Racconti di Natale

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view post Posted on 16/2/2009, 22:22

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IL NATALE

di Gandolin (L.A. Vassallo)

da "LA FAMIGLIA DE TAPPETTI"




È la mattina di domenica. Dalle nove alle undici, consulto tra Eufemia, Policarpo e Rosa, per decidere il programma del pranzo natalizio. Solamente alle undici e un quarto la lista definitiva rimane composta così, a base di patate:
Gnocchi al sugo,
Patate con contorno di pollo,
Arrosto di manzo con contorno di patate,
Patate fritte con contorno di spinaci,
Cicoria e patate per insalata,
Mezzo fiaschetto di Aleatico,
Caldallesse, invece di marrons glaces troppo indigesti,
Sei soldi di cialdoni,
Tre mele e quattro soldi di formaggio.
Policarpo vorrebbe aggiungere alla lista due tazze di caffè: ma resta spaventato dalla propria audacia.

Combinato il pranzo, la famiglia De-Tappetti procede al proprio abbigliamento festivo. Agenore, col pennello da barba, insapona religiosamente una spalliera di seggiola, e ogni tanto strilla, con voce acutissima:
- Papà, oggi che è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
Policarpo fruga in ogni ripostiglio e grida:
- Eufemia.
EUFEMIA. - Che hai, che strilli?
POLICARPO. - In nome di quei doveri di sposa e di madre, a cui si deve ispirare la tua condotta, mi sai dire dove diamine hai ficcato il lustro per le scarpe?
EUFEMIA (alla serva). - Rosa: dove avete messo il lustro per le scarpe? dov'è il mio talma, quello con le perline nere?
POLICARPO (esterrefatto). - Gesummio! Si sarebbe perduto il tuo talma! dunque la mia famiglia è sopra un abisso?
AGENORE. - Papà oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
Policarpo, volgendosi verso Agenore, lo vede piú che mai dedicato all'insaponatura della spalliera, e gli grida:
- Nequitosa creatura, tu sperperi in tal modo quella schiuma che è precisamente destinata al mento del genitore? e tu mi rovini, con tanta animadversione, quella seggiola, che servì di base alla santa memoria di tuo nonno? e tu manometti con precoce impulso di brutale malvagità, quel pennello cui può solamente adibire la barba paterna?
EUFEMIA (minacciando Agenore). - Metti subito via il pennello se no ti tiro quello che mi viene alle mani.
POLICARPO. - Ed io quello che mi viene ai piedi, che poi sarebbe il frutto della mia legittima indignazione.
La serva con faccia stordita, esce, tutta impolverata, dalla cucina e dice:
- Signora, il lustro non si trova.
POLICARPO. - Come: non si trova? Bisognerà trovarlo per forza. I miei mezzi non permettono enormi spese voluttuarie in tante scatole di lustro. Ne abbiamo comprata una, che non sono neppure tre mesi. (agitato da fiero sospetto) Ma dunque voi me lo mangiate?
AGENORE. - Papà: oggi che è Natale mi ci porti al teatro meccanico?
La signora Eufemia, tutta rossa, scalmanata:
- Ecco qua: l'ho trovato io il lustro, (porgendolo a Policarpo) era fra le tue carte.
POLICARPO (alzando il lustro e gli occhi al cielo). - Fra i miei documenti! Fra quelle pagine immarcescibili, che sono il testimonio oculare della mia integrità cittadina! (principiando a lustrare) Un giorno, di questo passo, lo troveremo nella sporta del pane, o nella concolina in cui ci laviamo le fisonomie familiari, o su quel cuscino, ch'è il capezzale delle mie notti. Eufemia: casa De-Tappetti è nella piú assoluta decadenza. (scopettando con rabbia) Agenore: lascia stare il gatto! Te l'ho detto cento volte.
AGENORE. - Papà: l'ho mandato via perché era sullo scendiletto e stava facendo....
POLICARPO (con amarezza). - Anche l'altro giorno era sul mio soprabito blú e fece....quel gatto non ha principio di educazione!
AGENORE. - Papà: oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
POLICARPO. - Quanto sei noioso e degenere, figlio mio!
EUFEMIA (irritata). - E tu rispondigli una volta, senza farlo svociare.
POLICARPO (al figlio). - Che vuoi? parla! e parla senza omologare di singhiozzi il tuo ragionamento.
AGENORE. - Papà: oggi ch'è Natale, mi ci porti al teatro meccanico?
POLICARPO (con voce solenne). - Prima di tutto, dobbiamo andare a spasso, e per via decideremo quale spettacolo convenga alla puerizia. I soli divertimenti educativi dovranno, onestamente, ricreare questo connubio nell'atto che, manoducendo la sua prole, si permetterà di gavazzare, senza intempestivo dispendio.
Entra Rosa con un cencio nero in mano, che butta in braccio alla signora Eufemia.
ROSA. - Ecco il talma con le perline nere.
EUFEMIA. - Dov'era?
ROSA. - Era.... era....
POLICARPO. - Siate veridica nei vostri domestici referti.
ROSA. - Io non so chi ce lo abbia messo, ma era sulla cesta del carbone.
EUFEMIA. - Il mio talma sulla cesta del carbone!.
POLICARPO. - Il carbone sul talma della cesta di mia consorte?
Rosa sparisce di corsa, in cucina.
Policarpo fissa sul talma due occhi pieni di lagrime.
La signora Eufemia incretinisce a vista d'occhio.
POLICARPO (con gesto pieno di nobiltà e di energia). - Mostriamoci forti e parati sempre, nelle piú dure controversie della vita. Mettiti quel talma che ci costa tanti dolori e usciamo. Nulla turbi la nostra festiva giocondità natalizia.
La signora Eufemia eseguisce meccanicamente. Escono tutti e tre. Poca gente nelle vie.
Policarpo trascina Eufemia, che trascina Agenore, che trascina un carrettino sfiancato mediante un pezzo di spago.
La famiglia De-Tappetti si reca al Pincio. Sono le dodici e mezzo, e in tutto il Pincio non si vedono dieci persone. Policarpo costringe il figlio a leggere i nomi dei grandi uomini in marmo; indi gli infligge un'ammirazione di un quarto d'ora avanti ai cigni del laghetto. In ultimo dilapida la somma di tre soldi per procurargli cinque minuti d'altalena.
Dal Pincio, la famiglia De-Tappetti corre a San Pietro. Sulla piazza non c'è anima viva. Policarpo spiega il sistema ingegnoso col quale fu eretto l'obelisco, mediante funi riscaldate, secondo lui, mentre il Papa gridava: Fuori i barbari!
Da San Pietro, la famiglia De-Tappetti corre a piazza di Termini per vedere i cartelloni del serraglio delle belve.
Da piazza di Termini, la famiglia De-Tappetti corre nella chiesa d'Aracoeli, dove Agenore declama la seguente poesia davanti al presepe:

Queste feste natalizie
Faccia il ciel che concilii
Le sue grazie piú propizie
Come ciò che ci ha concesso
Dopo avercelo promesso
Ch'apparisce alla capanna
E nascesseci il Messia;
Tra gli evviva tra gli osanna
Gridiam tutti e così sia.

