Lucio Anneo Seneca

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view post Posted on 27/5/2009, 20:55

ottimo

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LIBRO SEDICESIMO





96

1 Tu ti sdegni e ti lamenti per qualche contrarietà e non capisci che in esse non c'è niente di male, se non il tuo sdegno e i tuoi lamenti? Vuoi il mio parere? Secondo me la sola infelicità per l'uomo è ritenere che nella natura ci siano elementi d'infelicità. Non sopporterò più me stesso il giorno in cui non sarò in grado di sopportare qualche disgrazia. Sto male: fa parte del destino. La servitù è malata, i debiti mi opprimono, la casa scricchiola, disgrazie, danni, pene, paure mi sono piombati addosso: sono cose che càpitano. O meglio: dovevano capitare. Non sono avvenimenti casuali: sono decretati. 2 Vuoi credermi? Ora ti svelerò i miei intimi sentimenti: in tutte le situazioni che appaiono avverse e critiche, mi comporto così: non obbedisco a dio, sono d'accordo con lui: lo seguo spontaneamente e non perché è necessario. Qualunque cosa accada non l'accoglierò mostrandomi triste o con volto accigliato: non pagherò nessun tributo controvoglia. Tutto ciò che ci fa piangere o ci atterrisce è un tributo che va pagato alla vita: non sperare, Lucilio mio, l'immunità, non chiederla nemmeno. 3 Soffri di dolori alla vescica, sono arrivate lettere poco piacevoli, hai subìto danni continui, - dirò di più - hai temuto per la vita. Come? Non sapevi che augurandoti la vecchiaia, ti auguravi questo? Sono tutte disgrazie in cui ci si imbatte in una vita lunga, come in un lungo viaggio ti imbatti nella polvere, nel fango, nella pioggia. 4 "Ma io volevo vivere, e non avere, però tutti questi fastidi." Parole così effeminate sono indegne di un uomo. Vedrai tu come accogliere questo mio augurio; te lo faccio di cuore e con animo generoso: dèi e dee non ti permettano di essere nelle grazie della fortuna! 5 Chieditelo: se un dio ti desse facoltà di scelta, vorresti vivere in un mercato o in un accampamento? Ma, caro Lucilio, vivere è fare il soldato. Perciò coloro che sono sbattuti qua e là, e costretti a percorrere per dritto e per traverso strade faticose e difficili e affrontano spedizioni piene di rischi, sono uomini valorosi, i primi tra i soldati; quanti, invece, si lasciano languidamente andare a un ozio nauseante, mentre gli altri si affannano, sono delle colombelle, e si garantiscono la sicurezza con il disonore. Stammi bene.



97

1 Hai torto, Lucilio mio, se attribuisci solo al nostro secolo la dissolutezza, l'indifferenza alla moralità, e gli altri vizi che ognuno rimprovera alla propria epoca: sono colpe degli uomini, non dei tempi. Non c'è nessuna età innocente e se tu vuoi passare in rassegna secolo per secolo la sfrenatezza, vedrai - rincresce dirlo - che la depravazione più spudorata ci fu proprio quando visse Catone. 2 Nessuno potrebbe credere che il denaro abbia giocato un ruolo determinante nel processo che vedeva accusato P. Clodio di adulterio; lo aveva commesso in un penetrale con la moglie di Cesare e aveva violato i riti religiosi di un sacrificio che, dicono, si celebra a favore del popolo, e nel quale tutti gli uomini vengono allontanati dallo spazio sacro in maniera così tassativa da arrivare a velare le pitture raffiguranti animali maschi. Eppure i giudici furono comprati e, cosa ancor più abbietta di questo patto, fu preteso per giunta lo stupro di matrone e di nobili giovani. 3 Il delitto fu meno grave dell'assoluzione: l'accusato di adulterio dispensò adulterî e fu sicuro della sua salvezza solo dopo aver reso i giudici identici a se stesso. E questo avvenne nel processo in cui, per non dir altro, uno dei testimoni era Catone. Riferirò proprio le parole di Cicerone perché la cosa ha dell'incredibile. 4 "Chiamò a sé i giudici, promise, supplicò, dette. E poi, buon dio, che infamia! per soprammercato alcuni giudici ottennero anche i favori di determinate donne e le grazie di nobili giovani." 5 Perché recriminare per il denaro? Il peggio è stato nelle aggiunte. "Ti piacerebbe la moglie di quel personaggio così austero? È tua. O di questo tanto ricco? Anche lei sarà tua, te lo garantisco. Se non si combina, condannami pure. Desideri quella bella donna? Verrà. Ti prometto una notte con lei e presto; entro tre giorni manterrò la mia promessa." Dispensare adulterî è più grave che commetterli: questa è un'intimazione alle madri di famiglia. 6 I giudici di Clodio avevano chiesto e ottenuto dal senato una scorta, necessaria solo in caso di condanna; e così, dopo l'assoluzione, Catulo disse loro spiritosamente: "Perché ci avete chiesto una scorta? Per paura che portassero via il denaro?" Scherzi divertenti, ma intanto Clodio, adultero prima del processo, ruffiano durante il processo, la fece franca e sfuggì alla condanna con atti più esecrabili di quelli per cui l'aveva meritata. 7 Secondo te, ci fu mai corruzione maggiore di quando la dissolutezza non la potevano frenare i riti sacri, né i processi, e in un'inchiesta straordinaria, promossa con delibera del senato, si commisero azioni peggiori di quelle inquisite? Si indagava se dopo un adulterio non potesse essere al sicuro: fu chiaro che non si poteva essere al sicuro senza adulterio.

8 Questo avvenne negli anni di Pompeo e Cesare, di Cicerone e Catone, proprio quel Catone durante la cui magistratura, secondo quanto raccontano, il popolo non osò chiedere gli spettacoli della dea Flora con prostitute nude, se ti pare credibile che allora ci fosse più rigidità negli spettacoli che nei verdetti. Questi misfatti sono accaduti e accadranno ancora in futuro: in una città la corruzione può finire a volte per disciplina e per paura, mai spontaneamente. 9 Pertanto non devi credere che abbiamo concesso moltissimo alla sfrenatezza e quasi niente alle leggi: i nostri giovani sono molto più moderati di una volta, quando l'accusato negava davanti ai giudici l'adulterio e i giudici lo confessavano davanti all'accusato, quando si commetteva uno stupro per celebrare un processo, quando Clodio, benvisto per gli stessi vizi per i quali era colpevole, faceva il ruffiano perfino durante la sua difesa. Chi lo crederebbe? Uno condannato per un solo adulterio fu assolto grazie a molti adulterî.

10 Ogni epoca avrà i suoi Clodi, non tutte dei Catoni. Siamo portati al peggio, intanto perché è difficile che ci manchino una guida o un compagno e poi perché la corruzione procede da sola anche senza guida o compagni. La strada al vizio non solo è in discesa, precipita; c'è poi un fatto che rende la gran parte degli uomini incorreggibili: in altri campi gli errori generano vergogna in chi li commette, mortificano chi ha sbagliato, ma degli errori di condotta ci si compiace. 11 Il pilota non gioisce se la barca si rovescia, e nemmeno il medico se il malato finisce nella bara, o l'avvocato se l'imputato perde la causa per colpa della difesa, invece, tutti si rallegrano delle proprie malefatte; uno è soddisfatto dell'adulterio, a cui l'ha spinto proprio la difficoltà di realizzarlo; un altro di una frode o di un furto, e non prova dispiacere per il suo peccato, ma per l'insuccesso del medesimo. La causa sta nelle cattive abitudini. 12 Sappi del resto che il senso del bene, sotto, sotto, si trova anche negli animi più abietti, e che la disonestà non è ignorata, ma trascurata; tutti celano le loro colpe e, anche se hanno un felice esito, ne godono i frutti, ma di nascosto. La buona coscienza, invece, vuole mostrarsi e farsi notare: la malvagità ha paura anche del buio. 13 Quindi, secondo me, Epicuro ha detto bene: "Càpita che un delinquente rimanga nascosto, ma non ne può avere la certezza", oppure, se per te il significato è più chiaro in questo modo: "Ai colpevoli non serve stare nascosti, perché, anche se ne hanno la fortuna, non ne hanno la certezza". È vero, chi commette un delitto può starsene al sicuro, ma non essere tranquillo. 14 Non credo che questo pensiero, spiegato così, sia in contrasto con la nostra scuola. Perché? Perché la prima e più grave punizione dei colpevoli consiste nella colpa commessa, e nessun delitto, per quanto la fortuna lo colmi di doni, lo protegga e lo difenda, rimane impunito: il castigo del delitto sta nel delitto stesso. E tuttavia, a questa punizione se ne aggiungono e incalzano altre: la continua paura, il terrore e l'eterna insicurezza. Perché liberare la malvagità da questo tormento? Perché non tenerla sempre nell'incertezza? 15 Noi non siamo d'accordo con Epicuro quando dice che niente è giusto per natura e che i delitti si devono evitare perché la paura è inevitabile; condividiamo, invece, che le cattive azioni sono torturate dalla coscienza: il suo maggior tormento è l'essere straziata senza tregua da un'ansia continua e il non poter credere a chi promette tranquillità. È proprio questa la prova, caro Epicuro, che noi aborriamo la criminalità per disposizione naturale: tutti i delinquenti hanno paura, anche se sono al sicuro. 16 La sorte libera molti dalla prigione, nessuno dalla paura. Perché? Perché è radicata in noi la ripugnanza per un'azione condannata dalla natura. Per questo anche chi sta nascosto non è mai sicuro di rimanerlo: la coscienza lo accusa e lo smaschera a se stesso. Vivere in ansia è proprio dei colpevoli. Molti delitti sfuggono alla legge, ai giudici, alle pene sancite dalla legge: sarebbe, quindi, grave per gli uomini se i criminali non scontassero sùbito le dure punizioni della natura e la paura non prendesse il posto delle pene. Stammi bene.



98

1 Non è felice, credimi, chi dipende dal benessere materiale. Poggia su fragili basi e gode di beni che vengono dal di fuori: la gioia, come è venuta, se ne andrà. Quella che scaturisce dall'intimo, invece, è durevole e stabile, cresce e ci accompagna fino all'ultimo: gli altri beni, apprezzati dalla massa, durano un giorno. "Ma come? Non possono essere utili e piacevoli?" Chi dice di no? Ma solo se dipendono loro da noi, non noi da loro. 2 Tutti i beni soggetti alla fortuna diventano fruttuosi e gradevoli, se chi li possiede, possiede anche se stesso e non è in balia delle cose. È un errore, Lucilio mio, pensare che la fortuna ci concede o il bene o il male: essa ci dà materia di bene e di male e i fondamenti di quello che si tradurrà per noi in male o in bene. L'anima è più forte di ogni fortuna, indirizza da sé le cose in un senso o nell'altro ed è causa della propria felicità o infelicità. 3 Se è malvagia volge tutto in male, anche quello che appariva ottimo; se è virtuosa e pura, corregge i mali della fortuna, addolcisce le difficoltà, gli affanni e sa sopportarli, accoglie la prosperità con gratitudine e moderazione, l'avversità con fermezza e coraggio. Ma sebbene sia saggia e agisca sempre ponderatamente, sebbene non tenti nulla al di sopra delle sue forze, non raggiungerà mai quel bene incorrotto, che non conosce minacce, se non si erge salda contro i capricci della fortuna. 4 Se osserverai gli altri - giudichiamo più serenamente quando non si tratta di noi - o te stesso, cercando di essere obiettivo, ti accorgerai e dovrai ammettere che delle cose desiderabili e gradite nessuna è utile se non sarai pronto ad affrontare la volubilità del caso e dei beni che seguono il caso, se ad ogni male non ripeterai, spesso, senza lamentarti queste parole:

Gli dèi hanno deciso diversamente.



5 Anzi, per dio, voglio trovare un verso più incisivo e più giusto per sostenere meglio la tua anima: ogni volta che gli eventi tradiranno le tue aspettative, di': "Gli dèi hanno deciso meglio." Se uno si comporta così, niente lo coglierà di sorpresa. Ma questo atteggiamento lo terrà se avrà preso in considerazione, prima di sperimentarle, le possibili conseguenze delle vicende umane e se godrà dei figli, del coniuge, dei beni come se non dovesse goderne per sempre e non diventasse più infelice perdendoli. 6 È proprio misera l'anima inquieta per il futuro e infelice prima che l'infelicità arrivi, angosciata che i beni di cui gode non durino fino alla morte; non troverà mai pace e nell'attesa del futuro perderà i beni presenti, di cui avrebbe potuto godere. Il dolore per la perdita di un bene e il timore di perderlo sono sentimenti sullo stesso piano. 7 Ma non per questo ti consiglio l'indifferenza. Evita i mali temibili, prevedi quanto si può saggiamente prevedere, spia e allontana molto prima che si verifichi tutto quello che ti può danneggiare. A questo scopo ti servirà molto la fiducia in te stesso e un animo risoluto a sopportare ogni disgrazia. Può guardarsi dalla sorte chi è in grado di sopportarla; certo una persona tranquilla non si lascia sconcertare. Non c'è cosa più misera e sciocca che temere prima del tempo: è da pazzi prevenire i propri mali. 8 Voglio, infine, esprimerti brevemente quello che provo e descriverti questi uomini che si affannano e sono gravosi a se stessi: mancano di misura sia nelle disgrazie che prima. Si duole più del necessario chi si duole prima del necessario: è debole e non sa valutare il dolore, come non sa aspettarlo; con la stessa sfrenatezza immagina eterna la sua felicità, crede che i beni avuti in sorte debbano non solo durare, ma aumentare e, dimentico dell'instabilità delle vicende umane, presagisce per lui solo la stabilità dei doni della fortuna. 9 Secondo me è molto bella l'affermazione di Metrodoro in quella lettera indirizzata alla sorella che aveva perso un figlio di qualità eccezionali: "Ogni bene dei mortali è mortale." Parla dei beni che tutti bramano: il vero bene, saggezza e virtù, non muore, è sicuro ed eterno; è l'unica cosa immortale che tocca ai mortali. 10 Ma gli uomini sono tanto insensati e dimentichi della meta a cui li spinge ogni giorno che passa, che si stupiscono di perdere qualcosa, quando in un solo giorno perderanno tutto. Tutti i beni di cui pretendi d'essere il padrone, li hai con te, ma non sono tuoi; non c'è niente di sicuro per chi è insicuro, niente di eterno e di duraturo per chi è caduco. È inevitabile tanto perdere la vita, quanto perdere i beni e, se lo comprendiamo, proprio questo è un conforto. Impara a perdere tutto serenamente: dobbiamo morire.

11 Per fronteggiare queste perdite che cosa ci può essere di aiuto? Questo: ricordiamoci dei beni perduti e non lasciamo che con essi svaniscano i frutti che ce ne sono derivati. Ce ne viene tolto il possesso, non il fatto di averli posseduti. È davvero un ingrato chi, quando perde qualcosa, non si sente debitore per averla avuta. Il caso ci sottrae un bene, ce ne lascia, però l'usufrutto, e noi lo perdiamo con i nostri ingiusti rimpianti. 12 Di' a te stesso: "Nessuno di questi mali che sembrano terribili, è invincibile." Tanti uomini in passato ne hanno vinto ora l'uno, ora l'altro: Muzio il fuoco, Regolo il supplizio, Socrate il veleno, Catone la morte infertasi con la spada: vinciamone anche noi qualcuno. 13 D'altra parte questi beni che, belli e fecondi in apparenza, attraggono la massa, molti individui li hanno spesso disprezzati. Fabrizio, quando era comandante dell'esercito, rifiutò la ricchezza, e da censore la biasimò; Tuberone giudicò la povertà degna di lui e del Campidoglio, quando, servendosi di stoviglie di terracotta per un pranzo ufficiale, dimostrò che l'uomo deve contentarsi di quello che ancòra si usa nei sacrifici agli dèi. Suo padre, Sestio, che per nascita sarebbe dovuto entrare nella carriera politica, rifiutò le cariche e non accettò la dignità senatoria che Giulio Cesare gli offriva: capiva che quanto può essere dato, si può anche togliere. Compiamo pure noi qualche azione coraggiosa, diventiamo un esempio per gli altri. 14 Perché arrenderci? Perché disperare? Tutto quello che è stato possibile fare in passato, lo si può fare oggi, purché manteniamo pura l'anima e seguiamo la natura: chi se ne allontana, sarà schiavo della paura, delle passioni e del caso. Si può tornare sulla retta via, si può recuperare l'integrità perduta: recuperiamola, potremo sopportare ogni tipo di dolore fisico e dire alla sorte: "Hai a che fare con un vero uomo: per vincere cercati un altro".

15 * * * Con questi discorsi e con altri simili si lenisce la virulenza di quella ferita che io desidero, per dio, si mitighi e guarisca, oppure non peggiori e invecchi con lui. Ma per lui io sono tranquillo; il danno è nostro: ci viene strappato un vecchio straordinario. Egli ha vissuto abbastanza e non vuole vivere ancora per sé, ma per quelli a cui è utile. 16 Vivere, per lui, è un atto di generosità: un altro l'avrebbe ormai fatta finita con questi tormenti: fuggire la morte lo considera infame, quanto rifugiarsi in essa. "Ma come? Se la situazione lo consiglia, non lascerà la vita?" E perché no, se non servirà più a nessuno, non gli resterà altro che soffrire? 17 Questo significa, Lucilio mio, imparare la filosofia attraverso l'azione ed esercitarsi a contatto con la realtà: vedere che coraggio dimostra il saggio di fronte alla morte quando si avvicina, di fronte al dolore quando l'opprime; che cosa si debba fare, impariamolo da chi lo fa. 18 Finora si è cercato di argomentare se si possa resistere al dolore oppure se la morte, una volta vicina, possa piegare anche gli animi grandi. Che bisogno c'è di parole? Veniamo ai fatti: la morte non rende il saggio più coraggioso di fronte al dolore, né il dolore di fronte alla morte. Contro l'una e l'altro egli fa affidamento solo su se stesso e soffre con pazienza non perché speri di morire, e muore volentieri non perché sia stanco del dolore: il dolore lo sopporta, la morte l'aspetta. Stammi bene.



99

1 Ti mando la lettera che ho scritto a Marullo: ha perso un figlio ancòra piccolo e, dicono, si comporta da debole: in essa non ho fatto come si fa di solito e non ho ritenuto di doverlo trattare con dolcezza: merita rimproveri più che conforto. Per un po' bisogna essere accomodanti con chi è afflitto e mal sopporta una grave ferita: si sazi o almeno sfoghi il primo impeto di cordoglio: 2 ma se uno sceglie di piangere deve essere rimproverato sùbito e imparare che anche le lacrime sono a un certo modo sconvenienti.

"Aspetti un conforto? Riceverai, invece, dei rimproveri. Ti comporti così da debole per la morte di un figlio; che faresti se avessi perso un amico? È morto un figlio di incerte speranze, ancòra piccolo: il tempo perduto è poco. 3 Noi cerchiamo motivi di dolore e vogliamo, anche a torto, lamentarci della sorte, come se non ci desse fondate ragioni di pianto; ma, per dio, mi sembravi abbastanza forte anche di fronte ai mali concreti, tanto più verso queste parvenze di mali di cui gli uomini si lagnano per abitudine. Se pure avessi perso un amico, che di tutte è la perdita più grave, dovresti cercare di gioire per averlo avuto, più che piangere per averlo perso. 4 Ma la maggior parte della gente non tiene conto dei beni ricevuti, delle gioie provate. Questo dolore ha un difetto tra gli altri: oltre che inutile, è ingrato. E dunque, aver avuto un amico simile è stato infruttuoso? Tanti anni, tanta comunione di vita, tanti studi fatti amichevolmente in comune, non sono serviti a niente? Insieme all'amico seppellisci l'amicizia? E perché ti duoli di averlo perso, se averlo avuto non ti serve a niente? Credimi, gran parte delle persone che abbiamo amato, anche se la morte li ha rapiti, ci rimane vicina; il passato ci appartiene e solo quello che è stato si trova al sicuro. 5 Non siamo riconoscenti per i beni ricevuti, perché speriamo nel futuro, quasi che il futuro, se pure arriva, non si trasformi velocemente in passato. Chi gioisce solo del presente limita a poco i vantaggi della vita: futuro e passato sono fonte di piacere, l'uno con l'attesa, l'altro con il ricordo, ma il primo è incerto e può anche non realizzarsi, il secondo non può non essere esistito. È da pazzi perdere il più sicuro dei beni! Sentiamoci soddisfatti delle gioie già gustate, purché il nostro animo non se le sia lasciate sfuggire tutte, come un vaso rotto perde il contenuto.

6 Sono innumerevoli gli esempi di uomini che hanno celebrato senza piangere i funerali di figli adolescenti, che dal rogo sono tornati in senato o ai pubblici affari e si sono occupati sùbito d'altro. E a ragione: prima di tutto, è inutile dolersi se il dolore non ti serve a niente; e poi è ingiusto lagnarsi di quanto ora succede a uno: è una sorte riservata a tutti; inoltre, querimonie e rimpianti sono da insensati: la distanza fra la persona perduta e chi la rimpiange è breve. Dobbiamo, dunque, rassegnarci, perché seguiamo a ruota chi abbiamo perduto. 7 Considera come il tempo fugga via rapidissimo, pensa alla brevità di questo cammino che percorriamo precipitosamente, di corsa, osserva come l'umanità tutta tenda alla medesima meta, a intervalli brevissimi, anche se sembrano molto lunghi: la persona che secondo te è scomparsa, in realtà ti ha preceduto. Anche tu devi percorrere quel cammino, e allora non è da pazzi piangere chi è andato avanti? 8 Forse che uno piange di un fatto che sapeva sarebbe accaduto? Oppure, se pensava che un uomo potesse essere immortale, si è voluto ingannare da sé. Piange uno di un fatto che lui stesso definiva inevitabile? Chi lamenta la morte di qualcuno, lamenta che sia stato un uomo. Siamo tutti schiavi dello stesso destino; se uno nasce, deve morire. 9 Sia pure in tempi diversi, la fine è uguale per tutti. Il tempo che vivi fra il primo e l'ultimo giorno è vario e indefinito: lungo anche per un bambino, se consideri le pene, breve anche per un vecchio, se ne consideri la rapidità. Tutto è instabile, fallace e più mutevole di ogni burrasca: tutto è sconvolto e muta per i capricci della sorte: fra tanto variare delle vicende umane, la sola cosa certa è la morte; eppure, tutti si lamentano della sola cosa che non inganna nessuno.

10 "Ma è morto bambino." Non ho ancora detto che sia meglio se uno muore presto; passiamo a chi invecchia: come supera di poco un bambino! Immagina di abbracciare l'immensità del tempo e l'universo, poi paragona all'infinito quella che chiamiamo vita umana: vedrai come è poca cosa questa vita che desideriamo e cerchiamo di prolungare. 11 Che parte ne occupano le lacrime, gli affanni? E la morte desiderata prima dell'ora e le malattie e la paura? Che parte ne hanno gli anni dell'inesperienza o quelli inutili della vecchiaia? La metà della vita, poi, la passiamo dormendo. Aggiungi fatiche, dolori, pericoli e capirai che anche di una vita lunghissima se ne vive una minima parte. 12 Ma chi ti dice che non stia meglio chi può tornarsene presto, chi finisce il suo cammino prima di essere stanco? La vita non è un bene, e neppure un male: comprende bene e male. Così quel bambino ha perso solo il rischio, forse la certezza di disgrazie maggiori. Sarebbe potuto diventare un uomo misurato e saggio, formarsi al meglio, sotto le tue cure. Ma - e sono timori fondati - avrebbe potuto diventare simile alla massa. 13 Guarda quei giovani di nobilissima famiglia che la dissolutezza ha gettato nell'arena; guarda quei giovani senza pudore che soddisfano reciprocamente le proprie e le altrui voglie; non passa giorno senza che siano ubriachi, senza che si macchino di qualche grave infamia; ti sarà chiaro che i timori sarebbero stati maggiori delle speranze. Non procurarti, perciò motivi di dolore e non accrescere col tuo sdegno contrarietà di poco conto. 14 Non ti esorto a fare ogni sforzo per sollevarti: non ti giudico così male da pensare che tu debba fare appello a tutta la tua virtù per fronteggiare questa disgrazia. Non è dolore questo, è una fitta: sei tu a farne un dolore. Sicuramente la filosofia ti ha giovato molto, se non ti abbandoni al rimpianto per un bambino più conosciuto alla nutrice che al padre.

15 E che? Ora ti consiglio forse la durezza e voglio che il tuo volto rimanga impassibile perfino durante il funerale e non concedo nemmeno che ti si stringa il cuore? No, niente affatto. È crudeltà, non virtù, guardare la sepoltura dei propri cari con gli stessi occhi con cui li vedevi in vita e non commuoversi al momento del distacco dai familiari. Ma immagina che io te lo vieti: certe reazioni sono incontrollate; le lacrime cadono anche se uno cerca di trattenerle e sgorgando dànno sollievo all'anima. 16 E allora? Lasciamole scendere, ma non a comando; scorrano secondo l'impeto della commozione, non per imitare gli altri. Non accresciamo la nostra tristezza e non esageriamola sull'esempio altrui. L'ostentazione del dolore esige più del dolore: quanti sono tristi per se stessi? Se c'è gente che li ascolta, si lamentano ad alta voce, e mentre da soli se ne stanno calmi e silenziosi, appena vedono qualcuno riprendono di nuovo a piangere; si percuotono il capo (cosa che avrebbero potuto fare più liberamente quando nessuno glielo impediva), si augurano la morte, si rotolano sul letto: scomparso il pubblico, scompare il dolore. 17 Anche in questa, come in altre circostanze, facciamo lo sbaglio di uniformarci all'esempio della maggioranza e badiamo alle consuetudini, non alla convenienza. Ci allontaniamo dalla natura, ci offriamo al popolo, cattivo consigliere sempre, ed estremamente volubile in questo frangente come in tutti gli altri. Vede uno che sopporta con coraggio il proprio dolore? Lo definisce empio e crudele. Vede un altro svenire e gettarsi sul cadavere del parente, dice che è effeminato e debole. 18 Bisogna, dunque, ricondurre tutto alla ragione. La cosa più sciocca è cercare di farsi una nomea di tristezza e considerare giuste le lacrime. Ci sono lacrime, secondo me, alle quali il saggio si abbandona e altre che non può trattenere. Ecco la differenza. Appena arriva, la notizia di una morte prematura ci sconvolge, e quando stringiamo il cadavere che dalle nostre braccia passerà sul rogo, per una legge di natura ci sgorgano le lacrime e il respiro sotto la morsa del dolore ci sconvolge tutto il corpo e pure gli occhi facendone uscire il vicino umore. 19 Queste lacrime ci cadono involontariamente per compressione interna. Invece quelle cui diamo via libera se ripensiamo ai nostri cari scomparsi sono diverse e nella nostra tristezza c'è un che di dolce quando ci tornano alla memoria i loro amabili discorsi, la loro allegra compagnia, il loro premuroso affetto, e in quel momento gli occhi si aprono al pianto come nella gioia. A queste lacrime ci abbandoniamo, dalle prime siamo vinti. 20 Non dobbiamo, perciò trattenerle o versarle perché c'è qualcuno intorno o vicino a noi: fingere è vergognoso sia nell'uno che nell'altro caso: le lacrime scorrano spontanee. Possono, però scorrere in modo pacato e composto; spesso, senza perdere il proprio prestigio, il saggio le ha versate con tale misura da mantenere umanità e decoro. 21 Si può secondo me, seguire la natura salvando la dignità. Al funerale dei propri cari, ho visto persone degne di rispetto che sul volto portavano scritto l'amore, senza manifestazioni esteriori di lutto: ogni atteggiamento scaturiva da sentimenti sinceri. Pure il dolore ha un suo decoro; il saggio lo deve mantenere e, come in tutto il resto, anche nelle lacrime c'è un limite: gli uomini dissennati, invece, eccedono e nella gioia e nel dolore.

22 Accogli serenamente l'inevitabile. Che cosa è successo di straordinario, d'insolito? Per quanti uomini proprio adesso si prendono accordi per il funerale, per quanti si comprano i paramenti funebri, quanti piangono dopo di te! Quando penserai che era solo un bambino, pensa anche che era un uomo, e per l'uomo non ci sono certezze e la fortuna non lo conduce necessariamente alla vecchiaia: lo congeda a suo piacimento. 23 Per il resto parla sovente di lui, esalta quando puoi il suo ricordo: ti ritornerà più spesso alla memoria, se non sarà doloroso: nessuno sta volentieri con una persona triste, tanto meno con la tristezza. Se avevi ascoltato con piacere qualche suo discorso, qualche battuta spiritosa anche se di bambino, ricordali di frequente; afferma senza esitazione che avrebbe potuto realizzare le speranze che tu come padre avevi concepito. 24 Dimenticarsi dei propri cari e seppellirne col cadavere il ricordo, piangere a dirotto e poi ricordarli raramente, è disumano. Gli uccelli, le belve amano così i loro piccoli: il loro amore è ardente e quasi furioso, ma, quando li hanno perduti, si estingue interamente. È un comportamento indegno di un saggio: mantenga il ricordo, ma smetta di piangere.

25 Non sono affatto d'accordo con l'affermazione di Metrodoro: c'è un piacere affine alla tristezza e lo dobbiamo cogliere in queste circostanze. Ti trascrivo qui di seguito proprio le sue parole: $Ìçôñïäþñïõ dðéóôïëí ðñ'ò ôxí PäåëöÞí. IÅóôéí ãÜñ ôéò 1/2äïíx$ ‹$ëýðw óõããåíÞò, |í ÷ñz èçñåý$›$åéí êáôN ôï(tm)ôïí ô'í êáéñüí$. 26 Non ho dubbi sul tuo giudizio in proposito; niente è più infame che dar la caccia al piacere proprio nel dolore, anzi tramite il dolore, e cercare un godimento anche fra le lacrime. Sono questi gli individui che ci rinfacciano un'eccessiva severità e accusano di durezza i nostri insegnamenti, perché diciamo che il dolore non va accolto nell'anima oppure va scacciato subito. E dunque, è più incredibile o più disumano non soffrire per la perdita di un amico o andare in cerca del piacere proprio nel dolore? 27 Il nostro insegnamento è onesto: quando abbiamo versato qualche lacrima e l'urgenza dei sentimenti è, come dire, sbollita, non dobbiamo abbandonarci al dolore. Ma come? Tu vuoi mescolare il piacere al dolore? Così con uno zuccherino consoliamo i bimbi, così ne plachiamo il pianto dandogli del latte. Neppure mentre tuo figlio brucia nel rogo e l'amico si spegne, ammetti che il piacere venga meno, ma vuoi solleticare perfino la tristezza? È più onesto scacciare dall'animo il dolore o accordare il piacere anche al dolore? "Accordare" dico? si cerca di averlo e proprio dal dolore! 28 "Esiste un piacere," affermano, "affine alla tristezza." Questo lo possiamo dire noi, non voi. Voi conoscete un solo bene, il piacere, e un solo male, il dolore: che affinità ci può essere fra il bene e il male? Ma immagina che ci sia: la scopriamo proprio adesso? E scrutiamo il dolore per vedere se porta con sé qualcosa di piacevole e di voluttuoso? 29 Rimedi salutari per certe parti del corpo non si possono usare per altre, perché sono indecenti e sconvenienti, e quello che altrove gioverebbe senza ledere il pudore, diventa indecoroso per il punto della ferita: non ti vergogni di guarire un dolore con il piacere? Questa piaga va curata più seriamente. Ricordati piuttosto che chi è morto non sente nessun male: se lo sente, non è morto. 30 Niente fa soffrire chi non c'è più, ti ripeto: se soffre, è vivo. Pensi che una persona stia male perché non esiste più o perché esiste ancòra? Eppure non può soffrire per il fatto di non esistere (ha forse sensibilità il nulla?) e nemmeno per il fatto di esistere, poiché in questo caso è sfuggito al danno più grave della morte: il non essere. 31 Se uno è in lacrime e rimpiange il figlio morto nella prima infanzia, diciamogli anche questo: noi tutti, giovani e vecchi, per la brevità della nostra vita, se confrontata con l'universo, siamo nella medesima condizione. Di tutto il tempo a noi tocca meno di quello che uno potrebbe definire il minimo, perché il minimo è pur sempre una parte: la nostra vita è quasi un nulla; e tuttavia, pazzi, facciamo progetti a lungo termine.

32 Ti scrivo questo non perché tu aspetti da me un rimedio così tardivo (sono certo che ti sei già detto tutto quanto leggerai), ma per rimproverarti quel breve momento di esitazione in cui hai deviato da te stesso, e incitarti per l'avvenire a farti animo contro la fortuna e a guardare a tutti i suoi colpi non come eventuali, ma come sicuri. Stammi bene.



100

1 Mi scrivi di aver letto con grande avidità i libri di Fabiano Papirio sulla politica, ma che hanno deluso le tue aspettative; poi, dimenticando che si tratta di un filosofo, ne critichi la forma. Supponiamo che sia come tu dici e che le parole vengano messe giù senza un'architettura precisa. Prima di tutto, questo stile ha una sua attrattiva ed è la bellezza di una prosa che scivola via dolcemente; secondo me scorrere e venir fuori a precipizio sono due cose molto diverse. Inoltre c'è una grande differenza anche in quello che sto per dire: 2 per me Fabiano riversa la sua eloquenza, senza, però uscire dagli argini; è un'eloquenza ampia, pacata, e tuttavia, ha un suo impeto. Questo indica chiaramente e dimostra immediatezza e spontaneità. Ma ammettiamo che tu abbia ragione: l'intento di Fabiano era di dare una regola ai costumi, non alle parole, e ha scritto per educare, non per diletto. 3 E poi, se lo avessi sentito parlare, non avresti avuto modo di badare ai particolari, tutto preso dal succo del discorso; e in genere quello che piace per l'impeto dell'oratore, una volta trascritto rende meno. Ma è già molto che l'opera attragga a prima vista l'attenzione di chi legge, anche se a un esame più accurato si troveranno delle pecche. 4 Vuoi sapere come la penso? Chi strappa un giudizio favorevole vale di più di uno che questo giudizio lo merita; eppure so che quest'ultimo va più sul sicuro, so che può nutrire speranze più audaci di futuri successi. Non è bene che l'eloquenza di un filosofo sia eccessivamente ricercata: se uno si preoccupa per le parole, non può riuscire vigoroso e fermo, non può mettere alla prova se stesso. 5 Fabiano non si curava della forma, ma non era sciatto. Non troverai niente di volgare: le parole sono scelte, non ricercate, non ne capovolge il senso impiegandole in accezioni opposte alla norma secondo la moda di oggi, e, benché siano prese dal linguaggio comune, sono eleganti. I concetti sono nobili ed elevati, espressi piuttosto diffusamente e non ridotti a sentenze. Potremo scoprire qualche ridondanza, qualche frase mal costruita, qualche elemento privo di questa eleganza oggi in uso: ma in tutto l'insieme non troverai pensieri meschini e vuoti. 6 Una casa anche se non ha varietà di marmi, acqua corrente nelle diverse camere, la cosiddetta stanzetta del povero e tutto ciò che il lusso non contento di ornamenti semplici mette insieme, è pur sempre, come si dice, una buona casa.

Inoltre, i pareri sullo stile sono discordi: certi vogliono che la bellezza derivi dalla semplicità, a certi altri piace la durezza al punto che, se per caso qualche frase risulta troppo dolce, la guastano di proposito e spezzano le clausole per renderle inaspettate. 7 Leggi Cicerone: il suo stile è unitario, segue un ritmo lento, è dolce, ma senza eccessi. Invece quello di Asinio Pollione è scabro, ineguale e si ferma quando meno te l'aspetti. Insomma, in Cicerone i periodi terminano, in Pollione si interrompono, tranne pochissime eccezioni in cui sono legati a un ritmo determinato e a un unico modello.

8 Affermi, inoltre, che secondo te in Fabiano tutto è terra terra e poco elevato: a mio parere è un difetto che non ha. Le sue espressioni non sono terra terra, ma pacate, e nascono da uno stato d'animo tranquillo e sereno; non sono basse, ma chiare. Mancano di vigore oratorio, di quella capacità di incitare, che tu chiedi, e di colpire con frasi inattese; ma l'insieme, ne avrai notata l'eleganza, è bello. La sua eloquenza è priva di grandiosità, ne dà, tuttavia, il senso. 9 Citami qualche scrittore da anteporre a Fabiano. Cicerone, i cui libri di filosofia sono all'incirca numerosi quanto quelli di Fabiano; d'accordo, ma se uno è inferiore a chi è grandissimo, non per questo è da poco. Asinio Pollione: va bene; però ti rispondo: occupare il terzo posto in un campo così importante equivale a distinguersi. Fai ancòra il nome di Tito Livio; ha scritto anche dei dialoghi che si possono considerare storici e filosofici, e dei libri specificatamente filosofici: faccio posto anche a lui. Vedi, tuttavia, quanti autori si lasci alle spalle uno che è superato solo da tre e per giunta straordinariamente eloquenti.

10 Fabiano, però non eccelle in tutto: la sua eloquenza non è vigorosa, anche se elevata; non è impetuosa e irruente, anche se sciolta; è schietta, ma non limpida. "Le sue parole," dici "dovrebbero essere più severe contro i vizi, più coraggiose contro i pericoli, più altere contro la fortuna, più oltraggiose contro l'ambizione. Vorrei che biasimasse il lusso, schernisse la libidine, rintuzzasse la prepotenza. Che ci fosse in lui la veemenza dell'oratoria, la grandezza della tragedia, l'asciuttezza della commedia." Tu vorresti che Fabiano badasse a una cosa da poco: le parole; lui si è dedicato alla grandezza dell'argomento, e si è trascinato dietro l'eloquenza come un'ombra, senza curarsene. 11 I singoli elementi sono senza dubbio poco meditati e mal collegati tra loro, non tutte le parole sono accese e pungenti, lo ammetto: molte espressioni passano inosservate, senza colpire, e il discorso talvolta scorre via senza nerbo; ma in ogni pagina ci sono sprazzi di luce e ne puoi scorrere lunghi brani senza annoiarti. Infine, ti sarà chiaro che egli sentiva le cose che ha scritto. Capirai che non ha voluto piacere a te, ma farti sapere ciò che a lui piaceva. L'intera opera tende a rendere migliori, a educare lo spirito: non cerca il plauso.

12 Sono certo che i suoi scritti sono di questo tipo, anche se, più che averli presenti, ne ho un vago ricordo, e le loro caratteristiche non le ho bene impresse, come avviene dopo una lettura recente, ma li ricordo in modo sommario: sono frutto di una conoscenza di vecchia data; quando lo ascoltavo parlare, i suoi discorsi mi sembravano, se non connessi in maniera organica, consistenti, cioè capaci di elevare un giovane di indole onesta e di spingerlo all'emulazione con buone speranze di superare il suo modello: e questo mi pare un incoraggiamento efficacissimo. Distoglie i giovani, chi suscita in loro il desiderio di imitarlo, ma li priva della speranza di riuscire. Del resto la sua eloquenza era sovrabbondante e magnifica nell'insieme, nonostante le singole componenti non avessero pregi particolari. Stammi bene.

 
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view post Posted on 27/5/2009, 21:11

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LIBRI DICIASSETTESIMO-DICIOTTESIMO





101

1 Ogni giorno, ogni ora ci mostra che siamo un nulla e con qualche nuovo argomento ricorda a noi dimentichi la nostra caducità, e mentre concepiamo progetti come se fossimo eterni ci costringe a guardare alla morte. Chiedi che cosa significhi questa premessa? Tu conosci Cornelio Senecione, cavaliere romano illustre e cortese: da un'umile origine era arrivato in alto, destinato a ulteriori e facili successi. L'inizio di una carriera è più difficile che il suo sviluppo. 2 Anche il denaro tarda molto ad arrivare, se uno è povero: alla povertà si rimane attaccati, finché non si riesce a tirarsene fuori. Senecione ormai mirava ad arricchirsi e a questo lo portavano due qualità validissime: la capacità di procurarsi il denaro e quella di conservarlo; sarebbe bastata una sola delle due a renderlo ricco. 3 Quest'uomo molto frugale, che aveva cura tanto del patrimonio quanto del suo corpo, mi aveva fatto visita al mattino, come d'abitudine, e aveva poi assistito per l'intera giornata, fino a notte, un amico gravemente malato che giaceva a letto senza speranza di guarigione; dopo aver cenato allegramente, colpito da un male fulminante, l'angina, a stento sopravvisse fino all'alba rantolando con le vie respiratorie bloccate. È morto, dunque, pochissime ore dopo aver svolto tutte le attività proprie di un individuo sano e in forze.

4 Quell'uomo, che faceva girare il denaro per terra e per mare, che aveva partecipato anche a pubblici appalti e non aveva tralasciato nessun tipo di guadagno, proprio quando le cose si mettevano bene, proprio quando il denaro arrivava in abbondanza, è scomparso.

Innesta ora i peri, Melibeo, disponi le viti in filari.

Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell'avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. 5 Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l'ora stessa che stringiamo. Il tempo passa secondo una legge determinata, ma a noi sconosciuta: e che mi importa se per la natura è certo quello che per me è incerto? 6 Ci proponiamo lunghi viaggi per mare e un ritorno in patria lontano nel tempo, dopo aver vagato per lidi stranieri; imprese militari e tardive ricompense di fatiche guerresche, amministrazioni di province e avanzamenti di carriera, di carica in carica, mentre la morte ci sta accanto; e poiché non ci pensiamo mai, se non quando tocca agli altri, di tanto in tanto ci vengono messi davanti esempi della nostra mortalità, che, però, durano in noi solo quanto il nostro stupore. 7 Ma niente è più sciocco che stupirsi che accada un giorno quanto può accadere ogni giorno. Il termine della nostra vita sta dove l'ha fissato l'inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. 8 Il difetto maggiore dell'esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l'ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l'anima. Non c'è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri; se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere o di come, è agitato da una paura inguaribile. 9 Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all'avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c'è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni. Se uno è saldo di fronte all'incerto, non può turbarlo la varietà e l'incostanza dei casi della vita. 10 Affrettati, perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo: se uno vive nella speranza, si sente sfuggire anche il tempo più vicino e subentra in lui l'avidità della vita e l'infelicissima paura della morte che rende altrettanto infelice ogni cosa. Nasce da qui quel vergognosissimo voto di Mecenate che non rifiuta malattie e deformità e in ultimo il supplizio del palo, pur di continuare a vivere anche tra queste sventure:



11 rendimi storpio di una mano, zoppo di una gamba, fammi crescere la gobba, fammi cadere i denti: purché continui a vivere, va bene; conservami la vita anche su un palo di tortura.



12 Egli si augura un destino che sarebbe molto infelice, se si realizzasse, e pur di vivere, chiede un supplizio continuo. Lo considererei già spregevolissimo se volesse vivere fino al momento di salire al patibolo: "Storpiami pure," dice, "purché lo spirito vitale rimanga in questo corpo senza forze e inservibile; sfigurami, purché, mostruoso e deforme, io possa vivere ancòra un po'; impalami, crocifiggimi": vale la pena comprimere la propria ferita e penzolare dalla forca con gli arti slogati, pur di rimandare la cosa più desiderabile quando si soffre: la fine dei tormenti? Val la pena di avere la vita per esalarla? 13 Che cosa potresti augurargli se non la benevolenza degli dèi? A che mirano questi versi turpemente effeminati? A che questo patto nato da una paura insensatissima? E questo mendicare così sconciamente la vita? Potresti pensare che Virgilio abbia mai recitato a Mecenate questo verso:

Morire è, dunque, così triste?

Egli si augura i mali più atroci e desidera prolungare e sopportare le sofferenze più terribili: che ci guadagna? Una vita più lunga naturalmente. Ma che vita è agonizzare a lungo? 14 C'è qualcuno che preferisce consumarsi tra i tormenti, morire membro a membro ed esalare l'anima ripetutamente in uno stillicidio, invece che morire in un sol colpo? C'è qualcuno che vuole prolungare una vita fonte di tante sofferenze, attaccato a quel maledetto palo, ormai storpio, deforme, con una gobba ripugnante sulla schiena e sul petto, quando avrebbe avuto molti motivi per morire anche senza arrivare alla croce? E dimmi ora che non è un grande beneficio della natura l'ineluttabilità della morte. 15 Molti sono pronti a fare patti ancòra più vergognosi: anche a tradire un amico per vivere più a lungo, e a consegnare di persona i figli allo stupro, pur di poter vedere la luce, testimone di tanti delitti. Scuotiamoci di dosso questa smania di vivere e impariamo che non importa quando subiremo quello che dobbiamo prima o poi subire; conta vivere bene, non vivere a lungo; ma spesso il vivere bene consiste proprio nel non vivere a lungo. Stammi bene.



102

1 Quando uno fa un bel sogno, trova fastidiosa la persona che lo sveglia, poiché gli toglie un piacere falso, sì, ma che ha effetti realistici. La tua lettera mi ha procurato un dispiacere analogo: mi ha distolto dalla meditazione conveniente in cui ero concentrato e che, potendo, non avrei interrotto. 2 Indagavo con piacere sull'immortalità dell'anima, anzi, perbacco, ci credevo; ero pronto ad accogliere l'opinione di grandi uomini che promettono, più che dimostrare, una realtà graditissima. Mi abbandonavo a una così straordinaria speranza, provavo ormai disgusto di me stesso, disprezzavo i resti di un'esistenza infranta, per passare all'eternità, nel possesso di ogni tempo, quando l'arrivo della tua lettera mi ha improvvisamente risvegliato e ho perduto un sogno tanto bello. Ma, quando ti avrò congedato, voglio riprenderlo e riconquistarlo.

3 Tu affermi all'inizio della lettera che non ho spiegato interamente la questione, quando ho tentato di dimostrare la tesi degli Stoici: la gloria che si ottiene dopo la morte è un bene. Non avrei, cioè, risposto all'obiezione che ci viene rivolta: "Non c'è bene dove c'è separazione; e, in questo caso, c'è separazione." 4 Quello che mi chiedi, Lucilio mio, rientra nella stessa questione, ma è un altro punto, perciò avevo rimandato questo e altri problemi riguardanti il medesimo argomento; infatti, come sai, certe parti della logica sono unite alla morale. E così, prima ho trattato quella parte che riguarda direttamente la morale: se non sia insensato e inutile spingere le proprie preoccupazioni oltre l'ultimo giorno, se i nostri beni finiscano con noi e non resti più niente della persona scomparsa, se di una cosa che, quando accadrà non la percepiremo, si possa cogliere qualche frutto o almeno cercare di coglierlo prima che essa si verifichi. 5 Tutti questi problemi riguardano la morale; perciò li ho messi al loro posto. Ma le argomentazioni dei dialettici contro questa tesi dovevano essere separate e perciò le ho disgiunte. Ora, poiché esigi una trattazione completa, esporrò tutte le loro obiezioni, poi le confuterò una per una.

6 Perché le mie confutazioni siano chiare, devo fare una premessa. Che premessa? Esistono dei corpi unitari, come l'uomo; altri composti, come una nave, una casa, insomma tutti quelli formati dall'unione di parti diverse; altri costituiti da elementi separati, le cui membra sono divise, come un esercito, un popolo, un'assemblea. Gli individui componenti questi organismi sono uniti per legge o per funzioni analoghe, ma distinti per natura e a se stanti. 7 Ancora una premessa: secondo noi non c'è bene formato da elementi separati tra loro; un bene deve essere racchiuso e retto da un solo principio, unica deve essere la sua essenza. Questo principio, se un giorno vorrai, si dimostra da sé; intanto ho dovuto premetterlo perché ci rivolgono contro le nostre stesse armi.

8 "Voi dite che non c'è bene formato da elementi separati tra loro; ma," ribattono, "la gloria di un uomo nasce dall'opinione favorevole di persone virtuose. Come la fama non è data dalle parole di un unico individuo e l'infamia dalla cattiva opinione di uno solo, così la gloria non la dà l'approvazione di una sola persona virtuosa, ma ci vuole il consenso di molti uomini insigni e ragguardevoli perché si formi. La gloria, però risulta dal parere di più persone, cioè di elementi distinti; quindi non è un bene.

9 "La gloria," continuano, è la lode tributata da uomini virtuosi a un uomo virtuoso; la lode è un'espressione, una frase che indica qualcosa; e una frase, anche se pronunciata da uomini virtuosi, non è un bene. Non tutto quello che fa un uomo virtuoso è un bene; egli applaude e fischia, ma, anche se ogni suo gesto è degno di ammirazione e di lode, un applauso o un fischio, come uno starnuto o un colpo di tosse, nessuno può definirli un bene. Quindi, la gloria non è un bene.

10 "Insomma, diteci se la gloria è un bene di chi loda o di chi è lodato: se dite che è un bene di chi è lodato, fate un'affermazione ridicola, come se diceste che è un bene mio la salute di un altro. Ma lodare chi ne è degno è un'azione virtuosa; perciò è un bene di chi loda, cioè di chi compie l'azione, non nostro, che siamo lodati: e questo è l'oggetto della nostra indagine."

11 Risponderò ora rapidamente a ciascun problema. Prima di tutto ci si chiede se un bene possa derivare da elementi separati e su questo punto i pareri sono discordi. Inoltre, la gloria ha bisogno del consenso di molti? È sufficiente anche il giudizio di una sola persona virtuosa: un uomo virtuoso può giudicare della nostra virtù. 12 "Ma come?" si ribatte, "la fama deriverà dalla stima e l'infamia dalla maldicenza di un solo individuo? Anche la gloria noi la intendiamo ampiamente diffusa," continuano, "poiché richiede il consenso di molti." Si tratta di due condizioni diverse. Perché? Perché se un uomo virtuoso mi giudica bene, per me è come se così mi giudicassero tutti gli uomini virtuosi; tutti, infatti, se mi conoscessero, mi giudicherebbero allo stesso modo. Il loro giudizio è uguale e identico, perché ha un'unica impronta: la verità. Non possono discordare; e dunque è come se tutti fossero del medesimo parere, poiché non possono pensarla diversamente. 13 Per la gloria, invece, o per la fama, non basta l'opinione di una sola persona. Nel caso di prima un solo parere vale quanto quello di tutti, perché, se si domandasse a tutti, uno per uno, unica sarebbe la risposta: nel secondo caso sono diversi i giudizi, poiché sono diverse le persone. Troverai difficilmente approvazione e sempre dubbi, leggerezza, sospetti. Credi che tutti possano esprimere un parere unico? Ma se nemmeno una sola persona ha un parere unico! Gli uomini virtuosi amano la verità e la verità ha una sola forza, una sola faccia: gli altri invece dànno il loro assenso a false opinioni. E il falso è incostante; varia e discorda.

14 "Ma la lode," dicono, "è solo una frase, e una frase non è un bene." Quando affermano che la gloria è una lode tributata a uomini virtuosi da uomini virtuosi, non si riferiscono alle parole, ma al giudizio espresso. Anche se un uomo virtuoso tace, ma giudica uno degno di lode, quest'uomo viene lodato. 15 Inoltre, una cosa è la lode, un'altra il lodare: quest'ultimo richiede anche la parola; perciò nessuno dice lode funebre, ma orazione funebre, poiché è un ufficio che si basa sulla parola. Quando definiamo qualcuno meritevole di lode, non gli promettiamo parole benevoli, ma giudizi benevoli. Dunque, è lode anche quella di chi tace, ma giudica positivamente e loda un uomo virtuoso dentro di sé. 16 E poi, come ho detto, la lode interessa l'animo, non le parole, che fanno da tramite e la rendono nota a più persone. Se uno ritiene dovuta una lode, già loda. Quando quel famoso poeta tragico latino dice che è splendido "essere lodato da un uomo lodato", intende dire da un uomo degno di lode. E quando quell'altro poeta altrettanto antico dice che "la lode alimenta le arti", non intende il lodare, che in realtà corrompe le arti; niente ha guastato tanto l'eloquenza e ogni altra arte rivolta alle orecchie quanto il consenso popolare. 17 La fama ha bisogno in ogni caso della voce; la gloria, invece, può formarsi anche indipendentemente dalla voce, basta un giudizio positivo; anzi non le tolgono nulla non solo il silenzio, ma persino le proteste. Ecco la differenza tra gloria e celebrità: la celebrità si fonda sul giudizio di molti, la gloria su quello delle persone virtuose.

18 "La gloria," chiedono, "cioè la lode tributata a un uomo virtuoso da uomini virtuosi, è un bene di chi è lodato o di chi loda?" Di entrambi. Mio, che vengo lodato; e poiché la natura mi ha generato incline ad amare tutti, godo di aver fatto del bene e mi rallegro di aver trovato grati interpreti delle virtù. Questo essere grati è un bene di molti, ma è anche mio; la mia disposizione d'animo è tale che giudico mio un bene di altri, soprattutto di coloro a cui sono causa di bene. 19 La gloria è un bene anche di chi loda: è un atto della virtù e ogni azione virtuosa è un bene. Ma questo bene non sarebbe toccato loro, se io non fossi quale sono. Perciò una lode meritata è un bene di entrambi, come esprimere un giusto giudizio è un bene di chi giudica e di colui a vantaggio del quale si è pronunciato il giudizio. Dubiti forse che la giustizia sia un bene e per chi la esercita e per colui al quale essa paga un debito? Lodare chi lo merita è una forma di giustizia; dunque, è un bene di entrambi.

20 A questi cavillatori abbiamo risposto abbondantemente. Ma il nostro proposito non deve essere di fare sottili discussioni e di abbassare la filosofia dalla sua altezza a questi ristretti limiti: quanto è meglio avanzare per una via aperta e diritta, invece che costruirsi da sé un tragitto tortuoso da ripercorrere con grave disagio! Queste dispute non sono altro che passatempi di persone che cercano abilmente di sorprendersi a vicenda. 21 Dimmi piuttosto come è conforme alla natura dispiegare la mente nell'immensità dell'universo. L'anima dell'uomo è una cosa grande e nobile; non sopporta che le siano posti altri limiti se non quelli comuni anche agli dèi. Prima di tutto non accetta un'umile patria, sia essa Efeso o Alessandria o qualunque altra terra anche più popolosa e più ricca di case: la sua patria è quella che cinge l'intero universo nel suo cerchio, è tutta la volta celeste entro cui giacciono mari e terre, entro cui l'atmosfera distingue e insieme congiunge l'umano e il divino, in cui sono distribuite tante divinità che attendono vigili all'adempimento delle proprie funzioni. 22 Inoltre l'anima non lascia che le venga assegnata un'esistenza angusta: "Tutti gli anni," afferma, "sono miei; nessun'epoca è preclusa ai grandi spiriti, ogni tempo è aperto al pensiero. Quando arriverà quel giorno che separa questo miscuglio di umano e di divino, lascerò il mio corpo qui dove l'ho trovato, e tornerò tra gli dèi. Non che ora ne sia completamente separata, ma mi trattiene il grave peso terreno." 23 Queste tappe della vita mortale sono una preparazione a quell'altra vita migliore e più lunga. L'utero materno ci ospita per nove mesi e ci prepara non per sé, ma per quel luogo in cui veniamo alla luce già capaci di respirare e di resistere all'aria aperta; allo stesso modo in questo periodo che dall'infanzia si estende alla vecchiaia maturiamo per un altro parto. Ci aspetta un'altra nascita, un altro stato di cose. 24 Noi non possiamo ancora sostenere la vista del cielo, se non a distanza. Perciò guarda intrepido a quell'ora decisiva: è l'ultima, ma per il corpo, non per l'anima. Guarda tutto ciò che ti sta intorno come le suppellettili di una residenza provvisoria: bisogna passare oltre. La natura spoglia chi se ne va, come chi entra. 25 Non possiamo portar via più di quanto avevamo nascendo, anzi bisogna lasciare gran parte anche di ciò che abbiamo portato per vivere: ti sarà tolto questo involucro esterno che ti avvolge, la pelle; ti sarà tolta la carne e il sangue che scorre per l'intero organismo; ti saranno tolte le ossa e i nervi, che sostengono gli elementi liquidi e molli. 26 Questo giorno che temi come ultimo è il primo dell'eternità. Deponi il peso della materia: perché resisti? Anche allora non sei venuto alla luce lasciando il corpo in cui eri celato? Ti aggrappi, opponi resistenza: anche allora tua madre ti ha espulso con un grande sforzo. Gemi, implori: anche questo pianto è proprio di un neonato, ma allora meritavi il perdono: eri venuto al mondo inesperto e ignaro. Uscito dal caldo e morbido rifugio delle viscere materne, ti ha toccato il soffio dell'aria libera, poi hai sentito il contatto di una rozza mano, e ancòra tenero e del tutto inconsapevole sei rimasto attonito di fronte a una realtà sconosciuta: 27 ora invece non è per te una cosa nuova essere separato da un corpo di cui prima facevi parte; abbandona serenamente queste membra ormai inutili e lascia questo corpo a lungo abitato. Sarà lacerato, sepolto, si consumerà: perché ti affliggi? È così: va sempre perduto l'involucro che avvolge chi nasce. Perché ami questo corpo come se fosse tuo? Ti ha solo ricoperto: verrà il giorno che ti staccherà e ti trarrà fuori dalla coabitazione con questo sconcio e fetido ventre. 28 Sottraitene già adesso per quanto ti è possibile, e sii indifferente ai piaceri tranne a quelli che * * * e sono connessi alle necessità della vita, medita fin d'ora su qualcosa di più profondo e nobile: un giorno ti si sveleranno i misteri della natura, si dissiperà codesta nebbia e da ogni parte ti colpirà una luce splendente. Immagina quanto è grande il fulgore di tanti astri che uniscono le loro luci. Nessun'ombra offuscherà il sereno; ogni parte del cielo splenderà ugualmente luminosa: giorno e notte si avvicendano solo nella nostra infima atmosfera. Dirai di essere vissuto nelle tenebre, quando con tutto te stesso vedrai la luce nel pieno del suo fulgore, quella luce che ora vedi confusamente attraverso la strettissima fessura degli occhi, e tuttavia, anche da lontano, la guardi con stupore; quale ti apparirà la luce divina quando la vedrai nella sua sede? 29 Questo pensiero scaccia dall'anima tutto ciò che è meschino, vile, crudele. Ci dice che gli dèi sono testimoni di tutto; comanda di renderci a loro graditi, di prepararci al futuro incontro e di guardare all'eternità. Chi concepisce questo pensiero non ha terrore di nessun esercito, non è spaventato dalla tromba di guerra, nessuna minaccia lo fa temere. 30 Se uno spera nella morte, non può avere paura. Anche chi ritiene che l'anima esista finché è trattenuta dal vincolo del corpo, e che una volta libera si disperda sùbito, opera in modo da poter essere utile anche dopo la morte. Benché venga sottratto alla vista del prossimo, tuttavia

sempre le assedia la mente la straordinaria virtù dell'eroe e la grande nobiltà della sua stirpe.

Pensa quanto ci giovano gli esempi di virtù: saprai che il ricordo dei grandi uomini ci giova quanto la loro presenza. Stammi bene.



103

1 Perché ti dài pensiero di cose che possono succederti, ma che possono anche non succederti? Intendo dire un incendio, un crollo e altri eventi che ci càpitano, ma non stanno lì in agguato: tieni d'occhio piuttosto, ed evitali, quei mali che ci spiano e cercano di coglierci di sorpresa. Fare naufragio, finire sotto una vettura sono casi rari, anche se gravi: mentre dall'uomo viene all'uomo un pericolo costante. Prepàrati ad affrontarlo, tienilo sempre attentamente d'occhio; non c'è male più frequente, più tenace, più insinuante. 2 Il cielo è minaccioso prima che si scateni la tempesta, gli edifici scricchiolano prima di crollare, un incendio lo preannuncia il fumo: il danno che proviene dall'uomo è improvviso e si mimetizza con più cura quanto più è vicino. Sbagli a credere al volto di quelli che ti vengono incontro: hanno l'aspetto di uomini, l'animo di belve; quelle, però sono pericolose al primo attacco; se passano oltre, non ti cercano più. Solo la necessità le spinge a nuocere; assalgono o per fame o per paura: all'uomo, invece, piace annientare l'uomo. 3 Ma il pensiero del pericolo che proviene dall'uomo ti faccia pensare al tuo dovere di uomo; da una parte bada a non subire torti, dall'altra a non farne. Gioisci del bene di tutti, commuoviti del male, e ricorda quello che devi fare e quello che devi evitare. 4 Vivendo così quale vantaggio ne avrai? Sfuggirai agli inganni, se non alle offese. Rifùgiati nella filosofia per quanto ti è possibile: ti proteggerà con le sue braccia, nel suo santuario sarai sicuro o, almeno, più sicuro. Cozzano fra loro solo quelli che camminano lungo la stessa strada. 5 Della filosofia, però, non dovrai vantarti; praticarla con insolenza e arroganza si è risolto per molti in un pericolo: serva a emendarti dai vizi, non a rinfacciarli agli altri. Non discordi dalla moralità comune e non faccia in modo che tu sembri condannare tutto quello che non fai. Si può essere saggi senza ostentazione, senza suscitare astio. Stammi bene.



