetti, delle volontà, la figlia ritrova tutta la gelosa e tirannica protezione del padre. Fra le righe si legge che una donna, a quel tempo, non poteva sfuggire né alle sensualità né alle ire di un padre eccessivamente compreso della sua parte di protettore, guida o controllore.
Perci챵 la marchesa von O. accetta le effusioni del padre senza recriminare per essere stata mandata fuori, al freddo, con un bambino piccolo. Sa che per una donna saper perdonare fa parte della tecnica di sopravvivenza ed e saggio adeguarvisi.
A questo punto credo di essere passata con dolcezza nel sonno, perch챕 il mio pensiero si e sfaldato, acquietato, ha preso l'andare di un'acqua tranquilla e dondolante.
In queste acque dolci e scure ho visto galleggiare un piccolo guizzante corpo bianco dai bagliori luminosi. Ho pensato che era il mio bambino perduto, morto prima di nascere. Il medico, alle mie insistenze, mi aveva detto poi che era un maschio e che aveva i piedi grandi. Chissà quante strade avrebbe percorso con quei due piedi lunghi, il mio figlio perduto anzitempo.
Ecco, caro Enzo, le mie un poco sfilacciate, un poco confuse riflessioni notturne sull'aborto. Non so che cosa ne potrà ricavare il lettore. Proviamo ad invitarlo a mettere il naso nella nostra rivista e vediamo che ne pensa.

* Il testo, indirizzato a Enzo Siciliano, e apparso su 짬Nuovi Argomenti쨩, gennaio-marzo 1996, Giunti, Firenze.

Dacia Maraini - Da "Un clandestino a bordo"
 
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view post Posted on 21/5/2009, 20:21

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I giorni di Antigone

Milano, Rizzoli,2006



Quaderni di cinque anni
articoli usciti sul Corriere della Sera e su Il Messaggero

LQuesto libro parla di Safiya, la giovane donna nigeriana che rischiò la pena di morte per aver subito, e denunciato, una violenza sessuale. E di Amina, nel cui caso l’ingiustizia seguì il suo corso e che fu lapidata dai suoi stessi concittadini. Queste donne e le loro storie sono tasselli, ormai quasi dimenticati, di una cronaca che ne ha consumato le vicende senza comprenderle, irrispettosa e vorace. A una simile spietata “corsa alla notizia” Dacia Maraini contrappone il ritegno di Antigone, ispirandosi alla grande eroina tragica nello sguardo, attento ma empatico, con cui osserva e commenta dalla pagine del “Corriere della Sera” e del “Messaggero” gli eventi che segnano il nostro tempo. Da sempre impegnata sul fronte politico e sociale, denuncia soprusi internazionali come lo sfruttamento dei bambini a Manila, il traffico delle schiave nel mercato globale della prostituzione, le prevaricazioni della fabbrica d’armi Lockheed Martin ai danni dei pacifisti americani. Ma non trascura temi tutti italiani tra cui le iniquità della caccia, l’occasione perduta del referendum sulla procreazione assistita, la devastazione incessante del patrimonio naturale. E accanto alle notizie dall’Italia e dal mondo, hanno spazio le piccole storie e i commenti dei lettori, che la seguono fedelmente e dialogano con lei modulando un controcanto al coro della cronaca – a tratti indignato, a tratti speranzoso, sempre partecipe.
Come Antigone, che contro le convenzioni del suo tempo rivendicò il diritto alla pietà, Dacia maraini si impegna con questa raccolta nel compito supremamente umano di riflettere e fare memoria, senza ritrarsi davanti ai temi più difficili, né disdegnare quelli apparentemente più quotidiani. In particolare, si sofferma sulla condizione delle donne, sui loro diritti troppo spesso negati, sul loro ruolo centrale nella costruzione di una società veramente alternativa. Compone così un diario dei nostri anni, personale e insieme risolutamente civile, che contro la tentazione del cinismo non si stanca di rilanciare la partecipazione personale, il coraggio delle proprie idee, la fiducia in un cambiamento possibile.
 
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E tu chi eri?
Milano, Bompiani 1973
Milano, Rizzoli 199



26 interviste sull'infanzia con persone del mondo letterario e artistico raccolte tra il 1968 e il 1972. Il libro 챔 stato ripubliccato nel 1998 da Rizzoli

Interviste sull'infanzia con 26 persone del mondo letterario e artistico raccolte tra il 1968 e il 1972.