Versi, manco a dirlo, di Policarpo.
Dall'alto della scalinata dell'Aracoeli, la famiglia De-Tappetti si precipita verso casa.
POLICARPO (con gioia repressa dalla dignità). - Che ne dici, moglie mia? ci siamo divertiti abbastanza?
EUFEMIA (cascando a pezzi). Quanto a me....
POLICARPO. - E tu, Agenore, ti sei divertito?
AGENORE. - No, papà.
POLICARPO. - Ecco le conseguenze dell'abuso dei piaceri! Agenore, ti do cinque minuti di tempo, per rettificare la tua primitiva asserzione.
AGENORE. - Ma io mi sono seccato.
POLICARPO. - E io, forse, non mi sono seccato piú di te? Ma oggi è festa, e tu devi imitare la paterna ilarità. Ti ordino di essere contento, e di abbandonarti a segni di giubilo manifesto. Vuoi ubbidirmi, sì o no?
AGENORE. - Ti ubbidisco subito, papà.

E si mette a piangere come una fontana.
 
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NATALE SULLA TERRA


di Arthur Rimbaud


Dallo stesso deserto, nella stessa notte, sempre i miei occhi stanchi si destano alla stella d'argento, sempre, senza che si commuovano i Re della vita, i tre magi, cuore, anima, spirito.

Quando ce ne andremo di là dalle rive e dai monti, a salutare la nascita del nuovo lavoro, la saggezza nuova, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare - per primi! - Natale sulla terra!
 
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SOGNO DI NATALE


di Luigi Pirandello




Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.

Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:

- Buon Natale - e sparivo...

Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.

Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.

Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.

A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.

- Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...

Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:

- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.

Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.

- E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:

- Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.

- La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?

- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.

- Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

 
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view post Posted on 16/2/2009, 23:48

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IL DONO DI NATALE


di Grazia Deledda




I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

- Ben tornato, Felle.

- Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

- Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arancie e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

- Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.


Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca.

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.


Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

- La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.

Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.

La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

- La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.


Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

- Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.

Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

- Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:

- Gloria a Dio nel più alto dei cieli.

E pace in terra agli uomini di buona volontà.

Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.


All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.


Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.


Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?

- Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

- È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

 
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da "PER CHI VIENE"



di Primo Mazzolari




La tenebra che saliva saliva, mentre la nebbia continuava a scendere, gli tolse a poco a poco la violenta rivolta dalla mente, lasciandogli l'animo sommerso in quella inafferrabile tristezza che dà la giustizia soddisfatta degli uomini ben difesi e ben pasciuti.
Non sarebbe entrato dall'Argia, pur passandole sulla porta.
Certi dinieghi non si vanno a raccontare a una creatura che resta in vita solo per un'attesa.
Ma in chiesa, alla Messa, come avrebbe potuto parlare della bontà del Salvatore, quando una famiglia aveva chiuso fuori il Signore in quel modo?
Il primo segno delle campane lo sorprese nel mezzo di un dibattito che minacciava di sommergerlo.
I Fraccari avevano fatto saltare l'argine della sua poca fede: e Dio glielo veniva ricomponendo nell'esultanza del suo campanile, che gli restituiva la certezza dell'Avvento.
"Se Egli viene, se niente lo ferma, perché io che, in fondo, non sono che una voce che grida nel deserto, non dovrei gridarlo alla mia gente, che il Salvatore, proprio questa notte, viene per Dolfo in galera, per l'Argia la morente, per Braccio di ferro il fariseo, e per un povero prete di poca fede?".

"Adesso", 1 gennaio 1957
 
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IL PASTORE



di Piero Bargellini




Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra. Sulla collina di Betlem tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi.
Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre, col muso nascosto nei velli.
Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cocevano da una parte, mentre dall'altra si gelava.
Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi.
Nello stazzo, le pecore si misero a tramenare. Alzavano i musi in aria, e belavano.
- Sentono il lupo, - pensai.
Cercai a tasto il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano.
- Hanno paura anche loro, - pensai.
Intanto anche i compagni si erano levati da terra. Facemmo gruppo scrutando la campagna.
Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era d'inverno, e ci sentivamo allegri come se fosse stata primavera. Era di notte, e si vedeva luce come di giorno.
Sembrava che l'aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento.
- Non temete, - disse l'apparizione. - Io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un Salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia.
Non aveva finito di parlare, che da ogni parte del cielo apparvero Angeli luminosi, e cantavano: - Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Poi tornò la notte, e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani s'erano acciambellati per terra.
- Abbiamo sognato! - pensammo. Ma eravamo in troppi a fare lo stesso sogno.
Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano la mangiatoia formata di terra dura. Se il Salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle povere grotte.
Infatti trovammo, come ci aveva detto l'Angelo, un Bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bove e un asino. L'asino vi era giunto coi genitori del Bambino.
Sul basto sedeva il padre, pensieroso. Presso la mangiatoia, si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato.
Guardai quel Bambino e il mio cuore s'intenerì. Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel Bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli.
Non so dire altro. Posso solo aggiungere che non ho più provato in vita mia una dolcezza simile a quella provata dinanzi a quel Bambino.
Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell'Agnello innocente e gentile.
Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così. È per me il nome più dolce e più caro.
 
