La leggenda di Erbarosa

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view post Posted on 5/11/2008, 23:04

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La leggenda di Erbarosa



Note per lettori: sia Rossa che Boccioleto sono due paesini dell'alta Valsesia.



Di Rossa è la leggenda, che mi è stata raccontata dal gentile maestro elementare di Boccioleto, - o forse è storia - di una fanciulla dall'aggraziato nome di Erbarosa, che a Rossa aveva trascorso la sua breve vita.
La storia, che forse è favola, di Erbarosa, è avara di particolari, ruvida ed aspra come le scabre montagne dove la protagonista ha vissuto.
Possiamo solo supplire con l'immaginazione, per riempire di dolcezza e poesia i pochi spazi che la leggenda concede. Era giovane Erbarosa, dice il racconto. Ma doveva anche essere bella, se a due uomini di quelle aspre, impassibili montagne si infiammarono i cuori, fino a battersi per lei.
Bella, certamente, della severa bellezza della catena montuosa dove il dramma si svolse. Probabilmente era anche agile, flessuosa e sottile come uno dei camosci che ancora popolano i luoghi dove è vissuta, a furia di camminare su e giù per quegli aspri sentieri. Forse tenera e già predestinata al sacrificio come i caprioli dai grandi occhi umidi e dall'approccio gentile.
Io la immagino con lunghi capelli un poco arruffati dal vento che soffia sulla brughiera, un po' brusca e silenziosa come la gente di montagna abituata ai lunghi silenzi solitari, profumata del buon profumo dell'erba degli alpeggi, come invita a supporre il suo nome inconsueto e aggraziato.
Mi è stato detto che in quelle regioni, forse adesso, forse tempo fa, in un certo, indefinito periodo dell'anno c'è un'erba che diventa rosa, forse al tramonto, e forse profuma, e forse è solo leggenda. Ma una mia amica, che è nata qui ed ha percorso i selvaggi sentieri della brughiera, mi assicura che esiste un'erba che si chiama proprio così, ed è conosciuta col nome di "erba brusca" ed è un'erba che si può mangiare, dal lieve sapore acido, e toglie anche la sete, nelle lunghe passeggiate a mezzo tra le montagne, ed in giugno, al tempo di San Giovanni, produce un'infiorescenza rosa, assai gradevole a vedersi per le lunghe distese dei prati.....
La storia racconta che la giovane Erbarosa, ormai ragazza da marito, fece quello che usavano fare in quei tempi le ragazze di Rossa, e cioè presentare all'uscita dalla Messa, su all'oratorio del Sasso, una grossa focaccia, che doveva essere messa all'incanto e poi sarebbe stata vinta dall'innamorato, il quale, offrendo più di tutti gli altri, si aggiudicava la focaccia e la fanciulla, rendendo così pubblico il fidanzamento.
L'oratorio del Sasso è situato su una grossa sporgenza rocciosa dalla quale puntava, e punta tuttora, il campanile verso il cielo terso delle montagne. Svolgendosi però in un piccolo paese, neanche tanto ricco, anche di trovate romantiche, erano beni molto pratici quelli messi all'asta.... piccoli beni di gente che viveva di quello che la montagna forniva : focacce, pani cotti nel forno, torte di mirtilli.....
Andò dunque Erbarosa all'asta che doveva siglare il suo destino, ci andò con tutti i suoi sogni intatti, tersa come l'acqua della piccola cascata che canta lì dappresso, giovane come il mattino.
Ma troppo bella, forse, perché questa volta non andò come tutte le altre, e due uomini si accanirono a gareggiare per la fanciulla dal nome profumato. Dalle poste sempre più alte passarono alle parole brusche, ed infine vennero alle mani.
Imbarazzata, probabilmente, lei così riservata, giovane, imprudente, generosa, Erbarosa, che a uno dei due doveva aver già donato il suo cuore, e forse temendo per lui, si gettò tra i contendenti nell'ansia di dividerli e tutti e tre, trascinati ciascuno dal proprio impeto, precipitarono nel burrone. Così finisce la storia, ed anche la loro breve vita.
Storia ? Leggenda ? Vero è che nella mulattiera più sotto, ai piedi del dirupo, in un sasso sono piantate tre anonime croci, che forse alla leggenda hanno dato origine, o forse sono messe a ricordo delle tre giovani vite spezzate. Vero è, mi diceva il signor .... maestro elementare di Boccioleto, che mi ha raccontato questa storia, che nei libri comunali di Rossa, in un anno imprecisato del 1800, risultano morti lo stesso giorno due uomini ed una donna, tutti e tre troppo giovani per morire.
 