Prefazione di Dacia Maraini

di Dacia Maraini

Ho cominciato queste interviste sull'infanzia per caso.
Una redattrice di Vogue, minuta e gentile, mi ha chiesto tanti anni fa di intervistare Montale per la sua rivista.
Ricordo ancora la trepidazione con cui sono andata in casa Montale, giovane scrittrice armata di penna e quaderno: e ora cosa gli domander챵 mi chiedevo salendo a due a due le scale, spaventata dall'idea di trovarmi a tu per tu con un grande poeta che ammiravo ed amavo.
Mi ero preparata un mucchio di domande sul suo lavoro, sulla sua poesia, ma poi quando mi sono trovata davanti a lui non sono quasi riuscita a spiccicare parola.
Con molta titubanza e una voce di formica gli ho chiesto qualcosa sulla sua famiglia. Mi sembrava una zona pi첫 sicura, meno scivolosa per me: come potevo parlare di letteratura senza mostrarmi presuntuosa o sciocca? Ero talmente piena di dubbi sul mio lavoro che mi vergognavo perfino a dire che scrivevo.
Montale non fu affatto gentile. Cominci챵 con un tono risentito e scorbutico che mi inglobava nel suo dileggio del mondo intero.
Ero sulle spine. Sedevo in punta di sedia pronta a scappare via.
Ma poi, mano mano che parlava dell'infanzia, la sua voce è diventata più mossa, più partecipe e questo mi ha dato coraggio. Segno che non stava rifiutando del tutto la mia curiosità.
L'intervista piacque, cosi com'era, secondo me sbilenca e monca, ma scorrevole e sincera. E l'infanzia divenne la cifra delle altre interviste che vennero dopo. A me non dispiaceva dovermi concentrare su una zona misteriosa e sfuggevole della memoria degli adulti. Rileggendo oggi queste interviste mi sorprendo del mio procedere veloce, a scatti, quasi avessi paura di insistere sui dettagli più inquietanti. Ma certamente allora ero molto più segnata dalla mia naturale timidezza e non osavo scavare li dove avrei dovuto, temendo di offendere la sensibilità dei miei amati intervistati. Ritrovo in queste conversazioni rapide e rotolanti il mio impeto giovanile e il mio accigliato senso del ritmo. Ritrovo il mio entusiasmo ingenuo per il marxismo come strumento di conoscenza e analisi sociale. Ritrovo l'idea un poco semplicistica della divisione del mondo in classi contrapposte. Ritrovo anche la mia grande voglia di sapere frenata dal pudore che mi tratteneva sull'orlo dei precipizi della memoria. Molti di questi artisti sono morti. Mi sembra, rileggendo le interviste, di risentire le loro voci: quella cerimoniosa e ingolata di Gadda, quella squillante e cantilenante di Maria Callas, quella morbida e didascalica di Rossellini, quella bassa e gentile di Natalia Ginzburg. Ora sono contenta di avere raccolto con pazienza le loro voci, e di averle conservate nel fondo dell'orecchio. I morti ci tengono compagnia nel nostro misterioso giocare col passato. Ed é un bene prezioso potere ricondurre alla mente le loro lontane conversazioni. Spero che i lettori provino lo stesso piacere ad ascoltare attraverso la enigmatica alchimia della scrittura, le voci lontane di tanti amici morti e vivi che raccontano delle loro madri, dei loro padri, delle loro paure e delle loro gioie infantili.

Dacia Maraini
 
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view post Posted on 24/5/2009, 13:22

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Storia di Piera


Milano, Bompiani 1980



Intervista sulla vita di Piera Degli Espositi.