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IL PRESEPIO DEI SETTE ANNI



di Achille Campanile




Al presepio Luca cominciava a lavorare parecchi giorni prima di Natale e la preparazione di esso si svolgeva in un'atmosfera di guerra, del tutto in contrasto col carattere idillico della pia bisogna. Le prime scaramucce avvenivano quando, un paio di settimane avanti la Vigilia, si tiravan fuori gli accessori conservati dal Natale precedente. Tutti rotti o malandati. Bisognava far quasi tutto nuovo. Il che dava modo a Luca di tuonare contro il disordine della casa. Dopo di che s'aprivan le ostilità per la scelta del luogo.
I primi anni, questa era caduta su un angolo della stanza da pranzo, ma, in seguito alle proteste della mamma per gli sbaffi di pittura e gli strappi che poi restavano sul parato, il Presepio, snidato e incalzato di stanza in stanza fini in un angolo dell'anticamera dove, a causa della semioscurità del luogo, fu talvolta sommerso dai cappotti dei visitatori; i quali poi se ne andavano bianchi della farina che serviva a far la neve.
Terza operazione bellica: manu militari, Luca requisiva in cucina la spianatoia della pasta, che doveva servire da base al Presepio La cosa non avveniva senza le più alte strida della vecchia e combattiva fantesca, la quale tentava di contender l'oggetto al padrone, in un tira e molla che attingeva momenti d'alta drammaticità. Ciò perché, nonostante Luca assicurasse che, dopo il Presepio, avrebbe restituito intatto quell'accessorio indispensabile per la pasta fatta in casa, a cose avvenute la spianatoia tornava in cucina con una vasta zona verniciata in verde (prati) e irta dei chiodi serviti a fissare ponticelli, alberi e rocce; chiodi la cui sola vista, all'idea d'impastare a mani nude, faceva raggricciar le carni. La vernice verde era percorsa da serpeggianti strisce di vario colore, che rappresentavano le strade di grande comunicazione e i principali corsi d'acqua della Palestina. Ormai su quella spianatoia sarebbero venute soltanto lasagne verdi, a causa della vernice.
Il problema laghi veniva risolto col sistema degli specchietti, da Luca che, novello Paleocapa, riusciva a dotar la regione d'un sistema idrico mirabile. Poiché i laghetti fra il muschio erano di facile e bell'effetto, egli forse ne abusava un po', coi risultato di trasformare la zona di Betlemme e dintorni, notoriamente un po' arida, in una specie di regione dei laghi, quasi una Finlandia. Questo l'obbligava a dar la caccia a tutti gli specchietti di casa e particolarmente a quelli d'una servetta che poi, riuscendo monotona una regione di laghi perfettamente tondi o quadrati, doveva assistere con un leggero pallore alla rottura di quei fragili oggetti, di cui Luca, ridottili a pezzettini, si serviva anche per effetti di cascatelle.
Le rocce erano ottenute con l'acquisto, nella vicina cartoleria, d'un certo numero di fogli d'imballaggio e con l'uso di vecchi giornali che, appallottolati, ammucchiati e ricoperti dei suddetti fogli sapientemente spiegazzati, figuravano le montagne.
Provvedutosi alla sistemazione orografica, non restava che popolare il paesaggio. Come in tutti i Presepi, non era chiara l'ora, in quanto vi si, vedevano contemporaneamente gruppi che gozzovigliavano all'osteria mangiando spaghetti, talvolta con le mani, greggi che pascolavano, pecorelle nel chiuso addormentate, stelle in cielo, qualche donna che lavava i panni nel torrente. " A quell'ora? " direte. A quell'ora.
li Presepio era affollato di strani nottambuli se, come pareva doversi dedurre dalla presenza delle stelle, era notte: persone affacciate alla finestra, una ragazzina che guidava le oche con un giunco, un maialino che grufolava nel trogolo, una vecchia all'arcolaio, un contadino con l'asino, che andava evidentemente al mercato, un arrotino che arrotava, un panettiere che sfornava, un pizzaiolo che faceva pizze.
Insomma, si facevano cose che solitamente si fanno in ore diversissime l'una dall'altra. E tutto, meno che dormire. Quella era una notte in cui non dormiva nessuno, a eccezione di poche pecorelle. C'erano persino comari che conversavano da un balcone all'altro. E, cosa straordinaria, tra greggi e grotte, s'ergeva anche qualche sontuoso palagio con colonne e peristili, ma in parte già allo stato di rudere. Ed antri muscosi, e fori cadenti.
A confonder vieppiù le idee circa ora, contribuiva il contegno dei pastori, dei quali v'era una straordinaria quantità e varietà. Uno con la pecorella sulle spalle, un altro che portava sulla testa una piccola paniera con ricottine, un terzo steso a meriggiare con la siringa o il sufolo sulle labbra, un quarto che, benché per molti altri fosse notte fonda, faceva ostinatamente solecchio con la mano sulla fronte, a 'ripararsi dai cocenti raggi d'un sole, che non c'era.
Non mancavano un cacciatore col fucile e il cane, né qualche cane da solo, acciambellato o abbaiante, né giocatori di carte e di dadi all'osteria, sonatori di fisarmonica, zampognari. Nell'insieme, una specie di notte di San Giovanni.
A mezzanotte i ragazzi portavano in processione il Bambino Gesù, cantando in coro:
Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo...
Da allora, ogni giorno i re Magi venivano spostati d'un pezzettino, in modo che mettevano esattamente quindici giorni a percorrere da un capo all'altro la spianatoia della pasta, dovendo arrivare all'imboccatura delle grotta sacra il giorno della Befana, coi doni (donde la tradizione dei doni della Befana, da Roma in giù molto più viva che quella dell'albero di Natale).
Disfatto il Presepio, all'indomani della Befana, i pupazzi venivano riposti per l'anno successivo.
La prima volta che fece il Presepio, Luca ignorava che, giusta una diffusa credenza, bisogna poi farlo per sette Natali di seguito, pena le più gravi disgrazie familiari; strano miscuglio di fede e di superstizione. Quando lo seppe, Luca impallidì. Non era un tipo scioccamente superstizioso, anzi non credeva a queste storie e lo proclamava altamente. Ma, dato il gran numero di guai che avevano sempre caratterizzato la sua esistenza, pensava fosse meglio non mettere, come suol dirsi, la salute in questione; meglio evitare. Cosi, continuò a fare il Presepio per sette anni.
La cosa andò liscia per i primi Natali, e precisamente finché egli fu sorretto dall'incondizionata ammirazione dei ragazzi, finché i suoi Presepi ebbero in questi un pubblico entusiasta. Ma, crescendo, essi cominciarono a poco a poco,a restar freddi, di fronte agli specchietti coronati di muschio, alla cometa ritagliata nella stagnola, e a manifestare, pur senza confessarlo, qualche scetticismo, nei confronti del cotone idrofilo e della farina in funzione di neve. Invano il padre cercava di galvanizzarli, di comunicar loro un entusiasmo che ormai non era più sincero nemmeno in lui.
" Guardate com'è bello questo pastore estatico " diceva. Era un'anima d'artista, un esteta e cercava di scoprire il bello anche in umili opere artigiane.
I ragazzi fingevano di ammirare, per fargli piacere, per non disincantarlo nei riguardi del Presepio. Ma alla fine furono costretti a gettar la maschera, si disinteressarono di esso e cominciarono addirittura, a un certo punto, a presenziare con fatica alle solennità familiari.
Cosi il padre, verso gli ultimi dei sette anni, finì per fare il Presepio da solo e quasi pro forma, per un cortese dovere, per non restare con lo scrupolo di non aver fatto tutto quanto fosse in suo potere al fine di scongiurare qualcuno almeno dei guai di cui la sorte gli fu sempre prodiga.
Approssimandosi il Natale, riacciuffava la spianatoia della pasta, ma senza la balda combattività d'una volta. Si capiva che ormai lo faceva a freddo. Ritirava fuori i vecchi pupazzi e li disponeva in fretta, a caso, perfino, molto approssimativamente, tanto per non saltare un'annata, sempre per quella storia dei temuti sette anni di guai. E si videro, talvolta, strani accostamenti: gallinelle nel chiuso e pecore nel pollaio, l'eremita che spuntava dal pozzo, un cammello all'osteria, il mendicante sul tetto, l'arrotino sul balcone e i re Magi nel torrente.
Inoltre, come s'è detto, da un anno all'altro più d'un pezzo si rompeva. Ma ormai visto il disinteressamento dei ragazzi, il padre non aveva più nessuna voglia di comperare pezzi nuovi. Cosi finirono per vedersi in casa Presepi sempre più affollati di pastori zoppi, osti con una gamba sola, o senza braccia; la cometa aveva la coda molto spelacchiata, l'asino l'aveva perduta addirittura, il bue era mutilato d'un corno, si vedevano cammelli a tre gambe e le persone all'osteria invano tentavano di portare alla bocca gli spaghetti, visto che erano senza testa. Di qualche pecora erano rimasti solo mezza pancia, o i quarti posteriori, e San Giuseppe somigliava a San Giovanni Decollato. Insomma, un Cottolengo.
 