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view post Posted on 27/11/2008, 22:02

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LE MARGHERITE, STELLE DELLA TERRA


Fu in una notte come tutte le altre, ma antica di molti milioni di anni, che le stelle sparirono dalla terra, per raggiungere il cielo.
Perché, come narrano storie così vecchie che si è perso il ricordo di chi le narrava, c'è stato un tempo in cui le stelle vivevano sulla terra.
Erano creature timide ed aggraziate, che vivevano a gruppi, sparse un po' dovunque, tenendosi ben nascoste agli occhi degli esseri umani. In quei tempi lontani, gli uomini avevano appena cominciato a popolare il pianeta, ed erano in pochi, e tuttavia a volte sufficienti per rompere i delicati equilibri che univano gli esseri viventi di tutto il creato.
Si racconta che un gruppo di stelle avesse trovato rifugio proprio qui, nella valle del Sesia, perché qui c'era tutto quello che esse amavano: grandi montagne ricoperte di foreste e rapidi torrenti ed un fiume generoso a raccoglierli, dalle fresche veloci acque azzurre, glaciali di neve in primavera, allo sciogliersi dei vicini ghiacciai, rombante di acque scure di minacce antiche quanto il tempo nei periodi delle lunghe piogge, luccicante d'oro al sole d'estate, sempre comunque in corsa più in basso, verso un altro placido fiume che scorre tra rive ridenti, pronto a ricevere il fratello più inquieto.
Nelle foreste più profonde, lontane dalle abitazioni degli uomini, le stelle spingevano nei torrenti rumorosi e limpidissimi gli alberi abbattuti nelle notti di tempesta dai fulmini loro amici, e poi liberati dai rami più ingombranti dai volenterosi castori, gli animaletti dei boschi coi quali le stelle amavano giocare. Alle stelle piaceva montare a cavalcioni di quelle imbarcazioni improvvisate, e poi lasciarsi trascinare dai tronchi che veloci le trasportavano a valle, mentre esse ridevano divertite per i grandi balzi lungo i rapidi torrenti bianchi di spuma.
Cantavano poi dolcemente quando arrivavano al placido fiume che correva fuori dai monti, ed esse correvano con lui, sui comodi tronchi che ancora odoravano delle foreste lontane, accompagnate dal volo solenne degli aironi e dal chiacchierio delle famiglie dei dignitosi cormorani, incontrati lungo il cammino, e poi ancora più lontano, fino ad un altro fiume ancora più grande, dove l'impatto coi gabbiani bianchi, ubriachi di onde e di vento, annunciava la vicinanza del mare.
Le stelle indossavano abiti di nuvole, e decorazioni scintillanti fatte dei denti affilati dei cinghiali che popolavano numerosi le foreste che coprivano le cime delle montagne, e di altrettanto scintillanti conchiglie, che il mare, ritraendosi dopo le tempeste, lasciava loro in dono lungo le rive.
Avevano lunghi capelli leggeri di un bianco dorato, che rifulgevano al sole quando il vento si divertiva a giocare con quei fili sottili, e ridenti, luminosi occhi pronti al sorriso.
Tutto quel fulgore di ornamenti e di bellissime chiome pulsava ritmico all'unisono, quando le stelle cantavano le loro canzoni, scivolando lungo il fiume.
Era un'incredibile spettacolo di luce, di bellezza e di gioia, carico di musica struggente.
E fu proprio dalla valle del Sesia che esse sparirono.
Accadde così, in una notte che sapeva di magia. IL cielo tutto blu era fermo e compatto, come in attesa. Sarebbe stata buia la notte, perché in quei tempi prima del tempo, nemmeno la luna illuminava il cielo, ma la luce era data da tutto quello splendore di stelle, che scendevano placide cantando lungo il grande fiume.
Un viandante che si era perso nella foresta vide quella luce scintillante, e sentì la dolce musica misteriosa. Divorato dalla curiosità, si avvicinò alla fonte della sua meraviglia e spiò, nascosto tra i rami degli alberi che crescevano lungo la riva.
Lo spettacolo era di tale bellezza che l'uomo rimase quasi accecato dalla magnificenza di quanto scorreva sul fiume.
Con l'avidità che è propria della sua razza, o forse soltanto per la gioia di tenerlo tra le mani, l'uomo d'impulso uscì dal suo nascondiglio e si precipitò verso tutto quello splendore, arrivando a sfiorare una delle imbarcazioni improvvisate, che però gli scivolò tra le dita.
Terrorizzate, le fragili stelle fuggirono, chiamarono a raccolta le loro sorelle sparse per tutta la terra e si rifugiarono nel cielo, per non tornare mai più.
IL loro scintillio glorioso è tuttora visibile dal nostro pianeta, ma gli uomini hanno perso per sempre il fascino struggente della loro musica.
Lasciarono però, gentili com'erano, qualcosa al loro posto : le innumerevoli, graziose piccole margherite (dette anche pratoline) che a primavera ricoprono i prati a migliaia, rimaste a ricordare le stelle con il loro cuore colore di sole.
Anche se è a primavera che esse cominciano a fiorire, è all'inizio dell'estate che ricoprono i prati con il loro candido e dorato splendore, tanto che un antico proverbio inglese recita: "Quando puoi posare il piede su sette margherite, allora è davvero arrivata l'estate".
Curiosamente, il nome inglese delle margherite è "Daisy" e forse risale, senza saperlo, all' antichissima storia che vi ho raccontato: perché Daisy sta per "the day's eye" - "l'occhio del giorno" e infatti questi fiorellini si aprono alle prime luci e ripiegano i loro petali quando il sole tramonta, come se andassero a dormire. Si dice che taluna, approfittando del buio, se ne voli a popolare il cielo, e che qualche altra, malata di nostalgia, approfittando delle stesse tenebre, torni ogni tanto a profumare la terra.
Senza nemmeno saperlo e pur avendo perso il ricordo di quella leggenda lontana, anche i giovani esseri umani sono tornati a percorrere quella che un tempo era una strada di stelle, e con le agili canoe e i coloratissimi Kayak cavalcano gioiosi le limpide acque del fiume, giocando tra loro, quest'anno, una sfida che ignorano essere antica quanto il tempo.