104

1 Nella mia villa di Nomento ho cercato scampo, cosa credi? dalla città? No, da una febbre, e insidiosa, che si era già impadronita di me. Il medico, dai battiti del polso alterati e irregolari tanto da turbare le normali funzioni, diagnosticava l'inizio di una malattia. Ho dato, perciò ordine di preparare sùbito la carrozza; e, nonostante l'opposizione di Paolina, mi sono ostinato a partire. Avevo davanti agli occhi lo spettacolo del mio caro Gallione, che si era preso la febbre in Grecia e immediatamente si era imbarcato, proclamando che il male non era del suo fisico, ma di quel posto. 2 Questo l'ho detto alla mia Paolina che mi raccomanda sempre la salute. Sapendo che il suo spirito fa tutt'uno col mio, per un riguardo a lei, comincio a riguardarmi io stesso. E mentre la vecchiaia mi ha reso più forte per tanti versi, perdo questo beneficio dell'età; penso che in questo vecchio c'è anche una giovane cui si deve attenzione. E visto che io non ottengo da lei che mi ami con più forza, lei ottiene da me che io mi ami con più cura. 3 Bisogna assecondare gli affetti onesti; e qualche volta, anche se ci sono dei gravi motivi, anche a costo di sofferenze bisogna richiamare lo spirito vitale per rispetto dei propri cari, bisogna trattenerlo coi denti, visto che un uomo virtuoso deve vivere non fino a quando gli piace, ma fino a quando è necessario: chi non stima la moglie o un amico tanto da prolungare la propria esistenza, chi si ostina a voler morire, è uno smidollato. L'anima deve imporsi, quando lo esige il vantaggio delle persone care, di rimandare, non solo se ha deciso di morire, ma anche se ha cominciato a morire, e di compiacere i suoi. 4 È di un animo nobile tornare alla vita per gli altri e i grandi uomini l'hanno fatto spesso. Ma io, benché il massimo frutto di questa età sia una difesa meno preoccupata di se stessi e un'utilizzazione più coraggiosa della vita, ritengo segno di alta umanità anche curare con più attenzione la propria vecchiaia, se sai che ciò è caro, utile e augurabile per qualcuno dei tuoi. 5 E oltretutto una cosa così è di per sé non poco piacevole e gratificante: che cosa c'è di più gradito che essere tanto caro alla moglie da diventare per questo più caro a te stesso? E così la mia Paolina può imputarmi non solo i suoi timori, ma anche i miei.

6 Ti domandi, dunque, che risultato ha avuto la mia decisione di partire? Appena mi sono lasciato alle spalle l'aria pesante della città e quell'odore delle cucine fumanti che, una volta accese, diffondono con la polvere tutti i vapori pestiferi che hanno assorbito, sùbito mi sono accorto che il mio stato di salute era cambiato. E non sto a dirti come mi sia sentito più in forze, una volta giunto ai miei vigneti. Lasciato libero per il pascolo, mi sono buttato sul cibo. Sùbito mi sono ripreso, è scomparso quel torpore di un fisico malfermo e inerte. 7 Mi getto a capofitto nello studio. Non è tanto il luogo che conta per studiare, ma la concentrazione: se uno vuole, può crearsi un suo spazio anche in mezzo a tutte le occupazioni: ma chi si limita a scegliersi un posto e a cercare un po' di tranquillità, troverà dovunque motivi di distrazione. Si racconta che Socrate, a un tizio che si lagnava di non aver tratto nessun giovamento dai suoi continui viaggi, rispose: "È logico che ti sia successo questo; tu andavi in giro con te stesso." 8 Come si troverebbero bene certe persone se si staccassero da se stesse! E invece si opprimono, si affliggono, si guastano, si spaventano, tutto da soli. Traversare gli oceani, cambiare città, cosa serve? Se vuoi liberarti dai tuoi affanni non devi trasferirti altrove, ma diventare un altro. Fa' conto di essere andato ad Atene o a Rodi; scegli a tuo piacere la città: che importanza hanno gli usi e i costumi locali? Tu ci porti i tuoi. 9 Se giudichi un bene il denaro, ti angustierà una povertà - e questa è la cosa più triste - falsa. Per quanto tu possieda molto, se c'è uno più ricco di te, ti sentirai inferiore proprio di quanto lui ha in più. A tuo parere sono gran cosa le cariche: e allora ti tormenterà che Tizio sia stato nominato console, che Caio sia stato rieletto; proverai invidia ogni volta che leggerai ripetutamente il nome di qualcuno negli atti ufficiali. Il furore della tua ambizione sarà così violento che non ti parrà di avere nessuno dietro di te, se hai qualcuno davanti a te. 10 Giudicherai la morte il peggiore dei mali, mentre in realtà nella morte non c'è nulla di male, se non appunto ciò che la precede, il timore. Ti spaventeranno non i pericoli, ma piuttosto i sospetti; sarai sempre agitato da vani fantasmi. E allora che vantaggio ti avrà dato

essere riusciti a scampare a tante città argoliche, essere riusciti a fuggire in mezzo ai nemici?

La pace stessa scatenerà le tue paure; una volta che la mente è turbata, non ci si fida più neppure di ciò che è sicuro, e quando questi timori infondati diventano un'abitudine, non si è più in grado di tutelare se stessi: i pericoli non li evitiamo, li fuggiamo, e se uno gira le spalle, è più vulnerabile. 11 Perdere una persona cara lo giudicherai un male gravissimo, e, invece, questo atteggiamento è sciocco quanto piangere perché le belle piante che adornano la tua casa perdono le foglie. Guarda le cose che ti dànno gioia allo stesso modo in cui guarderesti quelle piante: godine, finché sono fiorenti. Il caso strappa alla vita un giorno uno, un giorno un altro; ma come la perdita delle foglie è facile sopportarla perché rinascono, così è facile sopportare anche la perdita di quelli che amavi e che consideravi la gioia della tua vita, perché, se pure non rinascono, puoi sostituirli. 12 "Ma non saranno gli stessi." Neppure tu sarai lo stesso. Ogni giorno, ogni ora che passa, ti cambia; ma negli altri questo saccheggio del tempo è più evidente, in noi passa inosservato, perché non è manifesto. Gli altri ci vengono strappati, ma noi siamo sottratti a noi stessi furtivamente. A questo non pensi e non cerchi di curare le ferite, ma ti crei da te motivi di preoccupazione ora con la speranza, ora con la disperazione? Se sei saggio, tempera l'una con l'altra: non sperare senza disperarti e non disperare senza qualche speranza.

13 Un viaggio, di per sé, che giovamento ha mai potuto dare? Non modera i piaceri, non frena le passioni, non reprime l'ira, non fiacca gli indomabili impulsi dell'amore, insomma non libera l'anima da nessun male. Non rende assennati, non dissipa l'errore, ma ci attrae temporaneamente con qualche novità come un bambino che ammiri cose sconosciute. 14 Rende, invece, lo spirito, già gravemente infermo, ancora più incostante, e questo agitarsi lo fa diventare più instabile e volubile. E così gli uomini abbandonano con più smania quei posti che avevano tanto smaniosamente cercato, li oltrepassano a volo e se ne vanno più velocemente di quanto erano venuti. 15 Viaggiare ti farà conoscere altre genti, ti mostrerà monti di forme mai viste, pianure di straordinaria grandezza e valli irrigate da corsi d'acqua perenni; attirerà la tua attenzione sulla natura particolare di qualche fiume, come il Nilo che d'estate è gonfio di acque, o come il Tigri che scompare alla vista e, dopo aver percorso un tratto sottoterra, ritorna in tutta la sua grandezza, o come il Meandro, piacevole palestra di tutti i poeti, che si avvolge su se stesso con un corso sempre tortuoso, e spesso, quando è vicino al suo alveo, devia, prima di affluire nelle proprie acque: ma non ti renderà migliore né più assennato. 16 Dobbiamo applicarci allo studio e avere familiarità coi maestri di saggezza per imparare i frutti delle loro ricerche e ricercare le verità non ancora scoperte. Così, sottraendo l'animo alla più misera schiavitù, si rivendica la propria libertà. Ma fino a quando ignorerai che cosa si deve fuggire, che cosa ricercare, che cosa è necessario o superfluo, giusto o ingiusto, questo non sarà viaggiare, ma vagabondare. 17 Correre qua e là non ti servirà a niente: tu vai in giro con le tue passioni, e i tuoi mali ti seguono. E almeno ti seguissero! Sarebbero abbastanza lontani: e invece, non li precedi, li porti con te. Perciò ti assillano dovunque e ti bruciano con la stessa intensità. 18 Il malato deve cercare la medicina adatta, non un nuovo paese. Uno si è rotto una gamba o si è provocato una distorsione: non sale su una carrozza o su una nave, ma chiama il medico, perché gli riduca la frattura o gli sistemi la lussazione. E allora? Secondo te, cambiando paese, puoi guarire un'anima che ha subìto tante fratture e distorsioni? Questo male è troppo grave per curarlo con una passeggiata in vettura. 19 Viaggiare non rende medici o oratori; non c'è scienza che si impari da un luogo: e dunque? La saggezza, la più importante di tutte le scienze, si può forse acquisire in viaggio? Non c'è via, credimi, che ti porti fuori dalle passioni, dall'ira, dalla paura; oppure, se ci fosse, l'umanità vi si dirigerebbe in massa. Questi mali ti incalzeranno e ti tormenteranno nei tuoi vagabondaggi per terra e per mare finché ne porterai con te le cause. 20 Ti stupisci che fuggire non ti serva? I mali che fuggi sono in te. Correggiti, dunque, lìberati dai pesi che porti, e contieni i tuoi desideri entro limiti convenienti; estirpa dall'anima ogni malvagità. Se vuoi fare dei viaggi piacevoli, guarisci chi ti accompagna. L'avarizia ti resterà attaccata addosso, finché vivrai insieme a un avaro taccagno; e così l'orgoglio, finché frequenterai un superbo; non ti libererai della tua crudeltà, se stai con un carnefice; l'amicizia degli adùlteri infiammerà la tua libidine. 21 Se vuoi spogliarti dei vizi, devi stare lontano da esempi di vizi. L'avaro, il corruttore, il crudele, il truffatore, che già nuocerebbero molto se fossero vicini a te, tu li hai dentro di te. Passa a compagni migliori: vivi con Catone, Lelio, Tuberone. E, se ti piace anche stare insieme ai Greci, intrattieniti con Socrate, Zenone: l'uno ti insegnerà a morire se sarà necessario, l'altro prima che sia necessario. 22 Vivi con Crisippo, con Posidonio: essi ti trasmetteranno la conoscenza dell'umano e del divino, ti inviteranno all'operosità e non solamente a parlare con eleganza e a ostentare belle parole per il piacere dell'uditorio, ma a rafforzare l'animo e a ergerlo contro tutte le minacce. In questa vita incerta e agitata c'è un solo porto: disprezzare il futuro, essere fermi e risoluti e pronti a ricevere i colpi della fortuna, in pieno petto, senza nascondersi o temporeggiare. 23 La natura ci ha generati magnanimi, e come a certi animali ha dato la ferocia, ad altri l'astuzia, ad altri la paura, a noi ha dato uno spirito desideroso di gloria e di grandezza, che cerca non dove possa vivere completamente tranquillo, ma dove possa vivere in modo assolutamente onesto, uno spirito molto simile a quell'universo che egli segue e imita per quanto è consentito alle forze umane; si fa avanti, crede di essere lodato e ammirato. 24 È signore di tutto, è superiore a tutto; non si sottometta, perciò a niente; non giudichi niente gravoso, niente capace di piegare un uomo.

Fantasmi terribili a vedersi, la Morte, la Sofferenza.

No assolutamente, se si è in grado di guardarle con sguardo fermo, vincendo le tenebre; molti fantasmi che di notte ci atterriscono, di giorno ci fanno sorridere.

Fantasmi terribili a vedersi, la Morte, la Sofferenza,

ha detto bene il nostro Virgilio: terribili a vedersi, non nella sostanza, cioè sembrano, non sono. 25 Che c'è in loro, ti chiedo, di tanto spaventoso quanto si va dicendo? ma via, per quale ragione, Lucilio mio, un uomo dovrebbe temere la sofferenza, la morte? Tante volte incontro persone che giudicano irrealizzabile tutto quello che loro non possono fare, e sostengono che noi parliamo di cose superiori a quelle che la natura umana può sostenere. 26 Ma io ho di loro una migliore opinione! Anch'essi sono in grado di fare queste cose, ma non vogliono. E poi, hanno mai deluso chi ha tentato? All'atto pratico non sono apparse più facili? Non perché siano difficili non osiamo: sono difficili perché non osiamo.

27 Se poi volete un esempio, prendete Socrate, vecchio paziente, travagliato da sventure di ogni tipo; non lo vinse la povertà, resa più grave dagli oneri familiari, e nemmeno i disagi, che sopportò anche in guerra. In casa, poi, fu messo a dura prova: ‹pensa› sia alla moglie, scorbutica di carattere e petulante, sia ai figli, ribelli e più simili alla madre che al padre. ‹Inoltre› visse o in guerra o sotto la tirannide o in una libertà più crudele della guerra e della tirannide. 28 La guerra durò ventisette anni; quando finì, la città si sottomise al funesto dominio dei trenta tiranni, di cui la maggior parte gli era ostile. In ultimo, fu condannato con accuse gravissime: lo incolpavano di vilipendio alla religione, di corruzione dei giovani, che, si disse, aveva istigato contro gli dèi, gli avi, la città. E poi ci furono il carcere e il veleno. Ma tutto ciò non turbava l'animo di Socrate e neppure il suo volto. Che merito straordinario e singolare! Fino al momento supremo nessuno vide Socrate più allegro o più triste; fu sempre uguale in mezzo a una fortuna tanto mutevole.

29 Vuoi un altro esempio? Prendi M. Catone, il giovane: contro di lui la sorte fu ancòra più ostile e accanita. Sebbene lo avesse sempre avversato, e da ultimo anche in punto di morte, tuttavia egli dimostrò che un uomo valoroso può vivere e morire a dispetto della fortuna. Passò tutta la vita o in mezzo alle guerre civili o in una pace che alimentava nel suo seno la guerra civile e si potrebbe dire che, come Socrate, si tirò fuori dalla schiavitù, a meno che non si pensi che Gneo Pompeo, Cesare e Crasso si allearono per la libertà. 30 Lo stato cambiò mille volte, ma nessuno vide mutamenti in Catone; si mostrò sempre lo stesso in ogni condizione, nella pretura, nella sconfitta elettorale, nei momenti dell'accusa, nel governo della provincia, nei discorsi, nell'esercito, nella morte. Infine, in quel turbamento generale dello stato, mentre da una parte Cesare era sostenuto da dieci bellicosissime legioni e da interi presidî di milizie straniere, e dall'altra c'era Gneo Pompeo, che bastava da solo contro tutti, mentre alcuni parteggiavano per Cesare, altri per Pompeo, unicamente Catone prese le parti della repubblica. 31 E a voler esaminare il quadro del tempo, si vedrà da un lato la plebe e tutto il popolino teso alle novità, dall'altro gli ottimati e i cavalieri, che rappresentavano la parte migliore e più onesta della città, e in mezzo, soli, la repubblica e Catone. Ti stupirai di sicuro vedendo:

l'Atride e Priamo e Achille a entrambi ostile;

egli disapprova entrambi e vorrebbe disarmare sia l'uno che l'altro. 32 Su loro pronuncia questo giudizio: se vincerà Cesare, morirà; se Pompeo, andrà in esilio. Che aveva da temere se egli stesso, vincitore o vinto, si era assegnato una pena quale potevano assegnargli i nemici più acerrimi? Morì, dunque, per sua decisione. 33 Vedi che gli uomini possono sopportare la fatica: egli condusse a piedi l'esercito attraverso i deserti dell'Africa. Vedi che è possibile sopportare la sete: su aride colline, senza salmerie, trascinandosi dietro i resti dell'esercito sconfitto, sopportò la mancanza d'acqua con la corazza addosso e, tutte le volte che trovavano da bere, bevve per ultimo. Vedi che si possono disprezzare onore e infamia: nel giorno stesso della sua sconfitta elettorale giocò a palla dove si tenevano i comizi. Vedi che si può non temere la potenza dei più forti: sfidò Pompeo e Cesare insieme, mentre nessuno osava offendere l'uno se non per accattivarsi la benevolenza dell'altro. Vedi che si possono disprezzare sia l'esilio che la morte: egli si impose sia l'esilio che la morte, e nel frattempo la guerra. 34 Possiamo, perciò contro queste sventure dimostrare un uguale coraggio, purché vogliamo liberare il collo dal giogo. Per prima cosa dobbiamo rifiutare i piaceri: snervano, rendono languidi, pretendono molto e questo molto va preteso dalla fortuna. Poi dobbiamo disdegnare le ricchezze: sono il compenso della schiavitù. Lasciamo da parte l'oro, l'argento e tutto ciò che riempie le case dei ricchi: la libertà non è gratuita. Se l'apprezzi molto, devi disprezzare tutto il resto. Stammi bene.



105

1 Ecco che regole devi osservare per vivere più tranquillo. Ritengo opportuno, però che tu ascolti questi insegnamenti come se io ti consigliassi la maniera di salvaguardare la tua salute nella zona di Ardea. Considera i motivi che spingono un uomo a fare del male a un altro uomo; troverai la speranza, l'invidia, l'antipatia, la paura, il disprezzo. 2 Di tutti questi il disprezzo è il meno grave, tanto che molti vi si rifugiano per mettersi al riparo. Se uno disprezza, calpesta, è vero, ma poi passa oltre; nessuno fa del male con tenacia, con accanimento a una persona che disprezza; anche in battaglia non si bada al caduto, si combatte contro chi sta in piedi.

3 La speranza dei malvagi potrai evitarla se non possiedi niente che susciti la maligna cupidigia degli altri, niente che si distingua; si desiderano, infatti, anche beni da poco, se sono insoliti o rari. All'invidia sfuggirai evitando di metterti in mostra, di ostentare i tuoi beni, e se saprai godere interiormente. L'odio, o nasce da un'offesa, e lo eviterai non provocando nessuno; o è gratuito, e allora te ne difenderà il buon senso. Molti, però hanno corso questo pericolo: sono stati odiati senza avere un nemico. 4 Perché la gente non debba aver paura di te, saranno sufficienti sia una modesta fortuna, sia un'indole mite: si sappia che ti si può offendere senza rischio di ritorsioni; sii pronto e risoluto nel riconciliarti. Essere temuti è dannoso sia in casa che fuori, sia dagli schiavi che dagli uomini liberi: tutti sono sufficientemente forti per fare del male. Inoltre, chi è temuto, teme: e se uno terrorizza gli altri, non può vivere tranquillo. 5 Rimane il disprezzo: se uno se lo impone da sé, se viene disprezzato per volontà sua e non perché sia giusto così, può regolarne la misura. Dal fastidio che ci provoca ci liberano e i sani princìpî e l'amicizia delle persone influenti presso un potente; con costoro sarà utile essere in relazione, ma non troppo stretta, perché il rimedio non sia peggiore del pericolo.

6 Non c'è niente, però che giovi quanto starsene tranquilli e parlare pochissimo con gli altri e il più possibile con se stessi. Le parole hanno una dolcezza che si insinua carezzevole e, come fanno l'ubriachezza o l'amore, tira fuori i segreti. Nessuno manterrà il silenzio su quello che ha udito, nessuno dirà solo quanto ha udito; chi riferisce un fatto, ne riferirà anche l'autore. Ognuno ha un amico cui confidare quanto è stato confidato a lui stesso; per quanto tenga a freno la sua loquacità e si contenti di raccontare la cosa a uno solo, a poco a poco il numero delle persone che sanno si ingigantirà; e così il segreto diventa di dominio pubblico.

7 Quanto alla sicurezza, gran parte di essa consiste nel comportarsi bene con tutti: i prepotenti vivono una vita turbata e inquieta, le loro paure sono proporzionali al male che fanno, e non stanno mai tranquilli. Le cattive azioni compiute li rendono trepidanti e incerti; la loro coscienza non li lascia occuparsi d'altro e li costringe a comparire davanti al suo tribunale. L'attesa del castigo è già una pena; e chi sa di meritarlo, lo attende. 8 Se uno ha sulla coscienza un delitto, può a volte rimanere impunito, ma non sarà mai sereno; anche se non viene scoperto, pensa di poterlo essere; fa sonni agitati e ogni volta che si parla del delitto di un altro, pensa al suo; non gli sembra sufficientemente dimenticato, sufficientemente coperto. Un malfattore può avere la fortuna di rimanere na-

scosto, ma non ne ha mai la certezza. Stammi bene.



106

1 Rispondo con un certo ritardo alle tue lettere, non perché sia preso dagli impegni. Guàrdati bene dal credere a una simile scusa: il tempo ce l'ho e ce l'hanno tutti, basta volerlo. Gli impegni non inseguono nessuno: sono gli uomini ad abbracciarli e a ritenerli un segno di felicità. Perché, allora, non ti ho risposto sùbito? L'argomento di cui domandavi rientrava nel piano della mia opera; 2 tu sai che voglio trattare la filosofia morale nel suo complesso ed esaminarne tutti i problemi connessi. Perciò ero in dubbio se rimandare la risposta finché non fossi arrivato al punto, oppure soddisfare la tua richiesta, senza seguire la successione degli argomenti: mi è sembrato più cortese non far aspettare chi viene da tanto lontano. 3 Estrapolerò dunque, questo tema dalla successione di quelli ad esso concatenati e se ce ne saranno altri simili, te li riferirò spontaneamente senza che tu lo chieda.

Vuoi sapere di che si tratta? Di problemi la cui conoscenza è più piacevole che utile, come l'oggetto della tua domanda: il bene ha un corpo? 4 Il bene agisce, perché è utile; e quello che agisce è un corpo. Il bene sprona l'anima e in un certo modo la forma e la disciplina, e queste sono attività di un corpo. I beni del corpo sono corpi, quindi lo sono anche i beni dell'animo, perché anche l'anima è un corpo. 5 Il bene dell'uomo è necessariamente un corpo, perché l'uomo è corporeo. Mentirei se affermassi che anche le sostanze che lo alimentano e che gli garantiscono la salute o gliela restituiscono non sono corpi, quindi, anche il suo bene è corpo. Non penso che tu dubiterai che i sentimenti, come l'ira, l'amore, la tristezza, sono corpi (e questo per aggiungere anche argomenti di cui non domandi), se non dubiti che ci fanno cambiare espressione, corrugare la fronte, distendere il volto, arrossire, impallidire. E allora? Non credi che solo un corpo possa provocare delle reazioni così chiaramente fisiche? 6 Se sono corpi i sentimenti, lo saranno anche i mali dell'anima, come l'avarizia, la crudeltà, i vizi incalliti e ormai incorreggibili; e quindi anche la malvagità e tutte le sue forme, ossia il malanimo, l'invidia, la superbia; 7 e di conseguenza, anche i beni, prima di tutto perché sono il loro contrario, poi perché si presentano con i medesimi segni. O forse non vedi che vigore dia allo sguardo la fortezza? Che intensità la prudenza? Che aria di modestia e di calma la verecondia? Che serenità la gioia? Che comportamento austero la gravità? Che senso di remissività la dolcezza? Quindi, sono corpi quei fattori che cambiano il colore e lo stato dei corpi e che esercitano su di essi il loro potere. Ora, tutte le virtù che ho elencato, e tutto quello che ne deriva, sono beni. 8 Non c'è dubbio poi che, se una cosa ha la capacità di toccare, sia corpo.

Niente può infatti, toccare o essere toccato, se non il corpo

dice Lucrezio. Ma tutte le cose sopraddette non potrebbero trasformare un corpo, se non lo toccassero; dunque, sono corpi. 9 Ora, anche quegli elementi che hanno tanta forza da spingere, costringere, trattenere, inibire sono corpi. Ebbene? Il timore non ci trattiene? L'audacia non ci spinge? La fortezza non ci incita e ci dà slancio? La moderazione non ci frena e ci richiama? La gioia non ci esalta? La tristezza non ci abbatte? 10 Infine, ogni nostra azione ce la comanda o la malvagità o la virtù: ciò che comanda il corpo, è corpo, ciò che fa violenza al corpo, è corpo. Il bene del corpo è corporeo, il bene dell'uomo è anche bene del corpo, perciò è corporeo.

11 Poiché ho obbedito al tuo desiderio, ora esprimerò io stesso quel giudizio che, penso, esprimerai tu: facciamo dei giochetti inutili e ci perdiamo in sottigliezze superflue: questi ragionamenti non ci rendono virtuosi, ma dotti. 12 Il sapere è una cosa più chiara, anzi più semplice: basta poco studio per arrivare alla saggezza; noi, invece, disperdiamo in speculazioni inutili anche la filosofia come tutto il resto. Pure negli studi soffriamo di intemperanza come in ogni altra attività: impariamo per la scuola, non per la vita. Stammi bene.



107

1 Dove è finita la tua prudenza? Dove il tuo acuto discernimento? E la tua grandezza d'animo? Una simile inezia ti turba? Le tue occupazioni hanno fornito ai tuoi schiavi l'opportunità di fuggire. Se ti ingannassero degli amici (designiamoli pure col nome che abbiamo dato loro a torto e chiamiamoli così per non usare termini troppo dispregiativi) * * * ma a tutto il tuo patrimonio mancano ora delle persone che disprezzavano la tua attività e ti giudicavano gravoso per il prossimo. 2 Non c'è niente di insolito, niente di inaspettato; urtarsi per fatti del genere è ridicolo come lagnarsi di essere spruzzati in un bagno pubblico o spinti in mezzo alla folla o imbrattati stando nel fango. Nella vita è lo stesso che al bagno pubblico o tra la folla o durante un viaggio: qualche torto ti viene fatto di proposito, qualche altro è fortuito. Vivere non è una delizia. Hai intrapreso un lungo cammino: scivolerai, cozzerai, cadrai, ti sentirai stanco, invocherai - mentendo - la morte. Qui lascerai un compagno, là ne seppellirai un altro, più avanti un altro ancora ti farà paura: devi affrontare simili avversità per percorrere questo aspro sentiero. 3 Vogliamo morire? Prepariamoci, invece, ad ogni evenienza, persuasi di essere arrivati dove scoppia il fulmine; dove:

hanno il loro covo il Pianto e gli Affanni vendicatori, dove abitano le pallide Malattie e la triste Vecchiaia.

Con questi compagni dobbiamo vivere. Non puoi sfuggirli, ma puoi disprezzarli; e li disprezzerai, se rifletterai spesso e saprai prevedere quelli che ti colpiranno. 4 Tutti affrontano con maggiore coraggio gli eventi cui si sono preparati a lungo, e resistono anche alle difficoltà, se le hanno previste: chi, invece, è impreparato teme anche le piccolezze. Facciamo in modo che niente ci giunga inaspettato: e poiché l'imprevisto aggrava ogni disgrazia, una riflessione continua ti porterà a non farti sorprendere da nessun male.

5 "Gli schiavi mi hanno abbandonato." Qualche altro lo hanno spogliato, accusato, ucciso, tradito, malmenato, hanno attentato alla sua vita col veleno e con false imputazioni: qualunque sventura nomini, è capitata e in sèguito ‹capiterà› a molti. Tanti e tanto vari sono i colpi diretti contro di noi. Alcuni ci hanno già feriti, altri balenano e stanno per arrivare, altri, che non erano diretti a noi, ci sfiorano. 6 Non stupiamoci di cose alle quali siamo destinati dalla nascita; nessuno se ne deve lagnare: sono uguali per tutti. Lo ripeto, uguali per tutti; anche se uno sfugge a quei colpi, avrebbe potuto subirli. Una legge è equa non perché serve a tutti, ma perché è promulgata per tutti. Imponiamoci pacatezza e paghiamo senza lamentarci il tributo della nostra mortalità. 7 L'inverno porta il freddo: avremo freddo. L'estate porta il caldo: avremo caldo. Il tempo variabile attenta alla nostra salute: rassegniamoci a star male. In qualche posto ci imbatteremo in una belva oppure in un uomo più pericoloso di tutte le belve. Qualcosa ce la toglierà l'acqua, qualcosa il fuoco. Questa situazione non la possiamo cambiare: possiamo, però formarci un animo grande e degno di un uomo virtuoso, per sopportare da forti gli imprevisti ed essere in armonia con la natura. 8 La natura governa coi cambiamenti il regno che tu vedi: alle nuvole succede il sereno; il mare è calmo e poi si agita; i venti soffiano ora in una direzione, ora nell'altra; il giorno segue la notte; una parte del cielo si leva, un'altra sprofonda: è la legge degli opposti a perpetuare l'universo. 9 A essa noi dobbiamo uniformare il nostro spirito; seguiamola, obbediamole; e ogni avvenimento stimiamolo necessario: non rimproveriamo la natura. L'atteggiamento migliore è sopportare quello che non si può correggere e seguire la volontà di dio senza lagnarsi: tutto proviene da lui; non è un buon soldato chi segue il comandante e si lamenta. 10 Accogliamo perciò gli ordini senza pigrizia, prontamente, e non abbandoniamo il corso di questa meravigliosa opera, intessuta anche di ogni nostra sofferenza; e a Giove, che governa e dirige l'universo, rivolgiamoci con quegli eloquentissimi versi con cui gli si è rivolto il nostro Cleante e che io, sull'esempio di Cicerone, uomo di grande eloquenza, mi permetto di tradurre nella nostra lingua. Se ti piacciono prendili per buoni; in caso contrario sai che ho seguìto in questo l'esempio di Cicerone.



11 Conducimi dove vuoi, Padre e Signore dell'alto cielo: non esiterò a ubbidirti; sono pronto. Se non volessi, dovrei seguirti piangendo e dovrei subire di malanimo ciò che potevo fare volentieri. Il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone.



12 Sia questa la nostra vita, siano queste le nostre parole; il destino ci trovi pronti e attivi. È grande l'anima che si abbandona al destino: ma è meschina e vile se lotta contro di esso e disprezza l'ordine dell'universo e preferisce correggere gli dèi piuttosto che se stessa. Stammi bene.



108

1 L'argomento su cui mi interroghi è uno di quelli che importa sapere solo per il gusto di sapere. Ma poiché importa saperlo, hai fretta e non vuoi aspettare i libri che proprio ora sto preparando e che riguardano tutta quanta l'etica. Ti accontenterò sùbito; prima, però, voglio scriverti come va regolata, perché non sia di impedimento a se stessa, questa avidità di sapere, di cui, lo vedo, tu bruci. 2 Non bisogna attingere qua e là, e nemmeno gettarsi con avidità su tutto il sapere: attraverso le singole parti arriverai alla conoscenza del tutto. Bisogna adattare il peso alle forze: non dobbiamo accollarcene uno superiore alle nostre capacità. Attingi non quanto vuoi, ma quanto puoi contenere. Solo, mantieni l'animo onesto: capacità e volere si equivarranno. L'animo più riceve, più si dilata.

3 Attalo, ricordo, mi insegnava questo, quando frequentavo la sua scuola ed ero il primo a entrare e l'ultimo a uscire, e lo invitavo a qualche discussione anche mentre passeggiava; egli non era solo disponibile, ma veniva anche incontro ai suoi discepoli. "Maestro e allievo devono avere lo stesso proposito," diceva, "l'uno far progredire, l'altro voler progredire." 4 Chi frequenta un filosofo, ne tragga ogni giorno un qualche profitto: ritorni a casa o più sano o più sanabile. E ritornerà così: l'efficacia della filosofia è tale da giovare non solo a chi vi si applica con fervore, ma anche a chi si limita a un semplice contatto. Se uno sta al sole, si abbronza anche se non era questo il suo scopo; se uno si è fermato in una profumeria e vi si è trattenuto per un po', gli rimane addosso l'odore; anche chi frequenta un filosofo, sia pure distrattamente, ne trae per forza un qualche vantaggio. Attento, però alle mie parole: distrattamente, non opponendo resistenza.

5 "E come? Non conosciamo certe persone che hanno frequentato per anni un filosofo senza riportarne nemmeno un'infarinatura?" E come non conoscerli? Tenacissimi e assidui, per me sono inquilini, non allievi dei filosofi. 6 Certi vengono per ascoltare, non per imparare, come si va a teatro per il piacere di farsi accarezzare le orecchie da un bel discorso o una bella voce o un bel lavoro. Per gran parte dei frequentatori, lo vedrai, la scuola di un filosofo è un luogo dove passare il tempo libero. Non cercano di liberarsi di qualche vizio, di apprendere una legge di vita per regolare il proprio comportamento, ma di godere dei piaceri dell'udito. Certi portano anche un taccuino per segnarvi non concetti, ma parole che ripeteranno senza profitto per gli altri come le ascoltano senza profitto per sé. 7 Alcuni poi si infiammano nell'udire splendidi discorsi e con volto e animo commosso si immedesimano in chi parla e si eccitano come fanno gli eunuchi al suono del flauto frigio invasati da quel segnale. Li trascina e li stimola la bellezza dei concetti, non il vano suono delle parole. Se qualcuno parla con coraggio contro la morte, o con sprezzo contro la fortuna, vogliono sùbito mettere in pratica le parole ascoltate. Rimangono impressionati da quei discorsi e si comportano come è stato loro comandato, se rimangono nella medesima disposizione di spirito, se la folla che scoraggia sempre i sentimenti onesti, non infrange sùbito il loro nobile slancio: pochi riescono a ritornare a casa con i primitivi propositi. 8 È facile spingere chi ascolta a desiderare il bene: in ogni uomo la natura ha gettato le fondamenta e il seme delle virtù. Siamo nati tutti per compiere il bene: se c'è uno che ci stimola, quei nobili istinti come sopiti, si risvegliano. Non senti in teatro l'eco degli applausi quando risuonano quelle frasi che tutti riconosciamo, che all'unanimità proclamiamo vere?



9 Alla povertà manca molto, all'avarizia tutto.

L'avaro non è buono verso nessuno, pessimo con se stesso.

Anche l'avaraccio applaude questi versi e gode che i suoi vizi siano scherniti: secondo te questo non accade ancor più quando è un filosofo a parlare, quando ai precetti salutari si inframmezzano versi, che li faranno penetrare con più efficacia nell'animo degli ignoranti? 10 Diceva Cleante: "Il nostro fiato produce un suono più squillante quando passa attraverso lo stretto e lungo canale di una tromba e ne fuoriesce alla fine da un'apertura più grande, così i ristretti vincoli della poesia rendono più vivi i nostri pensieri." Gli stessi concetti si ascoltano più distrattamente e colpiscono meno se detti in prosa: quando si aggiunge il ritmo e versi ben determinati esprimono in forma concisa un pensiero significativo, quella stessa massima è come scagliata da un braccio più vigoroso. 11 Si parla molto del disprezzo del denaro e con lunghissimi discorsi si insegna agli uomini che la ricchezza sta nell'anima, non nei beni materiali, che è veramente ricco chi si adatta alla sua povertà e si fa ricco con poco; gli animi, però sono più colpiti da versi di questo tipo:

Ha pochissime necessità l'uomo che ha pochissimi desideri.

Se uno vuole quanto basta, ha ciò che vuole.



12 Quando ascoltiamo queste e altre massime del genere, siamo indotti a riconoscerne la veridicità; anche coloro che non sono mai sazi mostrano ammirazione, acclamano, dichiarano odio per il denaro. Quando vedrai questo loro stato d'animo, incalza, premi, coprili di esortazioni, lasciando da parte le ambiguità, i sillogismi, i cavilli e gli altri giochi di sottigliezze inutili. Parla contro l'avarizia, parla contro la dissolutezza; quando ti renderai conto di aver guadagnato terreno e di aver colpito l'animo degli ascoltatori, incalza con più energia: è straordinaria l'efficacia di questo tipo di eloquenza tesa a risanare e interamente volta al bene di chi ascolta. È facilissimo indirizzare all'amore dell'onestà e della virtù l'animo dei giovani: sono ancora plasmabili e incorrotti, e la verità, se trova un buon avvocato, se ne impadronisce facilmente. 13 Io, almeno, quando ascoltavo Attalo fustigare i vizi, le aberrazioni, i mali della vita, ho spesso provato compassione dell'umanità e l'ho giudicato un'anima nobile e superiore a ogni grandezza terrena. Diceva di essere un re, ma a me sembrava superiore, poiché i re li poteva censurare. 14 Quando poi cominciava a lodare la povertà e a dimostrare come tutto ciò che eccede il bisogno è un peso superfluo e pesante a reggersi, tante volte avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la frugalità, la purezza di un'anima aliena non solo dai piaceri illeciti, ma anche da quelli superflui, avrei voluto limitare la mia gola e il mio ventre. 15 Di questi insegnamenti qualcosa mi è rimasto, Lucilio mio; avevo cominciato tutto con grande slancio; poi, ritornato alla vita della città, ho mantenuto pochi dei miei buoni propositi. Da allora ho rinunciato per tutta la vita alle ostriche e ai funghi: non sono cibi, ma leccornie che fanno mangiare anche quando si è sazi (cosa graditissima agli ingordi e a chi si rimpinza oltre misura), vanno giù con facilità, con facilità si vomitano. 16 Da allora per tutta la vita non ho usato profumi, perché il miglior odore sul corpo è non averne nessuno; da allora non ho più bevuto vino. Da allora ho sempre evitato i bagni caldi: ritengo inutile e insieme segno di mollezza far cuocere il corpo ed esaurirlo col sudore. Le altre abitudini che avevo eliminato sono ritornate; non ho mantenuto l'astinenza totale, ma ho conservato una misura molto vicina all'astinenza, forse più difficile, poiché certe consuetudini è più facile troncarle che moderarle.

17 Visto che ho cominciato a raccontarti come da giovane mi sono accostato alla filosofia con uno slancio maggiore di quello con cui continuo da vecchio, non mi vergognerò di confessarti il mio amore per la filosofia pitagorica. Sozione spiegava perché Pitagora si era astenuto, dal mangiar carne e perché in sèguito se ne era astenuto Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma entrambe nobili. 18 Secondo Sestio l'uomo dispone di una quantità sufficiente di alimenti senza che versi sangue e inoltre, quando si straziano dei corpi per il proprio piacere, si crea un'abitudine alla crudeltà. Aggiungeva poi che dobbiamo ridurre i motivi di dissolutezza; e concludeva che la varietà di alimenti è dannosa alla salute e nociva al nostro corpo. 19 Pitagora, invece, sosteneva l'esistenza di una parentela di tutti gli esseri fra loro e la trasmigrazione delle anime da una forma di vita all'altra. Nessun'anima, secondo lui, muore o rimane inerte, se non nell'attimo in cui passa in un altro corpo. Vedremo in sèguito attraverso quali avvicendamenti e quando, dopo aver cambiato più dimore, l'anima ritorni in un uomo: diciamo intanto che egli ha fatto nascere negli uomini la paura di un delitto e di un parricidio, data la possibilità d'imbattersi, senza saperlo, nell'anima di un genitore, e di oltraggiarla scannando o mangiando un essere in cui alberga lo spirito di qualche congiunto. 20 Sozione mi espose queste teorie e vi aggiunse argomentazioni sue proprie, poi mi chiese: "Non credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi e che quella che chiamiamo morte sia solo un trapasso? Non credi che negli animali domestici o feroci o acquatici possa esserci l'anima che un tempo fu di un uomo? Non credi che nulla finisca in questo mondo, ma muti unicamente sede? Che non solo i corpi celesti percorrano un cammino prefissato, ma anche gli esseri animati abbiano i loro cicli e che le anime seguano una loro orbita? 21 Grandi uomini hanno creduto a queste teorie. Astieniti perciò da un giudizio e lascia tutto in sospeso. Se queste teorie sono vere, l'astinenza dalle carni ci rende immuni da colpe; se sono false, ci rende frugali. Che danno te ne deriva a crederci? Ti impedisco di nutrirti come i leoni e gli avvoltoi." 22 Stimolato da questi discorsi, cominciai ad astenermi dalle carni: dopo un anno era diventata per me un'abitudine non solo facile, ma anche piacevole. Avevo la sensazione che il mio spirito fosse più vivace, ma oggi non potrei dirti con sicurezza se lo fosse veramente. Vuoi sapere come ho abbandonato questa pratica? La mia giovinezza coincise con i primi anni del regno di Tiberio: i culti stranieri erano allora messi al bando e l'astinenza dalle carni di certi animali era considerata una prova di pratiche superstiziose. Per le preghiere di mio padre, che non temeva le false accuse, ma odiava la ffldsofia, ritornai alle vecchie abitudini; egli mi convinse senza difficoltà a mangiare meglio. 23 Attalo, poi, raccomandava di dormire su un materasso duro: e io anche ora, da vecchio, ne uso uno su cui non rimane il segno del corpo.

Ti ho raccontato questo per dimostrarti come siano impetuosi da principio gli slanci dei novizi verso tutte le virtù, se qualcuno li stimola e li sprona. Ma qualche errore si commette per colpa dei maestri che ci insegnano a discutere, non a vivere, qualche altro per colpa dei discepoli che frequentano le scuole non col proposito di esercitare lo spirito, ma l'ingegno. Così quella che fu filosofia è diventata filologia. 24 È molto importante, però, il proposito con cui ci si accosta a una qualunque materia. Se uno studia Virgilio come grammatico, non legge quello straordinario verso:

Fugge inesorabile il tempo

con questo spirito: "Bisogna stare all'erta; se non ci affrettiamo, rimarremo indietro; i giorni ci incalzano e si incalzano veloci; siamo trascinati via e non ce ne rendiamo conto; rimettiamo tutto al futuro e indugiamo mentre ogni cosa precipita": nota, invece, come ogni volta che parla della celerità del tempo, Virgilio usa questo verbo: "fugge".

I giorni migliori della vita sfuggono per primi ai miseri mortali; sopraggiungono le malattie la triste vecchiaia la sofferenza, e ci trascina via la morte spietata e crudele.



25 Chi ha di mira la filosofia, interpreta questi stessi versi nella maniera dovuta. "Virgilio," osserva, "non dice mai che i giorni passano, ma che fuggono, verbo che indica il modo più rapido di correre, e che i giorni migliori ci vengono strappati per primi: perché dunque non ci incitiamo a uguagliare la rapidità di una cosa tanto veloce? Il meglio svanisce, subentra il peggio." 26 Come da un'anfora fuoriesce prima il vino più schietto, mentre il più pesante e torbido sedimenta, così della nostra esistenza la parte migliore è la prima. E noi lasciamo che altri l'attingano e ce ne riserviamo la feccia? Imprimiamoci nell'anima questi versi e consideriamoli quasi il responso di un oracolo:

I giorni migliori della vita sfuggono per primi al miseri mortali.



27 Perché i migliori? Perché quanto rimane è incerto. Perché i migliori? Perché da giovani possiamo imparare, possiamo indirizzare al meglio l'anima ancora docile e duttile; perché questo periodo è adatto alle fatiche, adatto a stimolare la mente con gli studi e a esercitare il corpo con il lavoro: negli anni che ci rimangono siamo più deboli e fiacchi e più vicini alla fine. Perseguiamo perciò un unico scopo con tutta l'anima e, tralasciato ogni motivo di distrazione, diamoci da fare solo a questo fine: che non ci si debba accorgere, quando ormai siamo rimasti indietro, di questa rovinosissima e irrefrenabile velocità del tempo. Apprezziamo i nostri primi giorni come i migliori e traiamone profitto. Impadroniamoci del tempo che fugge. 28Se uno legge questi versi con gli occhi dell'erudito non pensa che i primi giorni siano i migliori perché poi subentrano le malattie, la vecchiaia incalza e sovrasta gli uomini quando ancòra pensano all'adolescenza, ma nota come Virgilio colleghi sempre malattie e vecchiaia, e a ragione: la vecchiaia è una malattia inguaribile. 29"Inoltre" egli aggiunge "Virgilio dà alla vecchiaia questo attributo, la chiama 'triste':

subentrano le malattie e la triste vecchiaia.

In un altro passo scrive:

vi abitano le pallide Malattie e la triste Vecchiaia."

Non c'è da meravigliarsi che dalla stessa materia ciascuno ricavi argomenti convenienti ai suoi studi: in uno stesso prato il bue cerca l'erba, il cane la lepre, la cicogna le lucertole.

30Quando un fdologo, un grammatico e un filosofo prendono in mano il De re publica di Cicerone, ciascuno rivolge la sua attenzione a elementi diversi. Il filosofo si meraviglia che si sia potuto parlare tanto contro la giustizia. Se alla stessa lettura si dedica invece il filologo, nota che ci sono due re di Roma di cui non si conosce dell'uno a padre, dell'altro la madre. Infatti non si sa con certezza chi fu la madre di Servio, di Anco non si menziona il padre: viene indicato come nipote di Numa. 31 Osserva inoltre che fi magistrato che noi chiamiamo dittatore e che nei libri di storia viene così nominato, gli antichi lo chiamavano "maestro del popolo". E oggi questo risulta evidente dal libro degli àuguri, e lo prova il fatto che la persona nominata dal dittatore è il "maestro della cavalleria". Analogamente osserva che Romolo morì durante un'eclissi di sole; che ci si poteva appellare al popolo anche contro le sentenze dei re; così risulterebbe dai libri dei pontefici secondo Fenestella e altri studiosi. 32 Se è il grammatico a fare l'esegesi dei medesimi libri, annota sùbito che Cicerone scrive reapse cioè re ipsa e sepse cioè se ipse. Poi passa a quelle espressioni che sono cambiate nel tempo, come in quel passo di Cicerone

poiché la sua interruzione ci ha riportati indietro dalla calce.

La meta nel circo che ora chiamiamo creta, un tempo si chiamava calx. 33 Quindi raccoglie i versi di Ennio, e soprattutto quelli sull'Africano:

cui nessun concittadino o nemico potrà reddere opis pretium per le sue imprese.

Egli ne deduce che in passato ops significava non solo 'aiuto', ma anche 'opera'. Ennio, infatti, vuol dire che nessun concittadino o nemico poté compensare l'opera di Scipione. 34 Si riterrà poi felice per aver trovato il modello di Virgilio:

e sopra di lui tuona l'immensa porta del cielo.

Dirà che Ennio l'ha preso da Omero, e Virgilio da Ennio; poiché in Cicerone, negli stessi libri del De re publica, si trova questo epigramma di Ennio:

se è lecito a un uomo salire alle regioni celesti, per me solo si apre l'immensa porta del cielo.



35 Ma per non finire anch'io, che ho ben altri intenti, tra i filologi e i grammatici, ti ricordo che i filosofi vanno ascoltati o letti avendo di mira la felicità e non per cogliere gli arcaismi o i neologismi, le metafore insensate e le figure retoriche, bensì i precetti utili, le massime nobili e coraggiose da mettere sùbito in pratica. Assimiliamo questi insegnamenti in modo che le parole si traducano in opere. 36 Da parte mia non giudico nessuno più dannoso all'umanità di quegli uomini che hanno imparato la filosofia come un'arte per arricchirsi e vivono in contrasto con i loro insegnamenti. Diventano loro stessi esempio di una disciplina inutile, schiavi come sono di tutti i vizi che condannano. 37 Un simile maestro mi è utile quanto un timoniere che vomita in piena tempesta. Bisogna tener saldo il timone contro la violenza delle onde, lottare col mare, sottrarre le vele alla furia del vento: come può essermi di aiuto un timoniere stordito e in preda al vomito? Non pensi che la nostra vita sia sconvolta da tempeste più violente che una nave? C'è bisogno di una guida sicura, non di parole. 38 Tutti i princìpî che espongono, che vanno ripetendo alla folla in ascolto, sono di altri: di Platone, Zenone, Crisippo, Posidonio e di un vasto gruppo di tanti insigni filosofi. Ecco come possono dimostrare che questi princìpî sono i loro: agiscano come parlano.

39 Ti ho ormai detto quanto volevo; soddisfarò ora il tuo desiderio e ti scriverò tutte le spiegazioni che hai richiesto, ma in un'altra lettera: non voglio che affronti stanco una questione spinosa che va ascoltata con molta attenzione. Stammi bene.



109

1 Tu vuoi sapere se un saggio può essere utile a un altro saggio. Noi diciamo che il saggio ha in sé ogni bene e ha raggiunto la perfezione: come può dunque qualcuno essere utile a chi possiede il sommo bene? Eppure i buoni si giovano vicendevolmente, poiché praticano le virtù e mantengono costante la loro saggezza; ognuno di loro sente il bisogno di un altro con cui comunicare, con cui discutere. 2 I lottatori esperti si tengono in esercizio con combattimenti continui; il musicista viene stimolato da un collega abile quanto lui. Anche il saggio deve esercitare le sue virtù; e come è di sprone a se stesso, così è spronato da un altro saggio. 3 Come potrà un saggio essere utile a un altro saggio? Gli darà slancio, gli indicherà le occasioni per agire virtuosamente. Gli manifesterà inoltre certi suoi pensieri; gli comunicherà le sue scoperte, poiché anche al saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire e in cui il suo spirito possa spaziare. 4 Il malvagio nuoce al malvagio, lo rende peggiore eccitandone l'ira, secondandone la durezza, approvandone i piaceri; i malvagi si trovano a mal partito soprattutto quando uniscono i loro vizi e la loro cattiveria forma un tutt'uno. Quindi all'opposto il buono sarà utile al buono. 5 "Come?" tu chiedi. Gli porterà gioia, consoliderà il suo coraggio. Alla vista della reciproca serenità, crescerà in entrambi la contentezza. Gli trasmetterà inoltre la conoscenza di certe nozioni: il saggio non conosce tutto, e quand'anche conoscesse tutto, qualcun altro potrebbe escogitare e indicargli vie più brevi per divulgare più facilmente tutta la sua opera. 6 Il saggio sarà utile al saggio, non soltanto con le proprie forze, ma anche con quelle di chi viene aiutato. Certamente anche se è lasciato a se stesso il saggio può svolgere i propri compiti: lo farà procedendo alla sua velocità; anche un corridore, però, è aiutato da uno che lo sprona.

"Il saggio non giova al saggio, ma a se stesso. Ne vuoi una prova? Sottraigli la forza e non potrà fare più nulla." 7 Con questo criterio potresti dire che il miele non è dolce; infatti, se chi deve mangiarlo non ha lingua e palato conformati in modo da apprezzare un sapore simile, ne rimarrà nauseato; ci sono certe persone che per una malattia sentono amaro il miele. I saggi devono essere entrambi in pieno vigore, cosi che l'uno sia in grado di giovare, e l'altro gli offra materia adatta.

8 "Ma," si ribatte, "come è inutile riscaldare un corpo che ha raggiunto il massimo calore, così è inutile dare aiuto a chi ha raggiunto il sommo bene. L'agricoltore fornito di tutti gli attrezzi chiede forse di riceverne da un altro? Un soldato armato sufficientemente per scendere in campo, sente forse il bisogno di altre armi? Quindi neppure il saggio: ha attrezzi e armi sufficienti per affrontare la vita." 9 Rispondo: anche un corpo che ha raggiunto il massimo calore ha bisogno di calore aggiuntivo per mantenere costante la temperatura. "Ma," si obietta, "il calore si conserva da sé." Prima di tutto c'è una grande differenza tra gli elementi del confronto: il calore è unico, l'aiuto vario. E poi, perché il calore sia tale, non serve un'aggiunta di calore: il saggio invece non può mantenere il suo stato spirituale se non si crea amici simili a lui da rendere partecipi delle proprie virtù. 10 Tutte le virtù sono, inoltre, in amicizia tra loro; perciò giova chi ama le virtù di qualcuno a lui simile e gli offre a sua volta virtù da amare. Le somiglianze sono gradite, soprattutto quando si tratta di persone oneste che sanno apprezzare e farsi apprezzare. 11 E poi nessun altro, se non il saggio, può influire con perizia sull'animo del saggio, come solo l'uomo può influire razionalmente sull'uomo. Per influire sulla ragione, occorre dunque la ragione, così per influire su una ragione perfetta occorre una ragione perfetta. 12 Generalmente si definiscono utili persone che ci elargiscono beni indifferenti: denaro, favori, incolumità e altri ancòra graditi o necessari ai bisogni della vita; in questo, si dirà, anche lo stolto può essere utile al saggio. Ma essere utili, significa indirizzare un'aníma secondo natura con la propria virtù. Ciò si tradurrà in un bene sia dell'oggetto che del soggetto di questa azione perché chi esercita la virtù altrui necessariamente esercita anche la propria. 13 Ma pur lasciando da parte i beni sommi o le loro cause, i saggi possono lo stesso giovarsi a vicenda. Per il saggio, infatti, trovare un altro saggio è di per sé desiderabde, poiché per natura ogni bene è caro a chi è buono e così ognuno va d'accordo con chi è buono come con se stesso.

14 L'argomento richiede che da questo problema io passi a un altro. Si discute se il saggio debba decidere da solo o domandare consiglio ad altri. Questo deve farlo quando si tratta di questioni civili, familiari e, per così dire, mortali; per esse ha bisogno di essere consigliato come ha bisogno del medico, del timoniere, dell'avvocato, del giudice. Talvolta il saggio sarà, dunque, utile al saggio consigliandolo. Ma anche nei problemi grandi e riguardanti il divino, come si è detto, gli potrà essere utile nel compiere insieme il bene, in comunione di anime e di pensieri. 15 Inoltre è secondo natura sia essere uniti agli amici, sia rallegrarsi dei loro progressi come dei propri; se non agiremo così, non manterremo viva in noi la virtù che trae la sua forza dall'esercizio del pensiero. La virtù ci esorta a disporre bene il presente, a provvedere per il futuro, a meditare e a elevare l'anima; questa elevazione e questo sviluppo spirituale saranno più facili per chi si sarà preso un compagno. Cercherà pertanto o un uomo perfetto o in via di progredire e vicino alla perfezione. E quest'uomo perfetto sarà utile se alle decisioni darà l'apporto della comune saggezza. 16 Si dice che gli uomini vedano più chiaro nelle faccende altrui [...]. Questo accade a chi è accecato dall'amore di sé, oppure a chi nei pericoli si lascia prendere dal panico e perde di vista ciò che è utile: incomincerà a mostrarsi assennato quando è ormai tranquillo e libero dalla paura. Ci sono, tuttavia, faccende in cui anche i saggi vedono con più chiarezza per gli altri che per se stessi. Il saggio inoltre offrirà al saggio quel "volere e non volere le stesse cose", così ricco di dolcezza e di virtù, e insieme sotto lo stesso giogo compiranno la loro nobile opera.

17 Ho pagato il mio debito come chiedevi, sebbene tutto questo si trovasse tra gli argomenti trattati nei miei libri di filosofia morale. Rifletti su quello che spesso ti ripeto: con simili questioni noi esercitiamo solo la nostra intelligenza. Tante volte torno a chiedermi: a che mi serve questo genere di speculazioni? Rendimi, invece, più forte, più giusto, più temperante. Non ho tempo per questi esercizi mentali: ho ancora bisogno del medico. 18 Perché mi è richiesta una conoscenza inutile? Mi sono state fatte grandi promesse: che vengano mantenute! Mi dicevi che sarei rimasto imperterrito anche in mezzo al balenare delle spade, anche col pugnale alla gola; che non avrei avuto paura neanche tra il divampare di un incendio, neanche se un'improvvisa tempesta avesse trascinato la mia nave per tutti i mari: aiutami a disprezzare il piacere, a disprezzare la gloria. Mi insegnerai dopo a sciogliere i nodi, a distinguere le ambiguità, a capire concetti oscuri: per ora insegnami quello che è necessario. Stammi bene.

 
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view post Posted on 27/5/2009, 21:42

ottimo

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110

1 Ti mando un saluto dalla mia villa di Nomento e ti esorto a mantenere un'anima onesta, ossia ad avere propizi tutti gli dèi: essi sono benigni con chi è in pace con se stesso e lo favoriscono. Metti da parte per ora ciò che credono alcuni: che ciascuno di noi abbia un dio come guida, non uno dei maggiori; ma una divinità di grado inferiore, tra quelle che Ovidio definisce "divinità plebee". Metti da parte queste credenze, ma ricorda che i nostri antenati che le seguivano erano Stoici; essi attribuivano ad ogni uomo un Genio e una Giunone. 2 Vedremo in seguito se gli dèi hanno il tempo di occuparsi dei nostri affari privati; intanto sappi questo: sia che siamo assegnati a una divinità, sia che siamo abbandonati a noi stessi e dati in balia della sorte, non puoi mandare a nessuno una maledizione più grave che quella di non essere in pace con se stesso. Ma, se per te uno merita una punizione, non c'è motivo di desiderare che abbia nemici gli dèi: li ha nemici, io dico, anche se apparentemente è accompagnato dal loro favore. 3 Fai attenzione e guarda alla realtà delle nostre cose, non al loro nome; ti renderai conto che i mali, in gran parte, arrivano a proposito, e non ci càpitano per caso. Quante volte quella che consideravamo una disgrazia è stata causa e principio di prosperità! Quante volte un avvenimento accolto con grande gioia è stato il primo passo verso la rovina e ha innalzato ancòra di più uno che già stava in alto, quasi che la sua posizione gli consentisse ancora di salvarsi da una caduta. 4 Ma anche una caduta in se stessa non è un male se guardi al termine ultimo oltre il quale la natura non ha mai abbattuto nessuno. È vicina la fine di tutto; è vicina, ti dico, sia la fine di quella prosperità da cui viene cacciato chi è felice, sia di quelle disgrazie da cui è liberato l'infelice: noi le prolunghiamo entrambe e le protraiamo con la speranza o con il timore. Ma, se sei saggio, misura tutto in base alla condizione umana; abbrevia le tue gioie e i tuoi timori. Vale la pena non godere a lungo di niente per non temere niente a lungo.

5 Ma perché voglio ridurre questo male? Non c'è cosa che tu debba giudicare terribile: sono vane le paure che ci turbano, che ci lasciano attoniti. Nessuno di noi ha controllato che cosa ci fosse di vero, ma la paura l'uno l'ha trasmessa all'altro; nessuno ha osato accostarsi a ciò che lo turbava per conoscere la natura del suo timore e quel che c'è in esso di bene. Perciò una visione falsa e vana trova credito perché non ne è stata dimostrata l'infondatezza. 6 Val la pena aguzzare la vista: vedremo sùbito come siano brevi, incerte e senza pericolo le cose che temiamo. La confusione del nostro animo è proprio quale la giudicò Lucrezio:

Come i fanciulli trepidano e tutto temono nell'oscurità delle tenebre, così noi temiamo in piena luce.

E allora? Non siamo più insensati di un fanciullo, noi che abbiamo paura in piena luce? 7 Ma non è così, Lucrezio mio, non abbiamo paura in piena luce: ci siamo circondati di tenebre. Non vediamo niente, né utilità, né danno, per tutta la vita urtiamo contro degli ostacoli, ma non per questo ci fermiamo o avanziamo con più circospezione. Ti rendi conto che è da pazzi correre nelle tenebre! Ma, perbacco, in questo modo dobbiamo poi essere richiamati da più lontano e, pur ignorando dove siamo diretti, continuiamo a tutta velocità nella direzione intrapresa. 8 Eppure, se volessimo, potrebbe risplendere la luce. E c'è un'unica maniera: avere conoscenza delle cose umane e divine, ma deve essere una conoscenza profonda, non superficiale: per quanto si sappiano, le cose bisogna riesaminarle e riferirle a se stessi di frequente, bisogna chiedersi che cosa sia il bene, quale cosa sia il male, al di là delle false definizioni, indagare sull'onestà e l'abiezione, sulla provvidenza. 9 Ma la penetrante intelligenza umana non si ferma a questi problemi: vuole guardare anche al di là del mondo, comprendere la sua meta, la sua origine, e verso quale fine si diriga così velocemente l'universo. Abbiamo distolto l'animo dalla contemplazione del divino per trascinarlo a cose meschine e spregevoli al servizio della nostra avidità, perché, dimentico del mondo, dei suoi confini, dei signori che regolano ogni cosa, scavi la terra e cerchi di tirarne fuori altri mali, non contento di quelli che già ha davanti. 10 Tutto quanto poteva esserci utile, dio, nostro padre, ce lo ha messo vicino; non ha aspettato che noi lo cercassimo, ce lo ha dato spontaneamente: le cose nocive, invece, le ha nascoste nelle viscere della terra. Possiamo lagnarci solo di noi stessi: abbiamo portato alla luce le cause della nostra rovina, facendo violenza alla natura che ce le nascondeva. Abbiamo assoggettato l'anima al piacere, e indulgervi è l'inizio di tutti i mali; l'abbiamo consegnata all'ambizione, alla sete di gloria, e ad altre aspirazioni ugualmente vane e futili.