coautrice: Piera Degli Espositi
leggi brano.....D. Tuo padre per lunghi anni 챔 stato fuori casa...
P. Da quando avevo dodici anni a quando ne avevo diciannove mio padre era sindacalista e i sindacalisti allora erano in prevalenza comunisti da noi... ci fu un contrasto ideologico col partito e un giorno lui scopr챙 dai giornali che era stato trasferito a Verona... il Veneto era bianco... lui fece un gran lavoro con gli operai essendo anche salito come incarico.
D. Rimase comunque comunista?
P. S챙, s챙... ho letto delle lettere che lui aveva mandato ai compagni... amareggiate, per챵 챔 rimasto un episodio nella sua vita. Da Verona ritornava ogni quindici giorni. La domenica si dedicava alla casa; col suo passo mattiniero, gli piaceva dare la cera, fare il letto, pulire.
D. Tua madre non li faceva i lavori di casa?
P. Mai. Odiava tutto quello che riguardava la casa. Di solito li facevo io. O il babbo. O una donna a ore, quando avevamo pi첫 soldi. Mi ricordo quelle domeniche come una cosa bellissima anche per quel loro silenzio casalingo che si sentiva solo quando c'era lui. Prima di andare a tavola il babbo lavava la mamma. Stava delle ore, nella vasca, su di lei, a lavarla. E poi andavamo a tavola. Avevamo quei legni antichi con la vasca e sopra una catinella in cui si metteva l'acqua, sai. Lui le lavava la schiena, aveva un'adorazione per quel corpo bianco. A tavola diceva: vostra madre 챔 un velluto, e ce la descriveva: bella, fatta ad anfora, monumentale, con la vita stretta e i fianchi larghi... poi lei si abbandonava sul divano, dormiva, era congestionata perch챕 mangiava veloce, tanto, senza gustare il cibo e poi si buttava Il a dormire, senza mai curarsi di nessuno...
D. Ma questo quando già stava male o prima?
P. Era l'inizio. Faceva le sue passeggiate misteriose, nessuno sapeva dove andava. Quando stava male non si lasciava toccare. Non voleva essere scocciata. A modo suo lo amava, ne era gelosa. Vieni qui, mostro, gli diceva, non mi hai neanche dato un bacio; gli tirava l'orecchio, lo baciava con trasporto davanti a noi. Una volta il babbo mi disse avevo quindici anni credo che lui poteva fare l'amore per ore con lei senza mai riuscire a soddisfarla. Lui era carezzevole, morbido, bello, lei di colpo si stufava, non le bastava.
D. In un certo senso tua madre ha scaravoltato la famiglia, inconsapevolmente, ma l'ha fatta esplodere, non accettando di essere la "moglie", la "madre", cercando di imporre la sua personalità, la sua sessualità, il suo piacere.
P. Era così strana e io non la capivo. Capivo solo che era diversa dalle altre madri e ne soffrivo. Ma l'amavo enormemente. Quando correvo per le strade di notte chiedendo agli spazzini: avete visto una donna in bicicletta, un po' scoperta, qua e là... I bar, sempre quei bar... io ho l'ossessione dei bar, dei posti affollati, non mi ci posso vedere, allora mi sembrava di combattere come un soldato, ho combattuto sempre, con robustezza fisica. Però capivo una cosa in quella derisione della gente, in quelle critiche, in quelle occhiate offensive, ho capito che le persone tragiche ce ne sono poche, di drammatiche tante, ma tragiche che vivono sempre dentro cose atroci, senza mai un momento di mediocrità, di meschinità —ecco, ho capito che mia madre era una persona tragica e mi coinvolgeva: io come lei ero sottoposta a cose terribili: incubi, disastri mentali, dolori inconcepibili.
D. Non credi che le donne spesso hanno queste strutture tragiche? Non conoscono la mediocrità che viene dal potere, dall'integrazione...
P. Mi colpisce sempre la parola integrazione... perch챕 mi sembra una cosa che soffoca quotidianamente la testa mentre la mente della donna 챔 talmente anarchica che sta fuori da questi tran tran... Se penso a quando andavamo lei e io, tenendoci per mano a fare gli elettroshock. D. Quanti anni avevi?
P. Nove credo, pi첫 o meno. Tendo a non ricordare. Una volta l'ho accompagnata all'ospedale, poi 챔 entrata in una stanza e l 'ho sentita che urlava: cosa mi fate dentro la testa! e volevo sfondare la porta ma poi ero l챙, condannata ad ascoltarla senza poter fare niente, ero impotente e terrorizzata. Credevo che gliela incendiassero la testa, e quel suo diventare purpurea sugli zigomi mi pareva che fossero i resti dell'incendio. Lasciavo la scuola per accompagnarla, non so perch챕 proprio io, lei voleva solo me credo.
D. E lei come mai accettava di andare in ospedale, cos챙 tranquillamente a farsi torturare? P. Se faceva cos챙 non la internavano, per questo... Doveva essere d'estate, perch챕 d'inverno lei stava sempre a letto, chiusa in camera, dormiva ventiquattro ore su ventiquattro. Io la chiamavo: mamma! lei diceva: lasciami stare, mi verrete a trovare al cimitero, lasciami stare. E dormiva sempre. Dormiva cos챙, con la testa fasciata, sempre chiusa, una malinconia cupa, dolente, non diceva una parola.
D. Chi si occupava della casa?
P. Io. Ma non mi pesava. lo stavo sempre a casa, sempre a casa, era questa la mia ossessione, le giornate, mi ricordo, tutte quelle domeniche fredde che la sua finestra restava chiusa, io a trafficare, mi sembrava di proteggerla, di fare qualcosa per lei, pulivo, lavavo, poi dicevo: mamma, come va? vuoi che apro la finestra? e lei: no, no fammi la grazia, lasciami stare... Tutti gli anni passati a vedere questa scena... mamma, vuoi che usciamo un po'? no no ah, povere creature, diceva, povere creature, non posso fare niente per voi, lasciatemi stare... Prima, quando lavorava era diversa.