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da "QUESTO FREDDO DI BETLEMME LO SENTÌ IL BAMBINO"



di Alberto Moravia



"Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori tirano fuori dal mare con le loro reti, tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose, eccetera, eccetera. Poi si vedrebbe".



Betlemme si presenta alla vista in maniera non dissimile da tante piccole città dell'Umbria e della Toscana, in cima ad una collina, con le case arrampicato sul pendio e la basilica della Natività bene in vista sopra uno sperone. ù un luogo montanino, Betlemme, e nella piazza, davanti al sagrato, soffia un vento freddo che spazza le pietre del lastricato. Per la piazza girano i soliti venditori di ricordi, di rosari e di immagini; ma, al contrario di Gerusalemme, qui sono più discreti, e almeno un ricordo tra la tanta paccottiglia che offrono ha una sua grazia: un cartoncino sul quale sono incollati alcuni fiorellini freschi della collina di Betlemme. Come, poi, entriamo nella basilica della Natività, il passaggio dalla natura gentile e poetica all'antichità venerabile del tempio è anch'esso reminiscente dell'Italia: a questo modo, sopra paesaggi luminosi e puri, in piccole città vetuste, si aprono anche i portali anneriti delle chiese più antiche e più ispirate della provincia italiana.
La basilica della Natività, al contrario del Santo Sepolcro, è un luogo tranquillo, preservato, e persino negletto. Le dispute tra latini e greci, talvolta addirittura sanguinose, hanno portato la basilica alla presente condizione che sembra richiedere urgentemente un avveduto restauro. Polvere nera, di secoli, vela il marmo, che fu già rosso, delle colonne monolitiche e i capitelli corinzi; sopra gli architravi, là dove non affiorano alcuni brani, anch'essi anneriti, degli splendidi mosaici, l'intonaco è caduto in più punti, scoprendo l'ammattonato; un muretto ignobile, mezzo sgretolato, divide la navata centrale dall'abside. Eppure, forse appunto per questo abbandono che ne garantisce l'autenticità, la basilica è oltremodo commovente: essa documenta con le sue pietre il passaggio senza soluzione di continuità dall'arte pagana a quella cristiana; permette di rivivere il momento unico in cui la nuova fede ridiede vita profonda ai vecchi stili esausti. La basilica, nonostante le molte vicende, è rimasta, a quanto pare, sensibilmente qual era nell'anno 330 dopo Cristo quando fu edificata per ordine della madre di Costantino. Tra tutti i miracoli di questo paese miracoloso, la preservazione di questa chiesa costruita sulla grotta dove nacque Gesù, è senza dubbio uno dei più notevoli. E si vuol ricordare come un tratto strano e potente, che perfino l'invasione persiana di Cosroe, la più spietata e disastrosa che mai ebbero a subire queste disgraziate contrade, si fermò sulla soglia della basilica grazie ad un particolare assai significativo: le vesti persiane che in un antico mosaico indossavano le figure dei tre re magi.
Per rozzi e angusti scalini si discende, dietro all'altare, alla grotta della Natività. È un antro oscuro e irregolare, e la mangiatoia, che normalmente nelle stalle è di legno, vi era invece scavata nella viva roccia, in forma di piccola vasca. Gli animali del presepe si vedono tuttora per le straducce di Betlemme: gli asini bianchi dai grandi occhi neri, i buoi striminziti, le magre vaccherelle di questo paese sassoso, le pecore, le capre. La tradizione anche qui è perfettamente credibile: Gesù nacque sulla paglia che serviva da letto ai pochi animali di questa piccola stalla; appena nato, fu deposto nella mangiatoia ricavata nella roccia; e gli animali che sporgevano il loro muso verso questa mangiatoia e che, forse, cercarono di continuare a mangiare tirando via i fili di paglia da sotto il corpo del neonato, lo riscaldarono così, naturalmente, con il loro fiato. Il destino terreno di Gesù, d'altronde, è legato oltre che ai paesaggi rnistici e luminosi della Palestina anche a queste grotte che dovunque si aprono nel terreno roccioso. Altra grotta assai profonda, questa in piena Gerusalemme, serviva probabilmente, da tempo immemorabile, da prigione. Oggi vi si scende in processione per vedere il luogo buio e sconfortante in cui Gesù fu imprigionato con Barabba. E come la mangiatoia appare scavata nella roccia viva, così nella prigione di Cristo sono scavate nella roccia le maniglie di pietra alle quali i due prigionieri furono assicurati per i polsi. Colline soavi e sparse di ulivi e di cipressi, grotte oscure e anfratti: così, erano nel vero i nostri pittori primitivi che pur non avendo mai visitato la Terrasanta, diedero nei loro quadri una descrizione di questi luoghi che non potrebbe essere più esatta, con una chiaroveggenza che non si può attribuire alla candida fede che li ispirava.

 
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view post Posted on 19/2/2009, 09:26

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NATALE A REGALPETRA



di Leonardo Sciascia



Le feste di Natale sono finite. Non per tutti sono state gioiose e ricche. Non tutti sono andati in montagna a sciare. A Regalpetra, che si trova in Sicilia, qualche anno fa le cose andavano come ce le descrive questo grande scrittore siciliano .E da allora, non vi sono stati molti mutamenti …

- Il vento porta via le orecchie - dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca:"La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù".
Alcuni hanno scritto,senza consapevole amarezza, amarissime cose:
"Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa".
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre Pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
"La mattina del Santo Natale - scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto".
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre "per fare la spesa". Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
"E così ho passato il Santo Natale".



da "PER LORO NON C'ERA POSTO"



di Lorenzo Milani




È venuto Roberto oggi a riguardarmi il fornello.
E uno di quelli che stanno nella villa. è tanto buono.
Pensa che con tutto il male che ha avuto (cinque mesi a letto, ma la Mutua, lo sai, ne conosce tre soli), e ancora non sta bene, ha fatto una cosa bella che a raccontarla mi vien da piangere.
Di suo ha tre bambine piccole.
Ora gli è morta una sorella lasciando sei bimbi senza babbo.
Sai cosa ha fatto lui coi suoi fratelli?
Non han voluto che andassero in collegio, se li son spartiti.
Lui s'è preso due femmine (il maschietto l'avrebbe preso volentieri, ma come faceva a metterlo a letto colle bambine!).
Insomma ora son cinque bocche da sfamare e sei colla moglie.
Tirerà gli assegni per tutte. L'han detto alla Previdenza (ma ci vorrà sei mesi per aver risposta da Roma se non ha conoscenze).
Saranno 48 lire per persona: mezzo chilo di pane...
Non importa, ci penserà il Buon Dio.
La vecchia villa ora fa luce anche di notte, da quanto l'hai benedetta, Signore!
 