 
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view post Posted on 27/11/2008, 22:20

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La donna Elfo





Nelle profondità dell'immensa foresta boema, di cui oggi si è salvata solo una piccolissima parte, abitava dall'alba dei tempi un piccolo popolo di esseri spirituali, nati dall'aria, quasi incorporei, che rifuggivano la fulgente luce del sole e la compagnia degli umani. La loro natura era superiore a quella dell'uomo, che era nata dall'argilla, e pertanto i piccoli esseri potevano essere intravisti soltanto da creature umane dotate di particolare sensibilità, e soltanto alla tenue luce argentata della luna.
I poeti ed i bardi conoscevano questi esseri con il nome di elfi.
Un giorno la foresta, da millenni silenziosa e immutabile, risuonò di grida e rumori di guerra ; un barbaro popolo degli uomini aveva attraversato le montagne, che facevano corona all'antica, immensa foresta, e si preparava a dilagare nella sottostante pianura.. Spaventati dal fragore delle armi e dal nitrire dei cavalli, gli abitanti della fragile razza non mortale fuggirono in tutta fretta ; e così le querce annose, e le rocce, i dirupi, i canneti delle paludi persero i loro amici non umani.
Una soltanto del popolo degli Elfi, un'amadriade, rimase a difendere la quercia che amava, e vi fissò la dimora.
Tra gli invasori vi era un giovane scudiero di nome Krokus : egli era diverso dagli altri, meno amante della guerra, più quieto e pensoso. A lui era affidato il compito di guardare il cavallo del suo Signore, e di portarlo a pascolare nella foresta. Krokus adempieva il suo incarico ben volentieri, e girovagando fra gli alberi maestosi sognava una vita più pacifica, dove ci fosse tempo e posto per la bellezza.
In una notte di un autunno così chiaro che sembrava estate, una notte bianca di luna, Krokus si attardò più del solito nella foresta, e si sdraiò ai piedi della quercia abitata dall'essere fatato a riposare.
In un laghetto vicino la luna tremava nell'acqua scura della notte e il vento muoveva appena le canne che lo circondavano. Parve al giovane che al di là del laghetto, fra le canne inquiete, fra un accenno appena di bruma che raccontava le nebbie ormai prossime, si muovesse lieve una figura di donna, più un'ombra che un essere corporeo. Ma ben distinta gli giunse la dolce voce di lei, che gli spiegò di essere l'elfo che abitava la quercia che gli aveva dato riparo, e che aveva a propria volta bisogno del suo aiuto per non essere abbattuta, perché con la quercia sarebbe morta anche lei, la creatura che gli stava parlando.
IL giovane non esitò un istante: promise di abbandonare il suo signore e di mettersi al servizio di lei, e mantenne la promessa, scegliendo di costruire accanto all'albero maestoso la sua dimora. Dissodò il terreno, seminò fiori ed ortaggi, costruì una comoda capanna. Ogni sera, la donna elfo veniva a trovarlo, e gli insegnava i segreti delle cose. Mentre passeggiavano lungo le rive del laghetto, le canne sussurravano lievi il loro saluto serale. Venne il pieno autunno a riempire di pioggia l'aria della sera, e poi la neve quieta dell'inverno a disegnare incantesimi sui giunchi del lago.
E accadde una cosa strana : mentre la sensibilità del giovane uomo si affinava sempre più, l'esile figura della elfo prendeva maggior consistenza, il suo aspetto era sempre più simile a quello di una giovane donna, e ben presto fra i due esseri nacque l'amore.
Ed in primavera si sposarono, e i vecchi poeti narrano che al loro matrimonio vennero gli elfi in gran numero, a cantare l'antica invocazione con la quale, dall'alba dei tempi, il popolo fatato onorava le nozze delle proprie creature : così belli erano questi canti, che più tardi gli uomini li faranno propri nella lingua gaelica, quella degli antichi druidi, i sacri sacerdoti dei celti, e giungeranno fino a noi tramite la tradizione orale delle Isole di Scozia.
 