[…]

D. E per l'uomo la passione va bene?
P. Per l'uomo si, la gelosia, l'abnegazione, l'odio anche, anche la guerra, ne parlavo con Goliarda, perché è bello parlare d'amore, anche in ospedale te l'ho detto, con le infermiere, mi stavano a sentire con le orecchie cosi: ancora, racconta! la cotta è bellissimo parlarne, anche se va su e giù perché la cotta non viene mai sicura, se e sicura non e più una cotta, allora diventa un amore, poi diventa affetto; la cotta è questa cosa speciale, questa incertezza. Cosi io stavo dicendo a Goliarda: sai Goliarda qua e là, su e giù, e suona il telefono e lui dice con quella voce: sono Arduino da Milano... io sono scivolata giù per la parete... che bello mi piace tanto questo rallegrarsi di colpo, questo perdere le forze, questo sentirsi sconvolta...
D. E quando lavori provi le stesse emozioni?
P. Quando lavoravo all'Aquila ogni giorno mi telefonavano i miei tre babbi, perché l'Aquila per me è stata proprio tre paternità — mi telefonavano e dicevano: come va con questo regista? e io: bene, va bene, mi trovo benissimo. Non avevo voglia di dire di più. Sai che la felicità è così, è una cosa né troppo fragorosa, né troppo esplosiva, è una cosa di giusta misura, né piccola né grande... in quel momento sei felice e basta, non c'èaltro da dire. lo quando lavoro sto bene... ecco potrei stare, se lavorassi sempre senza interruzione anche senza amore... be', giocherei magari sempre ma senza darci troppo peso...
D. Infatti la gelosia ti prende pi첫 forte quando non sei contenta, quando non sei sicura di te, per me 챔 cos챙... i momenti in cui sono stata pi첫 gelosa 챔 quando sono stata pi첫 incerta sul mio lavoro, quando pensavo di sbagliare tutto, di essere nella merda.
P. Mi piacerebbe sul palcoscenico fare tante donne, tante signorine, t'ho detto, Ibsen, Shakespeare, Checov, sarei contentissima, forse potrei andare via contenta.
D. Sai che a volte faccio fatica a seguirti perché salti da un'epoca a un'altra, non hai il senso del tempo, come se il tuo passato dentro di te fosse tutto su una stessa fila, senza profondità, senza passaggi... ma mi piace seguirti. Sono sempre stata così, io, poi sai: mi piacciono più le storie degli altri che le mie... e quando una persona mi interessa, mi affaccio sulla sua vita e sono presa da una specie di vertigine, ci casco dentro e non riesco più a uscirne. Mi è successo con Teresa quando ho scritto il libro su di lei. E poi per tirarmi fuori faccio una fatica boia e comunque mi rimane un' affezione, come di un pezzo di vita che ho vissuto, quindi un poco lei e un poco te.
P. A me piace stare qui con te, mi sembra che ci dilatiamo... La mia casa mi sembra sempre piccola e così giù coi muratori ad allargarla non ho più neanche un posto dove stare accovacciata. Invece quando recito, quando faccio le prove, sono come in un altro mondo. Alle pause non vado al bar con gli altri, niente, me ne sto lì attenta a tutto, felicissima, anche di aspettare, seduta sulla mia seggiola come nel banco di scuola, sì perché a scuola ci sono andata poco, forse c'è anche questo, una nostalgia, la voglia di apprendere. Anche quando sono in albergo, in tournée, mi faccio portare su un cappuccino, uno yogurt, una pasta, così sul letto e mi sento al sicuro, felice, comincio a costruire il personaggio. Dormo, poi mi alzo, mi dedico molto al lavoro, posso stare ore e ore al tavolino a lavorare sul personaggio, faccio disegni, scrivo, mi accudisco, vado a fare una passeggiata, penso a me come un bimbo... poi mi divido perché la sera devo entrare in un'altra casa, lì sul palcoscenico, un'altra signorina mi aspetta... è bellissimo per me lavorare... io lavoro proprio come un artigiano, faccio faccio e poi disfaccio, mi abbandono, dormo, mangio e riprendo. A me sembra che si lavora sempre troppo poco con le prove... a me piace provare e riprovare finché non mi arriva un'eco... finché non comincio a vedere i corridoi della casa in costruzione... Ti farò vedere i miei copioni, sembrano dei campi di guerra, non si vede più dove è la stampa, sono tutti pieni di segni, di scritte, e li studio sempre, anche quando siamo già in scena da un mese, due, un lavoro che non faccio da sola, ma col regista. Il regista però deve avere pazienza come con un bimbo perché io mi spavento facilmente, e se non sono ascoltata se mi comandano senza parlarmi io posso girare, girare senza capire mai. Mi piace avere degli argini, dei limiti... umiltà religiosa ecco, ma non umiltà in sé che non serve, ma umiltà rispetto all'impresa da compiere, io ho buone gambe e va bene, un buon corpo per fare capriole, va bene, adesso però bisogna fare la corsa, avere molta umiltà rispetto alla corsa... io oggi sono come uno che ha subito un'offesa... capisco che sono rimasta prima di tutto esterrefatta.