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view post Posted on 19/2/2009, 11:21

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UN NATALE DELL'ANNO 5325



di Bartolomeo Di Monaco




Marzia era stufa di trascorrere il Natale sempre allo stesso modo.
Lo aveva confidato a Lazzaro, suo marito, il quale però n'era rimasto dispiaciuto.
Egli trovava stimolante, infatti, rinnovare tutti gli anni l'antica tradizione dell'albero e del presepio. Con i suoi ragazzi passava straordinarie ore in allegria quando tutti assieme caricavano i rami di neve e di palline colorate.
Quest'ultime, muovendosi da sole, mutavano continuamente posizione e colore con spostamenti lenti, sempre accompagnati da una dolce musica; e così anche la neve, una volta posati i fiocchi sull'albero, si alzava al soffitto da sola e lievemente precipitava ad imbiancare i rami con intermittenze regolari e suggestive.
Contemplava quei giochi di colori sempre a bocca aperta.
I figli ogni anno facevano addirittura a gara per escogitare combinazioni nuove e divertenti.
Anche il presepio subiva di anno in anno continui rinnovamenti.
La mucca e l'asinello prima della mezzanotte di Natale se ne andavano in giro per la stalla e solo allo scoccare dell'ora mirabile si sdraiavano intorno alla culla a riscaldare Gesù bambino. I pastori suonavano i loro zufoli; belavano le pecore mentre si avvicinavano alla mangiatoia.
La cometa poi compariva nel cielo già qualche giorno prima, e da sola lentamente si spostava in direzione della grotta, dove si fermava a risplendere in tutto il suo fulgore proprio nel momento che dalla chiesa vicina si levava festoso il suono delle campane.
Che cosa c'era di più bello che attendere così tutti insieme sotto l'albero e davanti al presepio il Santo Natale?
Ancora si celebrava in inverno il Natale, ma la stagione non era più così fredda come lo era stata tanti secoli prima. Sui libri avevano letto che nel periodo natalizio, soprattutto sulle montagne e qualche volta anche nelle città dell'Italia settentrionale, cadeva la neve e tutto il paesaggio si faceva suggestivo. Anche al Sud c'era stato un periodo che nevicava come al Nord e i graziosi paesini abbarbicati sulle montagne a picco sul mare si coloravano di bianco e parevano usciti dalle fiabe.
Ora invece la neve non cadeva più in Italia da qualche secolo; il clima si era fatto più mite anche nella stagione invernale e c'erano poche differenze tra l'estate e l'inverno, anche se l'ultima stagione dell'anno restava sempre la più fredda.
La neve bisognava andarla a cercare lontano, vicino ai Poli. Soltanto lì la si poteva ammirare. Appena al di sotto delle calotte polari già non la si incontrava più.
Marzia aveva nostalgia di quei tempi passati, e tutte le volte che aiutava i suoi a fare l'albero e il presepio, quando arrivava il momento di mettere i fiocchi di neve sui rami o sui monti di cartapesta, sentiva dentro di sé scuoterla un brivido sottile.
Come doveva essere bello vedere nella notte di Natale scendere dal cielo la bianca neve, e i campi, i tetti delle case, le strade coprirsi del morbido manto!
Quando arrivava questo periodo spesso ripescava nella sua videoteca vecchi documentari sui secoli passati, alcuni acquistati direttamente da lei, altri invece ricevuti in dono dai genitori, che a loro volta li avevano ereditati dai nonni e così via.
Aveva dei filmati che risalivano addirittura agli ultimi secoli del terzo millennio. Conservava ancora un bel film sul Natale, girato nel 2727 da un suo antenato, in cui si vedeva cadere la neve! Marzia lo guardava continuamente quando sentiva salire dentro di sé l'atmosfera dolce del Natale.
Era invece stanca di una vita che in generale non riservava grandi emozioni.
Anche trascorrere il Natale sempre allo stesso modo, era arrivata al punto che si annoiava.
Quando leggeva sui libri oppure vedeva in qualche vecchio filmato tutto quel caos ricco di vitalità e di umore che animava i millenni passati, non poteva non raffrontarli al suo presente, che invece non aveva scossoni, era lineare, piatto, ordinato; tutto vi scorreva previsto, nessun avvenimento inatteso poteva accadere nella giornata.
E sì che di tempo per dedicarsi allo svago e al divertimento ne avevano in gran quantità!
La vita infatti si era allungata enormemente, ma non solo, una ragazza restava giovanissima fino ai 100 anni e se era un po' fortunata poteva restare così anche fino ai 130. Solo verso i 150 cominciava ad apparire sotto gli occhi qualche piccola ruga.
Ma praticamente la vecchiaia non esisteva. Dopo i 150 anni di solito sopraggiungeva la morte, che non era mai improvvisa, bensì annunciata da specialissime microcellule di cui era dotato il corpo umano.
Si moriva preparati, sazi, tutto sommato soddisfatti della vita.
Solo qualche animo sensibile, come quello di Marzia, poteva avere qualche rimpianto per un'esistenza diversa. Ma erano rarissimi questi casi.
La vita scorreva quasi tutta dentro una giovinezza del corpo gagliarda, esuberante, vivace. Che cosa si voleva di più?
Si erano infatti accorciati, quasi scomparsi, proprio i periodi estremi della vita: l'infanzia e la vecchiaia.
Non esistevano più le malattie e il corpo sapeva reagire da solo allorché un nuovo virus o un microbo sconosciuto si insinuava nell'organismo. Non saliva nemmeno la febbre quando il corpo lottava contro l'intruso!
Marzia abitava in campagna nella immediata periferia di Lucca.
A volte, quando era stufa di restare sempre nello stesso luogo, poteva spostare la sua piccola casa ed avvicinarsi di più alla città, oppure trasferirsi per qualche tempo sul fiume, o più lontano ancora in qualche angolo appartato, quieto.
Stare in casa era quasi come stare all'aperto.
Tutto vi era progettato per esaudire ogni desiderio, e i muri perimetrali erano fabbricati addirittura con uno speciale materiale che ora diventava trasparente, ora perfino svaniva e permetteva di stare a contatto con l'esterno, ora si iscuriva e consentiva di rinchiudersi dentro la propria intimità.
Spesso le stanze dove i suoi figli studiavano erano direttamente a contatto con l'aria aperta. Azionavano un minuscolo pulsante posto proprio sulla scrivania e zac, la parete si dissolveva e subito entrava l'aria fresca della campagna.
Per spostare in altro luogo invece la casa occorreva il consenso di tutti; e Lazzaro era il più restio a fare questo tipo di cambiamento. Gli piaceva la campagna e tutte le volte che Marzia gli proponeva di entrare dentro le mura di Lucca, lui storceva la bocca.