11 Che cosa ti consiglio allora? Niente di nuovo, non stiamo cercando rimedi per mali nuovi. Ma una cosa soprattutto ti consiglio: cerca di capire cos'è necessario e che cosa è superfluo. Il necessario ti si offrirà spontaneamente dappertutto, il superfluo dovrai cercarlo sempre con grandi sforzi. 12 Non devi compiacerti troppo per aver disprezzato letti d'oro e suppellettili ornate di pietre preziose; che virtù c'è a disprezzare il superfluo? Potrai avere ammirazione per te stesso solo quando disprezzerai il necessario. Non fai una gran cosa se puoi vivere senza una magnificenza regale, se non senti il bisogno di cinghiali enormi o di lingue di fenicottero e altre straordinarie trovate di un lusso che ha ormai a nausea gli animali interi e di ognuno sceglie determinate parti: avrai la mia ammirazione se disprezzerai anche il pane nero, se ti convincerai che l'erba, in caso di necessità, spunta non solo per le bestie, ma anche per l'uomo, se capirai che il nostro ventre possono saziarlo i germogli delle piante, e invece vi ammassiamo cibi pregiati come se potesse conservare quello che riceve. Va riempito senza fare gli schizzinosi: cosa importa che alimento riceve, se va tutto perso? 13 Ti piace vedere in tavola animali marini e terrestri: gli uni sono più graditi se arrivano freschi sulla tavola, gli altri se, nutriti a lungo e ingrassati a forza, grondano grasso e sembra quasi che scoppino; ti piace la loro squisitezza ottenuta ad arte. Ma perbacco, queste pietanze procurate con enorme fatica e preparate in tanti modi diversi, quando finiranno nello stomaco, diventeranno un unico ammasso ripugnante. Vuoi disprezzare il piacere del cibo? Guarda che fine fa.

14 Ricordo che Attalo diceva tra l'ammirazione generale: "Le ricchezze mi hanno ingannato a lungo. Rimanevo colpito quando le vedevo splendere qua e là: pensavo che la sostanza fosse simile all'apparenza. Ma in occasione di una solennità vidi tutti i tesori di Roma, oggetti cesellati in oro e argento e con pietre più preziose dell'oro e dell'argento, colori raffinati e vesti arrivate da terre al di là non solo dei nostri confini, ma anche dei confini dei nemici; da una parte uno stuolo di giovani schiavi di rara bellezza ed eleganza, dall'altra di schiave, e altri beni, che la fortuna dell'impero più potente del mondo aveva esposto passando in rassegna le sue ricchezze. 15 Cos'è questo," mi chiedo, "se non stimolare la cupidigia degli uomini già di per sé eccitata? Che fine ha questa parata di ricchezza? Siamo venuti qui per imparare l'avidità?" E invece, perbacco, me ne vado meno avido di quando sono venuto. Disprezzo la ricchezza non perché è superflua, ma perché è cosa di poco conto. 16 Hai visto? Quel corteo, sebbene procedesse lento e ordinato, è sfilato in poche ore. E allora dovrà occupare tutta la nostra vita una cosa che non ha potuto occupare un giorno intero? E per giunta queste ricchezze mi sono sembrate superflue per i possessori come lo sono state per gli spettatori. 17 Perciò ogni volta che qualcosa di simile mi abbaglia, ogni volta che mi trovo davanti a una casa sontuosa o a un elegante stuolo di schiavi o a una lettiga sostenuta da servi di bell'aspetto, dico a me stesso: "Perché guardi ammirato? Perché rimani sbalordito? È uno sfoggio. Queste ricchezze sono messe in mostra, non sono veramente possedute; piacciono e già passano." 18 Volgiti piuttosto alla vera ricchezza; impara ad essere contento di poco e grida con forza ed entusiasmo: abbiamo acqua, abbiamo polenta; gareggiamo in felicità con Giove stesso. Ma, ti prego, gareggiamo con lui anche se ci mancano entrambe; è vergognoso riporre la felicità nell'oro e nell'argento, ma è ugualmente vergognoso riporla nell'acqua e nella polenta. 19 "Che farò, dunque, se mi mancheranno anche questi cibi?" Chiedi qual è il rimedio all'indigenza? La fame mette fine alla fame: altrimenti che differenza c'è se a ridurti in schiavitù sono beni grandi o piccoli? Che importa quanto poco sia ciò che la sorte ti può negare? 20 Anche acqua e polenta dipendono dalla volontà altrui: è veramente libero non l'uomo contro cui la fortuna ha poco potere, bensì quello contro cui non può nulla. È così: non devi aver bisogno di niente se vuoi competere con Giove che non ha bisogno di niente."

Questo è quanto ci ha detto Attalo, questo quanto la natura ha detto a tutti gli uomini; e se vi rifletterai spesso, otterrai di essere felice, non di sembrarlo, e di sembrarlo a te stesso, non agli altri. Stammi bene.



111

1 Tu vuoi sapere come si chiamino in latino i sophismata. Si è spesso tentato di trovare un sostantivo adatto, ma nessuno ha attecchito; evidentemente, poiché non era da noi recepito il concetto e non era nell'uso comune, si è respinto anche il termine.

Tuttavia il sostantivo più adatto mi sembra quello usato da Cicerone: cavillationes. 2 Chi vi si dedica, tesse questioncelle davvero acute, che non servono, però a vivere: non diventa più forte o più temperante o più nobile. Se uno, invece, esercita la filosofia per migliorarsi, diventa magnanimo, pieno di fiducia, e appare insuperabile e superiore a chi gli si accosta. 3 Capita così con le alte montagne: a guardarle da lontano sembrano più basse, ma avvicinandosi si vede quanto siano elevate le loro cime. Così è, Lucilio mio, il vero filosofo: tale a fatti, non con raggiri. Sta in alto, degno di ammirazione, fiero, veramente grande; non si alza sulla pianta dei piedi, non cammina sulle punte come le persone che cercano di aumentare con l'inganno la loro statura e vogliono sembrare più alte di quanto non siano; è contento della sua altezza. 4 E perché non dovrebbe essere contento di essere cresciuto fino al punto in cui la fortuna non può raggiungerlo? È, dunque, al di sopra delle vicende umane, uguale a se stesso in ogni situazione, sia che il corso della vita proceda favorevole, sia che ondeggi e avanzi tra avversità e ostacoli: i cavilli, di cui si parlava poco prima, non possono darci questa fermezza. Con essi l'anima gioca, non progredisce, e trascina la filosofia giù dalla sua altezza in basso. 5 Non è che ti proibisca di dedicarti talvolta a questi cavilli, ma solo quando non vorrai fare nulla. Hanno, però questo di veramente dannoso: procurano un certo diletto, trattengono e fanno indugiare l'animo con la loro apparente sottigliezza, mentre lo aspetta una massa di problemi, e la vita intera non basta a imparare una sola cosa: il disprezzo della vita. "E per governarla?" chiedi. Questo lo imparerai in un secondo momento; la vita nessuno può governarla bene, se prima non la disprezza. Stammi bene.



112

1 Per dio, certamente vorrei che il tuo amico si potesse formare ed educare come vuoi tu, ma l'hai trovato già molto indurito, anzi, ed è più grave, proprio imbelle e infiacchito da cattive abitudini di vecchia data. 2 Voglio farti un esempio, preso dalla mia attività agricola. Non tutte le viti sopportano l'innesto: se la pianta è vecchia e corrosa, se è malata e fragile, o non riceverà la marza o non riuscirà a nutrirla, e non si verificherà l'unione e il passaggio di natura e di qualità. Perciò di solito si taglia la vite al livello del terreno, così che, se l'innesto non riesce, si possa tentare la sorte un'altra volta e ripetere l'operazione sotto terra. 3 La persona di cui scrivi e che raccomandi non ha forza: ha secondato troppo i vizi. È marcito e si è indurito nello stesso tempo; non può accogliere in sé la ragione, né può nutrirla. "Ma è lui stesso a desiderarlo." Non crederci. Non dico che voglia mentirti: è convinto di volerlo. La sua dissolutezza gli è venuta a nausea: ma presto vi si riconcilierà. 4 "Ma afferma di essere disgustato dalla sua vita." Non dico di no; e chi non ne proverebbe disgusto? Gli uomini amano e insieme odiano i loro vizi. Lo giudicheremo pertanto quando ci dimostrerà con certezza che detesta quella vita corrotta: al momento è solo in disaccordo. Stammi bene.



113

1 Vuoi che ti scriva il mio parere sulla questione di cui abbiamo discusso: se la giustizia, la fortezza, la prudenza e le altre virtù siano animali. Con queste sottigliezze, carissimo Lucilio, diamo l'impressione di esercitare la mente in questioni vane e di perdere tempo in discussioni inutili. Farò tuttavia, come vuoi e ti esporrò il parere dei filosofi stoici; ma ti confesso di avere un'opinione diversa: secondo me ci sono problemi più convenienti a chi veste con calzari bianchi e pallio. Ti esporrò dunque, le questioni che hanno interessato gli antichi filosofi o meglio, le questioni di cui essi si sono interessati.

2 Si sa che l'anima è animale, poiché ci rende esseri animati, e gli esseri animati hanno derivato da lei questo nome; la virtù non è niente altro che un certo stato dell'anima: quindi è animale. Inoltre, la virtù agisce; ma non si può mai agire senza slancio: se ha slancio, che è una prerogativa degli animali, è animale. 3 "Se la virtù è animale," si ribatte, "ha in sé la virtù." E perché non dovrebbe possedere se stessa? Il saggio agisce sempre attraverso la virtù, allo stesso modo la virtù agisce attraverso se stessa. "Quindi," continuano, "anche tutte le arti sono animali e tutti i nostri pensieri e tutto quello che abbracciamo con la mente. Ne consegue che nello spazio ristretto del nostro petto abitano molte migliaia di animali, e ciascuno di noi è formato da molti animali oppure abbiamo in noi molti animali." Vuoi sapere che cosa si può controbattere? Ciascuna di queste cose sarà un animale, ma non ci saranno molti animali. Perché? Te lo dirò se mi dedicherai tutta la tua attenzione e l'acume della tua intelligenza. 4 I singoli animali devono avere ciascuno una propria essenza; tutte queste cose, invece, hanno una sola anima; perciò possono esistere singolarmente, ma non possono essere molte. Io sono uomo e animale, e tuttavia non potresti dire che siamo in due. Perché? Perché devono essere due elementi distinti. Per essere due, ti dico, l'uno deve essere separato dall'altro. Tutto ciò che è molteplice in un unico essere, fa parte di un'unica natura; perciò è uno. 5 La mia anima è un animale, io sono un animale e tuttavia non siamo due esseri. Perché? Perché l'anima è parte di me stesso. Una cosa conta per se stessa, quando sussiste di per sé; fino a quando sarà parte di un altro essere, non potrà esserne distinta. Perché? Te lo spiego: perché un essere distinto deve appartenere totalmente a sé, avere caratteristiche proprie ed essere completo e compiuto in se stesso.

6 Ho già detto che la penso diversamente; infatti, se si accetta questa teoria, non saranno animali solo le virtù, ma anche i vizi a esse contrari, e le passioni, come l'ira, la paura, il cordoglio, il sospetto. Ma si può andare oltre: saranno animali tutte le idee, tutti i pensieri. Ma questo è assolutamente inaccettabile: non tutto ciò che è fatto dall'uomo è uomo. 7 "La giustizia cos'è?" si chiede. Una condizione dell'anima. "Perciò se l'anima è un animale, lo è anche la giustizia." Niente affatto; è un modo di essere dell'anima e una forza. L'anima stessa assume vari aspetti, ma non diventa un animale diverso tutte le volte che agisce in modo diverso; e neppure quello che viene fatto dall'anima è animale. 8 Se la giustizia è un animale, se lo sono la fortezza e le altre virtù, esse cessano di essere animali di volta in volta e ricominciano ad esserlo, oppure lo sono sempre? Le virtù non possono finire. Quindi, nell'anima si trovano molti, anzi innumerevoli animali. 9 "Non sono molti," si ribatte, "poiché sono legati a un unico essere e ne sono parti e membra." Ci immaginiamo, dunque, l'anima simile all'Idra dalle molte teste, di cui ognuna combatte e fa del male da sola. Eppure nessuna di quelle teste è animale, ma una testa di animale: l'Idra stessa è un solo animale. Nessuno ha mai detto che nella Chimera il leone o il drago fossero animali: entrambi ne erano parte e le parti non sono animali. 10 Come arrivi dunque alla conclusione che la giustizia è un animale? "Agisce," si risponde, "ed è utile; ciò che agisce ed è utile ha uno slancio; e ciò che ha uno slancio è un animale." Questo è vero, se ha un proprio slancio; ma lo slancio non è della giustizia, bensì dell'anima. 11 Ogni animale è lo stesso dalla nascita alla morte: l'uomo è uomo fino alla morte, il cavallo cavallo, il cane cane; non può diventare un altro. La giustizia, cioè l'anima che si trova in un determinato stato, è un animale. Ammettiamolo pure: allora è un animale anche la fortezza, cioè l'anima che si trova in un determinato stato. E quale anima? Quella che prima era giustizia? Ma è prigioniera nell'animale precedente e non può passare in un altro; deve continuare in quell'animale in cui ha cominciato a esistere. 12 Inoltre, una sola anima non può essere di due animali, e tanto meno di più animali. Se la giustizia, la fortezza, la temperanza e le altre virtù sono animali, come avranno un'unica anima? Ciascuno deve avere la sua, oppure non sono animali. 13 Un solo corpo non può essere di più animali. Questo lo ammettono anche loro stessi. Qual è il corpo della giustizia? "L'anima." E il corpo del coraggio? "La medesima anima." Ma un solo corpo non può appartenere a due animali. 14 "È la stessa anima," ribattono, "che prende l'aspetto della giustizia, della fortezza, della temperanza." Questo potrebbe verificarsi se, nel momento in cui l'anima è giustizia, non fosse coraggio, e, quando è fortezza, non fosse temperanza: in realtà tutte le virtù esistono contemporaneamente. Allora come potranno essere animali le singole virtù, se l'anima è una sola e non può formare più di un solo animale? 15 Infine, nessun animale è parte di un altro animale; la giustizia è parte dell'anima, dunque non è un animale.

Mi sembra di perdere tempo per una questione così evidente; questo argomento più che discussione merita sdegno. Nessun animale è uguale a un altro. Osservane i corpi: ciascuno ha un suo colore, un suo aspetto, una sua statura. 16 Secondo me l'ingegno del divino artefice fra l'altro va ammirato anche per questo: in tanta varietà di esseri non si è mai ripetuto. Anche quelli che sembrano simili, messi a confronto, sono diversi. Ha creato tanti tipi di foglie: ciascuna con caratteristiche proprie; tanti animali: nessuno è grande quanto un altro; c'è sempre qualche differenza. Ha preteso da sé che esseri diversi fossero dissimili e disuguali. Tutte le virtù, come dite, sono uguali; quindi non sono animali. 17 Ogni animale agisce da sé; la virtù non agisce da sé, ma con l'uomo. Tutti gli animali o sono razionali, come gli uomini e gli dèi, o irrazionali, come le fiere e le bestie domestiche; le virtù sono senz'altro razionali; ma non sono né uomini, né dèi; quindi non sono animali. 18 Ogni animale razionale non agisce se non sotto lo stimolo di un'immagine, poi prende lo slancio e quindi l'assenso conferma questo slancio. Ecco cos'è l'assenso. Devo camminare: camminerò solo quando lo avrò detto a me stesso e avrò approvato questa mia idea; devo sedermi: mi siederò solo alla fine di questa trafila. Questo assenso non c'è nella virtù. 19 Supponiamo che si tratti della prudenza: come darà il proprio consenso alla necessità di camminare? La natura non lo ammette. La prudenza guarda alla persona alla quale appartiene, non a se stessa; non può passeggiare, né sedere. Quindi, non ha l'assenso e, dal momento che non ha l'assenso, non è animale razionale. La virtù, se è un animale, è razionale; ma razionale non è, quindi non è un animale. 20 Se la virtù è un animale e la virtù è ogni bene, ogni bene è un animale. Questo è il pensiero dei nostri filosofi. È un bene salvare il padre, è un bene fare in senato discorsi saggi, è un bene giudicare con giustizia; quindi, salvare il padre è un animale e fare un discorso saggio è un animale. La questione arriverà a un punto in cui non ci si potrà più trattenere dal ridere: tacere al momento opportuno è un bene, cenare ‹frugalmente› è un bene; così tacere e cenare sono animali.

21 Perbacco, non smetterò di dilettarmi e di giocare con queste sciocche sottigliezze. La giustizia e la fortezza, se sono animali, sono senz'altro terrestri; tutti gli animali terrestri sentono il freddo, la fame, la sete; quindi la giustizia sente il freddo, la fortezza la fame, la clemenza la sete. 22 E poi? Non chiederò ai filosofi che aspetto hanno questi animali? Di uomo, di cavallo o di fiera? Se attribuiranno loro una forma rotonda come a dio, chiederò se l'avarizia, la dissolutezza, la follia sono parimenti rotonde; anch'esse, infatti, sono animali. Se anche a queste attribuiscono una forma rotonda, chiederò ancora se passeggiare compostamente sia un animale. Dovranno rispondere affermativamente e di conseguenza dire che passeggiare è un animale e per di più rotondo.

23 Non pensare ora che io sia il primo degli Stoici a non seguire le vecchie teorie e a esprimere un'opinione personale; Cleante e il suo discepolo Crisippo non sono d'accordo su che cosa sia il passeggiare. Cleante dice che è lo spirito vitale che passa dall'elemento principale ai piedi, Crisippo invece che è l'elemento principale stesso. Perché, dunque, ognuno sull'esempio di Crisippo non rivendica la propria libertà e non se la ride di tutti questi animali che l'universo intero non potrebbe contenere?

24 "Le virtù," si dice, "non sono molti animali, e tuttavia sono animali. Come uno può essere poeta e oratore, e tuttavia è un unico individuo, così queste virtù sono animali, ma non molti animali. L'anima e l'anima giusta e saggia e forte, che si trova in una certa disposizione di fronte alle singole virtù, è la stessa." 25 Eliminata ‹la controversia› siamo d'accordo. Anch'io ammetto intanto che l'anima è un animale, riservandomi di esaminare in sèguito il mio parere su questo argomento: nego, però che le sue azioni siano animali. Altrimenti saranno animali anche tutte le parole e tutti i versi. Difatti se un discorso saggio è un bene, e ogni bene è un animale, un discorso sarà un animale. Un verso saggio è un bene, ogni bene è un animale; dunque, un verso è un animale. Così

canto le armi e l'uomo

è un animale, ma non possono dire che è rotondo visto che ha sei piedi. 26 "L'argomento in questione è, per dio, proprio capzioso," affermi. Scoppio dal ridere quando mi immagino come animali solecismi, barbarismi, sillogismi e attribuisco loro una figura appropriata come fossi un pittore. Discutiamo di questo argomento con i sopraccigli corrugati e la fronte aggrottata? Non posso pronunciare a questo punto quel famoso verso di Celio: "Che squallide sciocchezze!" Sono addirittura ridicole.

Perché piuttosto non trattiamo qualche argomento salutare e a noi utile e non cerchiamo come si possa arrivare alla virtù e quale strada ci conduca a essa? 27 Insegnami non se la fortezza è un animale, ma che nessun animale è felice senza la fortezza, se non si è rafforzato contro i casi fortuiti e non è in grado di dominare ogni evento con la riflessione prima di essere colto di sorpresa. Cos'è la fortezza? La difesa inespugnabile della debolezza umana, e chi se ne circonda resiste senza timore all'assedio della vita; impiega armi e forze sue. 28 A questo punto voglio riferirti una massima del nostro Posidonio: "Non pensare mai di essere al sicuro grazie alle armi della fortuna: combatti con le tue. La fortuna non fornisce armi contro se stessa; perciò anche se abbiamo il necessario per combattere i nemici, siamo inermi di fronte a lei." 29 Alessandro metteva in fuga i Persiani, gli Ircani, gli Indi e tutti i popoli orientali fino all'oceano, e ne devastava i territori, ma egli stesso, ora per l'uccisione di un amico, ora per la perdita di un altro, giaceva nelle tenebre, afflitto dai suoi delitti o dal rimpianto; egli, vincitore di tanti re e di tanti popoli, soccombeva all'ira e all'afflizione; aveva cercato di tenere tutto in suo potere, ma non le passioni. 30 Quanto si ingannano quegli uomini che bramano di spingere il loro dominio al di là del mare e pensano di essere veramente felici se occupano militarmente molte regioni e alle vecchie ne aggiungono di nuove, e sono ignari di quale sia quello straordinario potere, pari al potere degli dèi: il dominio di se stessi è il più grande dominio. 31 Insegnami quanto è sacra la giustizia che guarda al bene altrui e a sé non chiede nulla, se non di essere praticata. Non abbia niente a che spartire con la fama e l'ambizione; piaccia solo a se stessa. Ognuno di noi deve innanzitutto convincersi di una cosa: bisogna essere giusti senza sperarne una ricompensa. Ma è poco. Dobbiamo anche essere persuasi che tutto va speso volontariamente per questa bellissima virtù; i nostri pensieri devono essere totalmente alieni da interessi privati. Non bisogna guardare quale sia il premio di una azione giusta: il premio maggiore consiste nella giustizia. 32 Mettiti bene in testa quello che dicevo poco fa: non importa in quanti conoscono la tua equità. Se uno vuole esibire la sua virtù, si dà pensiero non della virtù, ma della gloria. Non vuoi essere giusto senza averne gloria? Ma, perdio, dovrai spesso essere giusto a prezzo del disonore e allora, se sei saggio, ti compiacerai di una cattiva fama ben acquistata. Stammi bene.



114

1 Mi chiedi perché in certi periodi si sia sviluppato un genere corrotto di eloquenza e come mai uomini d'ingegno siano apparsi inclini a determinati difetti; così che talvolta è stato in auge un modo di esprimersi gonfio, talvolta spezzato e strascicato come una cantilena; perché si siano apprezzati ora concetti arditi e assurdi, ora frasi rotte ed enigmatiche, piene di sottintesi; perché in un periodo si sia fatto abuso della metafora. Il motivo è quello che senti dire da tutti e che presso i Greci è diventato un proverbio: il linguaggio degli uomini è uguale alla loro vita. 2 L'agire di ciascuno è simile ‹al suo modo› di parlare; così a volte, se un popolo manca di disciplina e si è dato ai piaceri, il modo di parlare si modella su i pubblici costumi. Un'eloquenza corrotta, se non si ritrova in uno o due individui, ma è accettata e recepita da tutti, è segno di una dissolutezza generale. 3 Non può la mente avere caratteristiche diverse dallo spirito. Se questo è sano, regolato, austero, temperante, anche la mente è sobria e assennata: se è corrotto, ne è anch'essa contagiata. Non vedi? Se lo spirito langue, si trascinano le membra e si cammina a fatica. Se è effeminato, la sua rilassatezza è evidente già nell'incedere. Se è fiero e animoso, il passo è concitato. Se è pazzo o in preda all'ira, passione simile alla pazzia, i movimenti del corpo sono alterati; non avanza, ma è come trascinato. Non pensi che questo si verifichi ancor più con la mente che è tutt'uno con lo spirito? Ne è plasmata, gli obbedisce e ne trae la sua legge.

4 Il modo di vivere di Mecenate è troppo noto perché sia ora necessario raccontare come passeggiasse, quanto fosse raffinato, come desiderasse mettersi in mostra e non volesse nascondere i suoi vizi. E allora? La sua eloquenza non fu trasandata come lo era lui? Le sue parole non sono particolari quanto la sua eleganza, il suo sèguito, la sua casa, la sua consorte? Sarebbe stato un uomo di grande ingegno, se lo avesse indirizzato su una via più retta, se non avesse ricercato l'oscurità, se non fosse stato rilassato anche nel linguaggio. Ti troverai di fronte all'eloquenza propria di un uomo ubriaco, involuta, degenerata, corrotta. 5 "Il fiume e la riva chiomata di selve." Che c'è di più brutto? Vedi come "arino con le barche il letto del fiume e, rivoltando le onde, si lascino dietro i giardini." E che dire? se uno "arriccia il viso ammiccando alla sua donna e fa il colombo con le labbra e comincia sospirando, come con la stanca cervice infuriano i tiranni del bosco." "Implacabile fazione, frugano nei banchetti, tentano le case con la bottiglia e passano la morte sperando." "Un Genio testimone a stento del suo giorno festivo." "I fili dell'esile candela e la focaccia crepitante." "La madre o la sposa adornano il focolare." 6 Appena leggerai queste parole ti verrà in mente che si tratta di quell'individuo che andava sempre girando per la città con la tunica sciolta; anche quando in assenza di Augusto ne faceva le veci, si faceva notare per la veste discinta; che in tribunale, sulle tribune, in ogni pubblica adunanza appariva col capo coperto dal mantello, da cui spuntavano solo le orecchie, come fanno nel mimo gli schiavi fuggitivi di un ricco; che mentre infuriavano con più violenza le guerre civili e nella città turbata tutti i cittadini erano in armi, si mostrava in pubblico scortato da due eunuchi, e tuttavia più virili di lui; che si sposò mille volte, pur avendo una sola moglie. 7 Queste parole disposte tanto male, gettate là con trascuratezza, collocate in maniera assolutamente inconsueta, dimostrano che anche le sue abitudini erano altrettanto insolite, corrotte e singolari. La sua qualità più lodevole è la mansuetudine: si astenne dall'usare la spada, dal versare sangue e il suo potere lo mostrò solo con la sua dissolutezza. Ma questo suo merito lo ha sciupato con le raffinatezze del suo linguaggio assolutamente fuori dall'ordinario; fu evidentemente un uomo debole, non un mite. 8 Questi componimenti contorti, queste trasposizioni di parole, questi concetti strani, spesso grandi, ma espressi senza nerbo, dimostrano chiaramente a tutti una cosa: l'eccessiva prosperità gli aveva dato alla testa. E questo difetto può caratterizzare un uomo o un intero periodo. 9 Quando la prosperità genera una diffusa dissolutezza, si manifesta dapprima una cura più ricercata del fisico; quindi ci si preoccupa per le suppellettili; poi si rivolge ogni attenzione alla casa: deve estendersi vasta come una campagna, le pareti devono risplendere di marmi importati d'oltre oceano, i soffitti essere screziati d'oro, lo splendore dei pavimenti corrispondere a quello dei soffitti; poi la sontuosità passa alla tavola e si cerca di renderla più pregevole con le stranezze e sovvertendo l'ordine abituale: si presentano come primi piatti quelli che di solito concludono il pranzo, e agli invitati che se ne vanno si servono quei cibi che si davano all'arrivo. 10 Quando l'anima arriva ad avere a nausea le consuetudini e a ritenerle spregevoli, cerca novità anche nel linguaggio; ora riprende e tira fuori parole vecchie e obsolete, ora ne conia persino di nuove e distorce i significati, ora, e questa è l'ultima moda, considera segno di eleganza audaci e frequenti metafore. 11 C'è chi tronca i concetti e spera di ottenere il favore degli ascoltatori lasciando in sospeso le frasi e suggerendone appena il senso; c'è chi si dilunga e dilata i pensieri; c'è chi non arriva fino a questi difetti - e deve fare così lo scrittore che si cimenta con grandi opere - e tuttavia li ama.

Pertanto dovunque vedrai compiacimento per un'eloquenza corrotta, ci sarà certamente anche una corruzione dei costumi. Banchetti e vestiti sfarzosi sono indice di una comunità malata, allo stesso modo la licenza del linguaggio, se è diffusa, mostra che anche gli animi da cui hanno origine le parole sono in decadenza. 12 Non stupirti che questo tipo di eloquenza corrotta sia accolta con favore non solo dalla cerchia degli spettatori più grossolani, ma anche dalla massa di quelli più colti; essi differiscono tra loro nelle vesti, non nei giudizi. Piuttosto puoi stupirti che siano lodate non solo le opere piene di difetti, ma i difetti stessi. È sempre stato così: nessun uomo d'ingegno è stato apprezzato senza che gli venisse perdonata qualche mancanza. Citami un uomo famoso, quello che vuoi: ti dirò che cosa i suoi contemporanei gli hanno perdonato, che cosa hanno consapevolmente finto di non vedere. Ti indicherò molti che non sono stati danneggiati dai loro difetti, e alcuni ai quali i difetti hanno addirittura giovato. Ti indicherò, ripeto, uomini famosissimi, fatti oggetto di ammirazione, che distruggeresti se volessi correggerli: i vizi sono così uniti alle virtù da trascinarle via con sé.

13 Il linguaggio, inoltre, non ha regole fisse: lo trasformano le consuetudini sociali in continua, rapida evoluzione. Molti prendono i termini da un altro periodo, parlano la lingua delle Dodici Tavole; per loro Gracco, Crasso, Curione sono troppo raffinati e moderni, tornano indietro fino ad Appio e Coruncanio. Altri, invece, cercano solo espressioni trite e consuete e cadono nel triviale. 14 Tutti e due gli stili sono corrotti, sia pure in modo diverso, come, perbacco, quando si vogliono usare solo vocaboli splendidi, altisonanti e poetici, ed evitare quelli indispensabili e usuali. A mio parere sbagliano sia gli uni che gli altri: i primi per troppa cura, i secondi per troppa trascuratezza, quelli si depilano anche le gambe, questi neppure le ascelle.

15 Passiamo ora alla disposizione delle parole. Quanti tipi di errori ti posso indicare? Ad alcuni piacciono le frasi spezzate e ineguali; le scompigliano di proposito se hanno un andamento troppo scorrevole; non vogliono concatenazioni senza scabrosità: per loro sono virili e forti quelle che colpiscono l'orecchio con la loro disuguaglianza. Altri più che costruire le frasi, le modulano; tanto sono carezzevoli e scorrono dolcemente. 16 Che dire poi del periodo in cui le parole sono rinviate, si fanno attendere a lungo e compaiono a stento alla fine? Che dire del periodo come quello di Cicerone che si avvia lento scorrevole e che indugia mollemente e segue l'andamento e il ritmo abituali?

Ma i difetti non si trovano solo * * * nel tipo dei concetti, se sono gretti e puerili o malvagi e spudorati, se sono fioriti e troppo sdolcinati, se cadono nel vuoto e non hanno altro effetto che il loro suono.

17 Questi difetti li introduce uno che in quel momento detta legge nel campo dell'eloquenza; gli altri li imitano e se li trasmettono l'un l'altro. Così quando era in auge Sallustio venivano considerati eleganti i pensieri tronchi, le parole che arrivano inaspettate, le locuzioni stringate e oscure. L. Arrunzio, uomo di eccezionale sobrietà, che scrisse una storia della guerra punica, fu un sallustiano e si distinse in quel genere di prosa. Si trova in Sallustio: "Fece l'esercito col denaro", cioè lo allestì col denaro. Ad Arrunzio piacque questa espressione e la inserì in ogni pagina. Dice in un passo: "Fecero la fuga ai nostri", e in un altro: "Gerone, re di Siracusa, fece la guerra", e ancora: "Questa notizia fece che i Palermitani si consegnassero ai Romani." 18 Ti ho voluto dare un assaggio: ma tutto il libro è intessuto di simili espressioni. Rare in Sallustio, in lui sono frequenti e quasi continue, e c'è un motivo: per Sallustio erano occasionali, mentre Arrunzio le ricercava di proposito. Vedi, dunque, quali sono le conseguenze quando un difetto è preso a esempio. 19 Scrive Sallustio: "acque invernali." Arrunzio, nel primo libro della guerra punica, dice: "D'improvviso il tempo divenne invernale", e in un altro punto, volendo dire che quell'anno era stato freddo, scrive: "Tutto l'anno fu invernale", e in un altro: "Di lì inviò sessanta navi da carico leggere oltre ai soldati e ai marinai necessari sotto un aquilone invernale", e questo termine lo ha ficcato continuamente dappertutto. Sallustio dice in un passo: "Mentre durante le guerre civili aspirava alle reputazioni di uomo giusto e onesto." Arrunzio non seppe trattenersi dallo scrivere sùbito nel primo libro che grandi erano "le reputazioni" di Regolo. 20 Questo e altri difetti simili, che si acquistano per imitazione, non sono segno di dissolutezza né di un animo corrotto; devono essere personali e nati da quello stesso individuo per giudicare in base a essi i sentimenti di un uomo: un linguaggio iracondo è proprio di una persona iraconda, uno troppo concitato di una persona appassionata, uno voluttuoso e fiacco di un uomo effeminato. 21 Se fai caso, questo modo di esprimersi lo seguono quelli che si tagliano la barba o se la sfoltiscono, che si radono accuratamente i baffi o li tagliano via, ma conservano e fanno crescere i peli nelle altre parti, che indossano mantelli di colori stravaganti, vesti trasparenti e non vogliono fare niente che passi inosservato agli occhi degli altri: suscitano il loro interesse e lo attirano su di sé, accettano persino il biasimo pur di farsi notare. Tale è l'eloquenza di Mecenate e di tutti gli altri che non commettono errori di stile per caso, ma consapevolmente e di proposito. 22 All'origine c'è un profondo malessere spirituale: quando uno beve, la lingua si inceppa solo se la mente soccombe al peso del vino e vacilla o si abbandona, così questa forma di ubriachezza del linguaggio non è dannosa finché l'anima rimane salda. Curiamo perciò l'anima: da essa scaturiscono i pensieri, le parole, da essa deriva il nostro comportamento, l'espressione del volto, l'incedere. Se l'anima è sana e vigorosa, anche il linguaggio è energico, forte, virile: se l'anima soccombe, anche il resto la segue nella caduta.



23 Finché il re è incolume tutti sono concordi: quando scompare, è violata ogni promessa.

Il nostro re è l'anima; finché è incolume, le altre parti adempiono al proprio dovere, obbediscono e sono sottomesse; quando essa vacilla un po', tutto nello stesso momento diventa incerto. Quando cede al piacere, anche le sue capacità, le sue azioni si indeboliscono e tutti gli impulsi sono fiacchi e senza nerbo.

24 Poiché ho usato questo esempio continuerò così. La nostra anima ora è un re, ora un tiranno: re quando guarda alla virtù, ha cura della salute del corpo affidatole e non gli comanda niente di abietto o di meschino; ma quando è sfrenata, avida, voluttuosa, assume un nome detestabile e funesto e si trasforma in un tiranno. Allora diventa preda e vittima di sfrenate passioni; all'inizio ne gode, come fa il popolo che quando c'è un'elargizione si riempie inutilmente a suo danno e arraffa quello che non può trangugiare; 25 quando poi il male ha consumato via via le forze e la lussuria è penetrata nelle midolla e nei nervi, l'anima si compiace alla vista di quelle dissolutezze di cui si è resa incapace per l'eccessiva avidità, e considera come suoi piaceri lo spettacolo di quelli altrui, complice e testimone di dissolutezze, del cui godimento si è privata approfittandone. E il piacere di avere in abbondanza queste delizie non è pari all'angustia di non poter far passare attraverso la gola e il ventre tutto quello che è stato imbandito, di non potersi avvoltolare con tutta quella massa di amasi e femmine, e si affligge perché gran parte della sua felicità è impedita e viene meno per le sue carenze fisiche. 26 Questa pazzia, caro Lucilio, non consiste forse nel fatto che nessuno di noi pensa di essere debole e mortale? Anzi, che nessuno di noi pensa di essere uno solo? Guarda le nostre cucine e i cuochi che corrono tra tanti fornelli: ti sembra che con un simile trambusto si prepari cibo per un ventre solo? Guarda le nostre provviste di vino vecchio e le cantine piene delle vendemmie di molte generazioni: ti sembra che vini di tanti anni e di tante regioni si conservino per un ventre solo? Guarda in quanti luoghi si vanga la terra, quante migliaia di contadini arano, zappano: ti sembra che per un solo ventre si semini in Sicilia e in Africa? 27 Saremo sani e avremo desideri moderati se ciascuno conterà se stesso, e contemporaneamente misurerà il proprio corpo e comprenderà che non può contenere molto, né per lungo tempo. Niente, però ti servirà tanto per essere temperante in tutto quanto il pensare di frequente che la vita è breve e incerta: qualunque cosa tu faccia, guarda alla morte. Stammi bene.



115

1 Non voglio, Lucilio mio, che tu ti dia eccessivo pensiero delle parole e della loro disposizione: ho questioni più importanti di cui tu debba curarti. Preòccupati del contenuto, non della forma; e non tanto di scrivere, ma di sentire ciò che scrivi, in modo da rivolgere a te e quasi di imprimerti nell'animo ciò che senti. 2 Quando vedi uno esprimersi con un linguaggio ricercato ed elegante, sappi che anche la sua anima è ugualmente presa dalle meschinità. Una persona magnanima parla in maniera più pacata e quieta. Tutte le sue parole rivelano più sicurezza che cura formale. Conosci certi bellimbusti con la barba e i capelli tirati a lucido, tutti agghindati: non puoi aspettarti da loro niente di forte, di solido. Il linguaggio è ornamento dell'anima: se è ricercato, artificioso ed elaborato, dimostra che anche l'anima non è sana e ha delle debolezze. La ricercatezza non è ornamento virile. 3 Se noi potessimo guardare dentro l'anima di un uomo onesto, che straordinaria bellezza, che sacralità, che fulgore di magnificenza e di serenità vedremmo; vi splenderebbero la giustizia, la fortezza, la temperanza e la saggezza! E oltre a queste, la frugalità, la moderazione, la pazienza, la generosità, l'affabilità e il senso di umanità, bene raro - chi lo crederebbe? - in un uomo, diffonderebbero su di essa la loro luce. Poi la prudenza insieme alla correttezza e alla magnanimità, la più insigne tra queste virtù, quanta bellezza, buon dio, quanta gravità e peso le aggiungerebbero, quanta autorità e quanto credito! Tutti la definirebbero meritevole di amore e insieme di venerazione. 4 Se qualcuno vedesse questa bellezza più vivida e splendente di quanto si è soliti vedere tra le cose umane, non si fermerebbe attonito come se si trovasse di fronte a una divinità e pregherebbe in silenzio: "Sia lecita questa visione"; poi invitato dall'espressione benevola del volto, non la adorerebbe supplicandola e, dopo averla a lungo contemplata così eminente e alta più della statura delle cose che siamo abituati a vedere, con gli occhi pieni di dolcezza e tuttavia ardenti di un vivido fuoco, preso da sacro rispetto e sbalordito non pronuncerebbe, infine, quel verso del nostro Virgilio:



5 Come debbo chiamarti, o vergine? Non hai aspetto mortale e la tua voce non è umana... sii propizia, chiunque tu sia, e allevia i nostri affanni.

Ci assisterà e ci aiuterà se vorremo venerarla. Ma non la si venera sacrificando pingui tori, e nemmeno con doni votivi d'oro e d'argento o con offerte versate al tesoro del tempio, ma con pii e onesti propositi. 6 Tutti, dico, arderemmo d'amore per lei se ci toccasse di vederla; per ora molti sono gli ostacoli che accecano i nostri occhi con l'eccessivo splendore o li impediscono con le tenebre. Ma come con certi medicamenti noi rendiamo più acute e limpide le nostre capacità visive, così se vorremo liberare la vista dell'anima da ogni impedimento, potremo scorgere la virtù anche sotto il peso del corpo, anche se la povertà le fa da schermo, anche attraverso l'umile condizione e il disonore; 7 vedremo, insomma, la sua bellezza anche coperta di cenci. E d'altra parte la malvagità e il torpore di un'anima travagliata li vedremo ugualmente, anche se il vivo splendore irradiato dalla ricchezza fa da ostacolo, e la falsa luce degli onori e dei grandi poteri colpisce chi guarda. 8 Ci renderemo conto allora che ammiriamo beni spregevoli, come i bambini che tengono in gran conto ogni gioco e ai genitori e ai fratelli preferiscono monili di poco prezzo. L'unica differenza tra noi e loro, come dice Aristone, è che noi facciamo follie per quadri e statue pagando a più caro prezzo la nostra scempiaggine. Quelli si divertono con i sassolini variegati e lisci che trovano sulla spiaggia, noi con grandi colonne variopinte, importate dalle sabbie dell'Egitto e dai deserti africani, che sostengono un portico o una sala da pranzo capace di contenere una grande folla. 9 Ammiriamo le pareti ricoperte da marmi sottili, eppure sappiamo che cosa c'è sotto. Inganniamo i nostri occhi e quando ricopriamo d'oro i soffitti, ci compiaciamo di un inganno: sappiamo che quell'oro nasconde delle brutte travi. Ma ricoperti da sottile ornamento non sono solo le pareti e il soffitto: anche la felicità di tutti costoro che vedi camminare a testa alta è unicamente esteriore. Guarda bene e vedrai quanto male si annidi sotto questa sottile patina di dignità. 10 Da quando si è cominciato a onorare il denaro, che incatena tanti magistrati e tanti giudici, che crea magistrati e giudici, le cose hanno perduto il loro vero valore, e noi, diventati ora mercanti, ora merce in vendita, non consideriamo la qualità, ma il prezzo; per interesse siamo onesti, per interesse disonesti, e la virtù la pratichiamo finché c'è una speranza di guadagno, pronti a un voltafaccia se la scelleratezza promette di più. 11 È colpa dei nostri genitori se noi ammiriamo l'oro e l'argento, e la cupidigia, che ci è stata inculcata fin da piccoli, ha messo profonde radici ed è cresciuta insieme a noi. Il popolo intero, discorde su altre questioni, è concorde su questo punto: ammirano l'oro, lo desiderano per i loro cari, lo consacrano agli dèi come il più grande dei beni umani, quando vogliono dimostrare la loro gratitudine. Infine l'immoralità è tale che la povertà è maledetta ed è considerata infamante, disprezzata dai ricchi, invisa ai poveri. 12 Si aggiungono inoltre le opere dei poeti, che infiammano le nostre passioni e che lodano la ricchezza come unico lustro e ornamento della vita. Per costoro gli dèi immortali non possono concedere o possedere niente di meglio.



13 La reggia del sole si ergeva su alte colonne, splendida d'oro scintillante.

E guarda il carro del sole:

D'oro era l'asse, il timone d'oro, d'oro il cerchio delle ruote, d'argento la serie dei raggi.

Infine chiamano aurea l'età che vogliono indicare come la migliore. 14 Neppure nei tragici greci mancano personaggi che barattano per interesse l'onestà, la salute spirituale, la reputazione.

Mi stimino pure il peggiore degli uomini, purché mi stimino ricco.

Tutti chiediamo se uno è ricco, nessuno chiede se è onesto.

Vogliono sapere solo che cosa uno possegga, non perché e come lo possegga.

Dappertutto ogni uomo è stimato tanto quanto possiede.

Chiedi quale possesso è vergognoso per noi? Non averne.

Se ricco, voglio vivere, se povero, morire.

Muore bene chi muore mentre guadagna.

Denaro, grande bene del genere umano, cui non può essere pari l'amore della madre o dei dolci figli, non il genitore venerando per i suoi meriti; se qualcosa nel volto di Venere brilla con tanta dolcezza, a ragione la dea fa innamorare dèi e uomini."



15 Quando furono recitati questi ultimi versi della tragedia euripidea la folla si alzò d'impeto tutta insieme per cacciare l'autore e interrompere lo spettacolo, finché Euripide stesso si precipitò fuori chiedendo che aspettassero di vedere che fine avrebbe fatto quell'ammiratore dell'oro. In quella tragedia Bellerofonte pagava il fio che ognuno paga nella propria esistenza. 16 L'avidità si accompagna sempre alla punizione, sebbene essa sia già di per sé una pena sufficiente. Quante lacrime, quanti affanni esige! Quanto è infelice per ciò che brama, quanto è infelice per ciò che si è procurata! E poi ci sono le preoccupazioni quotidiane che affliggono ognuno in rapporto ai propri averi. Possedere denaro dà più tormento che acquistarlo. E come ci si lagna per le perdite che, se pure sono considerevoli, sembrano ancòra più grandi. Infine, anche se la sorte non sottrae niente, si considera una perdita tutto ciò che non si riesce ad avere. 17 "Ma gli uomini lo chiamano fortunato e ricco e desiderano ottenere quanto lui possiede." Sì, è vero, e allora? Pensi che ci sia una persona in condizioni peggiori di chi è povero e invidioso? Oh, se quando uno desidera la ricchezza interrogasse i ricchi; e quando uno aspira alle cariche politiche interrogasse gli ambiziosi e quelli che hanno raggiunto i più alti livelli del potere! Certo i suoi desideri cambierebbero, vedendo che costoro concepiscono nuovi desideri e rinnegano quelli precedenti. Non c'è nessuno che è soddisfatto della propria prosperità, anche se è arrivata rapidamente; ci si lamenta e delle decisioni prese e dei successi ottenuti, e si preferisce sempre quanto si è lasciato. 18 La filosofia ti garantirà questo bene, il più grande che ci sia, io ritengo: non ti pentirai mai delle tue azioni. A questa felicità così solida, che nessuna tempesta può scuotere, non ti condurranno frasi ben costruite o un linguaggio dolcemente scorrevole: le parole fluiscano pure liberamente, purché l'anima mantenga il suo ordine, purché sia grande, noncurante dei pregiudizi e approvi se stessa per quelle azioni che gli altri non approvano, e giudichi i suoi progressi in base alla sua vita, e ritenga di essere saggia solo in quanto non ha desideri né timori. Stammi bene.



116

1 Si è spesso discusso se è meglio nutrire passioni moderate o non averne affatto. Gli Stoici le eliminano, i Peripatetici le moderano. Io non vedo come una malattia, sia pure leggera, possa essere salutare o utile. Non temere: non ti tolgo niente di quello che tu non vuoi ti sia negato. Mi mostrerò benevolo e indulgente verso le cose cui aspiri e che ritieni necessarie alla vita, oppure utili o piacevoli: ti strapperò solo il vizio. Ti proibirò infatti, di nutrire desideri sfrenati, ma non di volere: così farai le stesse cose senza timore e con maggiore risolutezza e godrai più intensamente anche dei piaceri; perché non dovresti sentirli maggiormente se sarai tu a dominarli, invece che esserne schiavo? 2 "Ma è naturale," ribatti, "che io mi tormenti per la scomparsa di un amico: considera legittime queste lacrime così giuste. È naturale tener conto del giudizio altrui e rattristarsi se è sfavorevole: perché non vuoi concedermi questo onesto timore di avere una cattiva reputazione?" Ogni vizio ha una sua giustificazione; da principio sono tutti moderati e domabili, poi però si diffondono. Se permetti che nascano, non riuscirai a stroncarli. 3 All'inizio ogni passione è debole, poi si infiamma e, strada facendo, acquista forza: tenerle lontane è più facile che estirparle. Tutte le passioni scaturiscono da un'origine, per così dire, naturale, chi lo nega? La natura ci ha affidato la cura di noi stessi, ma quando vi indulgiamo troppo, nasce il vizio. La natura ha mescolato il piacere alle necessità della vita, non perché lo ricercassimo, ma perché questo complemento ci rendesse più gradite le cose indispensabili alla nostra esistenza: se, però, il piacere detta legge, nasce la dissolutezza. Impediamo, quindi, che le passioni penetrino in noi, perché, come ho detto, non accoglierle è più facile che scacciarle. 4 "Concedimi almeno un certo grado di dolore, di paura." Ma questo "un certo grado" si dilata e non finisce dove vuoi tu. Il saggio è al sicuro senza doversi sorvegliare attentamente, e le sue lacrime, i suoi piaceri li arresta quando vuole: per noi, visto che non è facile tornare indietro, la cosa migliore è non avanzare affatto. 5 Panezio, secondo me, diede una bella risposta a quell'adolescente che gli chiedeva se il saggio possa amare. "Del saggio," disse, "parleremo in sèguito; io e te, che siamo ancora molto lontani dalla saggezza, non dobbiamo rischiare di cadere in un sentimento impetuoso e incontrollabile, che ci rende schiavi di altri e spregevoli a noi stessi. Se chi amiamo ci corrisponde, la sua dolcezza ci infiamma; se invece ci disprezza, ci eccita la sua superbia. Fortuna e sfortuna in amore sono ugualmente nocive: dell'una siamo preda, contro l'altra lottiamo. Perciò consci della nostra debolezza, stiamocene quieti; la nostra anima è debole: non affidiamola al vino o alla bellezza, all'adulazione o agli allettamenti." 6 La risposta di Panezio al ragazzo che lo interrogava sull'amore, io la estendo a tutte le passioni: allontaniamoci il più possibile dai terreni melmosi; anche su quelli asciutti stiamo in piedi a fatica.

7 A questo punto replicherai con quella obiezione che generalmente si rivolge agli Stoici: "Fate promesse troppo grandi, date precetti troppo severi. Noi siamo creature deboli; non possiamo negarci tutto. Ci dorremo, ma poco; avremo desideri, ma moderati; ci adireremo, ma poi ci calmeremo." 8 Sai perché non possiamo agire così? Perché non crediamo di farcela. Anzi, perbacco, il motivo in realtà è un altro: difendiamo i nostri vizi perché li amiamo e preferiamo scusarli piuttosto che eliminarli. La natura ha dato all'uomo forza sufficiente perché ne facciamo uso, a patto che chiamiamo a raccolta le nostre forze e le muoviamo tutte in nostro favore, non contro di noi. Il vero motivo è la mancanza di volontà, l'impossibilità è un pretesto. Stammi bene.



117

1 Mi metti in grave imbarazzo e, senza saperlo, mi impegni in una grossa e fastidiosa disputa con le questioncelle che mi proponi: io non posso dissentire dagli Stoici conservando il loro favore, e nemmeno essere d'accordo con loro senza fare torto alla mia coscienza. Gli Stoici affermano che la saggezza è un bene, e l'essere saggi non lo è, e tu chiedi se è vero. Prima ti esporrò la teoria stoica, e solo dopo oserò dire il mio parere.

2 Per gli Stoici il bene è corpo, poiché ciò che è bene agisce e tutto ciò che agisce è corpo. Ciò che è bene giova; ma, per giovare, deve agire; e se agisce è corpo. Dicono che la saggezza è un bene; ne consegue necessariamente che anch'essa deve essere definita corporea. 3 Secondo loro, però l'essere saggi non è la stessa cosa. È una cosa incorporea e accessoria dell'altra, cioè della saggezza; pertanto non agisce e non giova. "E come?" si ribatte. "Non diciamo: essere saggi è un bene?" Lo diciamo riferendoci a quello da cui l'essere saggi dipende, cioè alla saggezza.

4 Senti ora che cosa controbattono gli altri, prima che io abbandoni questo argomento, per soffermarmi su un altro. "In questo modo," dicono, "neppure vivere felici è un bene. Volenti o nolenti bisogna rispondere che una vita felice è un bene, ma non è un bene vivere felici." 5 E ancòra si obietta: "Voi volete essere saggi; quindi l'essere saggi è cosa desiderabile; e se è desiderabile, è buona." Gli Stoici sono costretti a stravolgere i termini e a inserire in expetere una sillaba, mentre la nostra lingua non lo permetterebbe. Se permetti, io l'aggiungo. "Expetendum - dicono - è ciò che è bene, expetibile è ciò che ci tocca quando abbiamo conseguito un bene. Esso non si ricerca come un bene, ma si aggiunge al bene che si ricerca."

6 Io non la penso così e ritengo che gli Stoici arrivano a questa affermazione perché sono vincolati all'esordio e non possono cambiare formula. Noi di solito attribuiamo una grande importanza alle opinioni generali e il fatto che un'opinione sia condivisa da tutti è per noi indizio di verità; l'esistenza degli dèi, ad esempio, l'argomentiamo tra l'altro anche da questo: in tutti è insito il concetto della divinità e non c'è popolo così al di fuori delle leggi e dei costumi civili che non creda in un qualche dio. Quando discutiamo dell'immortalità dell'anima, ha per noi un peso determinante il fatto che tutti gli uomini o temono o onorano gli inferi. Mi rifaccio all'opinione generale: non troverai nessuno che non giudichi un bene sia la saggezza, sia l'essere saggi.

7 Non farò come fanno di solito i vinti: non mi appellerò al popolo; comincerò a combattere con le mie armi. Ciò che accade a una cosa è fuori o dentro alla cosa alla quale accade? Se è dentro alla cosa alla quale accade, è corpo come la cosa alla quale accade. Niente, infatti, può accadere senza contatto e quello che crea contatto è corpo: niente può accadere senza un'azione e quello che agisce è corpo. Se è al di fuori, se ne stacca, dopo essere accaduto; ciò che si stacca ha un movimento e ciò che ha movimento è corpo. 8 Tu ti aspetti che io dica che la corsa e il correre non sono cose diverse come il calore e l'essere caldo, lo splendore e il risplendere: ammetto che siano cose diverse, ma non di diversa specie. Se la salute è indifferente, anche lo star bene è indifferente; se la bellezza è indifferente, lo è anche l'essere belli. Se la giustizia è un bene, lo è anche l'essere giusti; se la bruttezza è un male, anche essere brutti è un male, come, perbacco, se la cisposità è un male, anche l'essere cisposi è un male. Sappi, dunque, che l'una cosa non può esistere senza l'altra: chi possiede la saggezza è saggio; chi è saggio possiede la saggezza. È talmente impossibile mettere in dubbio che siano cose uguali, che ad alcuni sembrano addirittura identificarsi. 9 Mi piacerebbe, però chiedere, poiché ogni cosa o è male o è bene o è indifferente, l'essere saggi in che categoria rientra? Dicono che non sia un bene; eppure non è un male; ne consegue che sia una via di mezzo. Noi definiamo via di mezzo o indifferente, ciò che può capitare sia al malvagio che al buono, come il denaro, la bellezza, la nobiltà. La saggezza, può capitare solo all'uomo buono, quindi non è indifferente. Ma non è neppure un male, perché non può capitare al malvagio, quindi è un bene. Ciò che possiede solo l'uomo buono è bene; l'essere saggi è un possesso del buono, quindi è un bene. 10 "È," dicono, "una circostanza accidentale della saggezza." Dunque, quello che chiami essere saggi, crea la saggezza o la subisce? Sia che la crei, sia che la subisca, in entrambi i casi è corpo, poiché sia ciò che è creato, sia ciò che crea è corpo. Se è corpo, è un bene; una sola cosa gli impediva, infatti, di essere un bene, l'incorporeità.

11 I Peripatetici sostengono che non c'è differenza tra la saggezza e l'essere saggi, poiché in ognuna delle due cose c'è anche l'altra. Perché, tu non pensi che sia saggio solo chi ha la saggezza? E che abbia la saggezza solo chi è saggio? 12 Gli antichi Dialettici fanno una distinzione che è arrivata fino agli Stoici. Ecco di che cosa si tratta. Altro è un campo, altro è possedere un campo, e perché no? Possedere un campo riguarda il possessore, non il campo. Così, altro è la saggezza, altro è l'essere saggi. Ammetterai, ritengo, che si tratta di due cose distinte, la cosa posseduta e il possessore; la saggezza è posseduta, chi è saggio possiede. La saggezza è lo spirito perfetto o arrivato al culmine di ogni bene; è l'arte della vita. Cos'è l'essere saggi? Non posso definirlo "spirito perfetto", ma ciò che tocca a chi ha uno spirito perfetto; così altro è uno spirito onesto, altro è avere uno spirito onesto.

13 "C'è," si dice, "diversità nella natura dei corpi, questo è uomo, quest'altro cavallo; gli impulsi dell'anima sono enunciativi dei corpi e si uniformano alla loro natura. Gli impulsi hanno qualcosa di proprio, diverso dal corpo; vedo passeggiare Catone: è ciò che mi mostrano i sensi, l'animo vi crede. È il corpo che vedo e ad esso sono rivolti occhi e spirito. Poi dico: Catone passeggia. Ora non parlo del corpo," si continua, "ma di qualcosa che è enunciativo del corpo: alcuni lo chiamano 'enunciato', altri 'proposizione', altri 'sentenza'. Così, quando diciamo 'saggezza', intendiamo qualcosa di corporeo; quando diciamo 'è saggio' parliamo del corpo. Ma c'è una grande differenza se indichi una cosa o ne parli."

14 Ammettiamo per il momento che siano due cose distinte (non esprimo ancora il mio pensiero): che cosa impedisce che siano diverse, ma entrambe beni? Dicevo poco prima che una cosa è un campo, un'altra possedere un campo. Perché no? Il possessore ha una natura, la cosa posseduta ne ha un'altra: questa è terra, quello uomo. Ma nel caso in questione entrambe hanno la stessa natura, sia la saggezza, sia chi la possiede. 15 Inoltre, nel primo esempio altro è la cosa posseduta, altro il possessore: in questo la cosa posseduta e il possessore si identificano. Il campo si possiede per legge, la saggezza per natura; quello può essere ceduto e trasmesso ad altri, questa non si distacca da chi la possiede. Non si possono dunque paragonare cose tra loro diverse.

Avevo cominciato col dire che queste possono essere due cose distinte e tuttavia essere entrambe beni, come la saggezza e l'essere saggio sono due cose distinte e tuttavia ammetti che entrambe sono beni. Nulla impedisce, dunque, che sia la saggezza sia chi la possiede siano beni; così nulla impedisce che tanto la saggezza quanto il possederla, cioè l'essere saggi, siano beni. 16 Io voglio essere saggio per avere la saggezza. E allora? Non è questo un bene senza il quale neppure l'altro è un bene? Voi sostenete che la saggezza, se non si potesse farne uso, non varrebbe la pena di conquistarla. Ma qual è l'uso della saggezza? L'essere saggi: è questa la sua caratteristica più preziosa, se la eliminiamo, la saggezza diventa superflua. Se la tortura è un male, l'essere torturati è un male, ma non sarebbero mali qualora se ne potessero eliminare le conseguenze. La saggezza è lo stato dello spirito perfetto, l'essere saggi è l'uso dello spirito perfetto: e come può non essere un bene l'uso della saggezza che, se non è usata, non è un bene? 17 Ti chiedo se bisogna aspirare alla saggezza: rispondi di sì. Ti chiedo se bisogna aspirare all'uso della saggezza: rispondi ancora di sì. E dici che non la vorresti, se non potessi usarla. Ma ciò cui bisogna aspirare è un bene. Essere saggi è l'uso della saggezza, come parlare è l'uso del linguaggio, come vedere è l'uso degli occhi. Quindi, essere saggi è l'uso della saggezza e all'uso della saggezza bisogna aspirare; bisogna, quindi aspirare ad essere saggi; e se bisogna aspirarvi, è un bene.