[…]

D. Quanti anni avevi?
P. Nove anni credo, su per giù, e io l'ho subito tutto un pomeriggio senza avere il coraggio di scappare... mi aveva già fatto dei cenni durante il giorno quando veniva a casa... anche con mio fratello pasticciava, delle volte metteva una mano... ma io so no stata così tallonata da bambina, mi ritenevo fortunata perché poi ne facevo delle mie fantasie, ci costruivo sopra... c'era pure il calzolaio, va be' che i calzolai hanno tutti queste manie.
D. Come tutti i calzolai hanno queste manie?
P. Così penso... forse, a forza di stare lì seduti, sollevava poi quel grembiulone... era un tipo allegro, parlava ore con mio padre di Nenni, di Togliatti, sui tetti, e poi io apparivo e lui col coso fuori: zum zum... io richiudevo la porta. Ma stavo sempre col terrore che lo incontravo per le scale. Dal momento che la scala era la stessa, infatti un bel giorno l'ho incontrato. È stato il primo a baCiarmi...
D. Che età aveva?
P. Era un vecchio colante, 챔 stato il primo ad avvicinarmi, a violarmi... io sempre a dirgli: ma signor Carmine, su dunque stia buono, faccia il bravo... ero molto educata e paziente. D. Sono sempre i parenti, gli zii, i nonni, i cugini che iniziano le bambine al sesso. Quando ne parliamo fra di noi credendo di rivelare chissach챕 poi scopriamo che sono esperienze comunissime, di tutte.
P. Be', s챙 perch챕 ripensandoci dici: ma perch챕 non ho reagito? perch챕 non gli ho dato un calcio? ma la paura ti paralizza...
D. Ti dicono: sii dolce, sii remissiva, sii ubbidiente, sii gentile, sii silenziosa. E poi sei fottuta nel tuo silenzio, nella tua gentilezza, nella tua arrendevolezza.
P. Era uno che veniva in casa e quindi aveva la fiducia, veniva a portare le scarpe... il babbo lo intratteneva a parlare di politica, ognuno faceva il suo utile: cos챙 lui parlava ai lavoratori, il calzolaio risolava le scarpe e io venivo pastrocciata... be' poi c'era anche Lucio che aveva qualcosa di pi첫, era pi첫 giovane.
D. Un parente anche lui?
P. No, lui no, abitava nel nostro stesso pianerottolo e aveva le finestre sui tetti come noi. D. E che 챔 successo?
P. Lui s'era fatto male, perch챕 faceva sempre quelle esercitazioni che fanno i pompieri, i salvataggi coi teloni, le scale volanti...
D. Scusa, ma non capisco pi첫 niente, il signor Carmine quello colante, 챔 il pompiere o il calzolaio?
P. No, il signor Carmine 챔 il calzolaio. Lucio 챔 il pompiere.
D. Allora che ha fatto questo Lucio?
P. Questo Lucio un giorno si era fatto male durante una esercitazione e venne a casa nostra con la gamba ingessata. lo ero sola, cucivo, ricamavo una cosina, c'era la stufa a legna che ogni tanto dovevo cosare, caricare. Mia madre era via con mio fratellino piccolo e io ero lì a slambiccare questo ricamo. Già il pomeriggio aveva preso un'aria un po' buia, perché insomma c'era una grandinella, così presto chiusi le finestre e rimanemmo isolati. Lui entra e fa: buongiorno! e si siede lì con la gamba sulla sedia, con la gamba di gesso allungata in mezzo alla stanza così che io ogni volta che dovevo caricare la stufa dovevo passare davanti a lui e lui ogni volta mi dava questa manata di dietro e così per tre ore, manate, sorrisi... e io: be', signor Lucio, come sta sua figlia? la mamma mia sta bene. lo avevo veramente un'abilità che come bambina non era affatto richiesta... stavo lì a fare conversazione... e quando per la quinta volta mi mette le mani addosso dico: lei esagera... ma prima di dire così ci