«Ma perché, se qui si sta così bene? Perché vuoi andarti a ficcare in mezzo a quella confusione?»
Marzia adduceva però le ragioni della donna che deve fare certe compere e ha bisogno di stare sul posto per meglio scoprire e scegliere le novità della stagione. Ma Lazzaro non si lasciava convincere tanto facilmente.
«Puoi andare con l'aerobici e mettere gli acquisti dentro il cesto! In un attimo vai e torni. Oppure puoi anche fare "un volo" da sola se vuoi soltanto osservare, e quando avrai deciso le compere veniamo tutti insieme a caricare i tuoi acquisti.»
Allora Marzia per non inquietare Lazzaro qualche volta lasciava la casa lì dov'era, rinunciava allo spostamento, e faceva un sopralluogo volando direttamente in città.
Del resto anche le altre donne di solito prima andavano da sole e solo più tardi, completato il giro delle visite, tornavano con l'aerobici e qualche volta anche con l'aeromobile a fare il carico.
Volare era così bello e così naturale! Bastava distendere lateralmente le braccia, applicare sotto le ascelle due minuscole macchinette, piccole come un bottone, fare un leggero balzo in avanti, accompagnato da una simultanea spinta delle braccia, e subito il corpo si levava in alto, rapidamente raggiungeva l'altezza desiderata.
Quando decideva di volare, Marzia lo faceva sempre a quote altissime; voleva vedere sotto di sé il mondo piccino piccino. Solo quando andava coi figli, allora fingeva di essere molto prudente e sconsigliava i ragazzi di volare a quelle altezze pericolose.
Ma i figli conoscevano la verità e anch'essi, quando erano soli, facevano tale e quale alla mamma.
Marzia ebbe così per quel Natale un'idea.
Ne parlò prima coi figli e, una volta ottenuto il consenso, confidò il suo progetto anche a Lazzaro.
Ne rimase sbigottito.
«Ma non è possibile!» esclamò subito. «Che cosa dirà la gente? Saremo sulla bocca di tutti!»
«Fammi contenta» lo supplicò Marzia.
Lazzaro non si lasciava convincere. Radunò tutta la famiglia intorno al tavolo e spiegò che nessuno fino a quel momento si era mai sognato di invitare al pranzo di Natale gli abitanti degli altri pianeti.
Che cosa avrebbero detto i lucchesi?
Qualche extraterrestre per la verità di quando in quando capitava anche a Lucca.
Arrivavano in gruppo sui loro magnifici aeromobili. Atterravano fuori delle Mura e quasi sempre attraverso la vecchia porta San Donato facevano il loro ingresso in città. Giravano dovunque, ma specialmente visitavano i bei negozi di via Fillungo. Lì facevano numerosi acquisti. Quando entravano loro, praticamente svuotavano il negozio, si portavano via ogni cosa. Dicevano che nel loro pianeta i prodotti terrestri, ma specialmente quelli italiani, erano i più desiderati. Le loro donne andavano matte per le graziose tute e i gonnellini colorati che si fabbricavano a Lucca.
Erano straricchi e non badavano a spese. I commessi, quando li vedevano entrare, spesso trascuravano i vecchi clienti per correre a servirli.
Erano però bruttini assai, per non dire orripilanti.
La loro eccezionale bruttezza era però accompagnata da una squisita cortesia e da un grado di intelligenza sicuramente fuori dell'ordinario.
Però solo per queste spese che facevano erano tollerati in città, ed era così anche in qualsiasi altra parte del globo.
Stare con loro, specialmente doverli guardare, osservare quegli strani occhi tentacolari, quel muso largo senza naso e senza bocca, quelle braccine corte e sottili, quelle gambe che avevano solo i piedi che spuntavano alla fine del tronco, non era assolutamente piacevole. Si avvertiva un certo fastidio, piombava nell'animo una profonda malinconia al pensiero che Dio aveva messo al mondo, insieme con la bellezza dell'essere umano, quella bruttezza che non aveva paragoni.
Fatti gli acquisti, quindi, era esaurito anche il contatto con l'uomo.
Essi lo sapevano e quando uscivano dai negozi, dopo aver passeggiato in silenzio per la bella città, tornavano fuori delle Mura e partivano. Si vedeva nel cielo da ogni punto della città levarsi la scia luminosa del loro potente aeromobile.
Marzia voleva invece per quel Natale stare con loro, azzardare un contatto che nessuno aveva mai seriamente ricercato.
«Ma come pensi di invitarli? Mancano solo due giorni al Natale. Eppoi sei proprio certa che verranno e che desiderino davvero stare con noi?»
Marzia aveva pronto già tutto. Lazzaro non sapeva come avesse potuto fare, ma la sua Marzia era riuscita a conoscere il codice di quegli extraterrestri.
Aspettava solo il consenso di Lazzaro per lanciare nell'etere quei numeri.
Il sistema era davvero elementare. Immessi nello spazio i codici dei vari pianeti, bastava far seguire semplicemente il messaggio a voce.
I figli si radunarono intorno alla mamma quando arrivò il momento magico.
Marzia trepidava, la sua voce uscì dalla gola emozionata, quasi balbettante.
Lazzaro le aveva messo un braccio intorno al collo e si era chinato a baciarla per farle coraggio.
Lanciò ben cinque inviti ad altrettanti pianeti!
Al termine tirò un sospiro di sollievo, come se avesse spostato una montagna.
La vigilia di Natale trascorse colma di emozioni.
Ogni rumore che sentivano fuori di casa, ogni sibilo di vento, i passi dei ragazzi per le stanze, tutto li metteva in agitazione, come se quegli ospiti straordinari stessero davvero arrivando.
Lazzaro era il più scettico di tutti e raccomandava ai ragazzi di non raccontare niente in giro.
«Non verranno. Sono troppo intelligenti per non capire che non sono realmente graditi. Li abbiamo sempre emarginati e loro lo sanno bene.»
A mezzanotte, durante la Messa solenne, Marzia chiese una grazia a Gesù bambino, e anche i figli in segreto pregarono perché quel loro desiderio di stringere amicizia con gli extraterrestri si avverasse.
L'universo sarebbe diventato più bello, più caldo, più accogliente, più vicino, più conosciuto, se tra i pianeti così diversi e lontani si fosse potuto più facilmente e con più amore comunicare.
Marzia era questo che voleva, ed ora lo volevano con tutto il cuore anche i suoi figli e il suo adoratissimo Lazzaro.
Fu il mattino dopo, poco prima di andare a tavola, proprio pochi minuti prima che Lazzaro invitasse i suoi a non illudersi più, a non attendere quegli ospiti, che qualcuno suonò alla porta.
A Marzia si illuminarono gli occhi.
Di corsa, seguita dai figli, andò all'uscio e lo spalancò. Ancor prima di vederli, ancor prima di udire il loro saluto, già aveva allargato le braccia per stringerli assieme in un grande, calorosissimo abbraccio.