18 Già da un pezzo mi condanno da me: imito chi accuso e spendo parole per una questione evidente. Chi può mettere in dubbio che se il caldo è un male, anche aver caldo è un male? E se il freddo è un male, è un male anche aver freddo? E se la vita è un bene, anche vivere è un bene? Tutto ciò riguarda la saggezza, ma non la sostanza della saggezza; ed è su di essa che noi dobbiamo soffermarci. 19 Anche se vogliamo spaziare un po', la saggezza ci offre ampi e vasti orizzonti: possiamo investigare sulla natura degli dèi, su ciò che dà vita agli astri, sulle svariate orbite dei corpi celesti; indagare se l'evoluzione delle vicende umane dipende dal loro influsso, se il corpo e l'anima di tutti gli uomini ricevano impulso da qui, se anche gli eventi cosiddetti fortuiti obbediscano a leggi precise e niente in questo mondo accada inaspettatamente o senza seguire un ordine. Questi temi esulano dalla questione morale, ma sollevano lo spirito e lo innalzano al livello degli argomenti trattati; i problemi di cui parlavo poco fa, invece, lo sminuiscono e lo abbassano e non lo rendono più acuto, come dite voi, ma più debole. 20 Ma via, dobbiamo proprio dedicare a questioni, non so se false, ma certo inutili, la nostra attenzione che invece sarebbe necessario rivolgere a problemi più importanti e profondi? A che mi servirà sapere se la saggezza e l'essere saggi sono due cose diverse? A che mi servirà sapere se quella è un bene e questo non lo è? Voglio essere temerario ed espormi al rischio di questo augurio: tocchi a te la saggezza, a me l'essere saggio. Saremo pari. 21 Cerca piuttosto di indicarmi la via che mi porti a questa meta. Dimmi che cosa devo evitare, a che cosa aspirare, con quali occupazioni possa rafforzare il mio spirito vacillante, come allontanare da me i mali che all'improvviso mi colpiscono e mi incalzano, come possa fronteggiare tante sventure, come respingere queste disgrazie che mi si sono riversate addosso e quelle che mi sono procurate io stesso. Insegnami come sopportare le tribolazioni senza un lamento, e la felicità senza provocare i lamenti altrui, come non aspettare quell'ora estrema e inevitabile, ma rinunciare io stesso alla vita, quando mi sembrerà opportuno. 22 Per me la cosa più vergognosa è desiderare la morte. Se vuoi vivere, perché desideri morire? Se non vuoi, perché chiedi agli dèi una cosa che ti hanno dato al momento della nascita? È stabilito che un giorno o l'altro tu muoia, anche se non vuoi, e d'altra parte tu hai la facoltà di morire quando vuoi; la prima è una necessità, la seconda una possibilità. 23 Ho letto in questi giorni un esordio davvero vergognoso di uno scrittore che pure è eloquente: "Possa io morire al più presto." Che insensato, tu desideri una cosa tua. "Possa io morire al più presto." Forse sei diventato vecchio a furia di dire queste parole; altrimenti che cosa ti fa indugiare? Nessuno ti trattiene: fuggi per la strada che credi; scegli un qualunque elemento naturale e fatti offrire una via di uscita. Gli elementi su cui si regge il mondo sono questi: acqua, terra, aria e sono tutti sia fondamento di vita, sia mezzi di morte. 24 "Possa io morire al più presto": questo "al più presto" che cosa significa per te? Quale giorno gli destini? Può accadere più presto di quanto tu desideri. Sono le parole di uno spirito debole che con questa imprecazione vuole suscitare pietà. Chi si augura di morire, non vuole morire. Chiedi agli dèi vita e salute: se hai deciso di morire, il primo vantaggio della morte è non avere più desideri.

25 Occupiamoci di questi problemi, Lucilio mio, educhiamo con essi lo spirito. Questa è la saggezza, questo l'essere saggi, e non l'esercitare una sterilissima sottigliezza intellettuale con vane discussioncelle. La sorte ti ha messo di fronte a tanti problemi, non li hai ancora risolti: e stai lì a cavillare? È da sciocchi, ricevuto il segnale di combattimento, dare colpi a vuoto. Metti da parte queste armi-giocattolo: ci vogliono armi vere. Dimmi come posso evitare che la tristezza e la paura turbino l'anima mia, come scaricare il peso delle mie segrete passioni. Bisogna fare qualcosa! 26 "La saggezza è un bene, l'essere saggi non è un bene": si finisce così per affermare che non siamo saggi e che tutto questo impegno viene deriso poiché è dedicato ad attività inutili.

E che diresti sapendo che si pone pure la questione se è un bene la saggezza futura? Ma via, si può forse dubitare che i granai sono inconsapevoli del grano che conterranno, e che il fanciullo, indipendentemente dalle sue forze e dalla sua robustezza, non si rende conto di quale sarà la sua adolescenza? Al malato, finché è tale, non giova affatto la salute futura, come un riposo che verrà dopo molti mesi non può al momento ridare forza al corridore o al lottatore. 27 Tutti sanno che non è un bene ciò che dovrà venire, proprio perché dovrà venire. Un bene giova senz'altro; e può giovare solo ciò che è presente. Se non giova, non è un bene; se giova, lo è già. Diventerò saggio; questo sarà un bene quando lo diventerò: intanto non è un bene. Prima bisogna che una cosa esista, poi che abbia una qualità. 28 Su via, come può essere un bene una cosa ancòra inesistente? E come vuoi che ti provi che una cosa non esiste, più che dicendoti "sarà"? È chiaro che ciò che verrà non è ancòra venuto. Verrà la primavera: so che ora è inverno. Verrà l'estate: so che non è estate. La prova più evidente che una cosa non esiste ancòra è che esisterà. 29 Sarò saggio; lo spero, ma intanto non lo sono; se possedessi quel bene, sarei immune da questo male. Sarò saggio: da questo puoi arguire che ancòra non lo sono. Non posso avere al tempo stesso questo bene e questo male; il bene e il male non coesistono e non possono trovarsi insieme nella medesima persona.

30 Lasciamo da parte queste futili sofisticherie e rivolgiamoci a quegli argomenti che possono esserci di una qualche utilità. Se uno pieno d'ansia corre a chiamare l'ostetrica per la figlia che sta per partorire, non si ferma a leggere l'avviso e l'ordinanza dei giochi; chi si precipita verso la sua casa in fiamme, non studia sulla scacchiera la mossa per liberare una pedina chiusa. 31 Ma, per dio, da ogni parte ti vengono annunciate tutte queste disgrazie: la casa in fiamme, i figli in pericolo, la patria assediata, i beni saccheggiati; e poi, naufragi, terremoti e tutti gli altri possibili motivi di apprensione: turbato da tanti pensieri, hai il tempo di dedicarti a questi passatempi? Cerchi la differenza tra la saggezza e l'essere saggi? Intrecci e sciogli nodi quando ti sovrasta un simile macigno? 32 La natura non ci ha concesso con generosità un'abbondanza tale di tempo che ce ne rimanga un po' da perdere. Vedi quanto ne sciupano anche le persone più attente: un po' ce lo tolgono le malattie nostre, un po' quelle dei familiari; una parte gli affari privati, una parte quelli pubblici; il sonno poi ci sottrae metà della vita. A che serve spendere in sciocchezze la maggior parte di questo tempo così esiguo e veloce, che trascina via anche noi? 33 L'animo, inoltre, prende l'abitudine di svagarsi, invece che curarsi, e di fare della filosofia un divertimento, mentre è un rimedio. Non so che differenza ci sia tra la saggezza e l'essere saggi: so che a me non importa saperlo o non saperlo. Dimmi: quando avrò imparato che differenza c'è fra la saggezza e l'essere saggi, sarò saggio? Perché mi fai indugiare più sui termini della saggezza che sulle sue opere? Rendimi più forte, rendimi più tranquillo, rendimi pari, anzi superiore, alla sorte. E posso esserne superiore, se indirizzerò a questo scopo ogni mia conoscenza. Stammi bene.

 
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view post Posted on 28/5/2009, 12:17

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LIBRO VENTESIMO





118

1 Tu vuoi che ti scriva più spesso. Facciamo un po' i conti: sei tu in debito; eravamo d'accordo che scrivessi tu per primo: tu scrivevi e io rispondevo. Ma non farò il difficile: so che ti si può fare credito. Pagherò anticipatamente e non farò quello che l'eloquentissimo Cicerone invitava Attico a fare: "Scrivi quello che ti viene sulle labbra, anche se non hai niente da dire." 2 A me gli argomenti non mancano mai, anche a tralasciare tutti quelli che riempiono le lettere di Cicerone: quale candidato sia in difficoltà; chi combatta con forze altrui, chi con le proprie; chi aspiri al consolato con l'appoggio di Cesare, chi con quello di Pompeo, chi col proprio patrimonio; che usuraio spietato sia Cecilio: da lui i parenti non possono cavare un soldo a un interesse inferiore al dodici per cento. È meglio occuparsi dei propri mali invece che di quelli altrui, esaminarsi a fondo e vedere a quante cose aspiriamo senza impegno. 3 Non chiedere nulla e tralasciare tutti i bei discorsi della fortuna, questa, Lucilio mio, è la scelta migliore che ci rende sereni e liberi. Nel periodo delle elezioni, quando i candidati, tormentati dall'incertezza, se ne stanno negli spazi loro riservati e uno promette denaro, un altro si dà da fare attraverso i suoi scagnozzi, un terzo consuma di baci le mani a persone da cui, una volta eletto, non vorrà neppure essere toccato, quando tutti aspettano ansiosi la voce del banditore, non pensi che sia piacevole starsene in ozio a guardare quel mercato senza comprare o vendere niente? 4 Quanto è più felice chi guarda senza darsene pensiero non solo ai comizi per l'elezione dei pretori o dei consoli, ma anche a quei grandi comizi in cui si cercano cariche annuali o poteri perpetui, imprese vittoriose e trionfi oppure ricchezze o matrimoni e figli o salute per sé e per i propri familiari! Che grandezza d'animo dimostra chi, solo, non chiede nulla, non supplica nessuno e dice: "Non ho niente a che spartire con te, o sorte; non mi faccio tuo schiavo. So che tu respingi i Catoni e porti al successo i Vatinii. Io non chiedo niente." Questo significa mettere da parte la fortuna.

5 Noi possiamo, dunque, scriverci a vicenda su questi argomenti e trattare una materia sempre nuova, vedendo intorno a noi tante migliaia di uomini inquieti che, per conseguire una meta rovinosa, attraverso il male ricercano il male e aspirano a beni da cui devono fuggire o di cui hanno disgusto. 6 Quando la si desidera, una cosa sembra straordinaria, ma dopo averla ottenuta nessuno è soddisfatto. La prosperità non è avida, come comunemente si crede, è cosa di poco conto; perciò non sazia nessuno. Tu pensi che tali mete siano eccelse perché sono lontane; ma a chi le raggiunge sembrano poco elevate e cerca ancòra, ne sono sicuro, di salire: questa che tu ritieni la vetta è solo un gradino. 7 Ignorare la verità è un male per tutti. Gli uomini, ingannati dall'opinione generale, si fanno attirare da falsi beni, poi, quando li hanno conquistati dopo molte vicissitudini, si accorgono che sono mali oppure che sono vani o inferiori alle loro aspettative; essi, in gran parte, guardano le cose da lontano e sbagliano; tengono in gran conto quelli che sono beni per la massa.

8 Ricerchiamo, dunque, che cosa sia il bene perché non càpiti anche a noi la stessa cosa. Del bene sono state date diverse interpretazioni: c'è chi l'ha definito in un modo, chi in un altro. Per alcuni "il bene è ciò che attrae l'anima e la chiama a sé." Ma sùbito si obietta: e se la attrae verso la rovina? Sai bene quanti mali sono lusinghieri. Il vero e il verosimile sono diversi tra loro. Così il bene è strettamente congiunto al vero; non è un bene se non è vero. Ma ciò che attrae e alletta è verosimile: si insinua, stimola, trascina a sé. 9 Per altri "il bene è ciò che induce al desiderio di sé, o meglio, suscita lo slancio dell'anima, che ad esso tende." Anche in questo caso si può fare la stessa obiezione; ci sono molte cose che suscitano uno slancio dell'anima e arrecano gravi mali a chi le ricerca. Quest'altra definizione è migliore: "Il bene è ciò che suscita verso di sé uno slancio dell'anima secondo natura e che deve essere ricercato solo quando merita di essere ricercato." Si identifica così con l'onestà, poiché l'onestà va senz'altro ricercata. 10 È necessario a questo punto che io spieghi la differenza tra il bene e l'onesto. Essi hanno tra loro qualcosa di comune e di inseparabile: non c'è bene che non abbia in sé qualcosa di onesto e l'onesto coincide senz'altro col bene. Dunque, che differenza c'è tra i due? L'onesto è il bene nella sua perfezione, rende la vita compiutamente felice e al suo contatto ogni altra cosa diventa un bene. 11 Intendo dire: certe cose non sono né beni, né mali, come la carriera militare o politica o giuridica. Quando queste attività vengono svolte onestamente, cominciano ad essere beni e da una condizione indeterminata passano al bene. Il bene è tale se congiunto all'onesto; l'onesto è di per sé un bene; il bene scaturisce dall'onesto, l'onesto da se stesso. Quello che è un bene avrebbe potuto essere un male; ciò che è onesto non avrebbe potuto essere altro che bene.

12 Certi hanno dato quest'altra definizione: "Il bene è ciò che è secondo natura." Attento alle mie parole: ciò che è bene è secondo natura, ma ciò che è secondo natura non è senz'altro anche un bene. Molte cose sono conformi a natura, ma sono di così poco conto che non si può definirle beni; sono insignificanti, disprezzabili. Non c'è nessun bene disprezzabile perché di poco conto. Difatti, finché è una cosa di scarso valore, non è un bene e quando comincia ad essere un bene, non è più di scarso valore. Da che cosa si riconosce il bene? Dalla sua perfetta conformità alla natura. 13 "Sostieni," tu dici, "che il bene è secondo natura; questa è la sua caratteristica. Sostieni, inoltre, che anche altre cose sono secondo natura, ma non sono beni. Come, dunque, quello è un bene, mentre queste non lo sono? Come arriva ad avere una caratteristica distinta, quando a entrambi è comune la prerogativa di essere secondo natura?" 14 Naturalmente per la grandezza di questa prerogativa. E non è strano che certi esseri crescendo cambino. È stato un bimbo; è diventato un adulto; il suo carattere distintivo è cambiato; prima era un essere irrazionale, ora razionale. Certi esseri con la crescita non solo diventano più grandi, ma mutano condizione. 15 "Se una cosa diventa più grande," si ribatte, "non per questo cambia. Non importa se di vino riempi un fiasco o una botte: in entrambi c'è la caratteristica propria del vino. Così una piccola o una grande quantità di miele non hanno un sapore diverso." Tu porti esempi non pertinenti; in questi casi, infatti, la qualità è la stessa e rimane tale anche se la quantità aumenta. 16 Certe cose, accrescendosi, mantengono la propria specie e la propria caratteristica; altre, dopo molti incrementi, cambiano con l'ultima aggiunta che imprime loro una qualità nuova, diversa dalla precedente. È una sola la pietra che forma la vòlta: quella che s'incunea tra i due fianchi inclinati e li congiunge. Perché l'ultima aggiunta è determinante, anche se è piccola? Perché non accresce, ma porta a compimento. 17 Ci sono, poi, cose che, sviluppandosi, perdono la forma precedente e ne acquistano una nuova. Quando mentalmente ampliamo una cosa e non riusciamo più a seguirne la grandezza, essa prende il nome di infinito: è diventata molto diversa da come era quando sembrava grande, ma finita. Nello stesso modo pensiamo a una massa difficile a dividersi: in ultimo, crescendo la difficoltà, si concepisce l'indivisibile. Così da un corpo che si muove a mala pena arriviamo al concetto di immobilità. Per lo stesso motivo una cosa è secondo natura: ingrandendosi, passa ad altre caratteristiche e diventa un bene. Stammi bene.



119

1 Ogni volta che scopro qualcosa di nuovo, non aspetto che tu mi dica: "Fammela sapere": me lo dico da me. Chiedi che cosa ho trovato? Apri la borsa: c'è solo da guadagnare. Ti insegnerò come puoi diventare ricco al più presto. Come ardi dalla voglia di saperlo! E a ragione: ti condurrò alla più grande ricchezza per una scorciatoia. Avrai, però bisogno di qualcuno che ti faccia credito: per darsi al commercio, occorre fare debiti; ma non voglio che tu li contragga attraverso un intermediario, non voglio che i mediatori mettano in giro il tuo nome. 2 Ti indicherò uno pronto a farti credito, lo suggerisce Catone: contrai un mutuo con te stesso. Per quanto piccolo sia, sarà sufficiente se quello che manca lo chiederemo solo a noi. Non fa differenza, Lucilio mio, tra non desiderare e avere. Unico è il risultato: non ti tormenti. Il mio consiglio non è di negare qualcosa alla natura - è ostinata, invincibile, chiede quello che le spetta - sappi, però che quanto va al di là della natura è effimero e non è indispensabile. 3 Ho fame: devo mangiare. Ma se il pane è comune o raffinato, questo non riguarda la natura: non vuole far godere lo stomaco, vuole riempirlo. Ho sete: se l'acqua l'ho attinta dalla vicina cisterna oppure l'ho messa sotto la neve per rinfrescarla artificialmente, non riguarda la natura: chiede solo di estinguere la sete. E non importa neppure se beviamo da una coppa d'oro o di cristallo o di murra o in un calice di Tivoli o nel cavo della mano. 4 Di ogni cosa guarda il fine e tralascerai quelle superflue. La fame si fa sentire: afferro la prima cosa che mi càpita; sarà proprio la fame a rendermi gradito qualunque cibo io prenda. Chi ha fame, non rifiuta niente.

5 Vuoi, dunque, sapere che cosa mi è piaciuto? Questa massima che mi sembra eccellente: "Il saggio è il più accanito ricercatore delle ricchezze naturali." "Tu mi regali un piatto vuoto," dici. "Ma che cos'è? Avevo già preparato le casse e cercavo in quale mare mi sarei dato al commercio, quale appalto assumere, che merci importare. Questo è un inganno: promettere la ricchezza e predicare la povertà." E così, secondo te, è povero l'uomo a cui non manca nulla? "Per merito suo," ribatti, "e della sua pazienza, non della sorte." Perciò dunque, se a uno non può venir meno la ricchezza, non lo giudichi ricco? 6 Preferisci avere molto o quanto basta? Chi possiede molto desidera di più, e questa è la prova che non possiede ancòra abbastanza; chi possiede abbastanza ha raggiunto una cosa che mai tocca a un ricco: la fine dei desideri. Oppure per te non sono ricchezze perché per esse nessuno è mai stato proscritto? Perché nessuno è mai stato avvelenato dalla moglie o dal figlio? Perché sono sicure in guerra? E tranquille in tempo di pace? Perché il loro possesso non è pericoloso e non è faticoso amministrarle?

7 "Ma non possiede molto chi semplicemente non soffre il freddo, né ha fame o sete." Giove non possiede di più. Non è mai poco quello che basta e non è mai molto ciò che non basta. Dopo aver sconfitto Dario e gli Indiani, Alessandro è sempre povero. Non è forse vero? Cerca nuove conquiste, esplora mari sconosciuti, invia nell'oceano nuove flotte e vuole quasi infrangere le barriere che cingono il mondo. 8 Ciò che basta alla natura non basta all'uomo. C'è chi desidera ancòra qualcosa dopo aver avuto tutto: tanta è la cecità mentale e a tal punto ciascuno dimentica i propri primi passi, una volta raggiunto il successo. L'uomo che poco prima dominava, non senza contrasti, un oscuro, piccolo territorio, raggiunto l'estremo limite del mondo, si rammarica di ritornare attraverso la terra ormai sua. 9 Il denaro non ha mai reso ricco nessuno, anzi ha suscitato in tutti una cupidigia maggiore. Ne chiedi il motivo? Chi più possiede è in condizione di possedere ancòra di più. Ebbene, nominami pure chi vuoi tra quanti sono considerati alla pari di Crasso e Licino; porti il registro dei suoi averi e faccia pure la somma di quanto possiede e di quanto spera di possedere: costui, per me, è povero; per te, può esserlo. 10 Chi, invece, si conforma alle esigenze della natura, la povertà non solo non la sente, ma nemmeno la teme. Sappi, tuttavia, che è molto difficile ridurre le proprie ricchezze nei limiti voluti dalla natura: proprio quella persona che abbiamo limitato, che tu chiami povera, possiede anche qualcosa di superfluo. 11 Eppure le ricchezze accecano la massa e l'attraggono, se da una casa esce molto denaro contante, se anche il tetto è ricoperto d'oro, se la servitù è prestante fisicamente ed è ben vestita. La felicità di costoro è tutta esteriore: l'uomo che abbiamo sottratto al condizionamento della gente e della fortuna, invece, è felice dentro. 12 Questi individui, chiamati a torto ricchi e in realtà poveri, pieni di cose da fare, hanno la ricchezza come noi diciamo di avere la febbre: in realtà è la febbre che ha noi. Spesso diciamo anche all'opposto: "Lo ha preso la febbre"; analogamente bisognerebbe dire: "Lo ha preso la ricchezza."

La raccomandazione principale che vorrei farti e che non si fa mai abbastanza a nessuno, è di prendere sempre come misura i desideri naturali, soddisfarli ti costerà poco o niente: bada solo a non confondere i vizi con i desideri. 13 Vuoi sapere su quale tavola, con che argenteria, da quali servitori tutti uguali e con la pelle liscia debba essere servito il cibo? La natura richiede solo il cibo.

Forse che, quando la sete ti brucia la gola, domandi coppe d'oro? E quando hai fame disdegni tutto tranne il pavone o il rombo?



14 La fame non chiede molto, basta saziarla; del come non si cura troppo. È la malaugurata intemperanza a dare questi tormenti: cerca come aver fame anche dopo essersi saziata, e non come riempire lo stomaco, ma come rimpinzarlo, come far ritornare la sete placata con la prima coppa. Perciò Orazio dice bene che alla sete non importa in quale tazza o con quanta eleganza venga servita l'acqua. Se pensi che sia importante che ti serva uno schiavo dai capelli lunghi e che il bicchiere sia splendente, significa che non hai sete. 15 Il vantaggio maggiore che tra gli altri ci ha dato la natura è di aver tolto al bisogno ogni schifiltosità. Solo il superfluo consente di scegliere: questo è poco conveniente, quest'altro poco sfarzoso, questo offende i miei occhi. Dio, quando ha creato l'universo e ci ha dato le norme di vita, si è preoccupato della nostra sopravvivenza, e non della nostra schifiltosità: tutto è pronto e a portata di mano per vivere; soddisfare i nostri piaceri, invece, ci costa affanni e sofferenze. 16 Usufruiamo, dunque, di questo grande beneficio della natura e pensiamo che il suo maggior merito nei nostri confronti consiste nel poter prendere senza disgusto quello di cui abbiamo necessità. Stammi bene.



120

1 Nella tua lettera tocchi diversi piccoli problemi, ma ti soffermi su uno in particolare e vuoi che venga risolto: come, cioè, abbiamo raggiunto la cognizione del bene e dell'onesto. Per altri filosofi questi sono due concetti diversi, per noi soltanto distinti. Ecco di che si tratta. 2 Alcuni ritengono che il bene coincida con l'utile. Perciò dànno questo nome alla ricchezza, al cavallo, al vino, alle scarpe. Tanto è scarso il valore che attribuiscono al bene e tanto in basso è sceso! Per loro è onesto ciò che concorda con un giusto concetto di dovere, come prendersi amorevolmente cura del vecchio padre, aiutare l'amico povero, comportarsi con valore in una spedizione militare, parlare con saggezza e moderazione. 3 Per noi sono due cose distinte, ma con un unico fondamento. È un bene solo ciò che è onesto; e l'onesto è senz'altro un bene. Ritengo superfluo aggiungere quale differenza ci sia tra loro, dal momento che l'ho ripetuto spesso. Dirò solo questo: noi non pensiamo che sia un bene ciò di cui si può fare anche un cattivo uso; e tu vedi quanti fanno cattivo uso della ricchezza, della nobiltà, della forza.

Ritorno ora all'argomento di cui vuoi che si parli, ossia come abbiamo acquistato la prima cognizione del bene e dell'onesto. 4 Non ha potuto insegnarcela la natura: essa ci ha dato i semi della scienza, non la scienza. Certi sostengono che questa cognizione l'abbiamo acquisita per caso, ma è inverosimile che la virtù ci sia arrivata per caso. Secondo noi, l'ha originata l'osservazione e il confronto di fatti ricorrenti; gli Stoici ritengono che si sia arrivati a comprendere l'onesto e il bene per analogia. Poiché i grammatici latini hanno riconosciuto a questa parola il diritto di cittadinanza, penso che non si debba scartarla, anzi va riportata alla cittadinanza che le è propria. Me ne servirò, dunque, non solo come di un termine acquisito, ma ormai di uso comune. Ti spiegherò ora cos'è l'analogia. 5 Conoscevamo la salute del corpo: in base a essa pensammo che ve ne fosse anche una dell'anima. Conoscevamo le forze fisiche: partendo da esse abbiamo concluso che ci fosse anche una forza spirituale. Certe azioni generose o piene di umanità o di coraggio ci hanno sbalordito: abbiamo cominciato ad ammirarle come immagini di perfezione. A esse si accompagnavano molti vizi nascosti dalla bellezza e dallo splendore di un'azione insigne: questi abbiamo finto di non vederli. La natura ci porta a ingigantire le azioni degne di lode, tutti esaltano un gesto glorioso al di là della verità: da qui, dunque, abbiamo derivato l'immagine di un bene smisurato. 6 Fabrizio rifiutò l'oro di Pirro: per lui poter disprezzare le ricchezze di un re valeva più di un regno. Lui stesso, quando il medico di Pirro promise che avrebbe avvelenato il re, avvertì Pirro di guardarsi dal tradimento. Fu un segno della medesima nobiltà d'animo non farsi vincere dall'oro e non voler vincere col veleno. Abbiamo ammirato quell'uomo straordinario, che non si è lasciato piegare dalle promesse di un re, né da quelle fatte contro un re, tenace esempio di virtù, e cosa difficilissima, onesto anche in guerra; per lui certe azioni erano illecite pure contro i nemici, e nella sua estrema povertà, di cui andava orgoglioso, ricusò sia la ricchezza che il veleno. "Vivi," disse, "per merito mio, Pirro, e rallégrati per ciò di cui prima ti dolevi: Fabrizio è incorruttibile." 7 Orazio Coclite da solo sbarrò lo stretto passaggio del ponte e ordinò che gli fosse tagliata alle spalle la via del ritorno, pur di impedire l'accesso ai nemici, e resistette al lungo assalto, finché sentì crollare le travi a pezzi. Guardò indietro e quando si accorse che la patria era fuori pericolo a prezzo del suo pericolo personale, gridò: "Venga, chi vuole seguirmi, per questa via", e si gettò a capofitto nel Tevere; preoccupandosi di salvare dai gorghi del fiume tanto le armi quanto la vita, riuscì a mantenere l'onore delle armi vittoriose e ritornò sicuro come se fosse venuto dal ponte. 8 Queste e altre azioni simili ci hanno dato l'immagine della virtù.

Aggiungerò un'affermazione che può sembrare strana: a volte i mali si presentano sotto l'apparenza dell'onestà e il bene supremo emerge dal suo contrario. Ci sono, infatti, come sai, vizi che confinano con la virtù; e anche azioni disoneste e infami apparentemente somigliano al bene: così il prodigo si spaccia per liberale, pur essendoci una grande differenza tra chi sa dare e chi non sa conservare. Ci sono molte persone, caro Lucilio, che non donano, ma gettano: non posso chiamare liberale uno che ha in odio il proprio denaro. L'indifferenza somiglia alla condiscendenza, la temerità al coraggio. 9 Questa somiglianza ci ha costretto a fare attenzione e a distinguere fatti apparentemente affini, ma molto diversi tra loro nella sostanza. Osservando quegli uomini resi famosi da qualche gloriosa impresa, abbiamo cominciato a notare chi aveva agito con magnanimità e slancio, ma in una sola occasione. Si è visto che uno era coraggioso in guerra, ma vile nel foro, che sopportava con fermezza la povertà, ma era debole di fronte al disonore: abbiamo lodato l'impresa, ma disprezzato l'uomo. 10 Abbiamo notato che un altro era benevolo verso gli amici, moderato verso i nemici, irreprensibile e virtuoso sia nella vita pubblica che in quella privata; paziente nel sopportare e saggio nell'agire. Lo abbiamo visto donare a piene mani quando occorreva essere liberali; tenace, risoluto e capace di ovviare alla stanchezza fisica con le risorse dello spirito nella fatica. Inoltre era sempre uguale a se stesso in ogni sua azione, istintivamente onesto e arrivato con l'abitudine alla virtù al punto non solo di agire correttamente, ma di non poter agire se non correttamente. 11 Abbiamo compreso che in lui la virtù era perfetta. La virtù poi, l'abbiamo suddivisa in sezioni: bisognava frenare le passioni, reprimere le paure, decidere con saggezza il da farsi, dare a ciascuno il suo: abbiamo capito cos'è la temperanza, la fortezza, la saggezza, la giustizia e abbiamo attribuito a ciascuna i suoi còmpiti. Da che cosa, dunque, ci è derivato il concetto di virtù? Ce lo hanno indicato l'ordine, la bellezza, la fermezza che le sono proprie, l'armonia di tutte le sue azioni tra loro, e la sua grandezza che si solleva al di sopra di tutto. Da qui è nata l'idea della vita felice che scorre propizia, interamente padrona di sé. 12 E come siamo arrivati a questa idea? Ecco: l'uomo perfetto che ha raggiunto la virtù non si è mai scagliato contro la fortuna, non si è lasciato affliggere dalle disgrazie: le ha subite come fatiche impostegli, sentendosi cittadino dell'universo e soldato. Le avversità di ogni tipo non le ha rifiutate come un male assegnatogli dalla sorte, ma le ha accolte come un impegno: "Comunque sia la situazione, è affar mio; è dura, è difficile, devo impegnarmi a fondo." 13 Non poteva, perciò, non apparire grande l'uomo che non ha mai pianto sui suoi mali e non si è lamentato mai del suo destino; si è fatto comprendere da molti, ha brillato come una fiaccola nelle tenebre e si è attirato la benevolenza generale col suo carattere mite e moderato, ugualmente giusto con gli uomini e con gli dèi. 14 Aveva un animo perfetto e giunto al massimo livello, oltre il quale c'è solo lo spirito divino, di cui una parte è discesa anche nell'anima mortale; e proprio quando medita sulla sua mortalità e si rende conto che l'uomo è nato per morire, l'anima rivela di essere divina: questo corpo non è la sua casa, ma solo un albergo, e per un breve soggiorno, e bisogna lasciarlo quando ci si accorge di essere sgraditi all'ospite.

15 Per me, caro Lucilio, la prova più lampante della provenienza dell'anima da una sede più elevata è che ritiene di trovarsi in una condizione ignobile e misera e non teme di uscire da questa vita: chi ricorda la propria origine, sa dove andrà a finire. Non vediamo forse quanti disagi ci tormentano, come a noi mal si adatti questo corpo? 16 Ora lamentiamo mal di testa, ora di pancia, ora di petto e di gola; a volte ci fanno soffrire i nervi, a volte i piedi, ora la diarrea, ora il catarro; ci càpita di avere un flusso eccessivo, oppure insufficiente di sangue: siamo sbattuti e gettati qua e là, come succede a chi non abita in casa propria. 17 Eppure, benché ci sia toccato in sorte un corpo tanto guasto, facciamo progetti senza termine e spingiamo le nostre speranze fino all'estremo limite della vita, e non c'è denaro, né potere che ci contenti. È un atteggiamento veramente sfacciato e stupido. Non ci basta niente: eppure siamo destinati a morire, anzi stiamo morendo; ogni giorno ci avviciniamo all'ultimo giorno e ogni ora ci spinge a quell'istante da cui dovremo precipitare nella morte. 18 Vedi la nostra cecità mentale! Quello che definisco futuro accade ora, anzi, in gran parte è già accaduto: il tempo che abbiamo vissuto è là dove era prima che lo vivessimo. Sbagliamo a temere l'ultimo giorno: ogni giorno concorre in egual misura alla morte. La nostra fine non la segna quel gradino su cui cadiamo: la rende solo evidente; alla morte ci porta l'ultimo giorno, ma tutti ci avvicinano a essa; la morte ci consuma giorno per giorno, non ci trascina via all'improvviso. Perciò un'anima grande, conscia della sua natura superiore cerca di comportarsi con onestà e con impegno in questa dimora in cui è stata posta; e non ritiene suo niente di quanto la circonda, ma, simile a un viaggiatore frettoloso, ne fa uso come se lo avesse in prestito.

19 Vedendo un uomo così coerente, era inevitabile che ci colpisse la vista di un'indole fuori del comune; soprattutto se la sua coerenza mostrava, come ho detto, che questa era vera grandezza. Il vero è costante, il falso discontinuo. Certi sono a volte Vatinii, a volte Catoni; e ora giudicano poco austero Curio, poco povero Fabrizio, poco frugale e parco Tuberone, ora invece gareggiano con Licino nella ricchezza, con Apicio nei banchetti, con Mecenate nei piaceri. 20 Che un'anima è corrotta lo prova inequivocabilmente la sua instabilità, l'ondeggiare continuo tra la simulazione della virtù e l'amore dei vizi.

Aveva ora duecento, ora dieci servi, ora parlava di grandi cose, di re e di tetrarchi, ora diceva "mi basta un tavolo a tre piedi e una conchiglia di sale schietto, una toga anche rozza, che possa difendermi dal freddo", ma se tu avessi dato un milione di sesterzi a quest'uomo parco e contento di poco, entro cinque giorni non avrebbe avuto più un soldo.



21 Ci sono molti uomini uguali a questo descritto da Orazio Flacco, una persona mai uguale e neppur simile a se stessa, tale è la sua incoerenza. Ho detto molti? In realtà sono così quasi tutti. Ognuno cambia ogni giorno idee e desideri: ora vuole una moglie, ora un'amante, ora si atteggia a re, ora non c'è schiavo più servizievole di lui, ora è tronfio e detestabile, ora si abbassa e si riduce al di sotto degli umili, ora spreca il denaro, ora lo rapina. 22 Ecco come si rivela un animo sconsiderato: passa da un atteggiamento all'altro, e, quello che per me è più vergognoso, non è mai coerente con se stesso. Credi: è una gran cosa che un uomo sia sempre lo stesso. Ma nessuno, eccetto il saggio, è così, noi tutti siamo mutevoli. Ora ti sembreremo frugali e seri, ora prodighi e frivoli; cambiamo spesso maschera e ne indossiamo una opposta a quella che ci siamo tolti. Imponiti, dunque, di mantenerti fino alla morte quale hai deciso di essere; fa' in modo di meritare lodi, o almeno di essere riconosciuto. Di qualcuno che hai visto ieri potresti giustamente chiederti: "Chi è costui?", tanto è cambiato. Stammi bene.



121

1 Nascerà una discussione, lo so bene, quando ti esporrò una questioncella su cui oggi mi sono soffermato a lungo; griderai ripetutamente: "Che c'entra questo con la morale?" Grida pure: io prima ti opporrò altri avversari, Posidonio e Archidemo - non rifiuteranno di essere chiamati in causa - e poi ti dirò: non tutto ciò che è in rapporto con la morale influisce sulla moralità. 2 Ci sono questioni che riguardano l'alimentazione dell'uomo, altre il lavoro, il vestire, l'insegnamento, lo svago; toccano tutte l'uomo, anche se non tutte lo rendono migliore. Ce ne sono poi altre che riguardano la moralità, ognuna in maniera diversa: certe la correggono e la regolano, certe studiano la sua natura e la sua origine. 3 Quando ricerco perché la natura abbia generato l'uomo, perché lo abbia privilegiato rispetto agli altri animali, secondo te ho lasciato da parte il problema morale? Certamente no. Come saprai qual è la condotta da seguire, se non troverai cos'è il meglio per l'uomo, se non ne studierai la natura? Le cose da fare e quelle da evitare, le capirai quando avrai imparato quali siano i tuoi naturali doveri. 4 "Io," dici, "voglio imparare ad avere meno desideri, meno timori. Liberami dalla superstizione; insegnami che è fugace e vana la cosiddetta felicità: la si inverte molto facilmente aggiungendo una sillaba." Soddisferò il tuo desiderio: stimolerò le virtù e flagellerò i vizi. Mi giudichino pure eccessivo e smodato su questo argomento, ma io continuerò a perseguitare la depravazione, a reprimere le passioni più violente, a frenare i piaceri destinati a tramutarsi in dolore, a dichiarare la mia condanna contro i desideri dell'uomo. E perché no? Abbiamo desiderato i mali peggiori, ce ne siamo compiaciuti e ne è nato quello su cui discutiamo.

5 Intanto permettimi di prendere in considerazione dei problemi che possono sembrare un po' troppo lontani dal nostro argomento. Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero coscienza della loro natura. Che sia così lo dimostra il fatto che i loro movimenti sono appropriati e spediti come se le membra fossero esercitate; tutti hanno una grande agilità fisica. L'artigiano maneggia con facilità i suoi attrezzi, il pilota dirige abilmente il timone della nave, il pittore distingue sùbito i numerosi e diversi colori che si è messo davanti per fare un ritratto e passa facilmente con lo sguardo e con le mani dalla cera al quadro; con la stessa rapidità gli animali fanno uso dei loro arti. 6 Ammiriamo i mimi perché sono abili a interpretare con le mani tutte le situazioni e i sentimenti, e i loro gesti uguagliano la velocità delle parole: questo in loro è frutto di arte, nell'animale di qualità naturali. Nessuno fatica a muovere le membra, nessuno è incerto nell'usare le proprie capacità. Lo fanno sùbito appena nati; vengono al mondo con queste cognizioni; nascono ammaestrati. 7 Si ribatte: "Gli animali muovono le loro membra nel modo giusto, perché se le muovessero diversamente sentirebbero dolore. Come dite voi, sono costretti, ed è la paura, non la volontà, a determinare i loro corretti movimenti." Non è vero; i movimenti fatti per necessità sono cauti, quelli spontanei sono agili. Non è la paura di soffrire che costringe gli animali: essi tendono ai movimenti naturali, anche se sono impediti dal dolore. 8 Così il bimbo che tende a star dritto e si abitua a reggersi in piedi, appena comincia a provare le sue forze, cade e ogni volta si rialza piangendo finché attraverso la sofferenza arriva a compiere i movimenti naturali. Certi animali dal dorso rigido, se si rovesciano, si contorcono a lungo, tirano fuori le zampe e si piegano su un fianco finché non si rimettono a posto. La tartaruga non soffre se è supina, tuttavia smania e vuole riprendere la sua posizione naturale, e non smette di tentare e di agitarsi finché non si rimette dritta. 9 Tutti gli animali hanno, quindi, coscienza della loro natura, perciò muovono così speditamente le membra: e la prova più evidente che nascono con questa nozione sta nel fatto che tutti gli animali conoscono l'uso delle loro capacità.

10 "La costituzione," ribattono, "come dite voi, è l'elemento fondamentale dell'anima nell'atteggiamento che assume nei confronti del corpo. Come può un neonato capire un concetto così complesso e sottile, che voi stessi riuscite a spiegare a stento? Bisognerebbe che tutti gli animali nascessero maestri di dialettica per comprendere questa definizione oscura a gran parte delle persone istruite." 11 L'obiezione sarebbe giusta se io dicessi che gli animali comprendono la definizione di costituzione, non la costituzione in se stessa. La natura è più facile capirla che spiegarla. Pertanto il neonato non conosce l'essenza della sua costituzione, ma conosce la sua costituzione; e non sa che cosa sia un animale, ma sente di essere un animale. 12 Inoltre, la sua stessa costituzione può comprenderla solo in maniera grossolana, per sommi capi e confusamente. Anche noi sappiamo di avere un'anima, ma non ne conosciamo l'essenza, la sede, la natura e l'origine. Come noi abbiamo coscienza della nostra anima, sebbene ne ignoriamo la natura e la sede, così tutti gli animali hanno coscienza della loro costituzione. Devono avere coscienza di quell'elemento attraverso il quale percepiscono anche le altre cose; devono avere coscienza di ciò a cui obbediscono e che li governa. 13 Ciascuno di noi comprende che esiste un qualcosa che determina i suoi impulsi: ma ignora che cosa sia. Sa di avere un istinto, ma non sa quale sia e da dove nasca. Così anche i neonati e gli animali non hanno una coscienza sufficientemente limpida e chiara della loro essenza.

14 "Voi sostenete," ribattono, "che ogni animale si adatta sùbito alla sua costituzione; la costituzione dell'uomo è razionale e perciò l'uomo si adatta a se stesso non come a un animale, ma come a un essere razionale: l'uomo è caro a sé per quell'elemento che lo fa uomo. Come, dunque, il neonato può adattarsi alla sua costituzione di essere razionale, se non è ancora in grado di ragionare?" 15 Ogni età ha una sua costituzione, quella del neonato, del bambino, del giovane, del vecchio sono diverse: tutti si adattano alla costituzione in cui si trovano. Il neonato è senza denti: si adatta a questa sua costituzione. Gli spuntano i denti: si adatta a questa nuova costituzione. Anche l'erba che si trasformerà in messe e grano, quando è tenera e spunta appena dal solco, ha una costituzione; ne assume, poi, un'altra quando è cresciuta e si erge sullo stelo ancòra cedevole, ma capace di sopportare il suo peso, e un'altra ancòra, quando, oramai bionda e con la spiga dura, aspetta di essere portata sull'aia: qualunque costituzione assuma, la mantiene e vi si adatta. 16 L'infanzia, la fanciullezza, la giovinezza e la vecchiaia sono età diverse; e tuttavia io sono lo stesso che fui bambino, fanciullo, adolescente. Così, benché ogni età abbia una diversa costituzione, l'adattamento alla sua costituzione è sempre lo stesso. La natura non mi affida il fanciullo o il giovane o il vecchio, ma me stesso. Il neonato, dunque, si adatta alla sua attuale costituzione di neonato, non a quella futura di giovane: anche se deve passare a uno stadio superiore, non significa che lo stadio in cui è nato non sia secondo natura. 17 L'animale per prima cosa si adatta a sé, poiché ci deve essere un punto di riferimento per tutto il resto. Aspiro al piacere; per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Fuggo il dolore; per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Se faccio tutto per curarmi di me stesso, antepongo a tutto la cura di me stesso. Tutti gli animali hanno questo istinto che non viene dall'esterno, ma è innato. 18 La natura genera i suoi figli e non li abbandona, e poiché la difesa più sicura viene da chi è più vicino, ciascuno è affidato a se stesso. Perciò come ho detto nelle lettere precedenti, gli animali, anche giovani, appena usciti dall'utero materno o dall'uovo, sanno sùbito che cosa li minacci ed evitano i rischi mortali; gli animali preda degli uccelli rapaci ne temono anche l'ombra quando questi passano in volo. Non c'è animale che nasca senza la paura della morte.

19 "Come può" ci si domanda, "un animale appena nato capire se una cosa è salutare o mortifera?" Prima di tutto bisogna chiedersi se capisce, e non come capisce. Che essi capiscano si evince dal fatto che si comportano come se capissero. Perché la gallina non fugge il pavone o l'oca, ma lo sparviero, che nemmeno conosce e che è tanto più piccolo? Perché i pulcini temono il gatto e non il cane? È chiaro che hanno innato il senso del pericolo: se ne guardano prima di poterlo sperimentare. 20 Inoltre, questo comportamento non è casuale; temono solo quello che devono e non dimenticano mai di difendersi con circospezione: fuggono costantemente dal pericolo. E poi non diventano più pavidi nel corso della loro esistenza; è, quindi, evidente che non è l'esperienza a renderli tali, ma un naturale istinto di conservazione. L'insegnamento dell'esperienza arriva tardi ed è diverso da essere a essere: il bagaglio di nozioni naturali è uguale per tutti e immediato. 21 Ma, se proprio vuoi, ti spiegherò come ogni animale sia portato a riconoscere il pericolo. Sente di essere fatto di carne e percepisce, perciò che cosa può tagliare o bruciare o schiacciare la carne, e quali sono gli animali in grado di nuocere: di questi si forma un'immagine nemica e ostile. Si tratta di due istinti strettamente legati tra loro; infatti, non appena l'animale si adatta alla sua conservazione, ricerca quello che può giovargli, teme ciò che può danneggiarlo. L'impulso verso l'utile è naturale, come naturale è l'avversione alle cose nocive; i comandi della natura vengono attuati, ma non è la riflessione a dettarli, non sono frutto di un calcolo. 22 Non vedi con quanta precisione le api plasmano la loro casa, con quanta generale concordia attendono alla loro parte di lavoro? Non vedi che nessun uomo può imitare la tela del ragno, quanto sia laborioso disporne i fili - alcuni diritti per creare un sostegno, altri sistemati in cerchio da più fitti a più radi - e come vi rimangano impigliati, quasi in una rete, gli animali più piccoli, contro cui sono stati tesi? 23 Quest'arte è innata, non si impara. Perciò non c'è un animale più esperto di un altro: vedrai che le tele dei ragni sono uguali, e uguali sono nei favi tutti i fori. L'insegnamento che ci viene da un'arte è incerto e disuguale: uguale è invece quello che ci dà la natura. Essa insegna solo un'abile difesa di se stessi, perciò gli animali incominciano contemporaneamente a imparare e a vivere. 24 Non è strano che nascano con quelle capacità senza le quali non potrebbero sopravvivere. E per sopravvivere il primo mezzo che la natura ha dato loro è proprio la capacità di adattamento e l'amore di sé. Non avrebbero potuto sopravvivere, se non lo volessero; e la volontà da sola non servirebbe a niente, ma senza di essa niente sarebbe servito. Non c'è essere che si disprezzi o si trascuri; anche gli animali muti e privi di ragione per quanto tardi in tutto il resto, quando è in gioco la vita, sono scaltri. Vedrai che esseri inutili agli altri non trascurano se stessi. Stammi bene.



122

1 Le giornate si sono ormai accorciate; sono molto più brevi, eppure c'è ancora tempo sufficiente se ci si alza, come dire, col giorno. Più zelante e lodevole è chi lo aspetta in piedi e vede l'alba: è vergognoso che uno, col sole già alto, se ne stia a letto dormicchiando e si svegli a mezzogiorno; per molte persone questa è ancòra un'ora antelucana! 2 C'è gente che scambia la notte per il giorno e non apre gli occhi appesantiti dalla baldoria della sera precedente prima che si faccia buio. Inversa alla nostra è la condizione di quegli uomini che la natura, come scrive Virgilio, ha collocato agli antipodi:

Quando Oriente coi cavalli ansanti ci alita addosso, per loro Vespero rosseggiante accende tarde luci.

Così nel caso di costoro inversa alla nostra è la loro vita, non la regione. 3 Ci sono nella medesima città degli uomini agli antipodi che, come dice Catone, non hanno mai visto il sorgere o il tramontare del sole. Secondo te sanno come vivere, se non sanno neppure quando? E costoro temono la morte, quando sono dei sepolti vivi? Portano male come gli uccelli notturni. Anche se passano le notti tra il vino e i profumi, anche se trascorrono tutto il tempo della loro veglia a rovescio in pranzi di molte portate ben cotte, non banchettano, ma celebrano il proprio funerale. Per i morti almeno i funerali si celebrano di giorno. Però per dio, se uno si dà da fare, il giorno non è mai lungo. Allunghiamo la vita: l'agire ne è il dovere e la base. Limitiamo la notte e trasferiamone una parte nel giorno. 4 I volatili destinati ai banchetti vengono tenuti chiusi al buio, perché nell'immobilità ingrassino facilmente; così, stando fermi senza muoversi mai, il loro corpo impigrito si gonfia e un grasso molliccio cresce sulle loro membra. Il fisico di questi uomini che si sono votati alle tenebre è ripugnante a vedersi: hanno un colorito più impressionante del pallore degli ammalati: sono bianchicci, deboli e fiacchi; sono vivi, ma la loro carne è morta. E tuttavia questo è il male minore: quanto più fitte sono le tenebre della loro anima! È istupidita, avvolta nell'oscurità più dei ciechi. Chi mai ha avuto gli occhi per vivere al buio?

5 Chiedi come si possa diventare così depravati da aborrire il giorno e trasferire nella notte tutta la propria vita? Tutti i vizi sono contro natura e vengono meno all'ordine prestabilito; l'uomo dissoluto vuol godere di gioie perverse e non solo devia dal retto cammino, ma se ne allontana più che può fino a trovarsi agli antipodi. 6 Secondo te non vivono contro natura quelle persone che bevono a digiuno, che ricevono il vino nelle vene vuote e siedono a tavola già ubriachi? Eppure questo è un vizio frequente nei giovani che vogliono esercitare le forze, e bevono, anzi tracannano, il vino fin sulla soglia del bagno tra i compagni nudi, e si detergono ripetutamente il sudore provocato dalle numerose bevande calde. Bere dopo il pranzo o la cena è da cafoni; lo fanno i villani che non conoscono il vero piacere: loro, invece, godono del vino puro che non galleggia sul cibo, che penetra liberamente fino ai nervi, trovano piacere nell'ubriachezza a digiuno. 7 E quelli che indossano abiti da donna secondo te non vivono contro natura? E quelli che cercano di apparire come giovinetti in fiore, quando ormai la loro stagione è passata? Che c'è di più crudele, di più miserabile? Non diventare mai un uomo per sottostare a lungo a un uomo? E mentre il sesso avrebbe dovuto sottrarli a quella violenza, non li sottrarranno nemmeno gli anni? 8 E non vivono contro natura quelli che vogliono avere le rose d'inverno e con l'impiego di acqua calda e con opportuni trapianti fanno spuntare i gigli nella stagione fredda? Non vivono contro natura quelli che piantano frutteti in cima alle torri? E quelli che sui tetti delle loro case nei punti più alti hanno boschetti ondeggianti: le radici di questi alberi nascono là dove a stento sarebbe potuta arrivare la cima. Non vive contro natura chi getta le fondamenta delle terme nel mare e il nuoto non gli dà piacere se le vasche d'acqua calda non le colpiscono le onde in tempesta? 9 Stabiliscono di voler tutto contro natura, e alla fine se ne allontanano completamente. "Si fa giorno: è ora di dormire. Tutto è tranquillo: facciamo ginnastica ora, facciamo una passeggiata, pranziamo. Oramai è l'alba: è ora di cenare. Non bisogna fare quello che fa il popolo; è squallido vivere la solita vita ordinaria. Abbandoniamo il giorno come lo vivono tutti gli altri: per noi deve esserci un mattino speciale." 10 Costoro per me sono come morti; quanto sono vicini alla fine e anche prematura, vivendo alla luce di fiaccole e ceri!

Ricordo che in uno stesso periodo furono molti a condurre questo tipo di vita; tra costoro c'era anche un ex pretore, Acilio Buta; dopo aver dilapidato un ingente patrimonio, quando confidò a Tiberio la sua povertà, questi gli rispose: "Ti sei svegliato tardi." 11 Giulio Montano, un poeta discreto, noto per l'amicizia e la successiva inimicizia con Tiberio, era solito leggere le sue poesie. Spessissimo vi cacciava in mezzo albe e tramonti; una volta un tale, seccato che costui avesse recitato i suoi versi per un giorno intero, sosteneva che non si dovesse più andare alle sue letture, e Natta Pinario disse: "Posso forse comportarmi più gentilmente? Sono pronto ad ascoltarlo dall'alba al tramonto." 12 Una volta egli aveva letto questi versi:

Febo comincia a emettere fiamme ardenti e la luce rosseggiante a diffondersi; già la mesta rondine tornando più volte ai nidi pigolanti comincia a portare il cibo e lo distribuisce delicatamente col becco.

E Varo, cavaliere romano, amico di M. Vinicio, frequentatore assiduo di cene prelibate che si guadagnava con la sua maldicenza, esclamò: "E Buta comincia a dormire." 13 Poi, sùbito dopo, quando ebbe recitato questi altri versi:

Ormai i pastori hanno rinchiuso gli armenti nelle stalle, ormai la pigra notte comincia a spargere il silenzio sulle terre addormentate.

Varo di nuovo aggiunse: "Come? È già notte? Andrò a dare il buongiorno a Buta."

Era ben nota la sua vita contraria alla normalità; e, come ho detto, in quel periodo erano in molti a vivere così. 14 Certi lo fanno non perché pensino che la notte sia più piacevole, ma perché non apprezzano ciò che è consueto; e poi, chi ha la coscienza sporca non gradisce la luce, e chi è abituato a desiderare o a disdegnare le cose a seconda che il prezzo sia alto o basso, ha ripugnanza per la luce che non costa niente. Inoltre, questi uomini dissoluti vogliono che della loro vita si parli mentre sono ancòra in vita; se passano sotto silenzio, pensano di sciupare il proprio tempo. Perciò a volte agiscono in modo da suscitare vasta eco. Molti sperperano i loro beni, molti hanno delle amanti: per farsi un nome tra costoro non basta la dissolutezza, bisogna distinguersi; in una società così affaccendata una ordinaria perversità non fa nascere chiacchiere. 15 Pedone Albinovano, elegantissimo narratore, ci raccontava una volta di aver abitato sopra l'abitazione di Sesto Papinio, uno di questa compagnia di nottambuli. "Verso le nove di sera," dice, "sento schioccare la frusta. Chiedo che stia facendo: mi rispondono che si fa fare i conti. Verso mezzanotte sento delle grida concitate. Chiedo che accada: mi dicono che esercita la voce. Verso le due chiedo che significhi quel rumore di ruote: mi riferiscono che va a passeggio. 16 All'alba sento correre, chiamare gli schiavi, agitarsi i cantinieri e i cuochi. Domando che accada: mi rispondono che ha chiesto vino mielato e orzata ed è appena uscito dal bagno. 'Il suo pranzo, allora, durava più di una giornata?' No; viveva molto frugalmente; non consumava niente altro che la notte." Perciò Pedone a chi lo definiva gretto e avaro, rispondeva: "Chiamatelo anche nottambulo."

17 Non devi stupirti di trovare tante varietà di vizi: sono diversi, hanno innumerevoli forme, non si possono classificare tutti. La ricerca del bene è semplice, quella del male complessa e assume sempre nuove deviazioni. Lo stesso accade per i modi di vivere: se conformi a natura sono semplici, liberi e presentano scarse differenze; se perversi, sono in contrasto tra loro e con se stessi. 18 Tuttavia, la causa prima di questa corruzione sta per me nel disgusto per la vita normale. Si distinguono dagli altri per l'eleganza, per la raffinatezza delle cene, per il lusso delle carrozze, e allo stesso modo vogliono differenziarsi anche per l'uso del tempo nelle sue successioni. Per loro una cattiva reputazione è il premio dei loro vizi, perciò non vogliono commettere i peccati soliti. E tutti questi che, per così dire, vivono al contrario, cercano appunto una cattiva reputazione. 19 Perciò Lucilio mio, dobbiamo seguire la vita segnata dalla natura, senza allontanarcene: se uno la percorre, tutto gli diventa facile e comodo; se va in senso contrario, vive come se remasse controcorrente. Stammi bene.



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1 Sfinito da un viaggio più scomodo che lungo arrivo nella mia villa di Alba a notte alta: non trovo niente di pronto tranne il mio stomaco. Perciò stanco mi getto sul divano, senza prendermela per il ritardo del cuoco e del fornaio. Se una cosa si prende alla leggera, mi dico, non è grave e niente dovrebbe mandarci in collera, purché non lo ingrandiamo noi stessi col nostro sdegno. 2 Il mio fornaio non ha pane; ne hanno, però il fattore, il custode, il colono. "Pane cattivo," dirai. Aspetta: diventerà buono; la fame renderà morbido e bianco anche questo. Perciò non bisogna mangiare finché la fame non lo comanda. Aspetterò dunque, e non mangerò prima di avere un buon pane oppure di non provare più disgusto per quello cattivo. 3 Abituarsi al poco è necessario: anche chi è ricco e ha tutto si troverà in luoghi e circostanze sfavorevoli che impediranno la soddisfazione dei suoi piaceri. Nessuno può avere tutto quello che vuole, ma può non volere quello che non ha e godere delle gioie che gli si offrono. Gran parte della libertà consiste in un ventre moderato e capace di sopportare gli stenti. 4 Non si può immaginare quanto piacere mi dia il sentire che la stanchezza se ne va da sé; non cerco né massaggiatori, né bagni, unico rimedio è il tempo: il riposo elimina le conseguenze della fatica. Una cena qualunque sarà più piacevole di un banchetto inaugurale. 5 [...] Ho messo, dunque, il mio animo alla prova all'improvviso e perciò ne ho tratto un'esperienza più schietta e vera. Se l'animo si prepara e si impone di essere paziente, la sua reale fermezza non è chiara. Le prove più sicure sono quelle improvvise: se di fronte ai dispiaceri non è solo rassegnato, ma tranquillo; se non dà in escandescenze e non attacca briga; se supplisce a ciò che avrebbe dovuto ricevere non desiderandolo, e pensa che manchi qualcosa alle sue abitudini, ma non a lui stesso.

6 Dell'inutilità di molte cose ci accorgiamo solo quando cominciano a mancare: le usiamo non per bisogno, ma perché le abbiamo. E quante cose, poi, ci procuriamo perché le hanno gli altri o perché le posseggono quasi tutti! Ecco una delle cause dei nostri mali: viviamo imitando il prossimo e non ci facciamo regolare dalla ragione, ma trascinare dall'abitudine. Una cosa che se la facessero in pochi, non vorremmo imitare, quando diventa una moda la seguiamo, quasi fosse più giusta perché è più diffusa; l'errore, quando diventa comune, occupa in noi il posto del bene. 7 Tutti ormai viaggiano come se li precedesse la cavalleria numidica e una schiera di battistrada: sarebbe una vergogna non avere nessuno che faccia scansare i passanti e mostri, alzando un polverone, che arriva un uomo importante! Tutti hanno ormai muli carichi di vasellame di cristallo, di murra, cesellato a mano da grandi artisti: sarebbe una vergogna se sembrasse che nei bagagli porti solo roba infrangibile! Tutti si trascinano dietro giovani schiavi col viso unto di crema perché il sole o il freddo non rovinino la loro pelle delicata: sarebbe una vergogna se nel tuo seguito ci fosse qualche schiavo col viso fresco senza bisogno di creme.

8 Evitiamo di parlare con tutti questi individui, sono loro a trasmettere i vizi e a diffonderli da un posto all'altro. Sembrava che i calunniatori fossero la razza peggiore: e invece ci sono quelli che diffondono i vizi. I loro discorsi sono veramente dannosi: anche se lì per lì non hanno nessun effetto, seminano nella nostra anima i germi del male e ci seguono anche quando ne siamo lontani: il male si svilupperà in seguito. 9 Quando uno ha ascoltato un concerto nelle orecchie gli risuona il ritmo e la soavità di quella musica, che gli impedisce di pensare e di occuparsi di cose serie; così i discorsi degli adulatori e di quanti lodano le cattive azioni ci rimangono impressi anche quando non li sentiamo più. E non è facile liberarsi di quella dolce musica: ci perseguita persistentemente e a intervalli ritorna. Rifiutiamoci, perciò fin dall'inizio di ascoltare quelle parole disoneste, perché la loro audacia aumenta quando prendono piede e noi le accogliamo. 10 Allora si arriva a questi discorsi: "La virtù, la filosofia, la giustizia sono parole vuote e altisonanti; l'unica felicità è vivere bene, mangiare, bere, godersi le ricchezze: questa è vita, questo è ricordarsi che dobbiamo morire. I giorni scorrono via e la vita fugge inesorabile. Abbiamo dei dubbi? A che serve la saggezza e imporsi di essere frugali alla nostra età, mentre ora possiamo godere dei piaceri (in futuro non saremo in grado di farlo), anzi ne sentiamo l'esigenza, e così precedere la morte e privarsi già adesso di tutto quello che essa ci porterà via? Non hai un'amante, non hai un ragazzo che susciti la gelosia dell'amante; ogni giorno ti mostri sobrio; e mangi come se dovessi sottoporre a tuo padre il libro dei conti: questo non è vivere, ma guardare vivere gli altri. 11 Che pazzia avere cura del patrimonio destinato all'erede e privarsi di tutto per farsi di un amico un nemico con una cospicua eredità; la sua gioia per la tua morte sarà proporzionata al lascito. Questi severi e arcigni censori della vita altrui, nemici della propria, precettori universali, non tenerli in nessun conto e non esitare a preferire una buona vita a una buona reputazione." 12 Bisogna fuggire queste voci come quelle davanti a cui Ulisse non volle passare se non legato. Il loro potere è identico: allontanano dalla patria, dai genitori, dagli amici, dalle virtù e ci spingono *** a una vita disonorevole e infelice. Quanto è meglio seguire la retta via e arrivare a gioire solo dell'onestà. 13 E questo intento lo realizzeremo rendendoci conto che sono due le categorie di cose ad attrarci o a respingerci. La ricchezza, i piaceri, la bellezza, l'ambizione e quanto altro c'è di lusinghiero e suadente ci attraggono; ci respingono la fatica, la morte, il dolore, il disonore, un tenore di vita troppo austero. Esercitiamoci, dunque, a non temere le une e a non desiderare le altre. Combattiamo in due modi diversi: ritiriamoci davanti agli allettamenti, affrontiamo le difficoltà. 14 Non vedi come è diversa la posizione di uno che scende e di uno che sale? Chi scende porta il peso del corpo indietro, chi sale si piega in avanti. Portare in avanti il peso del corpo in discesa o portarlo indietro in salita significa, caro Lucilio, tenere una posizione viziata. La strada verso i piaceri è in discesa, quella verso azioni difficili e impegnative è in salita: in questo caso dobbiamo spingere il corpo in avanti, nell'altro frenarlo.