metto duecento anni, stavo lì invece intimidita a dire: permesso, scusi e avanti e indietro... sarà che lo guardavo con occhi di malizia non so, così di colpo lui si alza e pum pum comincia a maneggiare... adesso sai ne parlo ma per tanto tempo... e poi è come se non ricordassi bene... so che ho avuto una paura tremenda, ho fatto più volte il giro della tavola, per non farmi prendere, poi mi sono chiusa di là tenendo la maniglia di porcellana che mi scivolava fra le dita mentre lui dall'altra parte girava in senso inverso... sai che anche adesso non sopporto di dormire in una stanza non chiusa a chiave... e mi è rimasta l'ossessione della maniglia di porcellana. Ecco in quel preciso momento sono andata alla finestra per buttarmi giù, ma non con un senso di morte, che non penso neanche ce l'avessi, ma per andare via da lui. Allora, quando mi ha visto alla finestra si è fermato però mi aveva già messo le dita... perché uno dice le dita non sono niente, le dita non sono il membro, ma è un'impressione tremenda, tremenda quando non lo vuoi, quando sei una bambina che non sai...
D. Dopo ti ha lasciata stare?
P. No, dopo si è ripreso, continuava a rincorrermi, non gli era andata via la cosa, l'eccitazione e cercava di toccarmi ancora... ma il peggio era già fatto, perché io quella violenza l'ho subita e in qualche modo mi ha colpito l'eccitazione...
D. Vuoi dire che ha eccitato anche te?
P. Non so come dire... quella era la prima esperienza sessuale... qualcosa che mi ha turbata come violenza ma non 챔 che la violenza non ti coinvolga... infatti poi gli uomini come questo pompiere mi sono sempre piaciuti...
D. Dici una cosa che non si osa dire di solito: le prime esperienze sessuali, anche le più sgradevoli, poi tornano come memorie che si insinuano nei tuoi sensi, e c'è come un desiderio di ripeterle, eppure la prima reazione di fronte a qualsiasi violenza è sempre di dividere il mondo, colpevole e innocente aggressore e aggredito, mentre soprattutto nella sessualità, le cose sono molto più complicate, più contraddittorie... Ne hai parlato a tua madre poi?
P. Sì, gliel'ho detto e lei subito: per carità, che non lo sappia il babbo! che tuo padre se la prenderebbe troppo, chissà che fa, è uno di cui si fida... dopo va in tribunale no no. Però chiama il figlio del calzolaio.
D. Perch챕 il figlio?
P. Così, per affrontarlo .direttamente, non so. Io stavo chiusa nel bagno, stavo sempre chiusa nel bagno io, avevo paura che mia madre chiarisse le cose con lucidità e soprattutto che non mi credesse perché questa persona, cioè il figlio del calzolaio ha detto subito che suo padre aveva detto che non era vero niente che mi avesse baciato per le scale...
D. Quindi tu sei tornata a parlare del calzolaio. Hai la tendenza a confondere le due esperienze, come se fosse una sola.
P. Intatti sono state molto vicine come esperienze, una dietro l'altra.
D. E tua madre gli credette?
P. Mia madre gli credette, cio챔 credette a lui e non a me, o forse finse di credergli perch챕 se no gli dava un dispiacere, cos챙 챔 andata e io sono rimasta chiusa in bagno per la paura di essere considerata una bugiarda e che mi picchiassero... come in sartoria, lo stesso sentimento di paura, di possesso, ah speriamo che non ricominci mi sono detta, che non mi rovesci addosso l'armadio del pensiero...

[…]

Dacia Maraini - "Da Storia di Piera"




Edited by birillino8 - 25/5/2009, 14:25
 
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