 
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view post Posted on 19/2/2009, 13:40

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L'AGRIFOGLIO



di Gina Marzetti Noventa




Il pastorello si sveglia all'improvviso. In cielo v'è una luce nuova: una luce mai vista a quell'ora. Il giovane pastore si spaventa, lascia l'ovile, attraversa il bosco: è nel campo aperto, sotto una bellissima volta celeste. Dall'alto giunge il canto soave degli Angeli.
- Tanta pace non può venire che di lassù - pensa il pastorello, e sorride tranquillizzato.
Le pecorine, a sua insaputa, l'hanno seguito e lo guardano stupite.
Ecco sopraggiungere molta gente e tutti, a passi affrettati, si dirigono verso una grotta.
- Dove andate? - chiede il pastorello.
- Non lo sai? - risponde, per tutti, una giovane donna. - È nato il figlio di Dio: è sceso quaggiù per aprirci le porte del Paradiso.
Il pastorello si unisce alla comitiva: anch'egli vuole vedere il Figlio di Dio. A un tratto, si sente turbato: tutti recano un dono, soltanto lui non ha nulla da portare a Gesù. Triste e sconvolto, ritorna alle sue pecore. Non ha nulla; nemmeno un fiore; che cosa si può donare quando si così poveri?
Il ragazzo non sa che il dono più gradito a Gesù è il suo piccolo cuore buono.
Ahi! Tanti spini gli pungono i piedi nudi. Allora il pastorello si ferma, guarda in terra ed esclama meravigliato: - Oh, un arbusto ancor verde!
È una pianta di agrifoglio, dalle foglie lucide e spinose.
Il coro di Angeli sembra avvicinarsi alla terra; c'è tanta festa attorno. Come si può resistere al desiderio di correre dal Santo Bambino anche se non si ha nulla da offrire?
Ebbene, il pastorello andrà alla divina capanna; un ramo d'agrifoglio sarà il suo omaggio.
Eccolo alla grotta. Si avvicina felice e confuso al bambino sorridente che sembra aspettarlo.
Ma che cosa avviene? Le gocce di sangue delle sue mani, ferite dalle spine, si trasformano in rosse palline, che si posano sui verdi rami dell'arbusto che egli ha colto per Gesù.
Al ritorno, un'altra sorpresa attende il pastorello: nel bosco, tra le lucenti foglie dell'agrifoglio, è tutto un rosseggiare di bacche vermiglie.
Da quella notte di mistero, l'agrifoglio viene offerto, in segno di augurio, alle persone care.


 
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view post Posted on 19/2/2009, 14:08

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QUANDO VENDETTERO IL NATALE



di Enrico Maria Ferrari




Me lo ricordo bene il Natale di quell'anno, io ero ancora un ragazzo ma certe cose non si scordano.

Come al solito lo Spirito Natalizio arrivò ben presto, mi pare l'11 Novembre quell'anno, annunciato dagli spot del Panettone Bauli che riuscì a fregare sul tempo Motta. Cominciarono quindi i preparativi, i negozianti si affrettarono a spolverare i resti di magazzino per preparare le novità di Natale, le agenzie aumentarono i prezzi delle grandiose offerte sconto per un Natale alle Maldive e le signore ripulirono le loro pellicce ancora imbrattate dal sugo di pomodoro che si erano tirate addosso lo scorso anno per auto-protesta contro l'"inutile strage", molte macchie non andavano via ma pazienza, si trattava di indossarle fino al 7 gennaio, data in cui avevano deciso di auto-protestare buttandosi addosso del sugo di pomodoro.

Tutti indistintamente proclamarono di voler fare regali intelligenti e utili e difatti aumentarono a dismisura la vendita di spremi-cipolle elettronici e di rasoi per i peli del naso. Un'abile campagna pubblicitaria convinse milioni di italiani che era indispensabile comprare Linda, la perfetta spazzola per lavare un cavallo. In famiglia lo zio Ernesto si confuse molto e credendo di comprare una cosa intelligente prese l'ultimo libro di Sgarbi.

Arrivarono i poveri zampognari per suonare nelle vie del centro e raccogliere qualche elemosina, i più perfidi estorcevano i soldi con ricatti musicali:" O mi dai mille lire o ti suono Toto Cotugno". Alla sera facevano ritorno alle loro povere case e in effetti a quell'ora si notava sempre un aumento del traffico di Mercedes.

L'imperativo era:" essere più buoni" e tutti fummo molto buoni. Gli automobilisti si scambiavano insulti su cartoncini colorati e i tifosi allo stadio si picchiavano cantando "Santo Natale", gli scippatori lasciavano un fiore alle signore derubate.

Innumerevoli come al solito le cene di beneficenza e i poveri andarono a ruba, tutti se li accaparravano a suon di milioni e fino al 26 non se ne riuscì a trovarne più uno.

Per amore dell'ecologia non si comprò più l'albero di Natale, al suo posto se ne costruiva uno di cemento, i più ricchi si facevano costruire il loro albero in giardino da una squadra di operai , di gran moda divenne regalare "Fai da te il tuo albero di Natale" che consisteva in un sacco dell'Italcementi.

Il Papa invece del solito abete gigantesco fece costruire in Piazza San Pietro una torre panoramica di 30 metri con chiesa rotante in cima.

Gli italiani si dimostrarono sensibili ai problemi dell'ecologia ed infatti rimase invenduto il tacchino: curiosamente il 28 Dicembre il pollo fu dichiarato specie in estinzione.

Partì quindi la corsa all'augurio, da fare a voce, per posta ma soprattutto per telefono: il traffico telefonico fu intensissimo, tanto che il 29 Dicembre tutti gli abbonati italiani ricevettero un cartoncino d'argento bordato d'oro sul quale c'era scritto:" LA SIP SENTITAMENTE RINGRAZIA, LE RICORDIAMO LE PROSSIME FESTIVITA' " seguiva un elenco di 52 date con ricorrenze inesistenti.

Molti preferirono comunque spedire gli auguri per posta, mia madre mandò un cartoncino con scritto "Buon Natale e felice 2015", allegando un fossile e altri regali non deperibili negli anni.

La sera del 24 ci furono i festeggiamenti di rito, il Papa celebrò la Messa in 56 lingue, gli unici che stettero a sentirle tutte furono i leghisti che sperarono fino all'ultimo di sentirla in milanese. Il Presidente delle Repubblica fece un discorso alla Nazione e disse che s'impegnava personalmente a garantire democrazia e onestà per tutti, i mafiosi brindarono felici.

Poi il 26 accadde quello che tutti sappiamo: Agnelli annunciò che la campagna promozionale natalizia Fiat era andata così bene che aveva deciso di prolungarla acquistando i diritti sul Natale e proclamandolo festa nazionale ogni due settimane. Dopo le prime incertezze ci adeguammo di buon grado, fa piacere ricevere un regalo ogni quindici giorni, l'unica cosa è che mi sono stufato di dover mangiare il panettone anche il 10 di Agosto.