15 Pensi che ora io dichiari pericoloso per le nostre orecchie solo chi loda il piacere e chi ci incute la paura del dolore, cose già di per sé temibili? Secondo me ci nuocciono anche quelle persone che sotto la maschera dello stoicismo ci esortano ai vizi. Vanno dicendo che solo l'uomo saggio e istruito sa amare. "È il solo adatto a quest'arte; ed è pure il più esperto nel bere e nel mangiare in compagnia. Vediamo fino a che età si debbano amare i giovani." 16 Queste abitudini lasciamole ai Greci, noi piuttosto porgiamo le orecchie a queste massime: "Nessuno è onesto per caso: la virtù va imparata. Il piacere è una cosa vile e meschina, di nessun valore, comune anche alle bestie: vi aspirano gli esseri inferiori e più spregevoli. La gloria è cosa vana ed effimera, più instabile dell'aria. La povertà è un male solo per chi non l'accetta. La morte non è un male: chiedi cos'è? La sola legge uguale per tutti gli uomini. La superstizione è pura follia: teme le divinità che dovrebbe amare e profana quelle che venera. Che differenza c'è, infatti, tra il negare gli dèi e il disonorarli?" 17 Queste massime vanno imparate, anzi imparate a memoria: la filosofia non deve fornire scuse al vizio. Non ha speranza di guarire un ammalato se il medico lo spinge all'intemperanza. Stammi bene.



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1 Posso riferirti molti precetti degli antichi, se non rifiuti e non ti annoia la conoscenza di cure semplici.

Ma tu non rifiuti e non respingi le minuzie: la tua finezza non si limita alla ricerca dei grandi problemi; così approvo anche la tua volontà di trarre profitto da ogni argomento e il fatto che ti urti solo quando l'eccessiva sottigliezza non porta nessun frutto. Da parte mia cercherò che questo ora non avvenga.

Si discute se il bene si abbracci coi sensi o con la mente; in quest'ultimo caso ne sarebbero esclusi gli animali e i neonati. 2 Tutti quei filosofi che mettono al primo posto il piacere ritengono che il bene sia percettibile; invece per noi, che il bene lo attribuiamo all'anima, è intellegibile. Se a giudicare il bene fossero i sensi, non respingeremmo nessun piacere perché ci allettano e ci attraggono tutti, e d'altra parte non ci sottoporremmo volontariamente a nessun dolore, perché tutti i dolori colpiscono i sensi. 3 E poi non meriterebbe biasimo chi ama troppo il piacere e chi il dolore lo teme moltissimo. Noi disapproviamo i golosi e i lussuriosi e disprezziamo i vili perché hanno paura del dolore. Ma qual è la loro colpa se obbediscono ai sensi, giudici del bene e del male? Ad essi hai affidato la valutazione di quello che va ricercato e di quello che va fuggito. 4 E, invece, naturalmente, questo è còmpito della ragione: del bene e del male come della felicità, della virtù, dell'onestà è lei a decidere. Costoro attribuiscono alla parte più vile dell'uomo la facoltà di giudicare sulla migliore: del bene deciderebbero i sensi, che sono ottusi e deboli, meno sviluppati nell'uomo che negli animali. 5 Che diresti se uno pretendesse di distinguere col tatto e non con gli occhi gli oggetti minuscoli? A questo scopo non c'è forza più acuta e intensa di quella visiva, ma potrebbe forse dare la facoltà di distinguere il bene dal male? Vedi quanto ignori la verità e come svilisca cose elevate o divine chi giudica con i sensi il sommo bene e il sommo male.

6 "Tutte le scienze," si ribatte, "e tutte le arti devono avere qualche elemento manifesto e tangibile da cui nascono e si sviluppano; così la felicità trae le sue fondamenta e il suo inizio da elementi manifesti e concreti. Siete voi stessi a dire che la felicità trae la sua origine da fattori manifesti." 7 Noi definiamo felice quello che è secondo natura; che cosa poi sia secondo natura appare sùbito evidente, come l'integrità di un oggetto. Ciò che è secondo natura e riguarda un neonato, non lo definisco un bene, ma l'inizio di un bene. Tu attribuisci all'infanzia il sommo bene, cioè il piacere; il neonato comincia, quindi, dal punto a cui arriva l'uomo perfetto: così metti la cima della pianta al posto delle radici. 8 Se uno dicesse che il feto nascosto nell'utero materno, di sesso ancora incerto, delicato, imperfetto e informe ha già un qualche bene, apparirebbe chiaro che sbaglia. Ebbene, che differenza c'è tra il bimbo appena nato e il feto che pesa dentro le viscere materne? Entrambi, per ciò che riguarda la cognizione del bene e del male, sono ugualmente immaturi e il neonato non è capace di bene più di una pianta o di un animale. Ma perché in una pianta o in un animale non c'è il bene? Perché sono privi di ragione. Per questo il bene non c'è nemmeno nel neonato, anche lui è privo di ragione. Arriverà al bene solo quando arriverà alla ragione. 9 Ci sono esseri irrazionali, altri non ancora razionali, altri razionali, ma imperfetti: in nessuno di loro c'è il bene, lo porta con sé la ragione. Che differenza c'è allora tra i gruppi suddetti? Nell'essere irrazionale non ci sarà mai il bene; nell'essere non ancòra razionale non può ancòra esserci il bene; nell'essere razionale, ma imperfetto, potrebbe esserci il bene, ma non c'è. 10 Io la penso così, Lucilio: il bene non si trova in qualunque corpo, a qualunque età, ed è tanto lontano dall'infanzia quanto dal primo l'ultimo, quanto una cosa compiuta dal suo inizio. Quindi in un piccolo corpo delicato ancòra in formazione, non c'è. Perché? È lo stesso che in un seme. 11 Diciamo così: in un albero o in una pianta riconosciamo un certo bene, ma questo non c'è in un virgulto appena spunta dalla terra. Un certo bene c'è nel grano: ma non c'è nell'erbetta ancora bianca e neppure quando la tenera spiga si libera dalla scorza, ma solo quando l'estate e il naturale sviluppo hanno maturato il frumento. La natura in ogni suo aspetto non rivela il proprio bene se non arriva a perfezione, così il bene proprio dell'uomo non è presente nell'individuo se non quando la ragione è perfetta. 12 Ma qual è questo bene? Uno spirito libero, fiero, che tutto assoggetta a sé, ma non si assoggetta a nessuno. L'infanzia non può possedere questo bene; la fanciullezza non può sperarlo; e l'adolescenza è difficile che lo realizzi; può considerarsi fortunato il vecchio che lo raggiunge dopo un lungo e intenso studio. Se questo è il bene, è pure intellegibile.

13 "Tu hai detto," qualcuno obietta, "che c'è un bene dell'albero e dell'erba; e allora può esserci anche un bene del neonato." Il vero bene non si trova negli alberi e nemmeno nelle bestie: il bene che è in loro è chiamato in maniera impropria bene. "E qual è allora?" chiedi. Ciò che è conforme alla natura di ognuno. Il bene non può in nessun modo andare a finire in una bestia; è proprio di una natura più felice e migliore. Il bene si trova solo dove c'è la ragione. 14 Ci sono questi quattro tipi di natura: vegetale, animale, umana, divina: le ultime due che sono razionali, hanno la stessa natura; sono, però diverse in quanto l'una è immortale, l'altra mortale. Il bene dell'uno, quello di dio naturalmente, è insito nella sua natura, il bene dell'altro, ossia dell'uomo, nasce dal suo impegno. Gli altri esseri sono perfetti solo nell'ambito della loro natura, ma non sono veramente perfetti, perché non possiedono la ragione. Perfetto è solo ciò che è tale secondo la natura universale, e la natura universale è razionale: gli altri esseri possono essere perfetti solo nel loro genere. 15 L'essere in cui non può esserci la felicità non può avere neppure ciò che produce la felicità; e a produrre la felicità è il bene. Nelle bestie non c'è felicità e nemmeno ciò che produce la felicità: nelle bestie, quindi, non c'è il bene. 16 L'animale percepisce coi sensi la realtà che lo circonda; e del passato si ricorda quando si imbatte in qualcosa che stimola i suoi sensi, così il cavallo ricorda la strada quando lo portano dove comincia. Nella stalla, invece, non ha nessun ricordo della strada anche se l'ha percorsa spesso. La terza dimensione temporale, cioè il futuro, non ha importanza per le bestie. 17 Come, dunque, può ritenersi perfetta la loro natura se non hanno una perfetta nozione del tempo? Il tempo consta di tre parti, passato, presente, futuro. Gli animali hanno solo la nozione della parte più breve e fugace, il presente: del passato hanno un vago ricordo e solo l'impatto col presente glielo richiama alla memoria. 18 Quindi il bene che è proprio di una natura perfetta non può sussistere in una natura imperfetta, oppure se una tale natura lo possiede, lo possiedono anche le piante. Non nego che le bestie provino forti e violenti slanci verso ciò che appare secondo natura, ma sono slanci disordinati e confusi; mentre il bene non è mai disordinato e confuso. 19 "Ma come?" chiedi, "le bestie si muovono in maniera disordinata e confusa?" Potrei dire che si muovono in maniera disordinata e confusa se la loro natura obbedisse a una regola: ma in realtà si muovono secondo la loro natura. È disordinato quello che certe volte può anche seguire un ordine; è turbato quello che può anche essere tranquillo. Vizioso è solo chi può avere la virtù: nelle bestie questi movimenti sono del tutto naturali. 20 Ma, per non tirarla alla lunga, ci sarà nelle bestie un qualche bene, ci sarà una qualche virtù, ci sarà una qualche perfezione, ma non il bene, né la virtù, né la perfezione in assoluto. Questi toccano solo agli esseri razionali, ai quali è concesso conoscere il perché, i limiti e le modalità dell'agire. Così il bene non è presente in nessun essere che non sia razionale.

21 Certo ti chiedi a che miri questa discussione e che utilità abbia per il tuo spirito. Ecco: lo esercita, lo rende più acuto e impegna la sua attività in una occupazione onesta. E poi giova perché trattiene chi tende al male. Inoltre, il modo in cui posso esserti più utile è mostrandoti il tuo bene, facendo una distinzione tra le bestie e mettendoti affianco a dio. 22 Perché, ti domando, coltivi ed eserciti le forze fisiche? La natura le ha concesse in misura maggiore agli animali domestici e feroci. Perché curi la tua bellezza? Per quanto tu faccia, gli animali ti vinceranno in bellezza. Perché ti acconci i capelli con tanta cura? Anche se li porterai sciolti come i Parti o legati come i Germani o scompigliati come gli Sciti, la criniera di un qualsiasi cavallo ondeggerà più folta, e sul collo del leone se ne drizzerà una più bella. Per quanto ti eserciterai nella corsa, non eguaglierai mai un leprotto. 23 Accantona tutto quello in cui è inevitabile che tu sia vinto, poiché tendi a mete a te estranee, e ritorna al tuo bene. Qual è? Avere un animo irreprensibile e puro, emulo di dio, e che si erga al di sopra delle vicende umane, tutto compreso in se stesso. Tu sei un animale fornito di ragione. Qual è, dunque, il bene in te? La ragione perfetta. Richiamala alla sua meta, lascia che si sviluppi il più possibile. 24 Stìmati felice solo quando ogni gioia nascerà dal tuo intimo, quando, alla vista di quei beni che gli uomini cercano di afferrare, desiderano e custodiscono gelosamente, non troverai nulla che, non dico preferisci, ma neppure desideri. Ti darò una piccola regola per valutare i tuoi progressi e per renderti conto di avere ormai raggiunto la perfezione: possiederai il tuo bene quando capirai che gli uomini considerati felici sono in realtà i più infelici. Stammi bene .
 
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view post Posted on 28/5/2009, 20:30

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SENECA: De brevitate vitae


A cura di Diego Fusaro



I. La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. II. Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: "Piccola è la porzione di vita che viviamo". Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso. III. Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli anziani: "Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite di dovere attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori anzitempo". Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: "Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata". E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati! IV. Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni. Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se niente preme e turba dall'esterno, la fortuna crolla su se stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero: alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste parole: "Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della realtà si fa attendere, a pregustare un po' di piacere dalla dolcezza delle parole." Così grande cosa gli sembrava il tempo libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con l'immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo, che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i concittadini, poi con i colleghi, infine con i parenti, versò sangue per terra e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l'Egitto, la Siria e l'Asia e quasi tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i nemici mischiati in mezzo alla pace e all'impero, mentre spostava i confini oltre il Reno, l'Eufrate ed il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia e tanti giovani nobili legati dal vincolo dell'adulterio come da un giuramento ne atterrivano la stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con un Antonio. Aveva tagliato via queste ferite con le stesse membra: altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue, sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render gli altri paghi dei loro voti. V. Marco Cicerone, sballottato tra i Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in sesto le armate scompaginate! "Mi domandi" dice "cosa faccio qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo". Poi aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo passato, si lamenta del presente e dispera del futuro. Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra della fortuna? VI Livio Druso, uomo rude ed impulsivo, avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi, pressato da una grande aggregazione dell'Italia intera, non prevedendo l'esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi, abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da un improvviso colpo all'inguine, si accasciò, e vi è chi dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri, testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che, benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile. VII. Tra i primi annovero senz'altro coloro che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo; elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell'aver timore, quanto nell'essere servili, quanto li tengano occupati le proprie promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono diventati anch'essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo affaccendato, non l'eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all'ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l'ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l'influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: "Non mi è permesso vivere." E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell'imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l'ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell'influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: "Quando passerà quest'anno?" Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: "Quando li fuggirò?" Quell'avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: "Quando verranno proclamate le ferie?" Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera ma lo accoglie. Perciò non c'è motivo che tu ritenga che uno sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe: costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto. VIII. Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino, avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere: quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni passati di ognuno, così come quelli futuri, come trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro, per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli; perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale, volente o nolente, bisogna avere tempo. IX. Cosa potresti immaginare di più insensato di quegli uomini che menano vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: "I primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni migliori della vita." Dice: "Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono." E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non "il tempo migliore", ma "i giorni migliori." Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine. X Se volessi dividere ciò che ho esposto e le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca], il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni bisogna combattere d'istinto, non di sottigliezza, e respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l'animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l'assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni. XI. Vuoi dunque sapere quanto poco tempo (gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l'aggiunta di pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la bugia e illudono se stessi così volentieri come se ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti, tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a quante cose si siano procurate invano, e delle quali non avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo. XII. Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l'asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all'asta dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell'ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po' disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l'argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all'ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: "Sono già seduto?". Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell'uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento? XIII. Sarebbe lungo enumerare uno ad uno coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea e inoltre se fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili: questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose. Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i Romani a salire su una nave - è stato Claudio, proprio per questo chiamato Codice ["caudica" era una barca, ricavata in un tronco, detto "caudex"], perché l'aggregato di parecchie tavole era chiamato "codice" presso gli antichi, per cui i pubblici registri si dicono "codici" e anche ora le navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica consuetudine vengono chiamate "codicarie" - ; certamente anche ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi, come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini in una maniera nuova. "Combattono all'ultimo sangue? È poco. Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall'enorme mole degli animali!". Era meglio che queste cose andassero nel dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici, organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili, spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi, ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per essere ucciso dall'ultimo schiavo [l'eunuco Achillas, che pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora l'inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno]. Ma per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l'ultimo dei Romani ad aver ampliato il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato libero, all'interno e all'esterno della cinta muraria di Roma], che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l'acquisizione di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile (che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio, come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi. XIV Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell'animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell'uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l'atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l'inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno. XV. Nessuno di essi ti costringerà a morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l'amicizia, di nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse) vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il cammino verso l'eternità e ti eleveranno in quel luogo dal quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l'ambizione ha stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà; quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina l'invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l'invidia) e situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana, tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve; sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la raccolta di ogni tempo in uno solo. XVI. Molto breve e travagliata è la vita di coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o quando si attende il momento stabilito di qualche altro spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro; infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto dall’amplesso [lett.: addolcito dal piacere], abbia raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena, cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare al male giustificata licenza mediante l’esempio della divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa della notte, la note per paura del giorno. XVII. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi ed inquieti per vari timori e subentra l'angosciosa domanda di chi è al massimo del piacere [lett.: di chi massimamente gioisce]: "Fino a quanto ciò (durerà)?". Da questo stato d'animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine imminente. Avendo dispiegato l'esercito attraverso enormi spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la dimensione, l'orgogliosissimo re dei Persiani [Serse] versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi (periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di sopra dell'umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono, ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza risveglia la speranza, un'ambizione l'ambizione. Non si cerca la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell'accusare: cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere giudice: diventa inquisitore; è invecchiato nell'amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato] si affanna ad evitare la carica di dittatore [lett.: la dittatura]: sarà richiamato dall'aratro. Scipione marcerà contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa; vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.], orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio], se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]: sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai vecchio (lo) compiacerà l'ostentazione di un orgoglioso esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà desiderato. XVIII. Allontànati dunque dalla folla, carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato; già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c'è in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri, tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici. Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale. Allontana questa vigoria dell'animo, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] - se vi è una qualche sensibilità nell'aldilà, sostenendo ciò con animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell'impero, si avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e l'imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia]. Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti alcuni mali vanno curati all'insaputa degli ammalati: per molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male. XIX. Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai integro sia dalla frode che dall'incuria dei trasportatori, che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra, rivolgere l'attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l'amore e la pratica delle virtù, l'oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del vivere e del morire), una profonda quiete delle cose. XX. Certamente miserevole è la condizione di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende, dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare, cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro, non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all'ambizione, alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime (difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in mente l'amara considerazione di essersi dannati per l'epitaffio; di certuni venne meno l'estrema vecchiaia, mentre come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti del tutto sconosciuti e cercando l'assenso di un uditorio ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che l'erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata coscienziosità, che dopo i novant'anni, avendo ricevuto inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l'esonero dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui. Piangeva la casa l'inattività del vecchio padrone e non cessò il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d'animo ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama sotto le armi a partire dai cinquant'anni, non convoca il senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo, mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri.
 
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view post Posted on 28/5/2009, 21:33

ottimo

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SENECA: De providentia

A cura di Diego Fusaro



Tu mi chiedi, Lucilio, perché, se Dio si prende cura del mondo, accadono ai buoni tante disgrazie. L'argomento esigerebbe una trattazione più ampia, inquantoché si dovrebbe prima discutere e dimostrare se e vero che l'universo è retto da una legge provvidenziale e che Dio si cura effettivamente di noi, ma poichè tu mi domandi di affrontare una sola parte del problema, per risolvere il tuo quesito, senza approfondire l'intera questione, farò una cosa semplicissima: assumerò, cioè, la difesa di Dio. innanzitutto è superfluo dimostrare, a lmeno per il momento, come un'opera di così vasta portata qual è l'universo possa sussistere senza che alcuno la sorvegli e come il regolare e costante corso delle stelle, nel loro duplice moto di avvicinamento e di allontanamento, non sia dovuto ad un impulso casuale - cosa impossibile inquanto tutto ciò che si muove disordinatamente si scompiglia e dà di cosso, mentre queste rotazioni procedono senza intoppi, sotto la spinta ordinata di una legge eterna, portando sulla terra e nel mare un'enorme quantità di esseri animati e inanimati e sparpagliando nel cielo un gran numero di chiarissime stelle rilucenti secondo un ordine che le colloca ciascuna in un posto preciso e determinato. Né serve dimostrare come tutto quest'ordine non possa attribuirsi ad una materia cieca, che vaghi a caso, e come degli elementi aggregatisi fortuitamente possano restare sospesi nel vuoto, con tale e tanta arte da far sì che l'enorme mole della terra se ne rimangaimmobile a contemplare il cielo che le gira intorno nel solerte e veloce moto degli astri, e consentire che i mari s'insinuino nelle valli, rendendo le terre permeabili affinché i fiumi poi nel riversarsi non abbiano a straripare, e come infine da piccoli semi possano nascere organismi viventi tanto grandi. E anche quei fenomeni che sembrano oscuri e irregolari - cioè le piogge, le nubi, lo sprigionarsi e l'abbattersi dei fulmini, le lave incandescenti che traboccano dai crateri dei vulcani, le scosse della terra che vacilla sotto i nostri piedi e tutti quegli altri rivolgimenti che si verificano nell'atmosfera che circonda la terra - per quanto imprevedibili, non accadono senza una ragione, ma hanno anch'essi le loro cause, non meno di quei fenomeni che sembrano miracoli inquanto accadono in luoghi diversi da quelli in cui, secondo noi, dovrebbero verificarsi, come le sorgenti d'acqua calda nel bel mezzo del mare o l'emergere improvviso di nuove e vaste isole nell'immensità dell'oceano. Se poi osserviamo le spiagge prosciugarsi e ribagnarsi nel moto alterno delle onde che cadenzando si ritraggono e rifluiscono in breve spazio di tempo, possiamo mai pensaree che questo flusso e riflusso, che ora cede ed ora riconquista la propria sede, sia dovuto al caso? Al contrario, le onde crescono e si riversano sulla spiaggia con un ritmo periodico, in giorni ed ore stabiliti, alzandosi e abbassandosi secondo l'attrazione esercitata dalla luna, che determina appunto il rigonfiarsi e lo straripamento della massa marina. Ma rimandiamo ad altro tempo la discussione su tutti questi fenomeni, tanto più per il fatto che tu non metti in dubbio la provvidenza, ma te ne lamenti: io voglio riconciliarti con Dio e dimostrarti che non è ingiusto coi buoni. Del resto è legge di natura che un bene non possa nuocere ad un altro bene. Tra gli uomini virtuosi e la divinià c'è uno stretto legame di amicizia, costituito dalla virtù, anzi un legame più che di amicizia, costituito dalla virtù, anzi un legame più che di amicizia di parentela e di somiglianza inquantoché l'uomo buono differisce da Dio solo per via del tempo, voglio dire perché non è eterno come lui, che, da quel padre meraviglioso che è, ma anche esigente in fatto di virtù, lo educa quale suo figlio vero, e discepolo ed emulo, più duramente di quanto non educhi gli altri, come del resto fanno tutti i padri severi. Perciò quando vedi gli uomini buoni - che come ho detto sono cari a Dio - affannarsi, sudare e arrampicarsi lungo difficili pendii, mentre i malvagi se la spassano e nuotano nei piaceri lascivi della carne, pensa quanto ci diletti vedere i nostri figli costumati di fronte a quelli, sfacciati, della servitù, e come mentre i nostri li teniamo a freno con una dura disciplina alimentiamo così la sfrontatezza degli altri. La stessa idea devi farti di Dio: Egli non tiene l'uomo buono in mezzo ai piaceri, ma lo mette alla prova, lo irrobustisce, e in questo modo lo fa degno di sé. "Ma se vuole farli degni di sé, per quale ragione Dio manda ai buoni tante discrazie?" Innanzitutto ti ripeto che a un uomo buono non pu&ogravo; capitare nulla che possa dirsi propriamente un male: i contrari, infatti, non si mescolano fra loro. Come la quantità dei fiumi, delle piogge che cadono dal cielo e delle sorgenti curative non altera la salsedine del mare, né tanto meno l'elimina, così l'assalto delle avversità non intacca l'animo dell'uomo forte: questi rimane saldo nel suo stato e nelle sue convinzioni, piegando gli eventi a sé, non sé agli eventi, perché ha un potere superiore a tutto ciò che lo circonda. Non dico che sia insensibile alle avversità, dico che le vince, e anche se abitualmente è tranquillo e pacifico, quando quelle gli si buttano addosso sa ergervisi contro e rintuzzarle. Per lui le avversità non hanno altra funzione ed altro scopo che di esercitare la sua virtù. E quale uomo, degno di questo nome, che sia dedito all'onestà, non aspira ad essere all'onestà, non aspira ad essere messo giustamente alla prova, o non è pronto a fare il suo dovere anche sapendo di rischiare? Così l'ozio è una sofferenza per chi sia nato all'azione. Guarda gli atleti, che, attenti come sono alle proprie forze, si battono con avversari più gagliardi di loro, anzi, durante l'esercitazione, chiedono e pretendono dagli allenatori che li preparano alla gara di scaricargli contro tutte le loro energie, e incassano colpi su colpi, e se non trovano uno che sia almeno pari a loro, si battono contemporaneamente con più di un avversario. La virtù si rammollisce se non ha chi la contrasti, e solo quando dimostra quale peso può reggere rivela la sua grandezza e la sua forza. Convinciti dunque che l'uomo buono deve comportarsi nel medesimo modo: non temere durezze e difficoltà, non lagnarsi se il destino gli &avverso, accogliere come un bene, o trasformarlo in tale, qualunque male gli accada; e non importa quale ma come egli riesce a sopportarlo. Guarda la differenza fra l'amore di un padre e quello di una madre: il padre esige che i figli s'alzino di buon'ora per dedicarsi alle loro occupazioni, non vuole che riposino neppure nei giorni festivi, gli fa versare lacrime e sudore; la madre, invece, vorrebbe coccolarseli in seno, fargli scudo, a difesa d'ogni tristezza, d'ogni pianto e fatica. Ebbene, Dio verso i buoni ha l'animo di un padre, li ama, ma senza debolezze o cedimenti, e dice: "Le fatiche, i dolori e le sventure li tengono sempre vigili, così acquisteranno una forza autentica, vera". Le bestie che ingrassano nell'inoperosità s'indeboliscono e non solo non sono capaci di compiere alcuno sforzo ma non riescono nemmeno a muoversi e a sostenere il loro stesso peso. Una felicità che non conosca assalti al minimo colpo vacilla, chi invece è costretto a lottare incessantemente contro le avversità della vita finisce col farci il callo e non cade davanti ad alcun male, e anche se cade continua a combattere in ginocchio. Ora ti meravigli che un Dio così amorevole verso i buoni, che desidera ottimi e superiori agli altri, assegni loro un destino che li tenga sempre addestrati? Io, per me, non mi meraviglio affatto se talvolta gli viene il ghiribizzo di vedere degli uomini virtuosi alle prese con qualche disgrazia. Anche a noi piace spesso guardare un giovane deciso e valoroso attendere a pie' fermo, col giavellotto in pugno, la belva che s'avventa contro di lui, il balzodel leone, senz'alcuna paura, e lo spettacolo ci è tanto più gradito quanto più coraggioso è colui da cui ci viene offerto. Ma non a simili imprese si volge l'occhio di Dio: questi sono giochetti puerili, passatempi dell'umana leggerezza. Ecco invece uno spettacolo degno di essere guardato da un Dio intento alla sua opera, ecco l'uguale, pari alla divinità: un uomo forte in lotta contro la sorte avversa, e meglio ancora se quella lotta l'ha provocata lui. Non so davvero quale spettacolo più bello potrebbe vedere Dio sulla terra, quando volesse volgervi lo sguardo, di quello di Catone, che a dispetto delle tante sconfitte subite dai suoi se ne sta dritto in mezzo alla generale rovina. Sembra che dica: "Pur se ogni cosa è caduta sotto il dominio di Cesare e ormai le sue legioni presidiano la terra e le sue flotte il mare e i suoi soldati battono alle porte, Catone ha come uscirne: con una sola mano saprà aprirsi la strada verso la libertà! Codesta spada, rimasta pura e innocente anche nella guerra civile, compirà finalmente una buona e nobile impresa: darà a Catone quella libertà che egli non potè dare alla patria. Esegui, animo mio, quel gesto già meditato da tempo, ritirati dalle vicende umane! Giuba e Petreio si sono già scontrati e son caduti l'uno per mano dell'altro: un patto di morte nobile e coraggioso, ma che non si addice alla grandezza di Catone: per lui sarebbe una vergogna chiedere ad altri la morte, come pure la vita". Sono certo che Dio avrà guardato con somma gioia la scena di quest'uomo così deciso in quel suo gesto liberatore, dopo aver atteso alla salvezza degli altri organizzandone la fuga, un uomo che dedicò allo studio anche l'ultima notte, e che alla fine s'immerse la spada nel petto immacolato aprendosi le viscere con le sue stesse mani, per liberare così la sua santissima anima che il contatto del ferro avrebbe indegnamente contaminato. Dio non si accontentò di vederlo morire d'una morte istantanea - e perciò la ferita prodotta dalla spada fu imprecisa e poco efficace - ma volle prolungare il suo coraggio perché quel gesto si ripetesse più volte, in una prova sempre più dura: il vero eroismo, infatti, non sta tanto nell'affrontare la morte quanto nel provocarla ripetutamente. E perché Dio non avrebbe dovuto compiacersi di guardare un figlio suo che se ne usciva dalla scena del mondo con una fine così esemplare e memorabile? Una simile morte consacra l'uomo all'immortalità, ed è lodata anche da coloro che ne hanno paura. Ma, proseguendo nel mio discorso, ti dimostrerò come e perchè quelli che noi chiamiamo mali siano tali solo all'aspetto. Per ora ti dico questo, che quegli eventi che tu definisci difficili, avversi e detestabili, sono utili in primo luogo a quelle stesse persone che li subiscono e poi anche all'umanità, alla quale Dio guarda più nell'insieme che nei suoi singoli componenti; inoltre, che essi capitano a coloro che sono disposti ad accettarli, ché se non fossero accettati, allora sì sarebbero veramente dei mali e come tali sarebbero meritati. A chiarimento di questa mia affermazione aggiungerò che tali eventi, regolati dal destino, toccano ai buoni proprio perchè sono buoni. Poi ti convincerò a non compiangere mai un uomo buono, giacché egli è compassionevole solo all'apparenza, a chi lo guardi superficialmente, ma in realtà non lo è. Di tutti i punti della questione il più difficile a comprendersi mi sembra il primo, il fatto, cioè, che degli avvenimenti spaventosi e tremendi possano giovare a chi li riceve. "È forse un bene", mi dirai, "essere cacciati in esilio, ridursi in povertà, veder morti i propri figli, la moglie, essere tacciati d'infamia, cadere ammalati?" Ascolta: se ti meravigli che simili accidenti possano giovare a qualcuno, devi anche stupirti del fatto che in certi casi i malati vengano curati col fuoco e col ferro, oppure con la fame e con la sete. Se poi pensi che ad alcuni , per guarirli, vengono raschiate od asportate ossa, sfilate vene e tolte delle membra, che restano attaccate al corpo lo ucciderebbero, devi convenire che anche certe disgrazie sono di vantaggio a chi le subisce, così come certi piaceri, che pur sono lodati e desiderati, finiscono per nuocere a chi li ha goduti, simili alle indigestioni, alle ubriacature e ad altre cose del genere che uccidono proprio attraverso il piacere. Fra i detti memorabili del mio amico Demetrio c'è anche questo, fresco fresco, che ancor più infelice che una felicità senza disgrazie". Chi infatti non ha mai messo alla prova la sua felicità non è propriamente felice. Dio non si fa buon concetto di un uomo a cui tutto fili liscio, secondo i suoi desideri o addirittura anticipandoli; non può ritenerlo degno se non ha affrontato e vinto almeno una volta le avversità della sorte, la quale fugge i vigliacchi, quasi dicesse: "Perchè dovrei scegliermi costui come rivale? Non c'è gusto : deporrebbe subito le armi. Non potrei sperimentare contro di lui tutte le mie forze, quando una mia semplice minaccia lo abbatterebbe. Non reggerebbe neppure il mio sguardo. È meglio che mi cerchi qualcun altro con cui attaccar battaglia. Mi vergogno di battermi con chi rinuncia alla lotta e si dichiara vinto in partenza". Il gladiatore considera disonorevole l'essere messo di fronte ad un avversario meno forte di lui, perché sa che non c'è glorai in una vittoria senza rischi. Così fa pure la sorte: cerca rivali degni di lei. Certi uomini li guarda con disprezzo e passa oltre, assale solo i più decisi ed ostinati contro cui poter dirigere tutta la sua forza: usa il fuoco con Muzio, la povertà con Fabrizio, l'esilio con Rutilio, la torttura con Regolo, il veleno con Socrate, il suicidio con Catone. i grandi esempi sono possibili solo nella sventura. è forse infelice Muzio perchè impone la destra sul fuoco nemico punendola egli stesso per lo sbaglio commesso? Quella mano che armata non seppe uccidere il re e che ora, bruciata, riesce a metterlo in fuga? Sarebbe stato più lieto se quella mano l'avesse riscaldata nel seno dell'amante? È forse infelice Fabrizio quando vanga il suo campicello?, in quel tanto di libertà che gli rimane dagli affari di Stato? O perchè muove guerra contro Pirro e al tempo stesso contro le ricchezze? O perchè, seduto accanto al fuoco, si ciba di quelle stesse erbe e radici che di sua mano ha raccolto nel pulire il suo orto, lui, vecchio e glorioso trionfatore? Sarebbe forse stato più felice se si fosse rimpinzato di pesci provenienti dai lidi più lontani o di uccelli forestieri, se avesse stuzzicato il suo stomaco pigro e riluttante con le ostriche dell'Adriatico e del Tirreno, o guarnito con montagne di frutta la pregevole selvaggina catturata con tanta strage dai cacciatori? È infelice Rutilio, quando i giudici che gli hanno inflitto quella condanna dovranno risponderne alla Storia per tutti i secoli futuri? Lui, che ha sofferto di essere strappato alla patria con più serenità che se fosse scampato all'esilio? Infelice per aver lui solo risposto no al dittatore, quando, pur richiamato da Silla, non soltanto non ritornò ma fuggì ancora più lontano? "Se la sbrighino", gli disse, "quei disgraziati che in Roma sono rimasti abbindolatidalla tua felicità, quella felicità di cui usurpasti il nome, facendoti chiamare, per la tua era, Felice. Guardino i fiumi di sangue nel foro, le teste mozze dei senatori sulla fontana di Servilio, covo di assassini delle tue proscrizioni, le squadracce dei tuoi sicari sparpagliati per la città e le tante migliaia di romani trucidati in massa, dopo il pegno d'incolumità che gli era stato dato, anzi proprio per questo. Se lo guardi un tale spettacolo chi non ha il privilegio dell'esilio!" Ed è forse felice lo stesso Silla, quando, recandosi al foro, deve aprirsi la strada a colpi di spada, o quando gli si mostrano le teste dei consolari e fa segnare dal questore sui registri dello Stato le taglie da pagare per quelle stragi? Ed è lui che fa tutto questo, proprio lui che ha emanato la legge Cornelia contro i sicari e gli avvelenatori! Veniamo a Regolo, ora: quale danno gli fece mai la sorte?, quando lo assunse a modello di lealtà e di coraggio? I chiodi gli si conficcano nelle carni, dovunque si appoggi, il suo corpo straziato riceve ferite su ferite, i suoi occhi sono sospesi in una veglia senza fine; ma quanto più nero è lo strazio tanto più luminosa risplende la sua gloria. Vuoi sapere se si è pentito di aver pagato a questo prezzo la sua lealtà? Risucitalo e rimandalo in Senato: sarà sempre dello stesso parere. E ancora: credi tu più felice Mecenate, quando, eccitato dalle sue voglie amorose e mortificato dai quotidiani rifiuti di una moglie lunatica e capricciosa, cerca di conciliarsi il sonno al dolce suono di melodie lontane? Si stordisca pure col vino, si distragga allo scroscio fragoroso delle acque, inganni pure con mille piaceri il suo animo esulcerato: resterà sveglio sul suo letto di piume come Regolo sulla sua croce. Ma Regolo almeno ha il conforto di aver patito tale strazio in nome della sua lealtà, quando da quella sofferenza volge lo sguardo alla causa, nobilissima, che l'ha generata; Mecenate, invece, snervato dai piaceri e schiavo della troppa felicità, è tormentato più dalla causa della sua pena che dalla pena stessa. I vizi non sono ancora così padroni del mondo da far dubitare che se potessimo scegliere il nostro destino vi sarebbero più Regoli che Mecenati, o addirittura che se uno ardisse confessare di preferire a Regolo Mecenate, in realtà vorrebbe essere Terenia. Pensi che Socrate sia stato trattato male da Dio, quando bevve, come se fosse un filtro per l'immortalità, il veleno fornitogli dallo Stato e disputò sulla morte sino a che questa non lo ghermì? Che male gliene venne quando il sangue gli si gelò e, diffondendosi il freddo a poco a poco, la vita gli si spense nelle vene? Quanto più invidiabili è lui di fronte a chi beve nettari prelibati sentro coppe ingemmate, mentre magari un giovane lascivo, rotto ad ogni libidine, evirato o di sesso ambiguo, gli versa neve disciolta da un calice dorato! Uomini siffatti vomiteranno tutto ciò che han bevuto, sentendone il più totale disgusto nel riguardo della loro bile, mentre Socrate bevve lieto e tranquillo il suo veleno. Quanto a Catone se n'è già detto abbastanza, e tutti saranno concordi nel riconoscere che gli è toccato il massimo della felicità, visto che la natura lo ha scelto quale oggetto delle sue più terribili prove: "È pericoloso avere nemici potenti? Mettiamolo allora di fronte a Pompeo, a Cesare e a Crasso contemporaneamente. È umiliante essere scavalcati dai peggiori nelle cariche pubbliche? Posponiamolo a Vatinio. È duro trovarsi in mezzo ad una guerra civile? Combatta allora in tutto il mondo per una buona causa e con tanto insuccesso quanta è la sua ostinazione. È duro darsi la morte? lo faccia. A che pro tutto questo? Perchè gli uomini sappiano che non sono mali codesti, se ho giudicato Catone degno di simili prove". Considera ora questo: la buona fortuna può capitare anche ad un plebeo o ad una persona spregevole, ma è solo dell'uomo grande vincere le disgrazie e le paure. Inoltre l'essere sempre felici, il passare indenni la vita significa ignorarne l'altra metà. Come fai a sapere che sei un grand'uomo, se la sorte non t'offre l'occasione di dimostrare il tuo valore? Se scendi nell'arena dei giochi olimpici e ci sei solo tu a misurati puoi prenderti la corona ma non la vittoria, ed io non posso congratularmi con te come si fa con un uomo forte, posso solo stringerti la mano, come ad uno che ha conseguito la pretura o il consolato: un'onorificenza, niente di più. Lo stesso potrei dire ad un uomo buono se nessuna difficoltà di un certo rilievo gli ha mai dato modo di dimostrare la sua forza d'animo. "Ti giudico infelice perchè non sei mai stato infelice", così gli direi. "Hai passato la vita intera senza mai misurarti con qualcuno o qualcosa che ti contrastasse. Nessuno potrà mai sapere quanto vali in realtà, nemmeno tu stesso." Per conoscersi, infatti, bisogna dar prova di sé, le proprie forze non si apprendono se non sperimentandole. Per questo alcuni, invece di aspettarle, visto che quelle tardano a venire, vanno incontro alle disgrazie volontariamente e cercano loro l'occasione per mettere in luce una virtù che diversamente resterebbe nell'ombra. Gli uomini forti talvolta si rallegrano delle avversità come della guerra i soldati valorosi. Al tempo dell'imperatore Tiberio il gladiatore Trionfo - come io stesso ho potuto sentire - si lamentava della scarsezza di quelle competizioni: "un'età sprecata!", diceva. La virtù è avida di pericoli e guarda dritto alla meta, non a quel che devepatire, perché sa che anche le sofferenze fanno parte della gloria. I soldati valorosi sono fieri delle loro ferite e mostrano con gioioso orgoglio il sangue che cola dalla corrazza: anche se chi esce illeso da una battaglia ha compiuto le stesse imprese, la nostra ammirazione è maggiore per chi ne torna ferito. Dio, ripeto, si prende cura di quegli uomini che vuole perfetti, offrendo loro l'occasione di agire con coraggio e con fermezza, ma ciò comporta delle difficoltà: un buon timoniere lo si vede nella tempesta, come un buon soldato nella battaglia. Se nuoti nella ricchezza non posso sapere di quanta forza d'animo tu disponga per affrontare la povertà. Allo stesso modo come posso conoscere la tua fermezza di fronte all'infamia, al disonore e all'odio popolare, se invecchi fra gli applausi, se ti accompagna sempre un consenso generale che non conosce crolli e oscillazioni perchè dovuto a un moto di simpatia spontanea verso di te? Come posso sapere con quale animo sei in grado si sopportare la perdita di uno dei tuoi figli, se quelli che hai generato li hai tutti vivi e presenti davanti a te? So, per averti sentito, che sei bravo a consolare gli altri, ma sarestti capace di fare altrettanto con te, anzi, di non soffrire per niente? In nome di Dio, non abbiate timore di tutti questi mali, che sono solo degli stimoli per provare l'animo umano! La sventura non è che un pretesto per mettere a nudo la virtù. Si possono dire infelici, e giustamente, quelli che ipigriscono in un'eccessiva felicità, a cui un'inerzia stagnante impedisce persino di muoversi, come non ci si muove su un mare liscio e tranquillo non intaccato dal vento. Sono infelici perchè non solamente i mali ma qualunque cosa gli accada li troverà impreparati: le disgrazie infatti fanno più male a chi non le ha mai provate. Il giogo, insomma, pesa sui colli delicati, la recluta si sbianca al solo pensiero di una ferita, il veterano, invece, guarda impassibile il proprio sangue in quanto sa che a questo deve le sue vittorie. Perciò Dio mette alla prova, irrobustisce e tiene in esercizio quelli che ama ed apprezza, mentre lascia indifesi di fronte alle disgrazie proprio quelli che sembra prediligere e risparmiare. Ma poi nessuno è completamente immune dai mali: anche chi è stato a lungo felice avrà la sua parte d'ìinfelicità, sarà solo una proroga, non un'esclusione. "Perchè allora", mi dirai, "tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori?" Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti. Come un generale sceglie i soldati più abili per le sortite notturne contro il nemico, per esplorare la strada o togliere di mezzo un avamposto - e nessuno di quelli pensa di essere malvisto dal comandante ma al contrario ciascuno è convinto di essere nelle sue grazie - così da Dio, e così devono dire coloro ch'Egli chiama alla sventura, di fronte alla quale si arrendano soltanto i timidi e i vigliacchi: "Dio ci ha prescelti per mostrare al mondo quanto sia forte la natura umana". Così parlano costoro. Fuggite, o uomini, i piaceri, fuggite la molle prosperità che svigorisce l'animo, stordito come in un'eterna ebbrezza, se non s'imbatte in qualcosa che lo risvegli, che lo faccia riflettere sulla fragilità del nostro destino mortale! Chi tiene sempre chiusi i vetri delle finestre perché non passi un filo d'aria, chi si ripara i piedi dal freddo con pannicelli o scaldini rinnovati continuamente e pranza in sale riscaldate da tubature che passano sulle pareti e sotto il pavimento, è fatale che si ammali al minimo soffio di vento. Come ogni eccesso nuoce, così anche una smodata felicità è dannosissima: fa infatti girare la testa, evoca nella mente fantasie strane, frammette una diffusa nebbia tra il falso e il vero. Meglio sopportare un'infelicità senza fine sostenuti dalla virtù, piuttosto che schiattare tra infiniti e sfrenati piaceri. Meglio morire di fame che non d'indigestione. Dio si comporta con i buoni come un maestro con i suoi scolari: pretende di più da coloro qui quali conta di più. Non è certo per odio che gli Spartani fanno frustare pubblicamente i loro figliuoli, ma per temprarne il carattere. E i padri stessi, del resto, li esortano a sopportare le nerbate con forza e con coraggio, e anche quando i loro corpi sono già pieni di piaghe e come privi di vita li persuadono a nuovi colpi e a nuove ferite. Che c'è di strano, dunque, se Dio tenta con dure prove gli animi generosi? Non è facile dar segno della propria virtù. Sopportiamo le piaghe della sorte, quando essa ci assale e ci flagella, non per masochismo, ma perché si tratta di una battaglia, e saremo tanto più forti quanto più spesso la sosterremo. La parte più robusta del nostro corpo è quella sottoposta a stimoli maggiori e più frequenti. Dobbiamo esporci agli assalti della cattiva sorte per uscire rafforzati dalle sue stesse percosse: sarà lei a poco a poco a farci uguali a sè e la continua familiarità col rischio ce ne darà anche il disprezzo.È cosí che il fisico dei marinai s'incallisce alla rigida vita del mare e le mani dei contadini s'induriscono al lavoro. Non c'è disprezzo del male se prima non lo si sopporta, e se si vuole avere un'idea di quanta pazienza sia capace l'uomo si guardi quanto renda la fatica a quei popoli che sono privi di ogni cosa e fatti duri dal bisogno. Osserva tutte quelle genti a cui si è spinta la pace romana, intendo dire i Germani e quanti altri s'incontrano errabondi nella regione dell'Istro: un inverno continuo, interminabile, un cielo grigio li opprime, una terra infeconda li nutre a malapena; si riparano dalla pioggia in capanne di paglia e di rami, camminano su acque stagnanti indurite dal gelo e vanno a caccia di belve, loro unico cibo. Ti sembrano infelici? No, non c'è infelicità in ciò che l'abitudine ha trasformato in una condizione di vita naturale, tanto che quel che s'è cominciato a fare per necessità a poco a poco diventa persino piacevole. Quei nomadi non hanno altra casa, altra dimora che quella occasionale in cui li porta di giorno in giorno, per riposarsi, il loro spostarsi continuo e senza meta. Perdipiù vanno a corpo nudo, in un clima così rigidamente ostile, mangiano poco e quel poco devono procurarselo con le proprie mani. Ebbene, questa che a te sembra una disgrazia, per tanti popoli è la vita. Non ti stupire, dunque, se gli uomini buoni sono così tartassati, in ciò sta appunto la loro forza. Un albero non diventa solido e robusto se non è continuamente investito dal vento e sono queste raffiche che ne fanno il fusto compatto e ne rinsaldano le radici, che si abbarbicano con maggior forza al terreno; fragili sono invece quegli alberi che crescono in una valle tranquilla, esposta solo ai raggi del sole. Perciò nel loro stesso interesse, affinchè nulla possa atterrirli, è necessario che i buoni attraversino spesso esperienze dolorose, sopportando con animo sereno ciò che non è di per se stesso un male ma che diventa tale solo per chi non è disposto a sopportarlo. Va poi considerato un altro fatto: è nell'interesse di tutti che i migliori siano, per così dire, sempre sotto le armi. Il fine di Dio, che poi è anche quello dell'uomo saggio, è di dimostrare che tutto ciò che si desidera o si teme non è né buono né cattivo, di per sé. Dovrebbe essere un bene ciò che Dio concede solo ai buoni e un male ciò che assegna solamente ai cattivi, ma noi detesteremo la cecità se perdessero gli occhi soltanto quelli che lo meritano, quindi è necessario che perdano la vista anche un Appio e un Metello. Le ricchezze non sono un bene e perciò le possiede pure un magnaccia come Elio, così gli uomini che hanno consacrato il denaro nei templi possono vederlo anche nel postribolo. Dio non avrebbe potuto inventare un espediente migliore per togliere valore alle cose desiderate dagli uomini che dandole ai peggiori e negandole ai migliori. "Ma non è giusto", mi dirai, "che un uomo buono perda una gamba, sia storpiato, trafitto o incatenato, e i cattivi invece se ne vadano in giro col corpo integro e sano, tutti sciolti e schizzinosi." Ah no? E allora è giusto che uomini forti prendano le armi, passino le notti negli accampamenti e montino di vedetta con le ferite ancora fasciate, mentre in città i pervertiti se ne stanno al sicuro esercitando il loro sporco mestiere? È giusto che delle nobili vergini si alzino di notte per compiere riti sacri mentre le provergini si alzino di notte per compiere riti sacri mentre le prostitute se la dormono saporitamente? La fatica chiama i migliori. Il Senato passa spesso in sedute l'intera giornata e intanto gli sfaccendati nel Campo Marzio si trastullano col loro dolce gli sfaccendati nel Campo Marzio si trastullano col loro dolce far niente, si chiudono in una bettola o consumano il tempo in qualche circolo. Lo stesso accade in questo grande Stato che è l'umana società, dove sono i buoni a faticare, ad impegnarsi, a lasciarsi impegnare, e lo fanno anche volentieri. Non subiscono la sorte passivamente ma le vanno dietro e si mettono al passo con lei; la precederebbero pure, se conoscessero la strada. Mi ricordo di avere udito da quel fortissimo uomo di Demetrio anche queste ardite parole: "Dio immortale, di una sola cosa ti rimprovero, di non avermi fatto conoscere in anticipo la tua volontà: mi sarei infatti mosso io per primo a quella prova a cui tu ora mi chiami. Vuoi qualche pezzo del mio corpo? Prendilo: non posso darti molto ma presto te lo restituirò tutto intero. Lo vuoi subito? Sia: perché dovrei indugiare a rimettere nelle tue mani ciò che tu m'hai prestato? Sono pronto a restituirti, e di buon grado, tutto ciò che vorrai chiedermi. Questo solo mi dispiace, che avrei preferito offrirti tutte queste cose come beni miei personali, che non si trattasse, cioè, di una restituzione. Con me non avevi bisogno di riprendertele, quando io te le donavo spontaneamente. Ma anche così, dopotutto, non me le porti via, perchè si porta via una cosa solo a chi vuole tenersela". Io non mi sento né sono costretto ad alcunché da niente e da nessuno, nulla patisco o faccio contro la mia volontà inquanto il mio volere è il volere di Dio, con cui concordo pienamente e di cui quindi non sono schiavo, perché so che tutto si svolge secondo una legge ben precisa e progettata per l'eternità. È il destino che ci guida e tutta la nostra vita è stata già stabilita, sin dal momento della nascita, tutte le cause, tutte le situazioni, umane e non umane, sono interdipendenti, concatenate, l'una legata all'altra, in una lunga serie che determina i fatti, sia pubblici che privati. Bisogna dunque accettare tutto con coraggio, giacché, contrariamente a quel che noi crediamo, le cose non capitano a caso ma vengono tutte da una causa. Fin dal tempo dei tempi è stabilito di che uno goda o pianga e benché le vite dei singoli individui siano all'apparenza così diverse fra loro la conclusione, nell'insieme, è una sola: tutto è mortale, noi come le cosse che ci sono date. Perché dunque indignarsi? Perché lamentarsi? Siamo nati alla morte: la natura disponga dunque a suo piacimento di queste vite materiali che appartengono a lei, ma ciò ch'è nostro - l'anima, voglio dire - non morirà, ed è questa convinzione che deve renderci forti e sereni di fronte a tutto. L'uomo buono s'affida al destino: è un grande conforto, e anche un risarcimento, sentirsi trascinati con l'intero universo, suoi compartecipi in tutto. Consoliamoci, pensando come a quella legge di necessità, quale che essa sia, che ha stabilito per noi questa vita e questa morte, sia soggetto Dio stesso: un corso irrevocabile trascina con sé, parimenti, le cose umane e le cose divine. Dio, padre e reggitore di tutto il creato e di tutti i destini, non può non seguire le leggi ch'egli stesso ha fissato: una volta che le ha ordinate deve rispettarle sino alla fine. "Ma Dio", tu mi chiedi, "nel distribuire agli uomini le varie sorti, ha assegnato ai buoni povertà, ferite e morti premature: non è ingiustizia questa?" Ti rispondo subito. Il punto fondamentale è questo: l'artefice non può cambiare la materia, che per essere tale è soggetta a delle leggi precise, in virtù delle quali certe cose non si possono separare da altre, ma formano insieme ad esse come un tutt'uno, organico e indivisibile. Così, ad esempio, nell'uomo i caratteri deboli, portati al sonno, o ad una veglia molto simile ad esso, sono costituiti, necessariamente, da elementi inerti; per un uomo forte, invece, e degno di rispetto, ci vuole un tessuto più solido, giacché per lui è previsto un cammino difficile, dovrà salire, scendere, essere sballottato dalle onde, reggere la nave nella burrasca, mantenere dritta la rotta contro la sorte avversa, dovrà affrontare molti ostacoli, molti pericoli, ch'egli stesso però riuscirà a rimuovere e ad appianare, proprio perché tale è la sua costituzione. Come il fuoco prova l'oro, così la sventura gli uomini fortti. Ascolta sino a che punto il valore dell'uomo sia destinato a salire e vedrai perché il suo cammino non può andare per vie sicure e tranquille. Ardua è la strada all'inizio e tale che al primo mattino, anche se freschi, già stanchi sono i cavalli. La cima splende nel cielo più alto tanto ch'io stesso, se appena guardo la terra e il mare, son preso da un vile terrore. L'ultimo tratto discende, ma vuole una guida sicura: Teti, anche lei, nel profondo del mare che sempre m'accoglie palpita allora per me, temendo ch'io possa cadere. Quando quel valoroso giovinetto udì queste parole: "Salgo", esclamò: "mi piace questo cammino; vale la pena di farlo anche a costo di cadere". Ma il padre non cessò d'intimorire quell'animo ardimentoso: Quando tu voglia tenere, senza sbagliare, la strada, tieni diritto il corso conntro le corna del Toro, sino all'arco di Emonio, alle fauci del truce Leone. A queste parole: "Aggioga il carro", fece il giovinetto. "Ciò che dici per spaventarmi mi eccita ancora di più. Voglio salire là, dove lo stesso Sole si sgomenta." Lasciamo ai pigri e ai vili le vie piane e sicure: i valorosi salgono alle vette. Ora, quanto alla domanda perché mai Dio permette che ai buoni accada qualcosa di male, concluderò dicendo che in realtà non lo permette, che Egli, anzi, dal male li tiene lontani: essi infatti non compaiono delitti, non commettono infamie, non hanno pensieri malvegi, ambizioni smodate, la lussuria che accieca, l'avidità sembre bramosa dei beni altrui. Dio si prende cura dei buoni e li difende, ma si può mai pretendere che ne sorvegli pure i bagagli? Essi stessi del resto, lo dispensano dal far questo, quando non danno alcuna importanza a quei bagagli, voglio dire, alle cose sensibili e materiali. Democrito non si sbarazzò forse delle ricchezze, ritenendole un peso alla virtù? Perché dunque ti meravigli se Dio lascia che accada ad un uomo bono ciò ch'egli stesso vuole che gli accada? Gli uomini buoni perdono i propri figli. Ma se sono essi stessi che li uccidono, a volte? Sono cacciati in esilio. Ma se spesso sono loro a lasciare la patria per non farvi più ritorno? Vengono uccisi. E che? Non si tolgono forse essi stessi la vita, certe volte? Ma perché devono sopportare delle prove così dure? Per insegnare a sopportarle agli altri: "Cos'avete da rimproverarmi, voi che avete scelto la retta via? Gli altri li ho circondati di beni falsi, avvolgendo e illudendo le loro povere menti come in un lungo e ingannevole sogno, li ho rivestiti d'oro e d'argento, ma dentro non hanno niente che valga. Guardateli nell'intimo, non nel loro aspetto esteriore, quelli che chiamate felici,e vedrete quanto siano meschini, squallidi e turpi. Come le belle pareti delle loro case: così sono fuori, ma dentro!... La loro non è una vera felicità, è soltanto una crosta, e perdipiù sottile. Per questo, finché riescono a tenersi in piedi e a mostrarsi come gli piace, abbagliano e infinocchiano gli altri, ma appena barcollano o si scoprono per qualche improvviso accidente, allora si vede quanta reale ed estesa sporcizia si nascondeva sotto quello splendore artificiale. A voi buoni ho dato dei beni sicuri, durevoli, che quanto più si girano e si rigirano per guardarli da tutte le parti tanto più risultano splendidi e grandi; a voi ho concesso di non tenere in alcun conto le cose che agli altri fanno paura, di disprezzare le passioni. La luce vostra è di dentro, è lì che sono i vostri beni. Così l'universo non ha cura e non gioisce del suo aspetto esteriore, ma della sua intima essenza. Ogni mio bene io l'ho riposto in voi. La vostra felicità sta nel non aver bisogno di felicità. "Ma sono tanti i mali che ci colpiscono, dolorosi, terribili e duri a sopportarsi." Ed io, dal momento che non potevo privarvi di essi, vi ho dato le armi per combatterli. Sopportateli dunque con coraggio: in questo potete superare lo stesso Dio, perché Lui è al di fuori di ogni sopportazione, voi ne siete al di sopra. Disprezzate il dolore: o riuscirete a liberarvene o sarà lui a liberare voi. Disprezzate la morte: non è che una fine o un passaggio, per voi. Disprezzate la sorte: non le ho dato alcuna arma che possa colpire voi. Ma soprattutto ho disposto che nessuno al mondo possa costringervi ad alcunché contro il vostro volere. Per voi sempre aperta è l'uscita verso la libertà: se ritiene di non dover combattere, servitevene. Per questo fra tutte le prove necessarie a cui ho voluto sottoporvi non ne ho fatta nessuna più facile della morte. Ho posto la vostra anima come in un pendìo, sì che, volendo, invece di salire essa possa discendere ed andarsene via. Vi basta poco per capire quanto sia breve e spedita la strada che conduce alla libertà: non ho messo all'uscita della vita tante remore quante ne ho poste invece all'ingresso, giacché troppo grande sarebbe su di voi il potere della sorte se per morire occorresse tanto tempo quanto quello che ci vuole per nascere. Ogni momento, ogni luogo v'insegni quanto sia facile ricusare la natura, sbattendole in faccia il suo dono. Proprio là dove s'implora la vita, fra gli altari e i solenni riti sacrificali, imparate a conoscere la morte. Vedete come basti una piccola ferita per far piombare a terra un grosso toro e come un uomo con un solo colpo di mano riesca ad abbattere animali di grande forza, come una lama sottilissima sia sufficiente a spezzare la giuntura del collo e una volta recisa l'articolazione che lo connette alla testa l'intera mole del corpo precipiti giù. non è nel profondo che si cela la vita, noon c'è bisogno di alcun pugnale per estirparla, non serve esplorarne i precordi con una lunga ferita per ritrovarne il nodo: la morte è a portata di mano, non ho designato un punto fisso e preciso ai colpi che possono provocarla, qualunque strada le è aperta. Ed è così rapido l'istante in cui la morte si realizza, quando l'anima si stacca dal corpo, ch'è impossibile coglierne la velocità. Che un cappio vi strozzi la gola, che vi soffochi l'acqua, vi si fracassi la testa sopra la dura terra o il fumo di un incendio vi blocchi il ritmo del respiro, in qualunque modo la morte si affretta verso di voi. Ed è vergogna temere per tutto il corso della vita ciò che si compie in un fiat".
 
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view post Posted on 3/6/2009, 19:59

ottimo

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SENECA:DE TRANQUILLITATE ANIMI

A cura di Diego Fusaro



1. Ero immerso nell'introspezione, Seneca, ed ecco mi apparivano alcuni vizi, messi allo scoperto, tanto che potevo afferrarli con la mano: alcuni più nascosti e reconditi, altri non costanti, ma ricorrenti di quando in quando, che definirei addirittura i più insidiosi, come nemici sparpagliati e pronti ad attaccare al momento opportuno, con i quali non è ammessa nessuna delle due tattiche, star pronti come in guerra né tranquilli come in pace. 2. Tuttavia ho da criticare soprattutto quell'atteggiamento in me (perché infatti non confessarlo proprio come a un medico?), vale a dire di non essermi liberato in tutta sincerità di quei difetti che temevo e odiavo e di non esserne tuttavia ancora schiavo; mi ritrovo in una condizione se è vero non pessima, pur tuttavia più che mai lamentevole e uggiosa: non sto né male né bene. 3. Non devi dirmi che tutti i comportamenti virtuosi hanno esordi malfermi, e che col tempo essi guadagnano consolidamento e forza; non ignoro nemmeno che anche quelle attività che indirizzano i loro sforzi a guadagnare immagine, intendo le cariche pubbliche o la fama legata all'abilità oratoria e tutto ciò che punta sul favore della gente, si rafforzano con il tempo -sia quelle attività che forniscono vere forze sia quelle che per guadagnare favore si danno una qualche verniciatura artificiosa aspettano anni, finché a poco a poco la durata faccia assumere colore - ma io temo che la consuetudine, che consolida le cose, mi infigga più profondamente questo vizio nell'animo: la lunga frequentazione ingenera amore sia per i difetti che per le virtù. 4. Quale sia la debolezza del mio animo in bilico tra i due comportamenti, incapace di inclinare con forza verso la retta via o verso quella sbagliata, non posso indicartela tutta insieme bensì per parti; ti dirò quel che mi accade, tu troverai un nome al mio male. 5. Sono preda di un grandissimo amore per la parsimonia, lo confesso: mi piace un letto non preparato per l'ostentazione, una veste non tirata fuori dal forziere, non pressata da pesi e mille strumenti di tortura che la costringono a ostentare una bella piega, ma ordinaria e semplice, non di quelle che si conservano e si tirano fuori con ansia. 6. Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato 7. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia. 8. Pienamente soddisfatto di queste cose, mi attanaglia l'animo il fasto di un collegio di valletti, schiavi vestiti e adorni d'oro con più cura che per una processione solenne e una schiera di servi tirati a lucido, e poi una casa preziosa anche là per dove si cammina e persino i soffitti splendenti di ricchezze sparse per ogni angolo e la folla che fa da seguito e compagnia a patrimoni che vanno in fumo; a che dovrei parlare di profiuvi di acque limpide fino al fondo tutto intorno alle stesse mense, a che di banchetti degni della loro messa in scena?' 9. Il lusso si riversa con uno splendore diffuso intorno a me che vengo dal lungo letargo della mia frugalità e mi risuona intorno da ogni parte: la vista un poco vacilla, contro il lusso levo più facilmente l'animo che gli occhi; me ne vado dunque non peggiore ma più triste, e non così a testa alta tra quelle mie povere cose e un assillo segreto mi prende e il dubbio che quelle altre possano davvero essere migliori. Nulla di queste cose mi cambia, e tuttavia non c'è nulla che non mi agiti. 10. Mi piace seguire gli ordini dei miei maestri e dedicarnii alla vita pubblica; n?ti piace riportare onori e trionfi non certo perché attratto dalla porpora e dalle insegne del potere, ma per essere più sollecito e più utile agli amici, ai parenti e a tutti i concittadini, e insomma a tutti gli uomini. Seguo pronto Zenone, Cleante, Crisippo,8 dei quali nessuno fece carriera politica e tuttavia nessuno mancò di indirizzarci gli altri.11. Quando qualcosa colpisce il mio animo non avvezzo a essere urtato, quando mi si presenta qualche situazione spiacevole, come ce ne sono molte nella vita di ognuno, o di quelle che procedono poco agevolmente, oppure occupazioni di non gran conto mi richiedono troppo tempo, mi concedo del tempo per me e, come succede anche ai greggi stanchi, tomo più velocemente verso casa. 12. Mi piace chiudere la vita tra le sue pareti: "Che nessuno ci porti via alcun giomo, dato che non potrà renderci nulla che sia degno di tanta perdita; l'animo stia con se stesso, si coltivi, non si dedichi a nulla di estemo, a nulla che attenda il giudizio di altri; si cerchi una tranquillità priva di tormenti pubblici e privati." 13. Ma non appena una lettura più impegnativa mi innalza l'animo e nobili esempi fanno sentire il loro stimolo, mi piace corrermene nel foro, prestare ad uno la mia voce, a un altro il mio aiuto, che, se anche non sarà di alcuna utilità, tuttavia cercherà di esserlo, colpire l'arroganza di chi è ingiustamente insuperbito per il favore delle circostanze. 14. Nella pratica degli studi ritengo, davvero, che sia meglio tener presenti attentamente i contenuti stessi e parlare per questi, per il resto affidare le parole ai contenuti, affinché venga fuori un discorso non artificioso nella direzione in cui essi conducono: "Che bisogno c'è di creare opere destinate a durare nei secoli? Non vuoi tu cercare piuttosto che i posteri ti passino sotto silenzio! Sei nato per la morte, un funerale silenzioso crea meno fastidi. Così, scrivi qualcosa con semplicità per occupare il tempo ad uso personale, non perché si sappia in giro: occorre minor fatica a coloro che si applicano per l'oggi." 15. Ma di nuovo quando l'animo si eleva per la grandezza delle cose che pensa, si fa ambizioso anche nella ricerca delle parole e cerca di respirare e di parlare con maggiore sostenutezza e il discorso che vien fuori si conforma alla grandezza dei concetti; allora, dimentico della regola o del mio gusto più misurato mi faccio trasportare più in alto o "parlo con bocca non più mia". 16. Per non dilungarmi sui singoli aspetti, in tutte le occasioni mi accompagna questa incostanza di senno . ... Il Temo di scivolare giù a poco a poco o, cosa più preoccupante, di essere sempre in bilico come chi sta per cadere e che la situazione sia forse peggiore di quella che vedo io; infatti guardiamo con bonomia le cose che ci riguardano e la simpatia offusca sempre il giudizio.17 Penso che molti avrebbero potuto raggiungere la saggezza, se non avessero ritenuto di averla raggiunta, se non si fossero nascosti qualche loro manchevolezza, se non avessero sorvolato su qualcosa chiudendo gli occhi. Infatti non c'è ragione di credere che noi andiamo in rovina più per l'adulazione altrui che per la nostra. Chi è che ha mai osato dirsi la verità? Chi è che posto tra branchi di elogiatori e lusingatori non si è fatto tuttavia egli stesso grandissimo adulatore di Sé? 18 Ti prego dunque, se hai un qualche rimedio con cui tu possa por fine a questo mio fluttuare, di ritenermi degno di dovere a te la tnia tranquillità. Che non siano pericolosi questi moti dell'animo e che non portino con sé nessun vero sconvolgimento lo so; per esprimerti ciò di cui mi lamento con una similitudine appropriata, non sono tormentato da una tempesta, ma dal mal di mare: toglin?ù dunque questo malessere, quale che sia, e vieni in aiuto di un naufrago che ancora tribola già in vista della terraferma. 1. Mi vado chiedendo, perbacco, già da un po', Sereno, tra me e me ?, a che cosa potrei assimilare tale affezione dell'animo, e non saprei avvicinarla di più a nessun esempio che a quello di quanti, usciti da una malattia lunga e grave, di tanto in tanto sono colpiti da piccoli attacchi di febbre e da episodi di leggero malessere e, quando si sono ormai sottratti alle residue manifestazioni del male, tuttavia si fanno turbare da quelli che giudicano sintomi e, orinai guariti, tendono la mano ai medici e sovrainterpretano ogni rialzo di temperatura. Di costoro, Sereno, non è poco sano il corpo, ma troppo poco si è abituato alla salute, così come è presente un qualche tremolio anche nella marina tranquilla, specie quando è uscita da una tempesta. 2. C'è bisogno dunque non di quei provvedimenti più duri che orinai ci siamo lasciati alle spalle, cioè che a volte tu lotti con te stesso, altre monti in collera con te, altre ancora ti incalzi pesantemente, ma di quello che viene da ultimo, che tu abbia fiducia in te stesso e creda di procedere per la strada giusta, non facendotene assolutamente distogliere dalle orme incrociate dei molti che vagano in tutte le direzioni, di alcuni che sbandano proprio ai margini della strada. 3.Quanto a ciò di cui senti la mancanza, è qualcosa di grande, di eccelso, di vicino a dio, il non essere turbato. Questa stabilità dell'animo, sulla quale c'è quel volume egregio di Democrito, i Greci la chiamano "euthymia", io la chiamo tranquillità; infatti non è necessario imitare e traslitterare un termine secondo la forma greca: lo stesso oggetto di cui si tratta va contrassegnato con un nome, che deve avere l'efficacia, non l'aspetto della dizione greca. 4.Dunque noi ci chiediamo in che modo gli stati d'animo possano seguire un andamento sempre regolare e favorevole e l'animo sia propizio a se stesso e guardi con contentezza a ciò che lo concerne e non interrompa questa felicità, ma rimanga in uno stato di benessere, senza mai esaltarsi o deprimersi: questo costituirà la tranquillità. In che modo si possa pervenire ad essa cerchiamolo in generale: tu prenderai dalla medicina comune quanto vorrai. 5. Frattanto va esposto alla vista di tutti il male nella sua interezza, e ciascuno potrà riconoscere la parte che è sua; tu capirai subito quanto minor imbarazzo costi a te il disprezzo di te stesso rispetto a quanti, legati a una professione di immagine e affaticati dal peso della loro alta dignità ufficiale, sono costretti a recitare una parte dal pudore più che dalla volontà. 6. Tutti si trovano nella stessa condizione, sia quanti sono tormentati dall'incostanza e dal tedio16 e dal continuo mutamento dei propositi, ai quali sempre piace di più ciò che hanno lasciato, sia quelli che si lasciano marcire tra gli sbadigli. Aggiungi quelli che si agitano non diversamente da quanti hanno il sonno difficile e si mettono in questa o in quell'altra posizione finché non trovano pace per stanchezza: cambiando continuamente modo di vivere da ultimo si fermano in quello in cui li sorprende non il fastidio per i cambiamenti ma la vecchiaia restia ai rinnovamenti. Aggiungi anche quelli che sono poco duttili non per colpa della loro fermezza, ma per colpa della loro inerzia, e vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato. 7. Di qui innumerevoli sono le caratteristiche, ma uno solo l'effetto del male, l'essere scontenti di sé. Questo trae origine dall'incostanza dell'animo e da desideri timidi o poco fortunati, laddove gli uomini o non osano quanto vogliono o non lo ottegono e sono tutti protesi nella speranza; sono sempre instabili e mutevoli, il che è inevitabile succeda a chi sta con l'animo in sospeso. Tendono con ogni mezzo al soddisfacimento dei loro desideri, e si addestrano e si costringono a obiettivi disonorevoli d ardui, e quando la loro fatica è priva di premio, li tormenta il disonore che non ha dato frutto, né si rammaricano di aver teso a obiettivi ingiusti, ma di averlo fatto invano. 8. Allora li prende sia il pentimento di quello che hanno intrapreso sia il timore di intraprendere altro e s'insinua in loro quell'irrequietezza dell'animo che non trova vie d'uscita, poiché non possono né dominare i loro desideri né assecondarli, e l'irresolutezza di una vita che non riesce a realizzarsi e l'inerzia dell'animo che s'intorpidisce tra desideri frustrati. 9. E tutto ciò risulta più grave, laddove per il disgusto di una vita infelice piena di impegni si sono rifugiati nell'ozio, nella vita privata, condizione che non può sopportare un animo teso all'impegno civile e desideroso di agire e per natura insofferente del quieto vivere, che ? si capisce ? trova in sé poco conforto; perciò, tolti i piaceri che gli stessi impegni dispensano a chi corre da tutte le parti, non sopporta casa solitudine pareti, a malincuore si guarda abbandonato a se stesso. 10. Di qui quella noia e quel disgusto di sé, e l'irrequietezza dell'animo che non trova mai un dove, e la triste e penosa sopportazione del proprio ozio, soprattutto quando si ha ritegno nell'ammetterne le cause e il pudore ha ricacciato dentro le ragioni del tormento, mentre le passioni bloccate in uno spazio angusto si soffocano a vicenda senza trovare sbocchi; di lì mestizia abbattimento e mille ondeggiamenti della mente incerta, tenuta in sospeso dalle speranze accarezzate, intristita da quelle abbandonate; di lì quello stato d'animo di quanti detestano il loro ozio, lamentano di non aver nulla da fare e la terribile invidia verso i successi altrui. Infatti l'inerzia infelice" alimenta il livore e desiderano che tutti cadano in rovina, perché loro non hanno potuto progredire; 11.quindi da questo avversare i progressi altrui e dal disperare dei propri l'animo passa ad adirarsi contro la sorte e a lamentarsi dello spirito dei tempi e a ritirarsi negli angoli e a covare la propria pena, mentre prova fastidio e disgusto di sé. Infatti per natura l'animo umano è attivo e portato al movimento. Gli è gradita ogni occasione di muoversi e distrarsi, più gradita a tutti i peggiori soggetti che volentieri si consumano nelle occupazioni; come certe ferite vogliono il contatto con le mani che pure recheranno loro dolore e godono a sentirlo, e la turpe scabbia prova piacere da qualunque cosa la esasperi, non diversamente direi che per queste menti, in cui le passioni sono esplose come una dolorosa ferita, sono motivo di piacere il travaglio e il tormento. 12. Ci sono infatti cose che possono far piacere anche al nostro corpo recandogli un certo dolore, come voltarsi e girare il fianco non ancora stanco e rigirarsi continuamente ora in una posizione ora in un'altra, qual è quel famoso Achille descritto da Omero ora prono, ora supino, che assume varie posizioni ? il che è proprio di un malato: non sopportare nulla a lungo e ricorrere ai cambiamenti come a medicine. 13.Per questo si intraprendono peregrinazioni in lungo e in largo e si attraversano lidi inospitali e ora per mare ora per terra fa prova di sé la loro incostanza sempre nemica del presente: "Ora andiamo in Campania." Subito i luoghi raffinati vengono a noia: "Si vada a vedere luoghi selvaggi, visitiamo le balze del Bruzio e della Lucania." Tuttavia in mezzo ai luoghi desolati si cerca qualcosa di piacevole, in cui gli occhi abituati al lusso possano trovar sollievo dal prolungato spettacolo di squallore dei luoghi aspri: "Rechiamoci a Taranto, al suo porto elogiato e al soggiorno invernale di un clima più mite e a una terra abbastanza ricca anche per la popolazione di un tempo." "Ormai volgiamo la rotta verso Roma": troppo a lungo le orecchie sono restate libere dagli applausi e dal chiasso, ormai fa piacere godere della vista del sangue umano. Si intraprende un viaggio dietro l'altro e si alternano spettacoli a spettacoli. 14. Come dice Lucrezio, "in questo modo ciascuno fugge sempre se stesso." Ma a che gli serve, se non riesce a sfuggirsi? sempre si segue e si C incalza da solo, compagno di viaggio insopportabile. Dunque dobbiamo sapere che non è dei luoghi la colpa per cui ci tormentiamo, ma nostra:24 siamo incapaci di tollerare tutto, non sopportiamo la fatica né il piacere né noi stessi né nessuna cosa troppo a lungo. Questo ha portato alcuni alla morte, il fatto che spesso cambiando propositi finivano per ritornare ai medesimi e non avevano lasciato spazio alla novità: cominciarono ad esser loro motivo di fastidio la vita e lo stesso mondo e si insinuò in loro quel famoso dubbio proprio di una raffinatezza marcescente: "fino a quando le stesse cose?" 1. Contro questa insofferenza chiedi di quale aiuto io pensi ci si debba servire. Il meglio sarebbe stato, come diceva Atenodoro tenersi occupati nell'azione e nell'impegno politico e nei doveri civili. Infatti, come alcuni passano la vita all'aria aperta e nell'esercizio e nella cura del corpo e per gli atleti è di gran lunga la cosa più utile nutrire per gran parte del tempo la forza dei loro muscoli, alla quale si sono dedicati totalmente, così per voi che preparate l'animo alla lotta politica è di gran lunga la cosa preferibile darsi all'azione; infatti, avendo il proposito di rendersi utile ai cittadini e agli uomini in generale, si esercita e nello stesso tempo ne trae giovamento chi si è immerso nelle occupazioni curando - in base alle sue possibilità - il pubblico e il privato. 2. "Ma poiché - diceva - in questa così dissennata ambizione degli uomini, in presenza di tanti detrattori che distorcono in peggio le azioni oneste, la sincerità è troppo poco sicura ed è sempre più probabile si verifichi un intoppo piuttosto che un successo, è necessario ritirarsi dal foro e dalla vita pubblica, ma un animo grande anche in privato ha dove dar ampia prova di sé; e per gli uomini non è lo stesso che per i leoni e le bestie, la cui forza è soffocata dalla cattività: le loro azioni risultano anzi efficacissime nel ritiro . 3. Tuttavia starà nascosto cosi che, in qualunque luogo abbia tenuto celato il suo ritiro, voglia giovare ai singoli e alla collettività con l'intelligenza, la parola, la saggezza; infatti non si rivela utile allo stato soltanto colui che promuove i candidati e difende gli accusati e decide della pace e della guerra, ma anche colui che esorta i giovani, che in tanta carenza di buoni insegnamenti instilla la virtù negli animi, che sa bloccare e tirare indietro quelli che si gettano di corsa verso il denaro e il consumo sfrenato e, se non altro, almeno li trattiene, costui in privato svolge un compito di ordine pubblico. 4. Ma fa forse di più colui che tra i forestieri e i concittadini o in qualità di pretore urbano a quanti gli si rivolgono pronuncia le parole di un assistente rispetto a chi dice che cosa sia la giustizia, che cosa il senso del dovere, che cosa la sopportazione, che cosa la forza d'animo, che cosa il disprezzo della morte, che cosa la nozione degli dei, che bene sicuro e incondizionato sia la buona coscienza? 5. Dunque, se convertirai agli studi il tempo che avrai saputo sottrarre ai doveri pubblici, non avrai disertato né ti sarai sottratto al tuo servizio. Infatti non milita soltanto chi è sul campo e difende l'ala destra e quella sinistra, ma anche chi sorveglia le porte e si vale di una postazione meno pericolosa, ma non certo oziosa e osserva i turni di guardia e ha la responsabilità dell'arsenale; i quali compiti, benché siano incruenti, sono nel novero dei servizi militari. 6. Se saprai richiamarti agli studi, fuggirai ogni forma di fastidio della vita e e non desidererai che venga la notte per noia della luce, non sa rai di peso a te stesso né di troppo per gli altri; attrarrai molti nella tua amicizia e tutti i migliori verranno da te. Infatti la virtù non resta mai in incognito, per quanto nascosta, ma manda segni di sé: chiunque ne sarà degno, la recupererà dal le tracce. 7. Infatti se eliminiamo ogni frequentazione degli altri e rinunciamo al genere umano e viviamo concentrati unica mente in noi stessi, farà seguito a questo stato di solitudine priva di ogni interesse la mancanza di cose da fare: cominceremo a costruire edifici e a distruggerne altri, e a sconvolgere il mare e a condurre corsi d'acqua contro le difficoltà dei luoghi e a distribuire male il tempo che la natura ci ha dato da impiegare. 8. Alcuni di noi ne fanno uso con parsimonia, altri con prodigalità; alcuni di noi lo spendono in modo da poter ne rendere conto, altri in modo da non lasciarne alcun resi duo, cosa di cui niente è più vergognoso. Spesso una persona molto anziana non ha nessun altro argomento con cui provare di essere vissuta a lungo se non l'età." 1. A me sembra, carissimo Sereno, che Atenodoro si sia piegato troppo ai tempi, si sia ritirato troppo presto. E io non sono qui a escludere che a un certo punto ci si debba ritirare, ma arretrando a poco a poco e con le insegne intatte, salvaguardando l'onore delle armi: risultano più rispettati e più sicun quanti si consegnano ai nemici con le armi in pugno. 2. Questo è ciò che penso sia il compito della virtù e di uno che ama la virtù: se la sorte avrà il sopravvento e reciderà la possibilità di agire, non si dia subito alla fuga volgendo le spalle e gettando le anni, cercando rifugio, quasi che esista davvero un luogo nel quale la sorte non possa raggiungerlo, ma si dedichi agli impegni pubblici con maggiore misura e scelga qualche occupazione in cui possa rendersi utile alla cittadinanza. 3. Non gli è permesso prestare servizio militare: si candidi a cariche pubbliche. Deve vivere da privato cittadino: faccia l'oratore. t costretto al silenzio: aiuti i cittadini con una assistenza legale tacita. Gli è pericoloso anche l'ingresso nel foro: nelle case, agli spettacoli, durante i banchetti faccia il buon compagno, l'amico fidato, il convitato sobrio. Ha perduto gli incarichi del cittadino: svolga quelli dell'uomo. 4. Per questo noi con animo grande non ci siamo voluti chiudere nelle mura di una sola città, ma ci siamo aperti alla relazione con tutto il mondo e abbiamo affen?nato di avere il mondo come patria, perché fosse possibile offrire alla virtù un campo più vasto. Ti è precluso il tribunale e ti è vietata la frequentazione dei rostri o dei comizi;' I guarda dietro di te che ampia estensione di vastissime terre e di popoli si apra; non ti sarà mai preclusa una parte così grande che una più grande non ti sia lasciata. 5. Ma fa' attenzione che tutto questo non sia un tuo difetto; infatti non vuoi amministrare lo stato se non da console o da pritano o da araldo o da suffete.11 Che dire se tu rifiutassi di combattere se non da generale o da tribuno? Anche se altri occuperanno la prima fila, e la sorte ti avrà posto fra i triarii combatti dunque con la voce, con l'esortazione, con l'esempio, con il coraggio: anche con le mani tagliate colui che tuttavia resiste e fa opera di sostegno con le grida trova nella battaglia modo di aiutare il suo partito. 6. Fa' qualcosa di simile: se la sorte ti allontanerà dalla posizione di primo piano nello stato, resisti tuttavia e fa' opera di sostegno con le grida e, se qualcuno ti chiuderà la bocca, resisti tuttavia e fa' opera di sostegno col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino: ascoltato e visto, col volto col cenno con la tacita determinazione e con la stessa andatura aiuta. 7.Come certe cose salutari giovano indipendentemente dal gusto e dal tatto con l'odore, così la virtù dispensa la sua utilità anche da lontano e di nascosto. Sia che possa spaziare e disporre di sé a suo piacere, sia che abbia sbocchi incerti e sia costretta a contrarre le vele, sia che si trovi in ozio e muta e circoscritta in spazi ristretti, sia che abbia libertà di espandersi, in qualsiasi condizione si trovi, giova. Ritieni forse non abbastanza utile l'esempio di chi vive bene stando appartato? 8. Dunque è di gran lunga la cosa migliore mescolare l'ozio alle occupazioni, ogni volta che verrà preclusa la vita attiva da impedimenti occasionali o dalla situazione della città; mai infatti sono a tal segno impedite tutte le possibilità che non ci sia spazio per alcuna azione onesta. 1. Ma tu ti sei imbattuto in un tipo di vita difficile e la fortuna pubblica o la tua personale ti ha imposto a tua insaputa un laccio che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna loro a sopportarli con fermezza, l'abitudine con docilità. In qualsiasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi.2. A nessun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie l'assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle avversità conservasse la stessa violenza del primo colpo. 3. Tutti siamo legati alla fortuna: la catena degli uni è d'oro, lenta, quella di altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custodia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno legato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella sinistra?" Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio; alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umile; alcuni sono soggiogati dall'altrui potere, alcuni dal loro proprio; alcuni li confina in un unico luogo l'esilio, alcuni la carica religiosa: ogni vita è una schiavitù. 4. Occorre dunque assuefarsi alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c'è nulla di così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per l'abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rendere abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentarsi, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con accortezza. 5. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con difficoltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono ugualmente inconsistenti, e all'esterno hanno aspetto diverso, mentre all'intemo sono parimenti vane. E non invidiamo quelli che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rivelate dirupi. 6. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo superbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possibile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati inchiodati;" con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodiga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momenti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con più sicurezza. 7. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste fluttuazioni dell'animo quanto fissare sempre un qualche termine ai nostri successi, e non concedere alla sorte l'arbitrio di smettere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in questo modo sia alcuni desideri stimoleranno l'animo sia, delimitati, non spingeranno verso l'infinito e l'incerto. 1.Questa mia chiacchierata si rivolge a uomini imperfetti, deboli e non ragionevoli, non a chi possiede la saggezza. Costui non deve camminare con incertezza né a piccoli passi; infatti ha tanta fiducia in sé che non esita ad andare incontro alla sorte e non dovrà mai cederle il passo. Né ha ragione di temerla, perché non solo gli schiavi e i possedimenti e la posizione ma anche il suo corpo e gli occhi e la mano e tutto ciò che rende più cara la vita e persino se stesso annovera tra i beni fuggevoli e vive come se fosse stato affidato a se stesso in concessione e disposto a restituirsi senza malumore a chi lo reclamasse. 2. E non per questo si ritiene poco importante - perché sa di non appartenersi - ma svolgerà tutti i suoi compiti con tanta diligenza, con tanta attenzione quanto un uomo coscienzioso e responsabile è solito tutelare le cose rimesse alla sua coscienza. 3. E quando poi gli sarà ingiunto di restituirle, non si lamenterà con la sorte ma dirà: "Sono grato di ciò che ho posseduto e ho avuto in uso. Ho curato le tue cose con grande profitto, ma poiché così stabilisci, ecco che te le do, cedo, grato e volentieri. Se vorrai che io tenga ancora ora qualcosa di tuo, lo conserverò; se decidi diversamente, io allora argenteria, denaro, casa, servitù ti rendo, ti restituisco." Poniamo che la natura reclarni le cose che per prima ci aveva affidato: noi le diremo: "Riprenditi un animo migliore di quello che mi hai dato; non sto a tergiversare o a rifiutarmi; ho pronto da darti spontaneamente ciò che tu mi desti mentre ne ero inconsapevole: prenditelo." 4.Che c'è di grave a tornare da dove sei venuto? è destinato a vivere male chi non saprà morire bene. Dunque occorre prima di tutto togliere valore a questa cosa e considerare la vita tra le cose di poco conto. Come dice Cicerone, ci sono insopportabili i gladiatori, se vogliono in ogni modo impetrare la grazia della vita; li applaudiamo, se ostentano il disprezzo di essa. Sappi che anche a noi accade la stessa cosa; spesso infatti è causa di morte la paura di morire. 5. Proprio la sorte, che ama scherzare, dice: "A che scopo dovrei risparirtiarti, animale meschino e tremebondo? Tanto più profondamente ti farai ferire e trapassare, perché non te la senti di porgere la gola; tu invece vivrai più a lungo e morirai in maniera più rapida, tu che aspetti la spada non sottraendo il collo né mettendo davanti le mani, ma con coraggio." 6. Chi avrà paura della morte non farà mai nulla da uomo che vive; invece chi saprà che questa condizione è stata stabilita subito nel momento in cui egli è stato concepito, vivrà secondo i patti e contemporaneamente con la stessa forza d'animo si prodigherà, perché nulla delle cose che accadono sia improvvisa. Infatti guardando a tutto ciò che può avvenire come se fosse sul punto di realizzarsi, saprà attenuare la forza di tutte le disgrazie, che non portano niente di sorprendente a chi vi si è preparato e se le aspetta, mentre giungono con tutto il loro peso su chi si sente sicuro e spera solo nelle cose favorevoli. 7. Si tratta di una malattia, della prigionia, di un crollo, di un incendio: nulla di ciò è improvviso; sapevo in che albergo tumultuoso la natura mi aveva chiuso. Tante volte si sono levate grida di dolore nelle mie vicinanze; tante volte torce e ceri hanno preceduto oltre la soglia esequie immature; spesso mi è risuonato accanto il fragore di un edificio che crollava; molti tra quelli che il foro la curia la conversazione aveva messo in relazione con me una notte li ha portati via ... : Mi dovrei meravigliare che una buona volta siano toccati a me i pericoli che mi sono sempre girati attorno? 8. C'è una grande parte dell'umanità che mentre si accinge a navigare non pensa alla tempesta. lo non mi vergognerò mai di citare un cattivo autore in un caso felice. Publilio più vigoroso dei talenti tragici e comici ogni volta che ha rinunciato alle sue buffonerie da mimo e alle parole dirette alle ultime file del pubblico, tra molte altre frasi di tono più elevato di quello tragico, non solo di quello del mimo, disse anche questo: A chiunque può capitare ciò che può capitare a qualcuno. Chi si sarà impresso questo principio nel profondo dell'animo e guarderà tutte le disgrazie altrui, delle quali tutti i giorni c'è grande abbondanza, così come se esse avessero la strada spianata anche verso di lui, si annerà molto prima di venire assalito; troppo tardi si prepara l'animo a sopportare i pericoli dopo che questi si sono presentati. 9. "Non pensavo che sarebbe successo" e "avresti mai pensato tu che questo sarebbe accaduto?" E perché no? Quali sono quelle ricchezze che non possono essere seguite da vicino dalla miseria e dalla fame e dall'indigenza?Quale carica pubblica di cui la toga pretesta, il bastone da augure e le cinghie patrizie non siano accompagnate dalla veste n?úserabile, dal marchio del disono re e da mille macchie fino all'estremo disprezzo? Quale regno c'è al quale non siano già preparati la rovina e l'annientamento e l'oppressore e il boia? Né queste cose sono separate da lunghi intervalli di tempo, ma intercorre un momento solo tra il trono e l'omaggio alle ginocchia altrui. 10. Sappi dunque che ogni condizione è rovesciabile e tutto ciò che si abbatte su qualcuno può abbattersi anche su di te. Sei ricco: forse più ricco di Pompeo? Eppure a lui, quando Gaio, parente da tempo, ospite nuovo, ebbe aperto la casa di Cesare per chiudere la sua mancarono il pane e l'acqua. Pur possedendo molti fiumi che nascevano sul suo territorio, che vi sfociavano, andò mendicando qualche goccia d'acqua; morì di fame e di sete nel palazzo del parente, mentre a lui che soffriva la fame l'erede appaltava esequie pubbliche. 11. Hai ricoperto le più alte cariche onorifiche: forse tanto alte o tanto insperate o tanto totalizzanti quanto quelle di Seiano? Il giorno che il senato lo aveva scortato il popolo lo fece a pezzi; di colui sul quale gli dei e gli uomini avevano accumulato quanto era possibile accumulare, non rimase nulla che il carnefice potesse strappare. 12. Sei re: non ti rimanderò a Creso, che dovette vedere da vivo il proprio rogo e accendersi e spegnersi, fatto superstite non solo al proprio regno, ma anche alla propria morte, non a Giugurta che il popolo romano poté contemplare a spettacolo entro l'anno in cui ne aveva avuto paura: vedemmo Tolemeo re dell'Africa Mitridate re dell'Armenia tra le guardie di Gaio; l'uno venne mandato in esilio, l'altro si augurava di esservi mandato con migliore garanzia. In tanto profondo sconvolgimento di situazioni che volgono in alto e in basso, se non consideri come destinato a succedere tutto ciò che può succedere, dai forza contro te stesso alle avversità, che sogliono essere sconfitte da chi le vede prima. 1. Principio derivante da questi sarà che non ci tormentiamo in preoccupazioni superflue o che derivano dal superfluo, cioè o che non desideriamo le cose che non possiamo ottenere o che ottenuto quel che volevamo non comprendiamo troppo tardi dopo molta fatica la vanità dei nostri desideri, cioè che non sprechiamo fatica vana senza risultato o che il risultato non sia degno della fatica; infatti da queste cose per lo più scaturisce tristezza, se non c'è stato successo o se ci si vergogna del successo ottenuto. 2. Bisogna limitare l'andare in giro di qua e di là, che è proprio di gran parte degli uomini che vagano per case per teatri e per fori: si offrono di occuparsi degli affari degli altri, sembra che abbiano sempre qualcosa da fare. Se chiederai a qualcuno di questi mentre esce di casa: "Dove vai? che pensi?", ti risponderà: "Non lo so, per Ercole; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa." 3. Vanno vagando senza un proposito cercando occupazioni e non fanno le cose che avevano deciso ma quelle in cui si sono imbattuti; è insensata e vana la loro corsa, quale quella delle formiche che si arrampicano su per gli alberi, che vanno su fino alla cima e poi di nuovo giù in basso senza frutto: in modo simile a queste conducono la loro vita molte persone, per le quali non senza motivo qualcuno parlerebbe di inoperosità inquieta." 4. Commisererai alcuni quasi che stessero correndo verso un incendio: tanto spingono quelli che si parano loro davanti e travolgono sé e altri, mentre sono corsi o a salutare qualcuno che non ricambierà il loro saluto o a seguire il funerale di un uomo ignoto o al processo di uno che è spesso in contesa o alle nozze di una che si sposa spesso e, dopo aver seguito la lettiga, in alcuni luoghi l'hanno persino portata; quindi, tornando a casa con la loro stanchezza inutile, giurano che non sanno loro stessi perché sono usciti, dove siano stati, già pronti il giorno dopo a girovagare su quegli stessi passi. 5. Dunque ogni fatica deve riferirsi a qualche scopo, deve riguardare qualche scopo. Non è l'operosità che li agita rendendoli inquieti, ma sono le false immagini delle cose che li agitano come pazzi; infatti nemmeno i pazzi si muovono senza una qualche speranza: li attrae l'aspetto di una cosa, la cui inconsistenza la mente, presa nel suo delirio, non è riuscita a cogliere. 6. Allo stesso modo ognuno di costoro che escono senza scopo per ingrandire la folla viene condotto in giro qua e là da motivi futili; non avendo niente a cui applicarsi, il sorgere della luce lo caccia fuori e, dopo che, calcate invano le soglie di molti, ha salutato i nomenclatori, da molti lasciato fuori, a casa non si incontra con nessuno, tra tutti, con più difficoltà che con se stesso.7. Da questo male deriva quel vizio tristissimo, l'origliare e il curiosare tra gli affari pubblici e privati e il venire a conoscenza di molte cose che né si raccontano né si ascoltano senza rischi 1. lo penso che seguendo quest'idea Democrito abbia iniziato così: "Chi intenderà vivere nella tranquillità non faccia molte cose né privatamente né pubblicamente" chiaramente riferendosi alle cose superflue. Infatti, se sono necessarie, si devono fare sia privatamente che pubblicamente non solo molte ma innumerevoli cose, ma laddove nessun compito importante ci spinga, va saputo contenere l'agire. 2. Infatti chi fa molte cose spesso dà potere su di sé alla sorte, che è norma del tutto sicura sperimentare di rado, mentre per il resto occorre sempre riflettere su di essa e non ripromettersi nulla sulla sua affidabilità: "Navigherò, a meno che non capiti qualche incidente" e "Diventerò pretore, a meno che non si frapponga un qualche ostacolo" e "Mi riuscirà l'affare, a meno che non intervenga qualcosa". 3. Questo è il motivo per cui diremmo che all'uomo saggio non accade niente di inaspettato: non lo abbiamo esentato dalle vicende umane, ma dagli errori, né a lui capitano tutte le cose come le ha volute, ma come le ha pensate; e prima di tutto egli ha pensato che qualcosa potesse far resistenza ai suoi propositi. t poi d'obbligo che il dolore di un piacere deluso arrivi in forma attenuata all'animo al quale non è stata promessa comunque la riuscita. 1. Dobbiamo anche rendere noi stessi disponibili a non indulgere a un'eccessiva programmazione delle cose, a rivolgerci a quelle nelle quali ci avrà fatto imbattere il caso e a non temere né un cambiamento di programma né di condizione, a patto che non finiamo preda della volubilità, difetto nemicissimo della quiete interiore. Infatti sia è inevitabile che l'eccessivo attaccamento sia fonte di ansie e di infelicità, poiché spesso la sorte gli strappa qualcosa, sia è molto più grave la volubilità che non sa contenersi in nessun luogo. L'uno e l'altro difetto sono nocivi per la tranquillità, non poter mutare nulla e non sopportare nulla. 2. In ogni modo l'animo va richiamato da tutte le sollecitazioni esterne a se stesso: si affidi a se stesso, gioisca di sé, rivolga lo sguardo a se stesso, si ritiri quanto può dalle cose degli altri e si applichi a sé, non patisca i danni, interpreti favorevolmente anche le avversità. 3.Alla notizia del naufragio il nostro Zenone venendo a sapere che erano andati sommersi tutti i suoi averi, disse: "La fortuna mi impone di dedicarmi più agevolmente alla filosofia." Un tiranno minacciava di morte il filosofo Teodoro e per di più di negargli la sepoltura: questi gli disse: "Hai di che compiacerti con te stesso, è in tuo potere un mezzo litro di sangue; infatti per quanto riguarda la sepoltura, povero te se pensi che mi interessi l'imputridire sopra o sotto terra." 4. Giulio Cano uomo tra i primi per grandezza, all'ammirazione del quale non si oppone neppure il fatto di essere nato nel nostro secolo, avendo a lungo discusso con Gaio, dopo che quel famoso Falaride gli disse, mentre se ne andava: "Perché per caso tu non ti faccia allettare da una vana speranza, ho dato ordine che tu sia accompagnato al supplizio," rispose: "Ti ringrazio, ottimo principe." 5. Non so che cosa abbia pensato; infatti mi vengono in mente molte ipotesi. Volle essere offensivo e mostrare quanto grande fosse la crudeltà in cui la morte rappresentava un beneficio? Oppure gli rimproverò la follia quotidiana? - infatti rendevano grazie sia coloro i cui figli erano stati uccisi, sia coloro i cui beni erano stati portati via. 0 accolse l'annuncio volentieri come se si trattasse della libertà? Qualsiasi sia la soluzione, diede una risposta coraggiosa. 6. Qualcuno dirà: "Dopo questo, Gaio avrebbe potuto dare ordine che fosse lasciato in vita." Cano non ebbe paura di questo; era nota la affidabilità di Gaio in tali ordini. Credi forse che egli abbia trascorso i dieci giorni che mancavano al supplizio senza alcuna occupazione? t incredibile che cosa riuscì a dire quell'uomo, che cosa riuscì a fare, quanto tranquillamente sia vissuto. 7.Giocava a dama, mentre il centurione che trascinava la schiera dei condannati a morte gli ordinò di seguirlo. Chiamato, contò i sassolini e al suo compagno disse: "Bada dopo la mia morte di non mentire, dicendo che hai vinto"; poi, facendo segno al centurione, disse: "Sarai testimone che vincevo io di una mossa." Pensi tu che Cano con quella scacchiera abbia davvero giocato? Si prese gioco. 8. Erano tristi gli amici che sapevano di perdere un tale amico: "Perché siete tristi?" disse. "Voi vi chiedete se le anime siano immortali: io lo saprò tra poco." E non smise di scrutare la verità nemmeno alla fine e di fare della sua morte un argomento di discussione. 9. Lo accompagnava il suo filosofo e ormai non era lontano il tumulo sul quale tutti i giorni si svolgeva un sacrificio in onore del nostro dio Cesare: egli disse: "Che pensi ora, Cano? o che intenzione hai?" "Mi sono proposto", disse Cano, "di osservare in quel momento fuggevole se l'animo avrà la sensazione di uscir fuori" e promise, se avesse sperimentato qualcosa, che avrebbe fatto il giro degli amici e avrebbe loro indicato quale fosse lo stato delle anime.10. Ecco la tranquillità nel mezzo della tempesta, ecco l'animo degno dell'eternità, che chiama la sua morte a testimonianza del vero, che collocato su quell'ultimo fatale gradino interroga la sua anima mentre questa esce dal corpo e si mette a imparare non solo fino alla morte ma qualcosa anche dalla stessa morte: nessuno ha filosofato più a lungo. Non dimenticheremo frettolosamente un grand'uomo e ne dovremo parlare con cura: ti consegneremo alla memoria di tutti i tempi, o uomo insigne, tu parte così importante della strage di Gaio. 1. Ma non giova per nulla rimuovere le cause del dolore privato; infatti ci prende talvolta l'odio per il genere umano. Quando avrai pensato quanto sia rara la franchezza e quanto sconosciuta l'innocenza e come la realtà non si trovi se non quando conviene, e vengono in mente la massa di tanti crimini felici e guadagni e perdite derivanti dal piacere parimenti insopportabili, e l'ambizione che ormai fino a tal punto non si contiene nei suoi limiti che splende attraverso la vergogna, l'animo è spinto nella notte e come fossero stati sconvolti i valori, che né è lecito sperare né conviene avere, spuntano le tenebre. 2.A questo dunque dobbiamo rivolgerci, a che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi ma ridicoli ed ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Costui infatti, ogni volta che era stato in pubblico piangeva, quello invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo sembravano disgrazie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne. 3. Aggiungi che acquista meriti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi piange: quello lascia ad esso una qualche speranza, costui invece piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corrette; e per chi contempla le cose nel loro insieme è di animo più forte chi non trattiene il riso di chi non trattiene le lacrime, dal momento che suscita un'emozione piacevolissima e in mezzo a tanto apparato non ritiene nulla grande, nulla serio, nemmeno misero. 4. Ciascuno si ponga davanti agli occhi ad una ad una le cose per le quali siamo lieti e tristi e saprà che è vero ciò che disse Bione che tutte le cose che riguardano gli uomini sono del tutto simili a inizi e che la loro vita non e più sacra o seria del loro concepimento, e che nati dal nulla sono ricondotti al nulla. 5. Ma è meglio accettare le abitudini comuni e i difetti umani serenamente senza cadere né nel riso né nelle lacrime; infatti tormentarsi per le disgrazie altrui significa infelicità infinita, provar piacere delle disgrazie altrui un piacere disumano, 6. così come quell'inutile atto di compassione che è piangere perché qualcuno porta a seppellire il figlio, e adattare a questa circostanza la propria espressione. Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipendere dall'opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento tra i più naturali, il dolore. 1.Segue la parte che non senza motivo suole rattristare e mettere in ansia. Laddove la sorte dei buoni è cattiva, laddove Socrate viene costretto a morire in carcere, Rutilio a vivere in esilio, Pompeo e Cicerone a offrire il collo ai loro clienti, e proprio Catone, ritratto vivente della virtù, gettandosi sulla spada, a rendere chiaro il destino suo e della repubblica, è inevitabile tormentarsi per il fatto che la sorte paga compensi tanto iniqui; e allora che cosa potrebbe sperare ognuno per sé, vedendo che i migliori subiscono il peggio? 2. Che significa dunque? Guarda come ciascuno di loro abbia saputo sopportare e, se furono forti, impara a rimpiangerli con il loro stesso animo, se morirono con la debolezza di una donna, non andò perso nulla: o sono degni della tua ammirazione per la loro virtù, o sono indegni del tuo rimpianto per la loro ignavia. Che c'è infatti di più vergognoso che se gli uomini più grandi morendo con coraggio rendono gli altri vili? 3.Lodiamo chi è degno tante volte di lodi e diciamo: "Tanto più sei forte, tanto più sei felice! Sei scampato a ogni disgrazia, all'invidia, alla malattia; sei uscito di prigione; tu non sei apparso agli dei degno di una cattiva sorte, ma indegno di essere ormai soggetto a un qualche colpo della sorte." Bisogna invece costringere coloro che cercano di sottrarsi e in punto di morte si voltano a guardare la vita. 4. Non piangerò nessuno che è lieto, nessuno che piange: quello mi ha terso di sua iniziativa le lacrime, questo con le sue lacrime si è reso indegno di alcuna altra. lo dovrei piangere Ercole, per il fatto che viene bruciato vivo, o Regolo perché è trafitto da tanti chiodi, o Catone, perché ferisce le sue ferite? Tutti costoro trovarono col sacrificio di un breve spazio di tempo in che modo diventare eterni, e con la morte pervennero all'immortalità. 1. Anche quella è materia non trascurabile di inquietudini, se tu ti affatichi a darti una posa e non ti mostri a nessuno nella tua schiettezza, così come fanno molti, la cui vita è finta e costruita per l'esibizione; infatti è fonte di tormento la continua osservazione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi da come si è soliti presentarsi. Né mai ci liberiamo dall'ansietà, se pensiamo di essere giudicati ogni volta che siamo guardati; infatti, da una parte accadono molte cose che contro la nostra volontà ci mettono a nudo, dall'altra, per quanto abbia successo tanta cura di sé, tuttavia non è piacevole o sicura una vita che si nasconde sempre sotto la maschera. 2. Al contrario, quanto piacere possiede quella schiettezza sincera e di per sé priva di ornamenti, che non si serve di nulla per coprire la propria indole! Tuttavia, anche questa vita va incontro al pericolo del disprezzo, se tutto è scoperto a tutti; ci sono infatti persone che provano fastidio per tutto ciò a cui si sono potute accostare troppo da vicino. Ma per la virtù non c'è il pericolo di avvilirsi se è posta sotto gli occhi ed è meglio essere disprezzati per la schiettezza che tormentati da una continua finzione. Usiamo tuttavia misura nella cosa: c'è molta differenza tra il vivere con semplicità o con trascuratezza. 3. Occorre sapersi ritirare molto anche in sé; infatti la frequentazione di persone dissimili turba il buon equilibrio raggiunto, rinnova le emozioni ed esaspera ciò che nell'animo è ancora debole e non pienamente guarito. Tuttavia queste condizioni vanno mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella genererà in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l'una sarà rimedio dell'altra; la solitudine guarirà l'insofferenza della folla, la folla la noia della solitudine. 4. Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stessa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. Socrate non si vergognava di giocare coi fanciulli, Catone rilassava col vino l'animo provato dalle fatiche politiche" e Scipione muoveva a tempo di musica quel corpo avvezzo ai trionfi e alle fatiche di guerra, non snervandosi in mollezze, come ora è abitudine di quanti ondeggiano persino nell'andatura superando la mollezza femminica, ma come quegli antichi uomini erano soliti tra lo svago e i giorni di festa danzare in modo virile, non andando incontro a una perdita di dignità, anche qualora venissero guardati dai loro nemici. 5. Occorre concedere una pausa agli animi: riposati, rinasceranno migliori e più combattivi. Come non si deve essere impositivi coi campi fertili ? infatti una produttività mai interrotta li esaurirà in fretta ? cosi una fatica continua indebolirà gli slanci degli animi, e questi riacquisteranno le forze se per un po' risparmiati e lasciati a riposo; dal protrarsi delle fatiche nascono un certo qual torpore e un infiacchimento degli animi. 6. E a ciò non tenderebbe un tanto grande desiderio degli uomini, se lo svago e il gioco non possedessero un certo naturale piacere; però il ricorso frequente a questi toglierà ogni gravità e ogni forza dagli animi; infatti, anche il sonno è necessario a ridare forze, tuttavia qualora tu lo continui giorno e notte, diventerà la morte. C'è molta differenza tra l'allentare una tensione e dissolverla del tutto 7. I legislatori istituirono i giorni festivi, perché gli uomini fossero costretti pubblicamente a divertirsi, come interponendo la necessaria moderazione alle fatiche; e come ho detto alcuni grandi uomini si concedevano in determinati giorni feste mensili, alcuni non c'era giorno che non dividessero tra l'ozio e gli impegni. Tra questi ricordiamo il grande oratore Asinio Pollione che soleva non farsi trattenere da nessuna occupazione oltre l'ora decima; non leggeva nemmeno le lettere dopo quell'ora, perché non gliene derivasse una qualche nuova preoccupazione, ma si liberava della stanchezza di tutta una giornata in quelle due ore. Alcuni sogliono fare pausa a metà della giornata e rimandare alle ore pomeridiane una qualche occupazione più leggera. Anche i nostri antenati vietavano che in senato ci fosse una nuova mozione oltre l'ora decima. I soldati si dividono i turni di guardia, e la notte è libera dalla ronda per coloro che ritornano da una spedizione. 8. Bisogna essere indulgenti con l'animo e concedergli ripetutamente il riposo che funga da alimento e forze. Bisogna fare anche passeggiate all'aperto, affinché l'animo si arricchisca e si innalzi grazie all'apertura degli orizzonti e all'abbondanza di aria pura da inspirare; talvolta un viaggio o un cammino e il cambiare luoghi e le cene e le bevute più generose daranno energia. Talvolta è opportuno arrivare anche fino all'ebbrezza, non perché ci sommerga, ma perché abbia effetto tranquillante; infatti dissolve gli affanni e muove l'animo dal profondo e come cura alcune malattie così anche la tristezza, e Libero non è detto così per la libertà di parola ma perché libera l'animo dalla schiavitù delle preoccupazioni e gli dà indipendenza e forza e lo rende più audace verso ogni impresa. 9. Ma nella libertà come nel vino è salutare la moderazione. Si crede che Solone e Arcesilao abbiano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l'ebbrezza: chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto un vizio che turpe Catone. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso, in modo che l'animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia talvolta occorre spingerlo all'esultanza e alla libertà, e la triste sobrietà va per un po' abbandonata. 10. Infatti sia che diamo retta al poeta greco:" "Talvolta è piacevole anche fare follie", sia a Platone: "Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia", sia ad Ari stotele: "Non ci fu nessun grande ingegno senza un pizzico di follia": 11.non può esprimere qualcosa di grande e superiore agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezzato le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande delle capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di elevato finché rimane in sé:" è necessario si stacchi dal consueto e scarti verso l'alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo conduca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire. 12. Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la tranquillità, che possono restituirla, che resistono ai mali striscianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debolezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l'animo vacillante. 1. Puoi forse trovare una città più infelice di quanto lo fu quella degli Ateniesi, quando la dilaniavano i trenta tiranni? Avevano ucciso milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non per questo si fermavano, ma era la stessa crudeltà che si fomentava da sola. Nella città in cui si trovava l'Areopago il più sacro dei tribunali, nella quale si trovavano un senato e un popolo simile al senato, si raccoglieva ogni giorno un tristo collegio di carnefici e la curia infelice si faceva stretta per i tiranni che la affollavano: avrebbe forse potuto vivere in tranquillità quella città in cui c'erano tanti tiranni quanti avrebbero potuto essere gli sgherri? Non si poteva presentare agli animi nemmeno un barlume di speranza di riacquistare la libertà, né si profilava spazio ad alcun rimedio contro tanta violenza di mali; da dove infatti recuperare tanti Armodii per la povera città? 2. Eppure c'era Socrate e consolava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della repubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze rimproverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di pericolo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori. 3.Tuttavia quest'uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Libertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi, e in uno fiorente e felice regnano la sfrontatezza l'invidia e mille altri vizi che rendono inerti. 4.Dunque, comunque si presenterà la repubblica, comunque lo permetterà la sorte,così o esplicheremo le nostre possibilità o le contrarremo, in ogni modo ci muoveremo e non ci intorpidiremo paralizzati nel timore. Anzi, sarà davvero un uomo colui che, mentre incombono pericoli da tutte le parti, mentre intorno fremono armi e catene, non infrangerà la virtù né la occulterà; nascondersi infatti non significa salvarsi. 5. A buon diritto, a quel che penso, Curio Dentato diceva di preferire la morte alla vita: è l'estremo dei mali uscire dal novero dei vivi prima di morire. Ma, se ti sarai imbattuto in un periodo meno agevole della vita politica, dovrai fare in modo di rivendicare più spazio per l'ozio e gli studi letterari, e da dirigerti immediatamente verso il porto non diversamente che in una navigazione pericolosa, non aspettando che sia la situazione ad allontanarti ma facendo in modo da separarti tu da essa, di tua volontà. 1.Dovremo poi osservare attentamente dapprima noi stessi, poi i compiti che intendiamo intraprendere, poi coloro per i quali o con i quali intendiamo farlo. 2. Prima di tutto è necessario che uno valuti se stesso, perché a noi sembra di potere quasi più di quello che possiamo: uno cade in rovina per fiducia nell'eloquenza, un altro ha chiesto al suo patrimonio più di quanto potesse sostenere, un altro ha schiacciato il suo corpo debole con un compito gravoso. 3.Il riserbo di alcuni poco si addice alla politica, che richiede sicurezza di atteggiamenti; la fierezza di altri non si confà alla vita di corte; alcuni non sanno governare la collera e una qualsiasi occasione di indignazione li trascina a parole temerarie; alcuni non sanno trattenere l'ironia e non si astengono da pericolose battute salaci: a tutti costoro la vita ritirata è più utile delle occupazioni pubbliche; una natura indomita e ribelle eviti le sollecitazioni di una franchezza destinata a nuocerle. 4. In secondo luogo occorre valutare i compiti che intraprendiamo e confrontare le nostre forze con le imprese che vogliamo tentare. Infatti devono esserci sempre più forze nell'esecutore che nell'opera: è inevitabile che schiaccino i pesi che sono maggiori di chi li sostiene. 5. Inoltre alcuni compiti non sono tanto pesanti in sé quanto fecondi e recano con sé molti altri compiti: sono da evitare anche questi, dai quali scaturirà un nuovo e multiforme impegno, e non bisogna accostarsi a un compito dal quale non sia facile ritirarsi; bisogna mettere mano a quelle faccende cui si può porre una fine o di cui si può almeno sperarla, tralasciare quelle che si spingono sempre più in là con l'azione e non finiscono là dove ci si era proposti. 1.Bisogna comunque scegliere i destinatari, se sono degni che noi dedichiamo loro una parte della nostra vita, o se sono toccati dal sacrificio del nostro tempo; alcuni infatti ci ascrivono di loro iniziativa i nostri doveri. Atenodoro dice che non andrebbe nemmeno a cena da chi per questo non si sentisse per nulla in debito con lui. Comprendi ? penso ? che si recherebbe tanto meno da coloro che si sdebitano dei favori degli amici con un pranzo, che contano le portate come fossero donativi, quasi che fossero smodati in onore degli altri: togli a costoro testimoni e spettatori, non piacerà loro gozzovigliare in segretezza. Devi riflettere 39 se la tua natura sia più adatta all'attività o a un ritiro dedito agli studi, e devi volgerti là dove ti condurranno le capacità del tuo ingegno: Isocrate portò via dal foro con le sue stesse mani Eforo, giudicandolo più idoneo a stilare memorie storiche. Infatti daranno cattiva risposta gli ingegni forzati; la fatica è vana, se la natura vi rilutta. Nulla tuttavia delizierà tanto l'animo quanto un'amicizia fedele e dolce. Che bene prezioso è l'esistenza di cuori preparati ad accogliere in sicurezza ogni segreto, la cui coscienza tu debba temere meno della tua, le cui parole allevino l'ansia, il cui parere renda più facile una decisione, la cui contentezza dissipi la tristezza, la cui stessa vista faccia piacere! Questi li sceglieremo naturalmente liberi, per quanto sarà possibile, da passioni; infatti i vizi serpeggiano e si trasmettono a chiunque sia più vicino e nuocciono per contatto. 2. Dunque, come in una pestilenza occorre badare a non sedersi accanto a chi è già stato aggredito ed è divorato dal male, perché ne trarremo pericolo e lo stesso respiro ci farà ammalare, così nello scegliere gli amici faremo in modo di prendere quelli il meno possibile contaminati: è l'inizio della malattia mescolare sano e malato. Né vorrei consigliarti di non seguire o attrarre a te nessuno che non sia saggio. Dove troverai infatti costui che cerchiamo da tante generazioni? Valga per ottimo il meno cattivo. 3.Difficilmente avresti la possibilità di una scelta più felice, se tu cercassi i buoni tra i Platoni e i Senofonti e quella generazione di discepoli di Socrate, o se tu avessi la possibilità di scegliere nell'età catoniana, che vide numerosi uomini degni di nascere nella generazione di Catone (così come molti peggiori di quelli mai nati in nessun'altra e promotori dei più gravi crimini; infatti c'era bisogno dell'una e dell'altra schiera perché potesse essere compreso Catone: egli doveva avere sia i buoni da cui farsi approvare, sia i cattivi in mezzo ai quali far prova della sua forza): ora invece in tanta povertà di buoni la scelta deve essere meno selettiva. 4.Tuttavia si evitino soprattutto quanti sono malcontenti e si lagnano di tutto, per i quali non c'è un solo motivo che non sia buono per lamentarsi. Se anche abbia fedeltà e benevolenza accertate, tuttavia è nernico della tranquillità un compagno profondamente turbato e che geme di tutto. 1. Veniamo ai patrimoni, massimo motivo delle preoccupazioni umane; infatti, se confronti tutte gli altri mali per i quali ci angustiamo, morti, malattie, timori, rimpianti, sopportazione di dolori e fatiche, con quei mali che ci procura il nostro denaro, questa parte sarà molto più gravosa. 2.Dunque, dobbiamo pensare quanto più lieve dolore sia non avere che perdere: e comprenderemo che la povertà ha tanto meno materia di sofferenze quanto minore ne ha di danni. Sei in errore infatti se ritieni che i ricchi sopportino le perdite con animo più saldo: il dolore di una ferita è uguale per i corpi più grandi e per quelli più piccoli. 3. Bione disse con eleganza che farsi strappare i capelli non è meno doloroso per i calvi che per chi calvo non è. Puoi ritenere la stessa cosa per quanto riguarda i poveri e i ricchi, il loro tormento è uguale; ad entrambi infatti il loro denaro sta attaccato né può esser loro strappato senza che lo sentano. Inoltre è più sopportabile, come ho detto, e più facile non acquistare che perdere, e perciò vedrai più felici coloro che mai la fortuna si è voltata a guardare di quelli che ha abbandonato. 4. Se ne avvide Diogene uomo di grande animo, e fece in modo che nulla potesse essergli tolto. Tu chiama questo povertà, miseria, indigenza, da' alla mancanza di preoccupazioni quel nome vergognoso che vorrai: penserò che costui non sia felice, se mi saprai trovare qualcun altro che non perda nulla. 0 io mi sbaglio o essere re significa, tra avidi, circonventori, ladri, ricettatori di schiavi, essere il solo a cui non si possa nuocere. 5. Se qualcuno mette in dubbio la felicità di Diogene, può allo stesso modo dubitare anche della condizione degli dei immortali, se vivano poco felicemente per il fatto che non hanno né poderi né giardini né campi resi preziosi dal lavoro di coloni mercenari né grandi proventi dall'usura. Non ti vergogni di ammutofire, chiunque tu sia, davanti alle ricchezze? Guarda dunque l'universo: vedrai gli dei nudi, che dispensano tutte le cose, non possedendone nessuna. Giudichi tu povero o simile agli dei immortali chi si è spogliato di tutti i beni legati alla sorte? 6. Chiami forse più felice Demetrio Pompeiano, che non si vergognò di essere più ricco di Pompeo? A lui, per il quale già avrebbero dovuto costituire ricchezze due schiavi vicari e una cella un po' più grande, ogni giorno veniva rifatto l'elenco degli schiavi come a un generale quello delle truppe. 7. A Diogene invece scappò via l'unico schiavo ed egli non ritenne cosa così importante riportarlo indietro, mentre gli veniva mostrato. "t vergognoso" disse "che Mane possa vivere senza Diogene, e Diogene senza Mane non possa." Mi sembra che abbia detto: "Occupati dei tuoi affari, fortuna, ormai da Diogene non c'è più nulla di tuo: mi è scappato lo schiavo, anzi me ne sono andato io, libero. " 8. La servitù chiede il vestiario e il vitto, occorre prendersi cura di tanti ventri di animali avidissimi, bisogna comprare la veste e sorvegliare mani rapacissime, e utilizzare i servigi di gente che piange e maledice: quanto più felice colui che non deve nulla a nessuno, se non a chi può rifiutare nel modo più facile, a se stesso ! 9. Ma dal momento che non abbiamo tanta forza, almeno dobbiamo limitare i patrimoni, per esser meno esposti ai capricci della sorte. Sono più adatti alla guerra i corpi che possono rannicchiarsi al riparo delle loro armi di quelli sovrabbondanti e che la loro stessa grandezza ha esposto da ogni parte alle ferite: la migliore misura del denaro è quella che né precipita in povertà né si allontana molto dalla povertà. 1.E a noi piacerà questa misura, se prima ci sarà piaciuta la parsimonia, senza la quale non ci sono ricchezze bastanti e con la quale invece tutte sono abbastanza estese tanto più che il rimedio è vicino e la stessa povertà può, chiamata in aiuto la frugalità, tramutarsi in ricchezza. 2. Abituiamoci a rimuovere da noi lo sfarzo e a misurare l'utilità, non gli ornamenti delle cose. Il cibo domi la fame, le bevande la sete, il piacere sia libero di espandersi entro i limiti necessari; impariamo a sostenerci sulle nostre membra, ad atteggiare il modo di vivere e le abitudini alimentari non alle nuove mode, ma come suggeriscono le tradizioni; impariamo ad aumentare la continenza, a contenere il lusso, a moderare la sete di gloria, a mitigare l'irascibilità, a guardare la povertà con obiettività, a coltivare la frugalità anche se molti se ne vergogneranno ad apprestare per i desideri naturali rimedi preparati con poco, a tenere come in catene le speranze smodate e l'animo che si protende verso il futuro, a fare in modo di chiedere la ricchezza a noi piuttosto che alla sorte. 3.Tanta varietà e ingiustizia di accidenti non può mai essere allontanata cosà che molte tempeste non irrompano su chi dispiega vele ampie; bisogna restringere le nostre sostanze affinché gli strali della sorte cadano nel vuoto, e in questo modo talora gli esili e le calarnità si sono mutati in rimedi e i danni più gravi sono stati sanati da quelli più lievi. Laddove l'animo dà poco ascolto ai consigli e non può essere curato in modo più dolce, non si provvede forse al suo bene, ricorrendo alla povertà e alla privazione degli onori e al rovescio di fortuna, opponendo male a male? Abituiamoci dunque a essere capaci di cenare senza una folla e ad adattarci a un numero minore di servi e a farci apprestare vesti per lo scopo per cui sono state inventate e ad abitare in spazi pù ristretti. Non soltanto nelle corse e nelle gare del circo, ma in questi spazi della vita occorre serrare il giro. 4. Anche la spesa più grandiosa per gli studi conserva un senso finché conserva una misura. A che scopo innumerevoli libri e biblioteche, il cui proprietario in tutta la sua vita a stento arriva a leggere per intero i cataloghi? La massa di libri grava sulle spalle di chi deve imparare, non lo istruisce, ed è molto meglio che tu ti affidi a pochi autori piuttosto che tu vada vagando attraverso molti. 5.Ad Alessandria andarono in fiamme quarantamila libri;" altri loderebbe il magnifico monumento di opulenza regale, come Tito Livio, che ne parla come di un'opera insigne di stile e buona amministrazione dei re: non fu un fatto di stile o di buona amministrazione quello, ma un'esibizione di lusso per gli studi, anzi non per gli studi, dal momento che l'avevano apprestata non per lo studio ma per l'apparenza, così come per molti ignari anche di sillabari per l'infanzia i libri non rappresentano strumenti di studio ma ornamento delle sale da pranzo. Dunque ci si procurino libri nella quantità necessaria, non per rappresentanza. 6."Più dignitosamente" dici tu "i soldi se ne andranno per questo che per bronzi di Corinto e quadri." Ciò che è troppo è sbagliato ovunque. Che motivo hai di giustificare un uomo che si procura librerie fatte di legno di cedro e di avorio, che va in cerca di raccolte di autori o ignoti o screditati e tra tante migliaia di libri sbadiglia, a cui dei suoi volumi piacciono soprattutto i frontespizi e i titoli? 7.Dunque, a casa dei più pigri vedrai tutte le orazioni e le opere storiografiche che esistono, scaffali che arrivano fino al soffitto; ormai infatti tra i bagni e le terme si tiene lustra anche la biblioteca come un ornamento necessario della casa. E lo potrei giustificare, certo, se si sbagliasse per troppa passione per gli studi: ora codeste opere di sacri ingegni ricercate e suddivise con i loro ritratti vengono procurate per abbellire e decorare le pareti. 1. Ma tu ti sei imbattuto in un tipo di vita difficile e la fortuna pubblica o la tua personale ti ha imposto a tua insaputa un laccio che non sei in grado di sciogliere né di rompere: pensa che gli schiavi in ceppi in un primo tempo mal sopportano i pesi e gli impedimenti delle gambe; quindi, una volta che si sono proposti di non indignarsi per essi, ma di sopportarli, la necessità insegna loro a sopportarli con fermezza, l'abitudine con docilità. In qualsiasi genere di vita troverai divertimenti, distensioni e piaceri, se vorrai giudicare lievi i mali piuttosto di renderteli odiosi.2. A nessun titolo ci trattò meglio la natura che per questo: sapendo per quali sofferenze nasciamo, trovò come lenimento delle disgrazie l'assuefazione, ponendoci subito in familiarità con le sventure più gravi. Nessuno potrebbe resistere, se la continuità delle avversità conservasse la stessa violenza del primo colpo. 3. Tutti siamo legati alla fortuna: la catena degli uni è d'oro, lenta, quella di altri stretta e spregevole, ma che importa? La medesima custodia ha stretto tutti e si trovano legati anche quelli che hanno legato, a meno che tu non ritenga più leggera una catena nella sinistra?" Uno lo tengono avvinto gli onori, un altro il patrimonio; alcuni sono schiacciati dalla nobiltà, alcuni dalla condizione umile; alcuni sono soggiogati dall'altrui potere, alcuni dal loro proprio; alcuni li confina in un unico luogo l'esilio, alcuni la carica religiosa: ogni vita è una schiavitù. 4. Occorre dunque assuefarsi alla propria condizione e lamentarsi il meno possibile di essa e afferrare tutto ciò di buono che ha intorno a sé: non c'è nulla di così aspro in cui un animo obiettivo non sappia trovare un conforto. Spesso aree esigue si sogliono aprire a molti utilizzi per l'abilità di chi le dispone e una disposizione accorta suole rendere abitabile anche il più piccolo spazio. Usa la ragione di fronte alle difficoltà: le durezze possono addolcirsi, le strettoie allentarsi, le situazioni gravi opprimere di meno chi le sopporta con accortezza. 5. I desideri non vanno indirizzati a obiettivi lontani, ma dobbiamo permettere loro uno sbocco vicino, dal momento che non sopportano di essere del tutto bloccati. Abbandonati quegli obiettivi che o non possono realizzarsi o lo possono con difficoltà, perseguiamo mete situate vicino e che arridono alla nostra speranza, ma manteniamo la consapevolezza che tutte sono ugualmente inconsistenti, e all'esterno hanno aspetto diverso, mentre all'intemo sono parimenti vane. E non invidiamo quelli che stanno più in alto: quelle che sembravano vette si sono rivelate dirupi. 6. Per converso quelli che una sorte contraria ha posto in situazione incerta saranno maggiormente sicuri togliendo superbia a cose superbe di per sé e cercando di portare il più possibile in piano la loro situazione. Ci sono molti che per necessità devono tenersi attaccati al loro rango, dal quale non possono scendere se non cadendone, ma attestano che proprio questo è il loro maggior onere, il fatto che sono costretti a essere di peso ad altri, e che non sono stati messi su un piedistallo ma ci sono stati inchiodati;" con giustizia, mitezza, benevolenza, con mano prodiga e generosa dovrebbero apprestare molte difese per i momenti favorevoli, alla speranza nei quali potrebbero attaccarsi con più sicurezza. 7. Nulla tuttavia ci saprà mettere al riparo da queste fluttuazioni dell'animo quanto fissare sempre un qualche termine ai nostri successi, e non concedere alla sorte l'arbitrio di smettere, ma fermarci noi stessi decisamente molto al di qua; in questo modo sia alcuni desideri stimoleranno l'animo sia, delimitati, non spingeranno verso l'infinito e l'incerto.
 