Thomas Matthaeus Muller

Quella Volta che Babbo Natale non si Svegliò in Tempo



Hubert, l'anziano Babbo Natale, saltò giù dal letto: accipicchia, non si era svegliato in tempo!
Era già la vigilia di Natale, e non c'era ancora nulla di pronto, nemmeno un pacchettino! Dappertutto sul pavimento erano sparse in disordine le molte letterine di Natale che il postino aveva fatto passare attraverso una fessura della porta.
Quasi contemporaneamente qualcuno busso alla porta e la renna Max, fedele assistente di Hubert, entro puntuale come ogni anno. "E che cosa faccio adesso?" si lamento Hubert. "La sveglia non ha suonato!" "Chiedi a Otto, il mago, se può fermare il tempo, cosi tu potresti procurarti ancora tutti i regali", suggerì la renna Max.
"Otto sa soltanto far apparire conigli dal cilindro!" brontolo arrabbiato Hubert. "E per di più soltanto bianchi!" "Allora portiamoci dietro la cassa dei travestimenti", disse la renna Max. La cassa dei travestimenti era un baule enorme e pesante, piena di vecchi costumi, fazzoletti colorati, cappelli, scarpe e scialli che Hubert, anni prima, aveva ricevuto in regalo da una compagnia teatrale.
Quando la caricarono sulla slitta questa si ruppe nel mezzo. "E adesso che faccio?" si lamento Hubert. "Portiamola a mano." sbuffo la renna Max, si sfrego gli zoccoli prima di mettersi al lavoro e trasportarono la cassa cosi per tutta la strada fino in città... per fortuna era in discesa. Tutti i bambini stavano già aspettando con ansia i regali di Natale.
Ma quell'anno Hubert e Max, al posto dei regali, fecero una divertente rappresentazione teatrale. E non ebbero niente in contrario quando, uno dopo l'altro, i bambini si misero anch'essi a recitare. Si narrava di un Babbo Natale stanco e arruffato... e l'inizio faceva cosi:
Hubert, l'anziano Babbo Natale, salto giù dal letto ... accipicchia, non si era svegliato in tempo!





Edited by birillino8 - 8/3/2009, 23:20
 
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view post Posted on 4/3/2009, 23:18

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LA LEGGENDA DEL VISCHIO

di I. Drago



Il vecchio mercante si girava e rigirava, senza poter prendere sonno.
Gli affari, quel giorno, erano andati benissimo: comprando a dieci, vendendo a venti, moneta su moneta, aveva fatto un bel mucchietto di denari.
Si levò. Li volle contare. Erano monete passate chissà in quante mani, guadagnate chissà con quanta fatica. Ma quelle mani e quella fatica a lui non dicevano niente.
Il mercante non poteva dormire. Uscì di casa e vide gente che andava da tutte le parti verso lo stesso luogo. Preva che tutti si fossero passati la parola per partecipare a una festa.
Qualche mano si tese verso di lui. Qualche voce si levò: - Fratello, - gli gridarono - non vieni?
Fratello, a lui fratello? Ma che erano questi matti? Lui non aveva fratelli. Era un mercante; e per lui non c'erano che clienti: chi comprava e chi vendeva.
Ma dove andavano?
Si mosse un po' curioso. Si unì a un gruppo di vecchi e di fanciulli.
Fratello! Oh, certo, sarebbe stato anche bello avere tanti fratelli! Ma lui cuore gli sussurrava che non poteva essere loro fratello. Quante volte li aveva ingannati? Comprava a dieci e rivendeva a venti. E rubava sul peso. E piangeva miseria per vender più caro. E speculava sul bisogno dei poveri. E mai la sua mano si apriva per donare.
No, lui non poteva essere fratello a quella povera gente che aveva sempre sfruttata, ingannata, tradita.
Eppure tutti gli camminavano a fianco. Ed era giunto, con loro, davanti alla Grotta di Betlemme. Ora li vedeva entrare e nessuno era a mani vuote; anche i poveri avevano qualcosa. E lui non aveva niente, lui che era ricco.
Entrò nella grotta insieme con gli altri; s'inginocchio insieme agli altri.
- Signore, - esclamò - ho trattato male i miei fratelli. Perdonami.
E proruppe in pianto.
Appoggiato a un albero, davanti alla grotta, il mercante continuò a piangere, e il suo cuore cambiò.
Alla prima luce dell'alba quelle lacrime splendettero come perle, in mezzo a due foglioline.
Era nato il vischio.





Edited by birillino8 - 8/3/2009, 23:22
 
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view post Posted on 11/3/2009, 23:42

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A NAZARET



Un giorno Gesù, appena di cinque anni, sedeva sulla soglia di casa, a Nazaret, intento a formare degli uccellini da un blocco di argilla che gli aveva regalato il vasaio di fronte.
Sui gradini della casa vicina sedeva un bambino di nome Giuda; tutto graffi e lividure e i vestiti a brandelli per le continue risse con altri ragazzi di strada. In quel momento era tranquillo, non tormentava nessuno, né s'accapigliava con i compagni, ma lavorava anche lui a un blocchetto di argilla.
A mano a mano che i due bimbi facevano i loro uccellini li mettevano in cerchio dinanzi a sé.
Giuda, che di tratto in tratto guardava furtivo il compagno per vedere se facesse più uccelli di lui e più belli, gettò un grido di meraviglia quando vide che Gesù tingeva i suoi uccellini con il raggio di sole colto dalle pozze d'acqua.
Anche lui allora immerse la mano nell'acqua luminosa. Ma il raggio di sole non si lasciò pigliare. Filava via dalle sue mani per quanto egli si affaticasse a muovere lesto le dita tozze per acchiapparlo, e ai suoi uccelli non poté dare neppure un pochino di colore.
- Aspetta, Giuda - esclamò Gesù - vengo io a colorire i tuoi uccellini.
- No, non devi toccarli; stanno bene così! - gridò Giuda; poi, in un impeto d'ira calcò il piede suoi suoi uccelli riducendoli l'uno dopo l'altro in un ammasso di fango.
Quando tutti gli uccelli furono distrutti si avvicinò a Gesù, che stava accarezzando i suoi, sfavillanti come pietre preziose. Giuda li osservò un momento in silenzio, poi alzò il piede e ne pestò uno.
- Giuda, che fai? Non sai che sono vivi e possono cantare?
Ma Giuda rideva e ne calpestò un altro, poi un altro, un altro ancora.
Gesù si guardò attorno cercando un soccorso. Giuda era lato, robusto ed egli non aveva la forza di fermarlo. Guardò la madre; non era lontana, ma prima che fosse venuta Giuda avrebbe distrutto tutti gli uccelli.
Gli si riempirono gli occhi di lacrime. Quattro erano già ridotti in mota; ne rimanevano tre ancora.
Gesù si struggeva che i suoi uccellini stessero quieti e si lasciassero calpestare senza fuggire alla rovina. Allora batté le mani per destarli e gridò: - Volate! Volate!
I tre uccelletti cominciarono a muovere le ali, le batterono timorosi, poi presero il volo fino all'orlo del tetto dove si sentirono in salvo.
 
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