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view post Posted on 5/6/2009, 20:48

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SENECA:DE VITA BEATA



A cura di Diego Fusaro



Fratello Gallione,1 tutti vogliono vivere felici, ma quando si tratta di veder chiaro cos'è che rende felice la vita, sono avvolti dall'oscurità. Ed è così difficile raggiungere una vita felice che più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana, se si è fuori strada. Quando questa poi ci porta in direzione opposta, proprio la velocità diventa causa di maggiore distanza. Prima bisogna stabilire dove vogliamo andare, poi considerare per quale via possiamo farlo nel modo più rapido. Capirem02 durante il viaggio, se sarà quello giusto, quanto ogni giorno si procede e quanto siamo più vicini a dove il desiderio naturale ci spinge. Certo, finché vaghiamo a caso, senza seguire una guida' ma il clamore discorde di chi chiama da ogni parte, la vita si consumerà, resa breve dagli errori, anche se giorno e notte ci daremo da fare con le migliori intenzioni. Decidiamo, allora, dove vogliamo andare e per quale via ma non senza un esperto che già conosca la strada che cominciamo a percorrere, perché certo non è come negli altri viaggi dove, se si è individuato il percorso e si chiedono informazioni agli abitanti, non si può sbagliare. In questo caso, invece, proprio le strade più battute e frequentate ci traggono in inganno. Soprattutto bisogna fare attenzione a non seguire, come pecore, il gregge di chi ci precede, perché non si va dove si deve andare, si va dove vanno tutti. Del resto non c'è cosa che per noi comporti mali peggiori del conformarsi all'opinione pubblica, considerando migliore quello che è accolto da più largo consenso. E siccome non ci mancano gli esempi, si finisce per vivere non secondo ragione ma imitando gli altri. Per questo motivo è tanto grande la massa di persone che crollano una sull'altra. Come succede in una strage, quando la folla si schiaccia (nessuno, infatti, cade senza trascinare almeno un altro e i primi sono la rovina di quelli che seguono), così accade nella vita: nessuno sbaglia soltanto per sé ma diventa motivo e occasione di errore per altri. pericoloso, infatti, appoggiarsi a chi precede e, dal momento che ciascuno preferisce affidarsi piuttosto che esprimere un parere proprio, in particolare riguardo alla vita non si esprime mai un parere, ci si affida sempre. Così ci sconvolge e ci fa precipitare un errore che passa di mano in mano. Ci roviniamo a seguire l'esempio degli altri. Solo stando alla larga dalla folla potremo salvarci. Ma ora il popolo, privo di buon senso, si fa difensore del suo stesso male. Così capita come nei comizi, quando a meravigliarsi che certuni siano stati eletti pretori sono gli stessi che li hanno votati, una volta che il favore popolare (che è mutevole) è cambiato. Approviamo una cosa e la disapproviamo subito dopo: ecco il risultato di un parere espresso in base all'offinione della maggioranza. Ma quando si parla della vita felice, non mi puoi rispondere come per le votazioni:' "la maggioranza sta da questa parte". Infatti è la parte peggiore. Per le faccende umane non funziona così bene: le cose migliori sono sgradite ai più. La folla è la peggiore conferma. Chiediamoci, allora, cosa sia meglio fare e non quale sia il comportamento più comune,' cosa ci faccia ottenere una felicità duratura e non ciò che riscuote l'approvazione del volgo, pessimo interprete della verità; e per volgo intendo chi indossa la clamide' al pari di chi porta la corona. Infatti non guardo al colore dei vestiti che servono a coprire il corpo. Non credo alle apparenze. Ho uno strumento migliore degli occhi e più affidabile che mi permette di distinguere il vero dal falso: il bene dell'animo deve trovarlo l'animo. E appunto quest'animo, se riuscirà ad avere un attimo di respiro e a raccogliersi in se stesso, torturandosi da solo, di certo ammetterà la verità e dirà:' "non avessi mai fatto quello che ho fatto, se ripenso a quello che ho detto invidio i muti, ogni desiderio lo credo ora una maledizione dei miei nemici, ogni timore, o dei buoni, ha finito per essere più tollerabile di ciò che ho bramato! Sono stato nemico di molti e, se può esistere riconciliazione tra malvagi, mi sono riconciliato, dopo tanto odio. Ma ancora non sono amico di me stesso. Ho fatto di tutto per distinguermi dalla massa e farmi notare per qualche merito e cos'altro ho ottenuto a parte essermi esposto alle frecciate e offrire il fianco all'invidia? Li vedi questi che lodano l'eloquenza, inseguono la ricchezza, accarezzano i favori, esaltano il potere? Tutti costoro o sono nemici o lo possono diventare, che è lo stesso. Tanti sono gli ammiratori altrettanti gli invidiosi. Perché piuttosto non ricerco un bene da godere, da sentire intimamente invece che da ostentare? Tutte queste cose che attirano la nostra attenzione, davanti alle quali ci fermiamo e che, ammirati, ci mostriamo a vicenda, splendono di fuori ma dentro sono misere". Ricerchiamo un bene non apparente ma solido costante e bello soprattutto dentro: portiamolo alla luce. Non è lontano. Lo troveremo, basta solo sapere dove stendere la mano. Per ora brancoliamo nel buio e ci capita di sfiorare ciò che desideriamo o di sbatterci contro. Ma, per evitare giri viziosi, tralascerò le opinioni degli altri che sarebbe lungo elencare e discutere. Ascolta la nostra. E quando dico nostra non mi associo a nessuno dei grandi Stoici: ho diritto anch'io di esprimere la mia opinione.' Così, uno lo seguirò, a qualche altro chiederò di specificare meglio il suo pensiero e può darsi che, interpellato per ultimo, non disapprovi nessuna delle posizioni sostenute da chi mi ha preceduto e dica: "in più io penso questo". Intanto, d'accordo con tutti gli stoici, seguo la natura: è saggio non allontanarsene e conformarsi alle sue leggi e al suo esempio. t dunque felice una vita consona alla propria natura. Questo può accadere solo se, prima di tutto, la mente è sana anzi nel pieno possesso delle sue facoltà, se è veramente forte, decisamente paziente, adattabile alle circostanze, attenta al corpo e a tutto ciò che lo riguarda ma senza ansie, amante dei vantaggi che migliorano la qualità della vita ma con distacco' e pronta a servirsi dei doni della sorte senza diventarne schiava. Capisci da te, anche se non aggiungo altro, che ne deriva una serenità durevole e la libertà se si sono rimosse le cause dell'irritazione o del timore. Al posto dei piaceri e degli allettamenti` che sono meschini effimeri e dannosi, subentra una gioia immensa imperturbabile e costante e poi la pace e l'armonia dell'anima e la grandezza unita alla bontà. La cattiveria, infatti, nasce sempre dalla debolezza. Si possono dare anche altre definizioni del nostro bene, cioè lo stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Come un esercito" può schierarsi su un ampio fronte o in uno spazio ristretto, disporsi in semicerchio o in linea retta ma, qualunque sia l'ordinamento, non cambia la sua forza né la volontà di combattere per la stessa causa, così la definizione del sommo bene può essere ampia e dettagliata o breve e concisa. Dunque è lo stesso se dico: "il sommo bene c'è se l'animo disprezza la sorte e si compiace della virtù" oppure "se la forza d'animo è invincibile, esperta, calma nell'agire e associata a grande umanità e attenzione per il prossimo". Possiamo anche arrivare a dire che felice è l'uomo per cui non esistono il bene e il male ma solo l'animo buono o malvagio, che pratica il bene, si contenta della virtù, non si lascia esaltare né abbattere dagli eventi, non conosce bene più grande di quello che può procurarsi da solo e pensa che il vero piacere sta proprio nel disprezzare i piaceri.` Possiamo, se ti vuoi sbizzarrire, variare la stessa idea in forme sempre diverse senza che cambi affatto la sostanza. Cosa, infatti, ci impedisce di affermare che la vita felice è il risultato di un animo libero, elevato, impavido e costante, al di sopra di ogni timore, al di sopra di ogni passione, per cui l'unico bene è la dignità, l'unico male la disonestà e tutto il resto un mucchio di cose che non tolgono né aggiungono niente alla vita felice, che vanno e vengono senza aumentare o diminuire il sommo bene? Necessariamente un atteggiamento basato su questo, si voglia o no, porta a una serenità duratura, a una gioia profonda e intimamente sentita perché gode del suo e non desidera più di quello che ha. Come tutto questo potrebbe non ben compensare gli impulsi meschini futili e incostanti del nostro piccolo corpo? Il giorno che sarà dominato dal piacere sarà dominato anche dal dolore. Infatti vedi a quale tremenda schiavitù è condannato chi soggiace ora ai piaceri ora ai dolori, che sono i padroni più dispotici e capricciosi. Per questo bisogna mirare alla libertà. E c'è un solo modo per ottenerla: l'indifferenza verso la sorte. Allora nascerà quel bene inestimabile, la pace di una mente sicura e l'elevatezza morale e una gioia grande e imperturbabile che deriva dalla conoscenza del vero e dall'assenza di paure e una grande serenità. Di tutti questi beni godrà non in quanto tali ma perché nascono dal vero bene che lui possiede. Visto che ormai ho cominciato a trattare l'argomento ampiamente, possiamo ancora definire felice chi, grazie alla ragione, non ha né timori né passioni. In effetti, né i sassi provano paura e tristezza né certamente gli animali." Non per questo si potrebbe dire che sono felici dal momento che manca loro la consapevolezza della felicità. Vanno messi sullo stesso piano gli uomini che la loro stupidità e l'incoscienza di sé relegano tra le bestie. Non c'è nessuna differenza tra questi e quelle: infatti, le bestie non sono dotate di ragione, questi uomini ne hanno poca e per di più si ritorce a loro danno. Ora, nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità. Dunque è beata la vita che si basa costantemente su un giudizio retto e fermo. t allora infatti che la mente è pura, libera da ogni male, capace di sottrarsi sia alle ferite sia alle graffiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posizione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte. Per quanto poi concerne il piacere, se pure si spande tutto intorno e si insinua in ogni fessura, ci blandisce l'anima con sue lusinghe e ci mette davanti una tentazione dopo l'altra per sedurci completamente o almeno in parte, c'è forse un uomo, cui resti un briciolo di umanità, che vorrà lasciarsi trastullare giorno e notte e vorrà trascurare l'animo per dedicarsi solo al corpoV' "Ma anche l'animo" mi puoi dire` "avrà i suoi piaceri". E li abbia pure e sieda giudice del lusso e dei piaceri, si sazi di tutto quello che di solito alletta i sensi, poi rivolga il pensiero al passato e, memore dei piaceri trascorsi, si rallegri per le gioie passate e pregusti quelle future, organizzi le sue speranze e, mentre il corpo è ancora appesantito dal lauto pasto di oggi, corra già col pensiero a quello di domani. 16 Tutto questo mi parrà davvero meschino, dato che preferire il male al bene è pura follia. Nessuno può essere felice se non è sano di mente e certo non lo è chi desidera quello che gli nuocerà. t felice dunque chi giudica rettamente. t felice chi è contento della sua condizione, qualsiasi essa sia, e gode di quello che ha. E' felice chi affida alla ragione la condotta di tutta la sua vita. Anche quelli che hanno detto che il sommo bene risiede nei piaceri vedono in quale posto vergognoso l'hanno relegato. Per questo affermano che il piacere non può essere separato dalla virtù e sostengono che non vive con onore chi non vive anche con piacere e che non vive con piacere chi non vive anche con onore.` Non vedo come si possano accoppiare cose tanto diverse. Per quale ragione, vi chiedo, non si può separare il piacere dalla virtù? Forse perché il principio di ogni bene deriva dalla virtù e dalle sue radici nasce anche quello che voi amate e desiderate? Ma se piacere e virtù non fossero separati non esisterebbero cose piacevoli ma disonorevoli né cose onorevolissime ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze. Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più vergognosa ma la virtù non ammette una vita disonesta," poi che alcuni sono infelici non perché privi di piaceri ma proprio a causa dei piaceri: cosa che non accadrebbe se il piacere fosse mescolato alla virtù che spesso ne è priva ma mai ne ha bisogno. Perché volete mettere insieme cose diverse, anzi opposte? La virtù è qualcosa di alto, eccelso, regale, invincibile, infaticabile, invece il piacere è una cosa bassa, servile, debole, effimera` e sta di casa nei bordelli e nelle taverne. La virtù la troverai nel tempio, nel foro, nella curìa, a difesa delle mura, impolverata, accaldata e coi calli alle mani. Il piacere se ne sta quasi sempre nascosto, in cerca del buio intorno ai bagni e alle stufe,` nei luoghi che hanno paura degli edili,` fiacco, snervato, madido di vino e di profumi, pallido, imbellettato e imbalsamato come un cadavere. Il sommo bene è immortale, non conosce fine, non dà sazietà né rimorso perché la mente retta non cambia, non prova odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo.` Al contrario il piacere si esaurisce sul più bello, è limitato perciò sazia subito, viene a noia e dopo il primo slancio si affloscia. Non può essere stabile quello che per natura è in movimento.` Allo stesso modo non può avere nessuna consistenza quello che va e viene in un baleno, destinato a finire nell'attimo stesso in cui si consuma: infatti tende al punto in cui cessa e quando comincia ha già presente la fine. E poi perché mai il piacere esiste tanto tra i buoni che tra i malvagi e gli scellerati godono della loro infamia come gli onesti delle buone azioni? Per questo gli antichi ci hanno insegnato a seguire la vita migliore e non la più piacevole, in modo che il piacere sia compagno e non guida di una buona e retta volontà. t la natura infatti che dobbiamo prendere come guida: a lei si rivolge la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausiliarie e quelle armate alla leggera nell'esercito` (devono servire non comandare), allora di certo saranno utili alla mente. L'uomo non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e deve fare affidamento solamente su se stesso, sicuro di sè e pronto a tutto, insomma artefice della propria vita. La sua sicurezza non manchi di conoscenza e la conoscenza di costanza. Siano sempre saldi i suoi principi e le sue decisioni non subiscano modifiche. Si capisce, anche se non lo dico, che un uomo così sarà equilibrato e ordinato in ogni sua azione, magnifico ma non senza benevolenza. La ragione si interroghi stimolata dai sensi e li prenda come punto di partenza (del resto non ha altro da cui cominciare per prendere slancio verso la verità) ma poi torni in sé.` Infatti anche l'universo che tutto abbraccia e Dio che governa il mondo tendono verso l'esterno, e tuttavia sempre rientrano in sé.` Così deve fare la nostra mente: anche quando seguendo i sensi si spinge all'esterno deve avere il controllo su questi e su se stessa. In questo modo si realizzerà una forza unica e un'armonia tra le sue facoltà e nascerà quella razionalità sicura che è senza contraddizioni e che non ha incertezze sulle sue opinioni, conoscenze e convinzioni, quella razionalità che, quando si è organizzata ed è concorde in tutte le sue parti e, per così dire, agisce all'unisono, allora ha toccato il sommo bene. Perché non c'è più niente di riprovevole, niente di incerto, niente che la faccia inciampare e scivolare.` Farà tutto secondo il proprio volere e non gli capiterà nulla che non abbia previsto. Tutte le sue azioni avranno buon esito in modo facile, agevole e senza ripensamenti: infatti, pigrizia e indecisione denotano contrasto e incoerenza. Perciò si può affermare senza esitazione che il sommo bene è l'armonia dell'animo, infatti le virtù dovranno stare dove c'è accordo e unità: sono i vizi che non vanno d'accordo. "Ma anche tu" mi puoi dire "non coltivi la virtù per altro se non perché speri di ricavarne qualche piacere."` Per prima cosa, anche se la virtù procurerà piacere, non è per questo che la si cerca. Infatti non procura piacere ma anche piacere e non si affatica per questo ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha come conseguenza anche questo. Come in un campo seminato a frumento nascono qua e là i fiori ma non è per queste piantine (anche se sono belle da guardare) che è stata fatta tanta fatica (diverso era il proposito di chi seminava, il resto è venuto da sé), allo stesso modo il piacere non è il prezzo né la causa della virtù ma un suo accessorio e non piace perché diletta, ma, se piace, allora diletta. Il sommo bene consiste proprio nella convinzione e nel comportamento di una mente perfetta` che, quando ha compiuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato il sommo bene e non desidera niente di più: fuori del tutto non esiste nulla, nulla oltre la fine. Per questo sbagli a chiedere il motivo che mi spinge ad aspirare alla virtù: cerchi qualcosa al di sopra di ciò che è sommo. Vuoi sapere cosa mi aspetto dalla virtù? La virtù. Infatti non ha nulla di più prezioso del suo stesso valore. Ti sembra poco? Se ti dico: "il sommo bene è la fermezza di un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità", pretendi ancora qualcosa di più grande cui riferire questi beni? Perché mi nomini il piacere? lo cerco il bene dell' uomo non del ventre che, del resto, è più capiente negli animali." "Travisi" mi puoi dire "quello che dico. Infatti, io affermo che non si può vivere con piacere se non si vive anche con onore" e questo non può accadere né agli animali né a chi misura la felicità dal cibo. Affermo con molta chiarezza che la vita che definisco piacevole non può che essere associata alla virtù." Ma chi è che non sa che sono proprio i più stolti a essere stracolmi dei vostri piaceri, che la malvagità è ricca di soddisfazioni e che l'animo stesso suggerisce tanti tipi di piaceri vergognosi? Prima di tutto l'arroganza e l'eccesso di stima di sé,` l'orgoglio che disprezza tutti e l'amore cieco e incauto per le sue cose, l'esaltazione per i più piccoli e futili motivi e poi la maldicenza e la superbia che si compiacciono di offendere, l'inerzia e l'indolenza dell'animo che, fiaccato dalla profusione dei godimenti, si addormenta su se stesso. Tutto questo la virtù lo spazza via, ci dà una tiratina di orecchie, fa una valutazione dei piaceri prima di accettarli e non tiene neanche in gran conto quelli che approva: infatti non li accetta per goderseli, al contrario, si rallegra di poterli moderare?' Siccome però la moderazione limita i piaceri, è un'offesa per il sommo bene. Tu il piacere lo tieni stretto, io lo tengo a freno. Tu godi del piacere, io me ne servo. Tu credi che sia il sommo bene, io neanche un bene. Tu fai tutto per il piacere, io niente." Quando dico che non faccio nulla per il piacere mi riferisco a quel sapiente al quale soltanto concediamo il piacere. Ma non chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piacere. Perché, se è tutto preso da questo, come farà a resistere alla fatica, al pericolo, alla povertà e alle tante minacce che strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare la vista della morte, come i dolori, come il rumore del mondo e di nemici tanto violenti se cede davanti a un avversario così debole? "Farà tutto ciò che il piacere lo persuaderà a fare." Ma via, non vedi di quante cose lo persuaderà? "Non potrà persuaderlo di niente di turpe" puoi dire "perché è unito alla virtù." Ma ancora non vedi che razza di sommo bene è se ha bisogno di un guardiano per essere un bene? Come potrà la virtù guidare il piacere mentre lo segue se è ai subordinati che tocca seguire e ai comandanti guidare? Tu metti in coda chi comanda. Ha davvero un illustre incarico la virtù secondo voi: assaggiare i piacerfl` Ma vedremo` se la virtù, da loro così maltrattata, sarà ancora virtù perché non può conservare il suo nome se ha abbandonato il suo posto. Intanto, per restare in argomento, ti mostrerò molti uomini assediati dai piaceri che la sorte ha coperto di tutti i suoi doni ma che, devi riconoscere, sono malvagi. Guarda Nomentano e Apicio` che vanno a ricercare i beni (così li chiamano loro) della terra e del mare e fanno sfilare sulla mensa animali di ogni paese; li vedi che dal trono adorno di rose contemplano la loro tavola e si deliziano le orecchie al suono dei canti, gli occhi con spettacoli e il palato con ghiottonerie .38 Hanno tutto il corpo carezzato da stoffe morbide e delicate e, per evitare che le narici nel frattempo restino inerti, viene impregnato dei più svariati profumi il luogo dove la dissolutezza si celebra. Puoi dire che sono in mezzo ai piaceri ma non ne ricaveranno un bene perché non godono di un bene. "Sarà male per loro" dirai "perché interverranno molte cose a sconvolgere l'animo e le opinioni contrastanti renderanno inquieta la inente." t così, te lo concedo. Comunque, anche se stolti e volubili e soggetti al pentimento, proveranno grandi piaceri al punto che si deve ammettere che sono lontani allo stesso modo da qualsiasi inquietudine e serenità e, come succede ai più, sono preda di un'allegra follia e impazziscono dalle risate. Al contrario i piaceri dei saggi sono miti e pacati, quasi affievoliti, controllati e appena percettibili in quanto sopraggiungono senza che siano stati chiamati e, nonostante si presentino da sé, non sono accolti con onore né con particolare gioia da chi li riceve. Infatti il saggio li mescola con la vita come il gioco e il divertimento con le cose serie. La d~vono smettere, allora, di associare cose incompatibili e di confondere piacere e virtù. L con questo vizio che lusingano gli uomini peggiori. Chi si è lasciato andare in mezzo ai piaceri e va ruttando sempre ubriaco, siccome sa di vivere col piacere, crede di vivere anche con la virtù: infatti sente dire che virtù e piacere non possono essere separati e così fregia i suoi vizi col nome di sapienza ed esibisce ciò che dovrebbe nascondere. Non è Epicuro che li spinge a essere dissoluti, sono loro che, dediti al vizio, nascondono in grembo alla filosofia la loro dissolutezza e si precipitano dove sentono che si loda il piacere. Non considerano però quanto sia sobrio e moderato il piacere di Epicuro (questo, per Ercole, è quello che penso io) ma accorrono al solo nome, sperando di trovare giustificazione e copertura per le loro dissolutezze." Così perdono anche l'unico bene che possedevano fra tanti mali: il pudore del peccato. Infatti lodano ciò per cui arrossivano e si vantano del vizio. E non può neppure risvegliarsi il pentimemo" perché si è dato un nome nobile a una turpe ignavia. Per questo è pericolosa l'esaltazione del piacere, perché i nobili insegnamenti restano nascosti e le fonti di corruzione emergono. Personalmente sono del parere (e lo esprimerò anche se i nostri compagni non sono d'accordo) che gli insegnamenti di Epicuro siano venerabili, retti, a ben guardare perfino austeri.` Infatti il piacere è ridotto a una piccola ed esigua cosa e la stessa legge cui noi assoggettiamo la virtù, egli la impone al piacere: obbedire alla natura. E ciò che basta alla natura è certo poco per il vizio. E allora? Chiunque chiami felicità l'inoperosità oziosa e l'alternanza dei piaceri della gola e dei sensi, cerca un valido sostenitore della sua cattiva condotta e, quando si avvicina, attratto dal bel nome, non segue il piacere di cui ha sentito parlare ma quello che già portava con sé. Quando poi comincia a credere i suoi vizi conformi agli insegnamenti, indulge a questi non più timidamente e di nascosto, anzi, si lascia andare ormai senza pudore. Così non dirò, d'accordo con la maggior parte dei nostri, che la scuola di Epicuro è maestra di perdizione. Dico, piuttosto, che è screditata, che ha una cattiva fama e a torto.` Chi può saperlo se non è un iniziato? L anche il suo aspetto che dà luogo a dicerie e suscita speranze distorte. t come quando un uomo forte si veste da donna: il tuo onore è intatto, la tua virilità è salva, il tuo corpo è libero da qualsiasi indecente tentazione, però hai in mano il tamburello.` Occorre dunque scegliere un nome decoroso e un'insegna che di per sé sollevi l'animo, perché quella che c'è adesso attira i vizi. Chiunque si avvicina alla virtù si dimostra di indole nobile, chi invece segue il piacere è snervato, fiacco, degenerato, pronto ad abbandonarsi ai vizi più turpi se non gli si fa vedere una distinzione fra i piaceri in modo che sappia quali si mantengono nei limiti del bisogno naturale e quali sono sfrenati e senza fine, tanto più insaziabili quanto più si cerca di appagarli. Allora sia la virtù a precedere, così ogni passo sarà sicuro. E poi il piacere nuoce se è troppo, al contrario la virtù non c'è pericolo che sia troppa perché contiene in sé la misura. Non può essere un bene quello che risente della sua stessa grandezza. Inoltre, a coloro che hanno ricevuto in sorte una natura razionale, cosa si puo offrire di meglio della ragione? Se poi questo abbinamento risulta gradito, che si vada cioè insieme verso la vita felice, dovrà essere la virtù a precedere e il piacere a seguirla e a starle vicino come l'ombra al corpo. Ma fare della virtù (signora per eccellenza) la serva del piacere è proprio di un animo incapace di grandezza. La virtù vada avanti per prima e sia lei a portare le insegne. Avremo comunque il piacere ma potremo dominarlo e farne uso moderato: qualche volta ci indurrà a cedere ma mai potrà costringerci. Quelli che invece hanno messo al primo posto il piacere restano privi di tutti e due: la virtù la perdono e il piacere non sono loro a tenerlo in pugno, al contrario è il piacere che tiene in pugno loro perché se manca li tormenta, se è in eccesso li soffoca. Infelici se li abbandona, ancor più infelici se li travolge. Come chi viene sorpreso dalla tempesta nel mar delle Sirti ~44 o?finisce come un relitto sulla riva o resta in bafia della violenza delle onde. t questo il risultato della troppa intemperanza e dell'amore cieco per qualche cosa. Infatti chi preferisce il male al bene corre dei rischi se ottiene il suo scopo. Con fatica e non senza pericolo andiamo a caccia di fiere e, anche dopo averle catturate, dobbiamo stare molto attenti perché spesso sbranano i padroni; così sono i grandi piaceri: vanno a finire in grandi disgrazie e chi li possiede ne è posseduto. E poi, quanto più sono numerosi e grandi tanto più è meschino e servo di più padroni l'uomo che il volgo chiama felice. Mi sembra bello soffermarmi ancora su questa immagine di caccia: chi va a stanare belve e considera gran cosa "prendere le bestie coi lacci" e "accerchiare coi cani ampie [radure" 45 per seguirne le tracce, viene meno a impegni molto più importanti e lascia da parte molti doveri. Così chi insegue il piacere lo antepone a tutto il resto e trascura, per prima, la libertà facendola dipendere dalla gola e non si compra i piaceri, si vende ai piaceri. "Tuttavia" dirai "che cosa impedisce di fondere insieme virtù e piacere in modo che il sommo bene risulti allo stesso tempo dignitoso e piacevole?" Ma una parte di dignità non può non essere degna e inoltre il sommo bene non sara più integro se vedrà al suo interno qualche elemento meno che ottimo. Neppure la gioia che deriva dalla virtù, per quanto sia un bene, fa parte del bene assoluto e così la letizia e la tranquillità, anche se nascono dalle più nobili cause. Infatti è certo che questi sono beni ma non realizzano il sommo bene, ne sono solo la conseguenza. Chi mischia la virtù col piacere anche se non alla pari, indebolisce il vigore che c'è in un bene con la fragilità di un altro e manda sotto il giogo la libertà, che è imbattibile se non conosce qualcosa di più prezioso di se stessa. Infatti si comincia ad aver bisogno del favore della sorte e questa è la peggiore schiavitù. Ne consegue una vita piena di ansie, sospetti e trepidazioni, timorosa degli eventi e condizionata dalle circostanze. Tu non offri alla virtù una base solida e stabile, anzi, la costringi a una condizione precaria. E cosa c'è di più precario dell'attesa di eventi accidentali e della mutevolezza delle condizioni fisiche e di quello che sul corpo influisce? Come è possibile che quest'uomo possa obbedire a Dio, accettare di buon animo ogni evenienza, non lamentarsi del suo destino e trovare il lato positivo in ogni situazione se anche il più piccolo stimolo piacevole e doloroso può sconvolgerlo? E non può essere neppure un buon difensore o salvatore della patria né proteggere gli amici" se tende al piacere. Dunque, il sommo bene deve salire fino a un luogo da cui nessuna forza possa farlo precipitare e a cui non abbiano accesso dolore speranza e timore né alcuna altra emozione che possa intaccare il valore del sommo bene. Ma soltanto la virtù può salire fin là. Dovrà vincere questa salita col suo passo, terrà duro e sopporterà ogni evento non con rassegnazione ma di buon grado, ben sapendo che le avversità della vita sono una legge di natura e, da buon soldato, sopporterà le ferite, conterà le cicatrici e, anche in punto di morte, trafitto dalle frecce, amerà il comandante per cui è caduto. Avrà sempre in mente l'antica massima: segui Dio.` Invece chi si lamenta piange e si dispera è costretta a forza a eseguire gli ordini ed è obbligato lo stesso a obbedire, anche controvoglia. Ma che sciocchezza è questa di farsi trascinare invece di seguire?" Così, per Ercole, è stupidità e incoscienza della propria condizione affliggerti se qualcosa ti manca o ti è difficile da sopportare e stupirsi o indignarsi di quanto capita ai buoni come ai malvagi: intendo malattie, lutti, infermità e tutte le altre traversìe della vita umana. Affrontiamo dunque, con grande forza d'animo, tutto quello che per legge universale dobbiamo sopportare. L un dovere che siamo tenuti ad assolvere: accettare le sofferenze umane e non lasciarsi sconvolgere da quello che non è in nostro potere evitare. Siamo nati sotto una monarchia dove obbedire a Dio è l'unica libertà possibile. Dunque la vera felicità risiede nella virtù. Ma quali consigli ti darà questa virtù? Di considerare bene solo ciò che è legato alla virtù e male ciò che è legato alla malvagità. Poi di restare ben saldo di fronte al male e al seguito del bene in modo da imitare Dio nei limiti del possibile. E che premio ti promette per questa impresa? Privilegi grandi e degni degli dei: non sarai costretto a nulla, non avrai bisogno di nulla, sarai libero sicuro e inviolabile, non tenterai niente invano e non sarai mai ostacolato, tutto andrà secondo il tuo desiderio, nulla ti sarà avverso né contrario al tuo intento e alla tua volontà. "Allora basta la virtù per essere felici?" Perfetta e divina com'è perché non dovrebbe essere sufficiente, anzi più che sufficiente? Cosa può mancare infatti a chi è al di là di ogni desiderio? Di cosa può aver bisogno dall'esterno chi ha raccolto tutto in se stesso? Ma chi ancora non ha raggiunto la virtù," anche se ha fatto molta strada, ha bisogno che la sorte gli sia benevola finché si dibatte in mezzo ai difetti umani e non riesce a sciogliere questo nodo e ogni vincolo mortale. Allora che differenza c'è? Che questi sono ben bene legati stretti e incatenati e invece a chi ha cercato di arrivare più in alto si è allentata la catena e anche se non è ancora libero è come se già lo fosse." A questo punto qualcuno di quelli che abbaiano contro la filosofia ripeterà il solito ritornello: "Perché` c'è più coraggio nei tuoi discorsi che nella tua vita? Perché abbassi la voce di fronte ai superiori, consideri il denaro una necessità, ti lasci abbattere dalle sconfitte, piangi se ti muore la moglie o un amico, ci tieni al tuo buon nome e sei sensibile alle insinuazioni? Perché le tue terre producono più di quanto richiede la tua necessità? Perché i tuoi pasti non sono coerenti con le tue teorie? Perché hai suppellettili così raffinate? Perché a casa tua si beve vino più vecchio di te? Perché ti sei fatto costruire un'uccelliera?` Perché hai fatto piantare alberi che daranno solo ombra? Perché tua moglie porta appeso alle orecchie un valore pari a tutto il patrimonio di un ricco casato? Perché i tuoi giovani schiavi indossano vesti tanto eleganti? Perché a casa tua servire a tavola è un'arte e non si dispone l'argenteria come capita ma con estrema perizia e c'è addirittura un esperto per il taglio delle vivande?". Se vuoi puoi anche proseguire: "Perché hai proprietà oltre mare e non sai neppure quante? Ma che vergogna: o sei così trasandato da non conoscere i pochi schiavi che hai o sei talmente ricco che ne hai più di quanti puoi ricordare"." Più tardi rincarerò da me la dose e farò un elenco dei miei difetti che neanche immagini, per ora ti risponderò così: non sono saggio e (così mi do in pasto da solo alla tua ostilità) mai lo sarò.` £ questo che puoi pretendere da me: non che io sia all'altezza dei migliori, ma migliore dei peggiori. Mi basta togliere un po' di terreno ai miei vizi tutti i giorni e castigare i miei difetti. Non sono guarito e non guarirò. Infatti non mi preparo medicamenti per la gotta ma solo calmanti, ben contento se gli attacchi sono meno frequenti e i dolori meno atroci. Certo, in confronto alla vostra andatura, anche se debilitato, sono un velocista.` Ma non parlo per me che sono in un mare di vizi, parlo per chi ha già raggiunto qualche risultato. Dirai: "Parli in un modo e agisci questo, lingue biforcute velenose e ostili" alle persone più degne, è stato contestato anche a Platone, a Epicuro e a Zenone. Dicevano tutti di vivere non come loro vivevano ma come loro stessi avrebbero dovuto. Parlo della virtù, non di me, e quando condanno i vizi, per primi condanno i miei. Appena potrò vivrò come si deve. Non sarà la vostra velenosa malignità a dissuadermi dalle più alte ambizioni né il veleno che sputate addosso agli altri, e che però uccide voi, mi impedirà di continuare a lodare non la vita che conduco ma quella che so bene dovrei condurre, a onorare la virtù e a seguirla anche arrancando da lontano. Forse dovrei sperare che scampi qualcosa a quella cattiveria che non ha risparmiato neanche Rutilio e Catone? 57 Ma vale proprio la pena di non sembrare troppo ricco a chi pensa che Demetrio," il cinico, non è povero abbastanza? Anche di un uomo così risoluto nella lotta contro tutte le esigenze naturali e più povero di tutti gli altri cinici, perché non solo si privava di possedere ma persino di chiedere, dicono che non è povero abbastanza. Lo vedi da te: non ha professato la teoria della virtù ma della povertà. Di Diodoro," il filosofo epicureo che si è suicidato` qualche giorno fa, dicono che a tagliarsi la gola non ha rispettato gli insegnamenti di Epicuro:` c'è chi dice il suo gesto folle chi sconsiderato. Intanto lui, beato, con la coscienza tranquilla ha lasciato con la vita anche la sua testimonianza e ha lodato la quiete di tutta un'esistenza trascorsa ormeggiato nel porto. Ha pronunciato parole che avete ascoltato malvolentieri, quasi vi si fosse chiesto di fare altrettanto: Ho vissuto, ho compiuto il cammino che la sorte mi ha dato. State a discutere della vita di uno, della morte di un altro e quando sentite nominare qualcuno che ha meritato di essere riconosciuto grande, abbaiate come cagnolini che sentono avvicinarsi qualche estraneo. La verità è che vi fa comodo se non ne risulta buono neanche uno perché vi sembra che la virtù degli altri rinfacci delle colpe a voi. Per invidia paragonate la loro grandezza alle vostre meschinità e non capite quanto vi danneggia la vostra insolenza. Ora, se gli uomini che aspirano alla virtù sono avari dissoluti e ambiziosi, che cosa siete mai voi che la virtù non sopportate neppure di sentirla nominare? Sostenete che nessuno di loro fa quello che dice e non vive in conformità con le sue parole. Non è strano: le loro sono parole eroiche grandiose e superiori a tutte le tempeste umane. Anche se non riescono a staccarsi dalle croci su cui ognuno di voi conficca i suoi chiodi, tuttavia, quando sono condotti al supplizio, pendono ciascuno da un solo palo." Invece questi che badano soltanto a se stessi, hanno una croce per ogni passione. Ma i maldicenti si fanno belli a offendere gli altri. Potrei credere che non abbiano questo difetto se non ci fosse chi sputa sul pubblico anche dalla forca. "I filosofi non fanno quello che dicono." E invece fanno già molto a dire quello che dicono e che pensano onestamente. Se poi il comportamento fosse all'altezza delle parole, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buone e l'animo colmo di buone intenzioni. Coltivare benefiche inclinazioni è coniunque lodevole al di là del risultato. Niente di strano se non arriva in cima chi ha tentato una scalata difficile. Se sei un uomo guarda con rispetto a chi si cimenta in grandi prove, anche se fallisce. Un animo nobile, senza contare sulle proprie forze, ma su quelle che la sua natura gli può fornire, cerca di mirare in alto e di concepire progetti irrealizzabilí per chi non abbia un animo davvero grande. Chi si è proposto questo: "guarderò in faccia la morte con lo stesso stato d'animo che ho quando ne sento parlare, sopporterò qualsiasi fatica con forza d'animo, disprezzerò le ricchezze, ci siano o non ci siano e non sarò più triste o più superbo a seconda che brillino intorno a me o altrove. Tratterò con indifferenza la sorte favorevole e quella avversa. Guarderò tutte le terre come se fossero mie, le mie come se fossero di tutti. Vivrò nella convinzione di essere nato per gli altri e ringrazierò la natura per questo: come avrebbe potuto agire meglio nel mio interesse? Ha dato me a tutti gli altri e tutti gli altri a me solo. Se poi avrò qualcosa non sarò spilorcio ma neanche scialacquatore. Crederò veramente mio quello che ho fatto bene a donare e non valuterò i benefici dal numero o dal peso ma dalla stima che avrò per chi li riceve: non sarà mai troppo quello che potrò dare a chi lo merìta.64 Farò tutto secondo coscienza senza basarmi sull'opinione degli altri e, anche se sarò solo io a sapere quello che faccio, mi comporterò come se tutti mi potessero vedere.` Mangerò e berrò soltanto per soddisfare i miei bisogni naturali e non per riempirmi e svuotarmi lo stomaco. Sarò affabile con gli amici e mite e indulgente con i nemici. Cercherò di prevenire ogni richiesta dignitosa e di anticipare ogni preghiera. Considererò il mondo la mia patria e gli dei la mia guida, loro che sempre sono presenti e giudicano ogni mio gesto e ogni mia parola. E quando la natura verrà a riprendersi la mia anima o sarà la ragione a decidere di lasciarla libera ~66 me ne andrò potendo dire di aver sempre amato la rettitudine morale e i nobili intenti senza aver mai limitato la libertà di nessuno e tanto meno la mia". Chi si prefiggerà questi obiettivi, desidererà di raggiungerli e farà tutto il possibile, percorrerà la strada che porta al cielo e, anche se non conquisterà la vetta tuttavia è caduto nel mezzo di una grande impresa. 67 Ma voi che odiate la virtù e chi la coltiva non fate davvero niente di nuovo. Anche chi ha problemi agli occhi non sopporta la luce e gli animali notturni evitano lo splendore del giorno. Non appena sorge il sole corrono a nascondersi nelle loro tane e, per timore della luce, si rifugiano in qualche fessura. Lagnatevi, sprecate il fiato a insultare i buoni, spalancate la bocca, mordete, vi spezzerete i denti senza neppure lasciare il segno. Com'è che quel tale è dedito alla filosofia eppure è tanto ricco? Perché dice che si devono disprezzare i beni materiali, però ne ha, giudica spregevole la vita, però è vivo, spregevole la salute, però cerca di preservarla con ogni riguardo e la desidera perfetta? E perché, ancora, giudica l'esilio una parola senza senso e dice: "Che male c'è a cambiare paese?" però, se gli riesce, invecchia in patria?" E ancora, sostiene che non c'è nessuna differenza tra una vita lunga e una breve, però, se niente glielo impedisce, cerca di vivere il più a lungo possibile e di mantenersi vigoroso e sereno durante la lunga vecchiaia?Afferma che tutte queste sono cose spregevoli, non nel senso che non si debbano possedere ma possedere senza ansie, non le respinge ma, se svaniscono, va avanti tranquillo. D'altra parte la sorte dove meglio metterà al sicuro le ricchezze se non dove potrà andarle a riprendere senza che chi le restituisce si lamenti? Marco Catone, anche se lodava Curio e Coruncanio" e i bei tempi in cui possedere un po' d'argenteria era un reato punito dai censori, aveva di suo quattro milioni di sesterzi: senza dubbio meno di Crasso ma più di Catone il censore. Per fare un paragone, aveva superato il bisnonno` più di quanto Crasso avesse superato lui e, se anche gli fosse capitato di entrare in possesso di altri beni, certo non li avrebbe rifiutati. Infatti il saggio non crede di non meritare i doni della sorte: non ama le ricchezze ma le accetta volentieri,` le lascia entrare nella sua casa non nella sua anima e non le respinge, anzi, le tiene e fa in modo che offrano maggiori occasioni alla sua virtù. Infatti non c'è dubbio che si presentino al saggio maggiori occasioni di sviluppare le sue attitudini nella ricchezza che nella povertà. Nella povertà l'unica possibile virtù sta nel non farsi piegare o schiacciare, nella ricchezza, invece, hanno campo libero temperanza, generosità, accortezza, ordine e magnificenza. Il saggio non avrà poca stima di sé se sarà di bassa statura, tuttavia desidererà essere alto. Anche se gracile e privo di un occhio manterrà la consapevolezza del suo valore, preferirà tuttavia essere robusto, senza però dimenticare che i valori che ha in sé sono ben altri. Sopporterà la malattia ma si augurerà la salute. Infatti ci sono molte cose che, anche se nel complesso risultano di poco conto e possono venire a mancare senza danno per il bene principale, tuttavia procurano qualche vantaggio alla serenità duratura che deriva dalla virtù. Così le ricchezze sono gradite al saggio: come un vento favorevole ai naviganti, come una giornata di sole nel freddo dell'inverno. E poi nessuno tra i sapienti (intendo fra i nostri per cui la virtù è l'unico vero bene) sostiene che anche questi vantaggi, che definiamo indifferenti, non abbiano un loro proprio valore e che alcuni non siano preferibili ad altri: li consideriamo di maggiore o minore pregio. Non ti ingannare: la ricchezza è tra i vantaggi più desiderabili. "Allora" dirai "perché mi deridi se per te ha la stessa importanza che per me? " Vuoi vedere che non è proprio la stessa importanza? Se le mie ricchezze dovessero svanire, non mi porteranno via altro che loro stesse, tu, invece, resterai stordito e ti sentirai privato di te stesso, se ti dovessero abbandonare: per me le ricchezze hanno una certa importanza, per te una grandissima. Infine le ricchezze appartengono a me, tu, al contrario, appartieni a loro Smettila, dunque, di vietare ai filosofi di possedere denaro: nessuno ha condannato la saggezza alla povertà. Il filosofo potrà possedere grandi ricchezze purché non siano rubate, macchiate di sangue, frutto di ingiustizie o di sporchi guadagni. Le uscite siano pulite come le entrate in modo che nessuno, a parte i maligni, si potrà lamentare. Accumulane quante ne vuoi: sono pulite perché non ce ne sarà nessuna che qualcuno potrebbe dir sua, anche se ce ne saranno molte che chiunque vorrebbe dir sue. Di certo il saggio non respingerà il favore della sorte e non si vanterà né si vergognerà di un patrimonio onestamente acquisito. E avrà anche motivo di vantarsi se, aperta la sua casa e invitata tutta la città a vedere i suoi beni, potrà dire: "se uno di voi riconosce qualcosa di suo se lo porti via". 0 uomo davvero grande e giustamente ricco, se dopo questo invito avrà quello che aveva prima! Voglio dire che, se in piena tranquillità e senza preoccupazioni avrà consentito al popolo di indagarlo e se nessuno avrà trovato nulla da rivendicare, allora potrà essere ricco con orgoglio e a testa alta. Il saggio non lascerà entrare in casa sua danaro sospetto ma, con lo stesso criterio, non rifiuterà di certo ricchezze, anche grandi, dono della sorte e frutto della virtù. Perché poi dovrebbe privarle di una degna sistemazione? Vengano pure: saranno ben accette. Non le ostenterà ma neanche le terrà nascoste: in un caso è da sciocchi, nell'altro da meschini e pusillanimi che credono di avere per le mani un gran bene però, come ho già detto, non le metterà alla porta. Cosa dovrebbe dire: "Siete inutili" o forse "io non sono capace di amministrare le ricchezze?". Come, anche potendo fare un percorso a piedi, preferirà farlo su un mezzo, così non vorrà certo essere povero se potrà essere ricco. Ma terrà le sue ricchezze consapevole che sono leggere e volatili e non lascerà che diventino un peso né per gli altri né per sé. Sarà generoso, non drizzate le orecchie non stendete la mano, sarà generoso con chi ne è degno o con chi ha la possibilità di diventarlo, scegliendo con la massima cura i più meritevoli perché sa che bisogna render conto sia delle uscite che delle entrate. Sarà generoso nelle giuste occasioni, infatti un dono sbagliato è un inutile spreco, avrà la manica larga non le mani bucate da cui esce molto ma niente va perso. Sbaglia chi pensa che donare sia facile: tutt'altro, presenta grandi difficoltà se lo si fa in modo sensato e non a caso o per istinto. Con qualcuno vado a credito, con qualcun altro mi sdebito, a questo vengo incontro,di questo, invece, ho compassione. Do un aiuto a quel~ l'altro che non merita che la fame gli impedisca di pensare, a questo invece non darò proprio niente anche se ne avrebbe bisogno perché, per quanto possa dargli, gli mancherà sempre qualcosa. Con qualcuno poi mì limitero a offrire, altri insisterò perché accettino. Non posso dare con leggerezza perché quando dono faccio il mio migliore investimento. Dirai: "Allora dai per ricevere?". "No, per non perdere": si deve fare in modo che un dono non debba essere rinfacciato ma possa essere restituito. Il favore va trattato come un tesoro che si tiene gelosamente nascosto e non si tira fuori se non è proprio necessario. E poi anche la casa stessa dell'uomo ricco offre infinite occasioni di fare del bene. Chi dice che bisogna essere generosi solo con la gente di rango? La natura mi impone di fare del bene agli uomini, schiavi o liberi che siano, nati liberi o no. Che differenza fa se è una libertà legale o concessa per amicizia? Dove c'è un uomo c'è anche la possibilità di fare del bene.` Si possono fare elargizioni in danaro anche tra le mura di casa ed esercitare la liberalità, che non si chiama così perché è rivolta a uomini liberi ma perché scaturisce da un animo libero. L'uomo saggio non rivolge mai la sua generosità verso chi non la merita, ma la sua fonte è inesauribile ogni volta che incontra qualcuno che invece la merita. Pertanto, non è possibile che fraintendiate le parole rette forti e coraggiose di colui che persegue la saggezza. Ma state bene attenti: una cosa è cercare di diventare saggi e un'altra esserlo.` Quello dirà: "Parlo bene ma mi dibatto ancora tra moltissime difficoltà. Non mi puoi mettere a con~ fronto con i miei princìpi quando io faccio del mio meglio, cerco di migliorare e aspiro a un ideale davvero grande. Solo quando avrò fatto i progressi che ho intenzione di fare potrai confrontare quello che dico con quello che faccio". Chi invece sarà arrivato alla perfezione parlerà diversamente: "Prima di tutto non ti puoi permettere di dar giudizi su chi è migliore di te". Finisco per essere malvisto dai malvagi e già questa è la prova che sono nel giusto. Ma per darti una spiegazione, che non si nega a nessuno, ascolta quello che sto per dirti e che valore do io a ciascuna cosa. Dico che le ricchezze non sono beni: se lo fossero farebbero diventare buoni. Ora, mi rifiuto di definire bene ciò che si può trovare anche tra persone malvagie. D'altra parte sono convinto che possederle sia lecito, utile e che migliori la qualità della vita. Allora ascoltate perché non includo le ricchezze fra i beni e perché il mio comportamento nei riguardi di queste è così diverso dal vostro (ormai che si è convenuto che possederle è lecito). Mettimi in una casa che più ricca non si può, dove non si fa differenza tra oro e argento: non penserò per questo di valere di più. Infatti le ricchezze stanno intorno a me, non sono parte di me.` Ora cambiami dì posto e sbattimi sul ponte Sublicio" in mezzo ai poveri: non penserò per questo di valere di meno solo perché sto in mezzo a quelli che chiedono l'elemosina. E allora, cosa cambia? Non hanno un tozzo di pane ma non gli è tolto di poter vivere. In conclusione, preferisco una casa splendida a un ponte. Circondami di mobili pregiati, di raffinate suppellettili, non mi crederò più fortunato perché posso adagiarmi sul morbido o perché faccio sedere i miei convitati sulla porpora." Cambiami il materasso: non sarò più infelice se potrò distendere le membra stanche sopra un po' di fieno o se potrò dormire su un pagliericcio da circo che magari perde l'imbottitura dai rammendi della tela vecchia. Anche qui, preferisco esprimere il mio parere calzato e vestito." Supponiamo che tutti i miei giorni si susseguano secondo le mie speranze e che nuove gioie subentrino sempre alle precedenti, non per questo mi compiacerò di me stesso. Ribalta ora questa favorevole situazione e il mio animo sia colpito da ogni parte da disgrazie, lutti e avversità di ogni genere. Ogni istante sia nuovo motivo di pianto: non per questo penserò di essere infelice, pur in mezzo ad avvenimenti così infelici, non maledirò neanche un giorno della mia vita. Ho predisposto il mio animo in anticipo in modo che anche il giorno più tetro non riuscisse a turbarlo. Comunque preferisco dover moderare il piacere che lenire il dolore. Dirà Socrate: "Immaginami vincitore di tutto il mondo mentre l'elegante carro di Libero mi porta in trionfo dall'Oriente fino a Tebe, immagina tutti i re che mi consultano:" non dimenticherò che sono un uomo proprio mentre mi osannano come un dio. Di colpo, da queste altezze, fammi precipitare nella più profonda rovina: caricami su un carretto come ornamento per la parata di un vincitore fiero e superbo. Non mi riterrò più umile dietro al carro di un altro di quando stavo in piedi sul mio. Però preferisco vincere che esser fatto prigioniero. Disprezzerò la sorte con tutti i suoi domini ma, se mi sarà permesso di scegliere, prenderò il meglio. Qualsiasi cosa mi capiterà sarà un bene per me, ma sarà meglio se si tratterà di eventi lieti e piacevoli e che procurino il minor numero di disagi. Certo non crederai esista una virtù senza fatica, solo che con alcune virtù servono sproni, con altre freni. Nello stesso modo c'è bisogno in discesa di trattenere il corpo, di spingerlo in salita. Non c'è dubbio che costanza, tenacia e perseveranza comportino fatica, sforzo e resistenza come qualsiasi altra virtù che si opponga alle avversità e tenti di piegare la sorte. Ed è altrettanto chiaro che liberalità, temperanza e mansuetudine vanno in discesa. Qui dobbiamo frenare l'animo perché non scivoli, là dobbiamo spingerlo e incitarlo con forza. Dunque per la povertà dovremo utilizzare le virtù più forti nella lotta, per le ricchezze quelle più prudenti, che procedono con cautela e che non perdono l'equilibrio. Stabilita questa differenza, preferisco avere a che fare con quelle che possono essere coltivate in tranquillità invece che con quelle che richiedono sudore e sangue. Insomma (dice il saggio) non sono io che parlo in un modo e vivo in un altro, siete voi che capite una cosa per un'altra: sentite solo il suono delle parole senza comprenderne il senso". "Che differenza c'è, allora, tra me sciocco e te saggio se tutti e due miriamo al possesso?" Enorme: infatti le ricchezze sono al servizio del saggio e al comando dello sciocco." Il saggio non permette niente alle ricchezze, quelle a voi tutto. Voi, come se qualcuno ve ne avesse assicurato il possesso eterno, ci fate l'abitudine e vi ci attaccate, invece il saggio pensa alla povertà proprio quan~ do si trova in mezzo alla ricchezza. Mai un generale si fida della pace al punto da non tenersi pronto per una guerra che anche se non si combatte ancora è già dichiarata. Basta a farvi diventare arroganti una bella casa, come se non potesse andare a fuoco o crollare. Le ricchezze vi inebriano perché pensate possano superare qualsiasi ostacolo e che la sorte non abbia armi per annientarle,' così invincibili come sembrano a voi. Spensierati ve la spassate tra le ricchezze senza nessun presentimento del pericolo, come fanno di solito i barbari assediati che, non conoscendo l'uso delle macchine da guerra, stanno a guardare indifferenti l'affaccendarsi degli assedianti e non capiscono a cosa servono quelle costruzioni realizzate a distanza. Così succede a voi: vi infiacchite in mezzo ai vostri averi e non pensate a quante sventure incombono da ogni parte e stanno già per strapparvi la preziosa preda. Chiunque potrà portare via le ricchezze all'uomo saggio ma non togliergli i suoi veri beni" perché egli vive lieto nel presente e incurante dei futuro. Dice Socrate o un altro di pari autorevolezza, se si parla di vicende umane: "Ho una profonda convinzione: il mio comportamento non può essere condizionato dai vostri giudizi. Rivolgetemi i soliti attacchi, non penserò che mi insultate ma che piagnucolate come lattanti". Parlerà così chi ha raggiunto la saggezza perché, libero da vizi, si sente spinto a rimproverare gli altri e non per astio ma anzi a fin di bene. E aggiungerà: "Le vostre critiche mi colpiscono ma non per me, per voi, perché se continuate a imprecare contro la virtù e a perseguitarla allora non vi rimane nessuna speranza. A me non fate nessun affronto. Infatti neppure chi distrugge gli altari fa torto agli dei, ma sono chiare le sue cattive intenzioni anche se non può nuocere. Tollero le vostre idiozie come Giove Ottimo Massimo le sciocchezze dei poeti: uno gli mette le ali, un altro le corna, un altro ancora lo rappresenta come un adultero che va in giro di notte, uno implacabile con gli dei, un altro iniquo con gli uomini e ancora uno sequestratore di uomini liberi e perfino di parenti, un altro parricida e usurpatore del regno paterno." A credere tali gli dèi, non hanno fatto altro che togliere agli uomini il pudore del peccato." Ma anche se neppure mi scalfite lo dico per voi: guardate con ammirazione alla virtù, fidatevi di quelli che, dopo averla perseguita a lungo, affermano che si tratta di qualcosa di grande e che diventa ogni giorno più grande. Anzi veneratela come gli dei e venerate i suoi maestri come i sommi sacerdoti e tutte le volte che saranno nominati i testi sacri acconsentite in silenzio." Questo modo di dire non va inteso (come credono i più) nel senso di acconsentire davvero, semplicemente impone il silenzio in modo che il rito si possa celebrare secondo le regole e senza schiamazzi oltraggiosi. Infatti è davvero necessario che vi sia imposto, così, quando l'oracolo darà qualche responso, potrete ascoltare con attenzione e a bocca chiusa. Quando qualcuno agita il sistro e racconta frottole su commissione, quando qualche impostore finge di ferirsi le membra e si insanguina appena appena braccia e spalle, oppure quando una donna si trascina per strada sulle ginocchia e urla o un vecchio bardato di lino e di alloro, con in mano una lucerna, in pieno giorno, grida che qualche dio è adirato, voi accorrete e siete pronti a giurare che è ispirato dagli dei alimentando così uno lo sbalordimento dell'altro Ed ecco Socrate che dal carcere purificato dalla sua presenza e reso più onorabile di qualsiasi curia," procla ma: "Che follia è questa, che istinto avverso agli uomini e agli dei, di disonorare la virtù e con voci maligne pro fanare cose sacre? Se potete lodate le persone virtuose, se non potete astenetevi. Se però vi piace far mostra del la vostra vergognosa insolenza insultatevi fra voi. Quan do vi infuriate contro il cielo, non dico che commettete un'empietà ma che sprecate fatica. Un tempo ho dato modo ad Aristofane" di prendersi gioco di me. Tutta quella banda di poeti comici mi ha scagliato contro le sue battute velenose: ma la mia virtù ha acquistato splendore proprio grazie ai colpi che hanno cercato di fe rirla. Infatti le ha giovato essere messa in mostra e alla prova e nessuno ne ha capito il valore come chi, non dandole tregua, ne ha sperimentato la forza. Nessuno come i tagliapietre conosce la durezza della roccia. Dì mostro di essere come uno scoglio solo in mezzo a una secca che le onde flagellano continuamente da ogni par te, ma neanche secoli di ripetuti assalti possono smuo verlo o scalfirlo. Assalitemi dunque, attaccatemi: vi vin cerò sopportandovi. Chi si scaglia contro uno scoglio ir removibile e insuperabile rivolge la forza a suo danno. Perciò cercate un bersaglio molle e cedevole dove confic care le vostre frecce. Ma voi avrete il tempo di andare a scovare i difetti degli altri e di dar giudizi su chiunque: "Perché questo filosofo ha una casa così grande? Perché questo offre pranzi così elegantiV'. State a guardare i brufoli degli altri e voi siete pieni di piaghe. t come se uno divorato da una scabbia tremenda deridesse nei e verruche in un corpo perfetto. Biasimate Platone perché ha mirato al danaro, Aristotele perché lo ha accettato, Democrito perché non l'ha tenuto in nessun conto, Epicuro perché ne ha fatto spreco." Anche a me rinfacciate Alcibiade e Fedro,` però sareste felicissimi appena vi capitasse di imitare i miei vizi. Perché piuttosto non guardate ai vostri difetti che vi assillano, a volte colpendo dall'esterno a volte bruciandovi nelle viscere. Non dura così a lungo la vita umana (anche se voi non siete consapevoli della vostra condizione) da lasciare il tempo per dar fiato ai denti offendendo chi è migliore di voi". Questa è una cosa che voi non capite e assumete un atteggiamento che non si addice alla vostra condizione, come tutti quelli che stanno senza far nulla al circo o a teatro e ancora non sanno che, intanto, la loro casa è in lutto. Ma io, che guardo dall'alto, vedo quante tempeste minacciano di rovesciarsi a momenti su di voi con i loro nembi o, ormai vicinissime, stanno per trascinare via voi e le vostre ricchezze. E non tra poco, già ora, anche se non ve ne accorgete, un vortice travolge le vostre anime che anche mentre cercano di sfuggire non rinunciano ai loro desideri e, ora vengono sollevate in alto, ora sprofondate nell'abisso.
 
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view post Posted on 15/7/2009, 21:47

ottimo

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CONSOLAZIONE ALLA MADRE ELVIA


A cura di Diego Fusaro



(1) Molte volte, mia ottima madre, ho sentito l'impulso di consolarti e molte volte me ne sono astenuto. Parecchie ragioni mi spingevano a farlo; prima di tutto mi sembrava che io mi sarei liberato di tutti i miei mali, se avessi potuto, non dico, porre fine alle tue lacrime, ma per lo meno asciugarle per un momento; poi capivo che, con più efficacia, ti avrei rincuorato se mi fossi risollevato io per primo; infine temevo che la sorte, sconfitta da me, si rivalesse su qualcuno dei miei. Perciò mi sforzavo in tutti i modi, tenendo una mano sulla mia piaga, di trascinarmi fino a voi per curare le vostre ferite. (2) Ma ecco che sorgevano ulteriori ragioni a ritardare il mio proposito. Sapevo che non potevo contrastare il tuo dolore nella sua iniziale intensità senza il rischio che le mie parole di conforto lo irritassero ulteriormente; infatti anche nelle malattie non v'è nulla di più dannoso che una medicina data prima del tempo. Cosi aspettavo che esso si calmasse da sé e, disposto a ricevere le cure, si lasciasse toccare e trattare. D'altra parte, benché consultassi tutte le opere degli scrittori più famosi composte per contenere e mitigare i dolori, non trovavo l'esempio di nessuno che avesse consoIato i suoi di un dolore per il quale egli stesso era compianto. Esitavo, quindi, di fronte alla novità della situazione e temevo che, invece di consolarti, avrei esacerbato il tuo dolore. (3) E poi, non occorrevano parole nuove, e non già uno stile banale e quotidiano, a chi, per consolare i suoi, doveva sollevare il capo dal suo stesso rogo? Ma l'intensità di un dolore che eccede ogni misura è inevitabile che ci tolga il piacere della parola dal momento che, talvolta, ci toglie anche la voce. (4) Io, comunque, mi proverò, non perché abbia fiducia nel mio ingegno, ma perché la più efficace delle consolazioni può essere il consolatore stesso. E tu che non mi negheresti nulla, spero non mi negherai neanche questo e accetterai che io metta un argine al tuo rimpianto benché ogni dolore sia ostinato.

II

(1) Vedi quanto io mi riprometto dalla tua indulgenza; non dubito di essere, nei tuoi confronti, più forte del tuo dolore anche se per gli sventurati il dolore è tutto. Per questo non mi scontrerò subito con lui. Prima lo asseconderò e gli darò di che ravvivarsi: voglio mettere a nudo le ferite e riaprire quelle che sono già cicatrizzate. (2) Qualcuno dirà: «Che modo di consolare è questo, rievocando mali già dimenticati e mettendo l'animo di fronte a tutti i suoi affanni quando a mala pena riesce a sopportarne uno solo?». Ma sappia costui che i mali, quando sono così perniciosi da aggravarsi nonostante i rimedi, spesso si curano alla maniera contraria. Perciò io radunerò per costei tutti i suoi lutti, tutte le sue disgrazie: questo sarà un metodo di cura non delicato ma tutto un bruciare e un tagliare. Che cosa otterrò? Che l'animo, che è già riuscito a superare tante sventure, si vergognerà di non sopportare una ferita sola in un corpo tutto coperto di cicatrici. (3) Piangano, dunque, lungamente e si lamentino gli animi deboli di coloro che una lunga felicità ha reso fiacchi e che crollano all'urto della minima offesa; ma quelli che hanno trascorso gli anni in mezzo alle disgrazie sapranno sopportare con virile e tranquilla fermezza anche i colpi più gravi. L'infelicità ostinata ha un solo vantajgio, che finisce per rendere forti coloro che continuamente colpisce. (4) La sorte non ti ha concesso nessuna pausa ai gravissimi lutti. Non ti ha nemmeno risparmiato nel giorno della tua nascita: appena nata, anzi mentre nascevi, hai perso tua madre e, in un certo qual senso, fosti lasciata in balia della vita. Sei cresciuta con una matrigna che, però, spingesti ad esserti madre per tutto il rispetto e l'affetto di cui può essere capace solo una figlia: d'altronde anche una buona matrigna non può aversi che a caro prezzo. Avevi uno zio affezionatissimo, un ottimo uomo e di gran coraggio, lo perdesti mentre aspettavi il suo arrivo e, come se la cattiva sorte temesse di mostrarsi meno crudele con te distanziando i suoi colpi, meno di trenta giorni dopo, tu portasti alla tomba il tuo sposo adorato1 che ti aveva reso madre di tre figli. In pieno lutto ti fu annunziata questa nuova disgrazia mentre tutti i figli erano lontani, come se i mali si industriassero a caderti addosso tutti insieme e in uno stesso tempo e tu non avessi dove trovare un sostegno al tuo dolore. (5) Tralascio i tanti pericoli, i tanti timori di cui tu sopportasti gli assalti senza una tregua. Or ora, in quello stesso seno dal quale tre nipoti si erano allontanati, tu ne raccogliesti le ossa. Venti giorni dopo aver seppellito mio figlio, morto fra le tue braccia e fra i tuoi baci, avesti la notizia che anche io ti ero stato tolto. Ti mancava soltanto questo: piangere i vivi.

III

(1) Quest'ultima è la più grave di tutte le ferite che hanno colpito il tuo corpo, lo riconosco. Non ha strappato in superficie la pelle ma ti ha spaccato il cuore e le viscere. Ma come le reclute urlano anche se sono appena ferite e temono le mani dei medici più delle spade nemiche, mentre i veterani, anche se trapassati da parte a parte, con calma e senza un gemito, si lasciano curare come se non si trattasse del loro corpo, così anche tu ora devi prestarti con coraggio alla mia cura. (2) Metti da parte i lamenti e le grida e tutti gli altri atteggiamenti con cui nelle donne, abitualmente, si manifesta il dolore. Tante disgrazie sono state inutili se non hai ancora imparato ad essere infelice. E che, non ti pare che ti abbia trattato con poco riguardo? Non ti ho nascosto nessuno dei tuoi mali, ma te li ho ammucchiati tutti davanti.

IV

(1) Ho fatto questo con molto coraggio: perché ho deciso di debellare il tuo dolore, non di circoscriverlo. E lo vincerò, penso, se dimostrerò, innanzi tutto, che niente di quel che mi capita è tale da farmi ritenere infelice e tanto meno fa essere tali, per causa mia, i miei familiari; poi, venendo a te, dimostrerò che anche la tua sorte, che dipende tutta dalla mia, non è insopportabile. (2) E comincerò, prima di tutto, con ciò che il tuo affetto desidera sentire, cioè che io non provo alcun male. Se potrò ti dimostrerò che le cose da cui tu mi ritieni oppresso non sono poi intollerabili. E, se non riuscirò a convincerti, almeno avrò la soddisfazione di sentirmi contento in circostanze che, di solito, rendono infelici. (3) Non credere agli altri su quel che mi riguarda: e perché tu non debba turbarti per voci infondate, sono io stesso ad assicurarti che non sono infelice. Ti aggiungerò, perché tu sia ancor più tranquilla, che non è neppure possibile che io lo diventi.

V

(1) Noi siamo nati con la disposizione alla felicità, sempre che non ce ne allontaniamo. La natura ha fatto in modo che non ci fosse bisogno di gran che per vivere bene: ciascuno è in grado di essere felice da sé. Le circostanze esterne hanno poca importanza e non hanno molta influenza né in un senso né in un altro: le cose favorevoli non esaltano il saggio, né quelle sfavorevoli lo abbattono. Egli, infatti, si è sempre sforzato di fare affidamento solo su se stesso e di cercare in se stesso ogni gioia. (2) E allora? Dirò di essere saggio? Neanche per sogno. Perché se potessi dichiarare una cosa del genere, non solo negherei di essere infelice, ma sosterrei di essere il più fortunato degli uomini, giunto vicino a dio.Tuttavia, e questo basta a lenire tutti i mali, mi sono affidato agli uomini saggi e, non ancora capace di aiutarmi da solo, mi sono rifugiato nel campo altrui, di quelli, cioè, che sanno con facilità difendere se stessi e i loro cari. (3) Ed essi mi hanno ordinato di essere sempre vigile, come a un posto di guardia, e di prevedere tutte le mosse e tutti gli assalti della sorte prima che caschino addosso. Essa è dura soltanto per quelli cui giunge improvvisa, mentre la sopporta facilmente chi l'ha sempre aspettata. Cosi l'assalto dei nemici travolge quelli che si lasciano sorprendere, ma quelli che con anticipo si sono preparati alla guerra, ben equipaggiati e ordinati, facilmente ne sostengono il primo urto che è sempre il più impetuoso. (4) Io non mi sono mai fidato della fortuna anche quando sembrava promettere pace. Tutti quei beni che generosamente mi concedeva: ricchezze, onori, favori, io li ho tenuti in tale considerazione che essa avrebbe potuto riprenderseli senza che io me ne scomponessi. Ho sempre mantenuto una grande distanza fra loro e me; così essa se li è ripresi, non è che me li ha strappati. La cattiva sorte spezza soltanto colui che si lascia ingannare da quella buona. (5) Quelli che hanno amato i doni della fortuna come beni personali ed eterni, quelli che per quei doni vogliono farsi ammirare, si abbattono e si disperano quando il loro animo vuoto e puerile, ignaro di ogni gioia duratura, si sente privato di quei falsi ed effimeri diletti. Invece chi non insuperbisce nelle liete circostanze, non si deprime nelle avverse. Mantiene l'animo saldo nell'uno e nell'altro caso con la sua già provata fermezza, in quanto nella sua stessa felicità ha già sperimentato ciò che occorre per opporsi alla cattiva sorte. (6) Perciò io ho sempre ritenuto che non vi fosse nulla di buono in quelle cose che tutti desiderano e che io ho sempre trovato vuote e rivestite di colori appariscenti e ingannevoli senza nulla al di dentro che corrispondesse all'apparenza; ora in quelle cose che sono chiamate mali, non trovo nulla di così terribile e insopportabile come fa temere la credenza popolare. La stessa parola, per un certo convincimento e consenso generale, giunge troppo aspra alle orecchie e colpisce chi la ode come qualcosa di sinistro e di odioso; così afferma la gente, ma i saggi, in genere, non badano a ciò che la gente dice.

VI

(1) Tralasciando, dunque, il giudizio dei più, che, privo com'è di analisi critica, si lascia ingannare dalla prima apparenza delle cose, vediamo cos'è l'esilio. Chiaramente è un cambiamento di luogo. E perché non sembri che io voglia diminuirne l'importanza e sottrargli ciò che ha in sé di svantaggioso, dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi: povertà, infamia, disprezzo. Ma con questo mi confronterò dopo; per ora voglio, in primo luogo, esaminare che cosa vi è di sgradevole in questo cambiamento di luogo. (2) "È una cosa insopportabile vivere lontani dalla patria." Suvvia, guarda un po' tutta questa gran folla cui appena bastano le case di questa città immensa: la maggior parte di questa gente è lontana dalla sua patria. Sono confluiti qui dai loro municipi, dalle loro colonie, da ogni parte del mondo. Alcuni li ha spinti qui l'ambizione, altri la necessità di un incarico pubblico, altri l'incombenza di un'ambasceria, altri la ricerca di un luogo adatto alla loro lussuria e ricco di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri quello di assistere agli spettacoli, alcuni ancora sono stati attirati dall'amicizia, altri dalla ricerca di maggiori possibilità per esprimere il proprio talento; qualcuno è venuto per mettere in vendita la propria bellezza, qualcun altro la propria eloquenza. (3) Non c'è razza umana che non sia venuta in questa città che paga a caro prezzo le virtù come i vizi. Chiamali per nome tutti costoro e chiedigli di che paese siano: vedrai che la maggior parte è tutta gente che ha lasciato la terra natale ed è venuta in questa città grandissima e bellissima e, comunque, non sua. (4) E ora lascia questa città che può dirsi di tutti e fa' il giro delle altre: non ce n'è una i cui abitanti, per la maggior parte, non siano stranieri. Lascia perdere quelle che richiamano molte persone per la loro posizione amena e la dolcezza del clima, ma considera i luoghi desertici e le isole più selvagge, Sciato, Serifo, Giaro, Cossira, non troverai nessuna terra d'esilio in cui qualcuno risieda per suo desiderio. (5) Che cosa si può trovare di più squallido e, ovunque ti volgi, di più dirupato di questo scoglio2? Che cosa al semplice sguardo più sterile di risorse? Quale luogo più inospitale per gli uomini? Quale in posizione peggiore? Quale più inclemente per clima? Eppure qui vivono più stranieri che indigeni. Quindi il cambiamento di luogo in sé non è una cosa gravosa se perfino questa terra ha strappato alcuni alla loro patria. (6) Io so che alcuni sostengono che il cambiar residenza e trasferire il proprio domicilio è un naturale bisogno dell'animo; l'uomo, infatti, ha un'indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là, rivolge i suoi pensieri a tutto ciò che è ignoto e noto, è incostante, insofferente della quiete e sempre lieto di ogni novità. (7) Non ti meraviglierai di questo se prenderai in considerazione la sua origine prima. Essa non è composta di materia terrena e pesante, ma discende dallo stesso spirito celeste e la natura dei corpi celesti sta nel continuo movimento: essi sono sempre in fuga, sempre in corsa vertiginosa. Guarda le stelle che illuminano il mondo: nessuna di esse è ferma. Il sole si sposta continuamente e passa da un luogo a un altro e, benché ruoti con l'universo, pure, gira in senso contrario al moto generale dei cieli; attraversa tutte le costellazioni e non si ferma mai, il suo moto, come la sua migrazione da un luogo all'altro, è perpetuo. (8) Tutti gli astri girano sempre e sono sempre in movimento; si spostano da un luogo all'altro come la legge ineluttabile della natura ha stabilito: quando dopo un certo numero di anni avranno compiuto la loro orbita, di nuovo ripercorreranno il cammino già percorso. Va' ora a sostenere che l'animo umano, composto della stessa sostanza di quei corpi celesti, possa mal sopportare i cambiamenti e gli spostamenti, quando anche la natura divina si rallegra di questo eterno e rapidissimo movimento e, grazie ad esso, si conserva intatta!

VII

(1) Ma dalle cose celesti ora torniamo a quelle umane: vedrai che han cambiato sede genti e popolazioni intere. Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari? E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate sui lidi del Ponto; né il rigore del lungo inverno, né l'indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano li le loro dimore. (2) L'Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po' dappertutto; tutta questa costa dell'Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L'Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l'Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani. (3) La volubilità umana si è riversata su vie impraticabili e ignote. Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. (4) Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un'altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un'eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. (5) Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l'altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell'uomo. In un mondo così grande ogni giorno qualcosa cambia: si gettano le fondamenta di nuove città, nascono popolazioni con nuovi nomi,via via che si estinguono quelle che c'erano prima o si incorporano con altre più forti. Ma tutti questi spostamenti di popoli che cosa sono se non esili in massa? (6) Ma perché ti faccio un così lungo giro di parole? Che giova citarti Antenore, fondatore di Padova, o Evandro che portò sui lidi del Tevere il regno degli Arcadi? O Diomede e gli altri, vincitori e vinti, che la guerra di Troia disperse per terre straniere? (7) Appunto in un esule3 ha il suo fondatore l'impero romano, in un profugo che, dopo la conquista della sua patria, portandosi dietro poche reliquie e spinto dalla necessità e dalla paura del vincitore a cercare terre lontane, giunse in Italia. E, in seguito, questo popolo quante colonie non ha fondato in ogni provincia! Dovunque ha vinto il Romano si stabilisce. E per questi cambiamenti di sede si arruolavano volontari e anche il vecchio, lasciati i suoi altari, seguiva i coloni di là dai mari. (8) L'argomento non richiede altri esempi. Tuttavia ne aggiungerò un altro soltanto che mi balza davanti. Quest'isola dove mi trovo ha spesso cambiato i suoi abitanti. Tralasciando le età più antiche, ormai oscurate dal tempo, i Greci che ora abitano Marsiglia, abbandonata la Focide, si fermarono prima in quest'isola dalla quale non si conosce il motivo che li abbia spinti ad andarsene, se il clima insalubre o la vicinanza minacciosa dell'Italia o la natura delle coste prive di porti; che non fosse certo un motivo lo stato selvaggio degli abitanti lo si ricava dal fatto che essi andarono a stabilirsi tra le fiere e rozze popolazioni della Gallia. (9) Successivamente passarono nell'isola i Liguri e poi gli Ispani, come appare dalla somiglianza di certi usi: portano, infatti, lo stesso copricapo e lo stesso tipo di calzature dei Cantabrici e anche alcune parole si somigliano (ma sotto l'influenza dei Greci e dei Liguri la loro lingua è molto mutata da quella originaria). In seguito vi furono fondate due colonie romane, una da Mario e l'altra da Silla. Tante volte è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto sterpi. (10) Insomma tu non troverai una terra che sia ancora oggi abitata dalla popolazione indigena. Tutte si sono mescolate e incrociate; gli uni si sono succeduti agli altri; questi desiderano ciò che gli altri disprezzano; l'uno è cacciato via da dove aveva cacciato, a sua volta, un altro. Così vuole il destino: che nessuna cosa resti sempre in uno stesso luogo.

VIII

(1) Contro il cambiamento di luogo, a prescindere dagli altri svantaggi che vi sono connessi, Varrone, il più dotto dei Romani, ritiene che rimedio sufficiente sia il fatto che dovunque noi andiamo abbiamo a che fare con la medesima natura; M. Bruto4, invece, pensa che basti, per chi va in esilio, portare con sé le proprie virtù. (2) Anche se qualcuno giudica di scarsa efficacia per un esule questi rimedi se presi singolarmente, bisogna dire che, messi insieme, essi sono efficacissimi. Quanto poco è, infatti, quello che perdiamo! Due cose ci seguono dovunque noi andiamo e sono le più belle che esistono: la natura, che è comune a tutti, e la nostra virtù personale. (3) Questo è voluto, credimi, dal creatore dell'universo, chiunque egli sia, un Dio signore di tutte le cose o una mente incorporea artefice di opere meravigliose, o uno spirito divino uniformemente diffuso in tutte le cose, le più grandi come le più piccole, o il destino e la successione immutabile di cause connesse fra loro; questo, ripeto, è voluto perché soltanto le cose infime fossero soggette all'arbitrio altrui. (4) Ciò che vi è di meglio nell'uomo è sottratto al potere umano e non può essere né dato né tolto. Questo universo che di tutte le creazioni della natura è la più grande e la più bella, il nostro animo che questo universo contempla e ammira e del quale è parte splendidissima, appartengono a noi per sempre e resteranno con noi tanto più a lungo quanto noi stessi più a lungo esisteremo. (5) Perciò, di buon animo e fieri, affrettiamoci con passo fermo dovunque la sorte ci spinga. Percorriamo tutta la terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c'è luogo che sia straniero all'uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l'uomo da Dio è sempre la stessa. (6) Per questo, purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna, purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare, le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune immobili altre che si spostano, non però nello spazio infinito ma in un'orbita che si sono tracciata, altre ancora che spuntano all'improvviso, altre che quasi abbagliano in un guizzo di fiamma e sembra che cadano o che, per un lungo tratto di cielo, passano oltre con una gran luce, purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l'animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?

IX

(1) "Ma questa terra non è fertile d'alberi da frutto o da fiore; non è bagnata da fiumi né grandi né navigabili; non produce nulla che sia richiesto da altre popolazioni e appena appena provvede alla sopravvivenza dei suoi abitanti; non vi si cava marmo pregiato, non ha miniere d'oro o d'argento." (2) Meschino è l'animo che si compiace dei beni terreni; bisogna volgerlo verso quelle cose che appaiono dappertutto uguali e uguali dappertutto risplendono. E bisogna anche pensare che i beni terreni, per gli errori e per i pregiudizi che comportano, sono di ostacolo ai veri beni. Quanto più lunghi gli uomini costruiranno i loro portici, quanto più alte innalzeranno le loro torri, quanto più vasti edificheranno i loro caseggiati, quanto più profonde scaveranno le loro grotte per l'estate, quanto più sovraccarichi saranno i soffitti delle loro sale da pranzo, tanto più, tutto questo, nasconderà loro il cielo. (3) Il destino ti ha gettato in una regione dove l'abitazione più sontuosa è una capanna; ma tu hai un animo meschino che si appaga di misere consolazioni se sopporti tutto questo con fermezza soltanto perché pensi alla capanna di Romolo. Di', piuttosto, così: "Questo umile tugurio non accoglie forse le virtù? Sarà più bello di ogni tempio se vi si potrà scorgere la giustizia, la continenza, la prudenza, la pietà, un giusto criterio nella distribuzione di tutti i doveri, la conoscenza delle cose umane e divine. Non è angusto il luogo che contiene una quantità di così grandi virtù, nessun esilio è gravoso quando vi si può andare con una tale scorta". (4) Bruto nel suo libro Sulla virtù dice di aver visto Marcello5, esule a Mitilene, che viveva felice, per quanto è concesso alla natura umana, e che si dedicava con passione, mai come allora, alle belle arti. E aggiunge che, accingendosi a ripartire senza l'amico, gli parve di andare lui in esilio, piuttosto che di lasciare in esilio Marcello. (5) O ben più fortunato Marcello quando per il suo esilio s'ebbe le lodi di Bruto che non quando per il suo consolato s'ebbe quelle della repubblica! Quanto grande quell'uomo per il quale qualcuno credette di essere egli stesso un esule nel momento in cui si congedava dall'esule. E quanto grande quell'uomo che suscitò l'ammirazione di chi, a sua volta, era ammirato da Catone!4 (6) E Bruto dice ancora che Cesare non si fermò a Mitilene perché non sopportava di vedere un tal uomo così umiliato. E quando il senato, con pubbliche suppliche, impetrò il suo ritorno, tutti erano così ansiosi e tristi, quel giorno, che sembravano essere nello stato d'animo di Bruto e pregavano non per Marcello ma per se stessi, per non continuare ad essere come esuli per l'assenza di lui. Ma il giorno in cui egli ottenne di più fu di gran lunga quello in cui Bruto non se la sentì di lasciarlo esule e Cesare non osò vederlo. Egli, infatti, s'ebbe questa doppia attestazione: Bruto si dolse di dover tornare senza Marcello, Cesare se ne vergognò. (7) Non si può dubitare che un tal uomo si sia esortato così per sopportare con animo sereno l'esilio: "Essere senza una patria non è cosa miserevole. Gli studi di cui ti sei nutrito ti hanno insegnato che l'uomo saggio ha una sua patria in ogni luogo. E allora? Quello che ti ha esiliato non è stato anche lui lontano dalla patria per dieci anni di seguito? Senza dubbio fu per estendere i confini dell'impero, ma egualmentene è stato lontano. (8) E anche ora lo chiama a sé l'Africa, così minacciata dalla ripresa della guerra, lo chiama la Spagna dove riprende forza il partito vinto e umiliato, lo chiama l'infido Egitto e, infine, tutto il mondo spia un momento di debolezza del nostro potere. Che cosa affronterà per primo? Contro chi si opporrà? La sua vittoria lo porterà di terra in terra. I popoli lo ammirino pure e lo onorino: tu vivi contento dell'ammirazione di Bruto!".

X

(1) Marcello, dunque, sopportò coraggiosamente l'esilio e il cambiamento di luogo non mutò minimamente il suo animo, benché la povertà gli fosse compagna. E che questa non sia per nulla un male lo comprende chiunque purché non sia giunto a una tale smania di avarizia e di dissolutezza da stravolgere ogni cosa. Quanto poco, infatti, occorre a un uomo per il suo sostentamento! E come può mancare questo poco a chi solo abbia qualche virtù? (2) Per quel che mi riguarda, non le ricchezze sento di aver perduto, ma le preoccupazioni. Le necessità del corpo sono minime: esso chiede che sia allontanato il freddo, che sia placata, con gli alimenti, la fame e la sete; tutto quello che desidera in più è per vizio e non per necessità. Non è necessario scandagliare tutte le profondità del mare, né appesantire lo stomaco con una strage di selvaggina, né strappare a una spiaggia ignota le conchiglie dell'oceano. Che gli dèi e le dèe confondano quelli la cui dissolutezza valica i confini di un così invidiabile impero. (3) Pretendono che sia preso di là dal Fasi ciò che serve alla loro fastosa cucina e non si vergognano di chiedere uccelli ai Parti, con i quali non abbiamo ancora saldato i conti. Da tutto il mondo fanno venire per il loro palato schizzinoso i cibi più prelibati; dal lontanissimo oceano vengono portate vivande che il loro stomaco, rovinato dalle raffinatezze, a mala pena riesce a tollerare. Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si degnano nemmeno di digerire quei cibi che fanno cercare per tutto il mondo. Ma a chi disprezza tutto questo, che danno può portare la povertà? A chi, invece, desidera queste cose la povertà giova ugualmente: infatti lo guarisce suo malgrado perché anche se egli non accetta il rimedio, benché vi sia costretto, non potendo, è simile a quello che non vuole. (4) Caligola che la natura, mi pare, ha voluto far nascere proprio per mostrare a che cosa possono giungere i grandi vizi accompagnati a una grande fortuna, per una cena, in un sol giorno, spese dieci milioni di sesterzi e, aiutato in questo dalla fantasia di tutti, trovò la maniera, anche se a fatica, di spendere per una sola cenale entrate di tre province. (5) O miserabili quelli il cui palato non è stuzzicato che dai cibi più costosi! Costosi non già per il sapore straordinario o per una qualche particolare dolcezza del gusto, ma per la loro rarità e per la difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che bisogno c'è di tante arti al servizio del ventre? Perché tanti scambi commerciali? Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi; ma costoro passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni e attraversano i mari e mentre con poco potrebbero placare la fame, la stuzzicano a caro prezzo. (6) Vien voglia di dire: "Perché mettete in mare le navi? Perché vi armate contro le fiere e contro gli uomini? Perché correte così inquieti di qua e di là? Perché accumulate ricchezze su ricchezze? Non volete considerare quanto piccolo è il vostro corpo? Non è una pazzia, non è delirio estremo desiderare tanto, quando può contenere così poco? Voi potrete accrescere il vostro censo, potrete allargare i vostri confini, ma giammai ingrandire i vostri corpi. Quand'anche i vostri commerci siano andati bene e la guerra vi abbia reso molto, quand'anche abbiate ammucchiati i cibi venuti da ogni parte, voi non avrete dove mettere tutte queste provviste. (7) Perché, dunque, raccogliete tante cose? Certamente, allora, i nostri antenati, la cui virtù è ancor oggi il sostegno dei nostri vizi, erano ben infelici, dal momento che si preparavano il cibo con le loro mani e avevano per letto la terra e le cui dimore non splendevano di ori e non avevano templi sfolgoranti di gemme. Allora si giurava su divinità di argilla e chi le invocava tornava dal nemico disposto a morire pur di non tradirle. (8) Certo quel nostro dittatore6 che ascoltò gli ambasciatori sanniti mentre cuoceva sul fuoco un poverissimo cibo con le sue mani, con quelle stesse mani con cui spesso aveva colpito il nemico e aveva deposto una corona nel grembo di Giove Capitolino, certo, doveva vivere meno beato di quanto, a quel che noi ricordiamo, visse Apicio, che in quella città dalla quale, un tempo, i filosofi furono costretti ad andarsene perché corruttori della gioventù, fu maestro di scienza culinaria e col suo insegnamento corruppe tutta un'epoca!". (9) Vale la pena di conoscere la sua fine: dopo aver sperperato in cucina un milione di sesterzi e dopo aver divorato in una gozzoviglia dopo l'altra tante elargizioni di principi e l'enorme tributo del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a fare i suoi conti e così calcolò che gli restavano soltanto dieci milioni di sesterzi, e, come se vivere con dieci milioni di sesterzi volesse dire patir la fame, si avvelenò. (10) Quanta dissolutezza in quell'uomo che considerava miseria dieci milioni di sesterzi! Vieni, dunque, ora a dirmi che la ricchezza sta nelle cose e non nell'animo. Un tizio ha avuto paura di dieci milioni di sesterzi e fuggì col veleno ciò che gli altri desiderano con tutti i loro voti. Per quell'uomo, dal cervello così malato, l'ultima bevanda fu la più salutare; ma i veleni li mangiava e li beveva, quando dei suoi smisurati banchetti non soltanto godeva ma si gloriava, quando ostentava i suoi vizi, quando trascinava tutta la città nella sua dissolutezza, quando spingeva i giovani, già così inclini anche senza cattivi esempi, ad imitarlo. (11) Questo capita a chi delle sue ricchezze non fa un uso ragionevole ponendosi dei limiti ben precisi e invece si lascia andare ad abitudini viziose il cui potere è insaziabile e illimitato. Alla cupidigia non basta mai nulla, alla natura, invece, anche il poco è sufficiente. La povertà, dunque, non dà alcun fastidio all'esule, e, infatti, non v'è luogo d'esilio tanto sterile che non sia abbastanza fertile da non poter nutrire un uomo.

XI

(1) È di un abito e di una casa che l'esule sente la mancanza? Se queste cose le desidera soltanto perché gli servono, né un tetto né una coperta gli mancheranno, perché un corpo si copre con poco e con poco si nutre. La natura non ha reso faticoso per l'uomo ciò che gli è necessario. (2) Ma se uno desidera una veste sovraccarica di porpora o tessuta d'oro o ricamata a vari colori e con arte, non è colpa della sorte se egli è povero, ma sua. Anche se gli restituirai tutto quello che ha perduto, non servirà a niente; infatti egli avrà nuovi desideri che lo faranno ancora più povero rispetto a ciò che aveva quando era un esule. (3) E se uno desidera una suppellettile splendente di vasi d'oro, un'argenteria firmata dai più famosi artisti dell'antichità, bronzi resi preziosi per la mania di pochi e una folla di schiavi che renderebbe angusta la casa più grande, bestie da soma piene zeppe di cibo e costrette a ingrassare, e marmi provenienti da tutte le parti del mondo, anche se accumulerà tutto questo, mai e poi mai riuscirà a saziare l'animo insaziabile, come non ci sarà acqua a sufficienza per soddisfare colui la cui sete non deriva dal bisogno di bere ma da un fuoco ardente che gli brucia le viscere: quella, infatti, non è sete, è malattia. (4) E questo non succede soltanto per le ricchezze e per gli alimenti. È la peculiarità di ogni desiderio che nasce non dal bisogno ma dal vizio; in qualunque modo tu cercherai di soddisfarlo, non riuscirai a por fine all'avidità, ma lo farai progredire. Chi, invece, saprà contenersi nei limiti della natura non sentirà la povertà; chi oltrepasserà questi limiti avrà la povertà al suo fianco anche in mezzo alle più grandi ricchezze. Alle cose necessarie è in grado di provvedere anche l'esilio, ma a quelle superflue non basta un regno. (5) È l'animo che ci fa ricchi. Esso ci segue nell'esilio e nella solitudine più desolata, quando trova quanto basta a sostentare il corpo, si sente ricco dei suoi beni e ne gode; la ricchezza non riguarda l'animo come non riguarda gli dei immortali. (6) Tutte queste cose che gli spiriti ignoranti e troppo legati ai loro corpi ammirano, e cioè i monumenti, l'oro, l'argento, le grandi tavole rotonde e ben levigate, sono pesi terreni che un animo puro e memore della sua natura non può amare, privo com'è di macchia e pronto a slanciarsi verso l'alto appena sarà libero; nel frattempo, per quanto glielo consentono l'ingombro delle membra e questa grave soma che lo circonda, esplora le cose divine con pensiero agile e alato. (7) Pertanto non può mai sentirsi in esilio l'animo libero e parente degli dei, partecipe dello spazio infinito e dell'eterno. Infatti il suo pensiero penetra tutto il cielo e tutto il tempo presente e futuro. Questo povero corpo, invece, carcere e catena dell'anima, è sbattuto di qua e di là: su di lui si accaniscono le torture, le violenze, le malattie; l'animo, invece, è sacro ed eterno e al riparo da ogni violenza.

XII

(1) E perché tu non creda che per ridurre gli inconvenienti della povertà che, del resto, nessuno sente gravosa se non chi la ritiene tale, io mi serva soltanto dei precetti dei saggi, guarda in primo luogo la gran parte dei poveri che, se osservi bene, non sono per nulla più infelici e preoccupati dei ricchi. Anzi, non so se non siano forse più allegri dal momento che il loro animo è meno turbato dalle preoccupazioni. (2) Lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: quante sono le circostanze in cui essi sono simili ai poveri! Quando viaggiano sono costretti a dimezzare i loro bagagli e, ogni qual volta per necessità di viaggio sono costretti ad affrettarsi, licenziano la schiera dei portatori. Sotto le armi quanta parte dei loro beni portano con sé dal momento che la disciplina militare vieta ogni cosa superflua? (3) Non sono soltanto le circostanze dei tempi e l'aridità dei territori a renderli uguali ai poveri; in certi giorni, quando li prende la noia di tante ricchezze, decidono di mangiare per terra e, sdegnando l'oro e l'argento, adoperano recipienti di argilla. Pazzi! Hanno sempre il terrore di quello che, di quando in quando, desiderano. O quanta nebbia nelle loro menti, quanta ignoranza li acceca della verità, che essi imitano per divertirsi! (4) Io, ogni volta che ripenso agli esempi antichi, provo vergogna di consolare chi è povero, perché il lusso dei nostri tempi è giunto a tal punto che il viatico di un esule è maggiore di quanto non fosse una volta il patrimonio di un principe. È abbastanza risaputo che Omero aveva un solo schiavo, Platone tre e neanche uno Zenone, il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica. Che, forse, qualcuno potrebbe dire che essi siano vissuti miseramente, senza, per questo, sembrare a tutti egli stesso l'ultimo dei miserabili? (5) Menenio Agrippa, che fu l'intermediario di pace tra il senato e la plebe, fu sepolto col denaro di una sottoscrizione. Attilio Regolo, mentre era in Africa e sconfiggeva i Cartaginesi, scrisse al senato che il suo lavorante se n'era andato e aveva lasciato il suo podere in abbandono; al che il senato dispose che sarebbe stato coltivato a spese dello Stato finché Regolo fosse stato assente. Era poi tanto grave non avere uno schiavo quando fu suo colono il popolo romano? (6) Le figlie di Scipione s'ebbero la dote dal pubblico erario perché il padre non aveva lasciato nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo romano pagasse, per una volta, un tributo a Scipione quando lo riscuoteva costantemente dai Cartaginesi. Fortunati gli sposi di quelle ragazze che s'ebbero per suocero il popolo romano! O credi che siano più felici questi le cui danzatrici si sposano con un milione di sesterzi, anziché Scipione le cui figlie ricevettero per dote, dal Senato, loro tutore, una moneta di rame? (7) E qualcuno disdegna ancora la povertà che ha esempi così fulgidi? Come può sdegnarsi un esule se gli manca qualcosa quando a Scipione mancava la dote per le figlie, a Regolo il bracciante per il suo podere, a Menenio i soldi per il funerale, quando a tutti costoro fu dato onorevolmente ciò che a loro mancava, proprio perché ne erano privi? Con questi esempi la povertà non solo è al sicuro, ma è anche gradita.

XIII

(1) Si potrebbe rispondere: "Perché separi artificiosamente delle cose che, singolarmente, sono sopportabili, ma che, riunite, non lo sono più? Il cambiamento di luogo è sopportabile se si tratta solo di cambiamento; la povertà è tollerabile se è disgiunta dal disonore che, da solo, basta per deprimere l'animo". (2) A chiunque vorrà atterrirmi con questa quantità di mali ci sarà da dir questo: se hai abbastanza forza da resistere a una qualunque forma di sventura, tu l'avrai anche contro tutte le altre: una volta che la virtù ha reso forte l'animo esso sarà invulnerabile sempre. (3) Se ti sei liberato dalla cupidigia, la piaga più terribile del genere umano, l'ambizione non farà presa su di te. Se guardi al tuo ultimo giorno non come a un castigo ma come a una legge di natura, nel tuo cuore, dal quale avrai scacciato il timore della morte, non entrerà nessun'altra paura. Se tu consideri che lo stimolo sessuale non è stato dato all'uomo per il semplice piacere ma per la propagazione della specie e se questo flagello insidioso che si annida fin nelle stesse viscere non ti avrà corrotto, allora ogni altra passione ti lascerà intatto. La ragione non doma i vizi uno alla volta, ma tutti contemporaneamente, e la sua vittoria è completa una volta per tutte. (4) Tu credi che il disonore possa turbare il saggio che ha riposto tutto in se stesso e che si è allontanato dalle opinioni del volgo? Una morte disonorevole è ben peggiore del disonore. Tuttavia Socrate con lo stesso volto col quale, poco prima, aveva da solo riportato all'ordine i trenta tiranni, entrò in carcere e tolse ogni disonore a quel luogo. Infatti non poteva sembrare più un carcere quel luogo dove c'era Socrate. (5) E chi mai è tanto cieco di fronte alla verità da considerare un disonore la duplice sconfitta di Marco Catone nella candidatura per la pretura e per il consolato? Il disonore fu per la pretura e per il consolato ai quali Catone aveva fatto l'onore di candidarsi. (6) Nessuno è disprezzato dagli altri se non è prima lui stesso che si disprezza. Soltanto un animo mediocre e vile sia esposto a questa offesa: ma chi si erge contro i più crudeli eventi e atterra quei mali sotto i quali gli altri restano schiacciati, considera le sue stesse miserie come qualcosa di sacro, dal momento che noi siamo così fatti che niente muove di più la nostra ammirazione di un uomo forte nelle sventure. (7) Ad Atene Aristide veniva condotto a morte e tutti quelli che lo incontravano abbassavano gli occhi e piangevano come se si stesse condannando non già un uomo giusto, ma la stessa giustizia. Eppure ci fu un tale che gli sputò in faccia. Egli avrebbe potuto indignarsi poiché sapeva che nessuna bocca leale avrebbe osato questo; invece si pulì il viso e sorridendo disse al magistrato che lo accompagnava: "Avverti costui che, un'altra volta, non sbadigli così sgarbatamente". E questa fu la sua offesa a chi gli faceva offesa. (8) So che alcuni dicono che niente è più grave del disprezzo e che trovano preferibile la morte. A costoro io risponderò che, spesso, anche l'esilio non comporta alcun disprezzo: se un uomo grande cade, è grande anche quando è caduto; non è disprezzato più di quelle rovine di templi sulle quali si cammina, ma che i fedeli venerano ugualmente come se ancora stessero in piedi.

XIV

(1) Poiché, madre carissima, non v'è motivo alcuno che tu per me debba versare tante lacrime, allora vuol dire che tu hai delle ragioni personali per farlo e che possono essere due: o ti angoscia il pensiero di aver perduto un appoggio o non puoi sopportare la mia lontananza. (2) Affronterò solo di sfuggita il primo caso: infatti io conosco il tuo animo e so che ami i tuoi cari solo per quello che sono. Ci penseranno quelle madri che con dispotismo tutto femminile sfruttano il potere dei figli, che, non potendo, perché donne, ricoprire cariche pubbliche, sono ambiziose per loro, che si impossessano e consumano il patrimonio dei figli e che non danno riposo alla loro eloquenza offrendola a tutti. (3) Tu ti sei sempre rallegrata della fortuna dei tuoi figli, ma non te ne sei affatto servita; tu hai sempre imposto un limite alla nostra liberalità, ma non hai mai limitato la tua; anche se figlia di famiglia, tu hai contribuito a far ricchi i tuoi figli; tu hai amministrato i nostri patrimoni con lo stesso impegno con cui avresti amministrato i tuoi e con lo stesso scrupolo come se fossero di estranei; tu non hai mai approfittato del nostro successo come se si trattasse di cosa d'altri e dai nostri onori non hai avuto che piacere e spese; il tuo affetto non ha mai tenuto presente l'utilità. Non puoi, dunque, rimpiangere, ora che ti è stato tolto un figlio, quei vantaggi che non hai mai pensato che ti riguardassero quando egli ti era vicino.

XV

(1) Tutti i miei sforzi per consolarti devo indirizzarli là dove nasce con tanta violenza il tuo dolore di madre: "Eccomi, dunque, priva dell'abbraccio del mio carissimo figlio! Non posso godere più della sua vista, né della sua conversazione! Dov'è colui alla cui presenza il mio volto si rasserenava e nel quale io deponevo tutti i miei affanni? Dove le nostreconversazioni di cui io ero insaziabile? Dove i suoi studi ai quali partecipavo più volentieri di qualunque donna e più familiarmente di qualunque madre? Dove i nostri incontri? Dove quella sua gaiezza infantile alla vista della madre?". (2) A questi pensieri tu aggiungi i luoghi della nostra gioia e dei nostri incontri e, come è inevitabile, i particolari della recente intimità, efficacissimi a tormentare l'animo. La sorte, infatti, crudelmente ha macchinato anche questo contro di te: ha voluto che tu partissi tranquilla e senza sospetto alcuno due giorni prima che io fossi colpito dalla condanna. (3) È stato un bene che noi siamo vissuti lontani, un bene che l'assenza di qualche anno ti abbia preparato a questa disgrazia. Tu sei tornata non per godere della presenza di tuo figlio ma per perdere l'abitudine alla sua assenza. Se tu fossi partita molto prima avresti sopportato la sventura con animo più forte, perché col tempo il rimpianto si sarebbe affievolito; se tu, invece, non fossi partita avresti avuto certamente quest'ultimo conforto di vedere per altri due giorni tuo figlio; ora il destino crudele ha, invece, deciso che tu non fossi presente al momento della mia disgrazia e, per un altro verso, che tu non fossi abituata alla mia lontananza. (4) Ma quanto più dolorose sono queste vicende, tanto più coraggio tu devi avere e con altrettanto vigore devi combattere, come contro un nemico già noto e altre volte sconfitto. Il tuo sangue non sgorga da un corpo incolume: sei stata colpita sulle stesse cicatrici.

XVI

(1) Non ti valere della scusa di essere donna a cui è concesso quasi il diritto di piangere senza discrezione, ma non senza limiti; per questo i nostri padri dettero un tempo di dieci mesi alle donne per piangere i loro uomini e questo per definire, con una disposizione ufficiale, l'ostinazione del dolore femminile: non vietarono il lutto ma gli diedero un termine. Infatti, lasciarsi andare a un dolore senza fine, quando si perdono i propri cari, è una sciocca debolezza, il non provarne alcuno è inumana durezza: la giusta via di mezzo tra la pietà e la ragione è sentire rimpianto ma soffocarlo. (2) Non devi guardare a quelle donne la cui disperazione, una volta che ne furono prese, cessò con la morte; tu ne conosci alcune che, perduti i figli, non si tolsero più l'abito da lutto; da te la vita, dal momento che ti sei dimostrata più forte fin dall'inizio, pretende di più. Non può invocare la scusa di essere donna chi è sempre stata immune dalle debolezze femminili. (3) Il peggior male del secolo, l'impudicizia, non ti ha indotto a seguire la maggioranza, né gemme, né perle ti hanno sedotto, né le ricchezze ti hanno mai abbagliato come il più gran bene del genere umano, né tu, che fosti educata in una casa all'antica e austera, sei mai stata traviata dall'imitazione dei peggiori, pericolosa anche per le persone oneste, né ti sei mai vergognata della tua fecondità come se ti rinfacciasse la tua età, né mai, come fanno le altre, il cui solo vanto è la bellezza, hai nascosto il ventre gonfio, come se fosse un peso vergognoso, né ti sei liberata della speranza dei figli già in te concepiti; (4) né ti sei mai imbrattata il viso con colori e belletti, né ti sono mai piaciute quelle vesti che, quando si tolgono, non lasciano più nulla da scoprire; unico tuo ornamento, bellezza somma non soggetta all'ingiuria del tempo, tuo grande titolo d'onore, ti è sempre sembrata la pudicizia. (5) Non puoi, dunque, per difendere il tuo dolore, allegare la tua condizione di donna, dalla quale ti hanno allontanata le tue virtù; devi tenerti lontana dalle lacrime femminili come ti sei tenuta lontana dai difetti. Nemmeno le donne ti permetteranno di consumarti nel tuo dolore, ma dopo che ti sarai concesso un breve e necessario cordoglio, ti inviteranno a risorgere, sempre che tu voglia guardare a quelle che una riconosciuta virtù ha posto fra gli uomini grandi. (6) Dei dodici figli che aveva Cornelia, la sorte gliene lasciò due. Se vuoi contare i lutti di Cornelia, sono dieci; ma prova a valutarli: erano i Gracchi. Tuttavia a quanti le piangevano intorno e maledicevano il suo destino, ella proibì che imprecassero contro la sorte che per figli le aveva dato i Gracchi. Da una tal donna doveva nascere chi gridò in assemblea: "Tu insulti mia madre che ha partorito me!". Ma a me sembra molto più coraggiosa la frase della madre: il figlio faceva gran conto della nascita dei Gracchi, la madre anche della loro morte. (7) Rutilia seguì il figlio Cotta in esilio, e tanto era legata a lui da tenerezza, che preferì sopportare l'esilio anziché la sua lontananza e non rientrò in patria che con lui. Ma, una volta rientrato e divenuto personaggio importante nella vita pubblica, ella lo perse con lo stesso coraggio col quale lo aveva seguito e nessuno la vide piangere dopo il funerale del figlio. Quando fu bandito, ella mostrò coraggio; quando lo perse, saggezza. Infatti nulla l'aveva distolta dal suo affetto e nulla la fece indugiare in un'inutile e sciocca tristezza. Tra queste donne voglio annoverare anche te. Avendone sempre imitata la vita, seguirai bene il loro esempio nel contenere e reprimere il dolore.

XVII

(1) Io so che la cosa non è in nostro potere come non lo è nessun sentimento e tanto meno quello che nasce dal dolore: esso è, infatti, spietato e ostinato a qualsiasi rimedio. Talvolta noi cerchiamo di soffocarlo e di inghiottire i nostri singhiozzi; tuttavia, anche se il volto resta composto e impassibile, le lacrime scorrono lo stesso. Talvolta ci distraiamo ai giuochi, ai combattimenti dei gladiatori e, tuttavia, proprio durante gli spettacoli, che pure dovrebbero divagarci, ecco che basta un minimo ricordo a sconvolgerci. (2) Quindi è meglio vincere il dolore piuttosto che ingannarlo. Infatti, se è distratto e sviato dai piaceri e dalle occupazioni, esso risorge e riprende vigore dal suo assopimento e torna a infierire; se invece ha ceduto alla ragione, si è calmato per sempre. Non ti indicherò, dunque, quei rimedi ai quali, a quanto so, ricorrono in molti, come un viaggio che ti tenga a lungo lontano e ti distragga piacevolmente, o come occupare il tempo a rivedere attentamente i tuoi conti e ad amministrare il tuo patrimonio, o come lasciarti prendere da sempre nuove attività; tutte queste cose giovano per poco tempo, ma non sono un rimedio al dolore, sono solo un ostacolo. Io, invece, desidero farlo cessare anziché ingannarlo. (3) Così io ti conduco là dove si rifugiano tutti quelli che vogliono evitare la cattiva sorte, negli studi liberali: essi guariranno le tue ferite e scacceranno da te ogni tristezza. Anche se tu non vi fossi mai stata abituata, ora dovresti ricorrervi; ma per quanto te lo abbia concesso la severità d'antico stampo di mio padre, tu hai avuto dimestichezza con tutti gli studi, anche se non li hai approfonditi. (4) Magari mio padre, il migliore degli uomini, fosse stato meno legato alle consuetudini del passato e ti avesse permesso di approfondire i precetti della filosofia, anziché averne solo una conoscenza superficiale! Non dovresti ora preparartelo questo rimedio contro la sorte, ma lo avresti già pronto. Fu proprio per colpa di queste donne che ricorrono alle lettere non per acquistar saggezza ma per introdursi nella vita mondana, che egli non permise che tu ti dedicassi allo studio. Tu hai tratto, dunque, profitto più dalla vivacità del tuo ingegno che dal tempo disponibile e, quindi, hai le basi di tutte le discipline. (5) Torna ora ad esse. Ti renderanno sicura, ti daranno conforto e diletto; se, francamente, darai un posto ad esse nell'animo tuo, non vi entrerà più il dolore, né l'angoscia, né l'inutile tormento di una vana afflizione. L'animo tuo non sarà più esposto a nessuno di questi mali. A ogni altra debolezza, infatti, è già chiuso da tempo.

XVIII

(1) Queste, certamente, sono le difese più valide, le uniche che possono sottrarti alla cattiva sorte. Ma poiché, fino a quando tu non giungi a quel porto che gli studi ti promettono, hai bisogno di appoggiarti ad altri sostegni, voglio mostrarti di quali consolazioni tu puoi, nel frattempo, disporre. Guarda ai miei fratelli: finché essi stan bene, non è giusto che tu te la prenda con il destino. (2) In entrambi, ciascuno per i suoi meriti, puoi trovare motivo per rallegrarti; uno, con la sua attività, ha raggiunto cariche importanti, l'altro, saggiamente, le ha disprezzate. Sii soddisfatta dell'autorità del primo, della vita tranquilla del secondo e dell'affetto di entrambi. Io conosco gli intimi sentimenti dei miei fratelli7: uno pratica la vita pubblica per darti lustro, l'altro si raccoglie in una vita serena e calma per dedicarsi a te. (3) Bene ha disposto il destino che i tuoi figli ti fossero d'aiuto e di sollievo: tu puoi essere protetta dall'autorità del primo e rallegrarti della vita tranquilla dell'altro. Essi gareggeranno in premure nei tuoi riguardi e il rimpianto che hai per uno sarà ripagato dall'affetto degli altri due. Posso senz'altro assicurarti che non ti mancherà nulla, tranne il numero. (4) Guarda poi i nipoti: Marco8, un bambino graziosissimo, alla cui presenza non c'è tristezza che possa durare. Non c'è dolore così grande o così recente che ci tormenti l'animo che egli non sappia lenire con le sue carezze. (5) Quali lacrime non asciuga la sua allegria? Quale animo stretto dall'angoscia non rasserena la sua vivacità? Chi non è spinto al buonumore dalla sua spensieratezza? Chi, per quanto preso dai suoi pensieri, non si lascerebbe sedurre e distrarre dalla sua loquacità instancabile? (6) Io supplico gli dèi che questo bambino ci sopravviva. Che tutta la crudeltà del destino si sfoghi su di me, che tutto il dolore riservato alla madre si concentri in me, su di me quello riservato alla nonna e che il resto della famiglia viva in prosperità. Non mi lamento della perdita di mio figlio, né della mia condizione se con il sacrificio potrò impedire altri dolori alla mia famiglia. (7) Stringiti tra le braccia Novatilla, che presto ti darà dei pronipoti; l'avevo così accolta in me, me la sentivo così mia, che ora che mi ha perduto può sembrare orfana anche se il padre è vivo. Amala, dunque, anche per me. Da poco la sorte le ha tolto la madre. Il tuo affetto può fare in modo che ella senta certamente il dolore per la perdita della madre ma non ne soffra. (8) Educala, formala alla svelta: gli insegnamenti impartiti in tenera età si radicano più profondamente. Si abitui alle tue osservazioni, impari ad obbedirti, le darai molto anche se non le darai altro che il tuo esempio. Intanto questo compito così impegnativo sarà per te anche un rimedio: perché un animo così teneramente afflitto non può essere distolto dal suo dolore se non dalla ragione o da una nobile occupazione. (9) Fra i validi motivi di conforto vorrei ricordare anche tuo padre, se non fosse lontano. Dal tuo affetto per lui, pensa ora quale può essere il suo per te; potrai capire quanto sia più giusto che tu ti conservi per lui invece che sacrificarti per me. Tutte le volte che il dolore ti prenderà con forza e oltre misura e vorrà trascinarti, pensa a tuo padre. Certo dandogli tanti nipoti e tanti pronipoti, tu per lui non sei più l'unica, tuttavia da te dipende che egli possa giungere felicemente al compimento della sua vita. Finché egli vive non ti è lecito lamentarti di essere viva.

XIX

(1) E finora non ti ho parlato del tuo grande conforto, di tua sorella, cuore a te fedelissimo, che condivide in egual misura tutte le tue pene, animo per tutti noi materno. Tu hai mescolate alle sue le tue lacrime e, tra le sue braccia, sei di nuovo tornata a vivere. (2) Ella partecipa sempre ai tuoi sentimenti; tuttavia quando si tratta di me non si addolora soltanto per te. Fra le sue braccia io fui portato a Roma; per le sue cure affettuose e materne io, dopo una lunga malattia, mi ristabilii; ella adoperò tutta la sua influenza per farmi ottenere l'incarico di questore, vincendo la sua timidezza per amor mio, lei che non ha nemmeno il coraggio di parlare o di salutare a voce alta. Né il tipo di vita ritirata, né la sua riservatezza, che fra tanta sfacciataggine femminile sembra sgarberia, né il suo desiderio di pace, né le sue abitudini a una vita tranquilla le impedirono che diventasse, per me, perfino intrigante. (3) Madre carissima, è questa la consolazione che ti risolleverà; stalle vicino quanto più puoi, tientela stretta fra le braccia. Di solito, chi soffre, suole fuggire le persone che più ama, per dare così uno sfogo al proprio dolore: tu, invece, va' da lei, quali che siano i tuoi propositi; sia che tu voglia perseverare in questo tuo comportamento, sia che tu voglia desistervi, sempre troverai in lei chi saprà liberarti dal tuo dolore o condividerlo. (4) Ma se conosco bene il senno di questa donna straordinaria, ella non ti lascerà consumare in un dolore inutile e ti porterà il suo esempio di cui io fui testimone. Ella aveva perduto, durante un viaggio per mare, il suo carissimo sposo, un mio zio, che aveva sposato quando era ancora una ragazza. Vinse, in quel frangente, il dolore e la paura e, superata la tempesta, strappò al naufragio il corpo del marito. (5) O quante valorose azioni di donne restano sconosciute! Se costei fosse vissuta in quei tempi antichi quando senza malizia si ammiravano le virtù, con quale gara di ingegni si sarebbe celebrata questa moglie che, dimenticando la sua debolezza, dimenticando il mare, tremendo anche per i più impavidi, mette a repentaglio la propria vita per dare sepoltura al marito e mentre si dà pensiero del suo funerale, non teme il proprio. È celebrata da tutti i poeti colei che si offrì al posto del marito9, ma è ancora più mirabile cercare una sepoltura per lo sposo a rischio della vita; più grande è quell'amore che, a parità di rischio, trae un vantaggio minore. (6) Dopo di ciò nessuno si meraviglierà che per tutti i sedici anni durante i quali suo marito rimase in Egitto, ella non si fece mai vedere in pubblico, non ricevette a casa mai nessun abitante della provincia, non chiese mai nulla al marito e non consentì che si richiedesse a lei qualcosa. E, quindi, la provincia pettegola e solo capace di denigrare i suoi governatori, nella quale anche coloro che non si macchiarono di nessuna colpa non sfuggirono alla calunnia, la considerò come un raro esempio di virtù, e, cosa molto difficile per chi ama le facezie anche pericolose, frenò ogni licenza verbale e, ancor oggi, per quanto più non lo speri, desidererebbe una simile donna. Sarebbe già tanto essere stata lodata da questa provincia per sedici anni, ma ancor più è l'essere stata ignorata. (7) Ma io non racconto tutto questo per fare le sue lodi, che, oltretutto, accennandovi così brevemente, sarebbe un limitarle, ma perché tu comprenda che animo nobile ha questa donna, che non si lasciò vincere né dall'ambizione, né dalla cupidigia, compagne e flagelli di ogni potere, e neppure dal timore della morte, quando, con la nave alla deriva, consapevole ormai di far naufragio, non si allontanò dal cadavere di suo marito, cercando non tanto di mettere in salvo se stessa ma lui nella tomba. Mostra un coraggio pari al suo, risolleva il tuo animo dal dolore e comportati in modo che nessuno creda che tu ti sia pentita di essere madre.

XX

(1) D'altro canto, perché è inevitabile che, qualunque cosa tu faccia, i tuoi pensieri ricorrano sempre a me e che nessun altro dei tuoi figli ti torni così spesso alla mente, non perché ti siano meno cari ma perché è naturale che si porti spesso la mano là dove si sente il male, ecco come devi immaginarmi: lieto e sereno come se tutto andasse per il meglio. E, infatti, ogni cosa va per il suo verso, dal momento che l'animo, libero da ogni impegno, attende alle sue attività più congeniali e si diletta ora in studi poco impegnativi, ora si innalza, avido di verità, a contemplare la natura sua e quella dell'universo (2) Studia prima le terre e la loro posizione, poi il regime dei mari che le circondano e il loro alterno flusso e riflusso; poi osserva lo spazio esistente fra la terra e il cielo, pieno di fenomeni spaventosi, lo spazio turbolento di tuoni, di fulmini, di raffiche di vento, di scrosci di piogge, di neve e di grandine. Poi, dopo aver esplorato le zone inferiori, si slancia verso le più eccelse e gode del meraviglioso spettacolo delle cose divine; memore della sua eternità, percorre il passato e il futuro attraverso tutti i secoli.



(Traduzione di Nino Marziano).

Nota 1: Seneca detto "il Vecchio".





Nota 2: per quanto possa sembrare strano, si tratta della Corsica, in cui Seneca si trovava in esilio. È davvero incredibile sentir parlare in questi termini di uno dei luoghi di vacanza attualmente più rinomati!





Nota 3: Enea, naturalmente.







Nota 4: Marco Giunio Bruto, il cesaricida, nonché figlio adottivo di Giulio Cesare. Era un filosofo stoico, assai stimato dagli esponenti latini dello stoicismo tardo .



Nota 6: Manio Curio Dentato (che in verità non era dittatore, ma console).



Nota 7: Novato (padre di Novatilla, nominata in seguito) e Mela .



Nota 8: Si tratta del piccolo Marco Anneo Lucano, figlio di Anneo Mela e futuro grande poeta.



Nota 9: Alcesti, che diede la vita per il marito Admeto (cfr. l'Alcesti di Euripide e il Simposio di Platone).






 
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