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view post Posted on 28/11/2008, 13:45

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La leggenda dei girasoli:Bella e il suo Signore





Splendono a luglio i girasoli, col volto eternamente girato verso la luce, inebriati di sole. "Impazziti di luce", come li ha descritti un nostro grande poeta.
I botanici ci insegnano che questi giganti bonari sono giunti a noi dall'Ovest degli Stati Uniti d'America, ma una vecchia storia racconta di come, molti secoli fa, i girasoli illuminassero col loro colore dorato anche i prati delle terre d'Europa. Essi crescevano allora in gran numero specie in Italia, paese del sole.
In quei tempi, dopo che il fatidico anno 1000 era passato senza che il mondo andasse distrutto, i popoli della grande pianura padana avevano trovato finalmente un poco di pace, sia pur nell'avvilimento del servaggio.
A narrare di questo periodo è uscito da poco un libretto intitolato "Il Medioevo nella Valsesia dei Conti di Biandrate", autore Albino Roma, dove vengono narrati, con pagine scorrevoli e di piacevole lettura, i costumi di quei periodi lontani.
Restavano comunque sempre tempi e mondi crudeli: i nuovi padroni avevano portato con loro le loro usanze, talvolta umilianti, alcune spietate. Una delle più difficili da accettare era quella che riconosceva al Signore padrone delle terre, il diritto di possedere per primo, prima ancora del legittimo marito, durante la prima notte di nozze, la sposa di qualsiasi villaggio si trovasse nelle sue terre.
E' anche vero che, molto spesso, si riusciva ad aggirare quell'uso crudele, ne fosse o no consapevole il padrone del luogo, celebrando le nozze di nascosto, rinunciando così gli abitanti del villaggio a quel poco di festa che un matrimonio di poveri avrebbe consentito.... ed il loro Signore al dubbio piacere di un amore consumato con la violenza, soprattutto se la sposa non era una bellezza, e comunque spesso odorosa di letame.
Di questa usanza si narra nel libro che ho citato, e pare sia stata causa di una ribellione del popolo della Valsesia agli odiati Conti di Biandrate.
Ma io voglio raccontare una storia diversa, dalla quale ha origine la leggenda dei girasoli.
Dunque, in uno di questi villaggi viveva una giovinetta che si chiamava Bella, e faceva onore al suo nome, poiché possedeva la bellezza di una mattina d'estate, ma anche la natura mutevole e pericolosa del fuoco; i suoi occhi luminosi non erano mai rivolti umilmente verso la terra: perché Bella era della razza dei servi, ma aveva nel cuore la fierezza dei padroni.
Quando giunse anche per lei il tempo dell'amore, venne dai parenti promessa in isposa al contadino di un villaggio vicino. Anche per il giovane era tempo di nozze, e così acconsentì di buon grado, rassegnato anche ad accettare, se non si fosse riusciti ad eluderla, la barbara usanza dei padroni. Contrastarla apertamente, del resto, era impossibile: significava condannarsi a morte.
Alla festa del fidanzamento, quando i due si incontrarono per la prima volta, gli occhi di lui caddero finalmente sulla giovane promessa sposa ed in petto prese ad ardergli una fiamma finora sconosciuta. Bella vide quella fiamma negli occhi dell'uomo che gli era stato promesso e scambiò quell'ardore per lo stesso orgoglio che animava lei, pronta alla morte, ma non al disonore.
Giunse infine il giorno delle nozze, che si sperava restassero segrete. Ma troppo bella era la sposa, troppa invidia avevano suscitato lei con la sua bellezza e lui per essere stato il prescelto. E notizia di ciò giunse anche al loro Signore, ed il Signore arrivò non invitato alle nozze, curioso di vedere se era il caso di esigere ciò che la legge gli riconosceva come diritto.
Pronta a tutto, Bella levò gli occhi fieri verso quell'uomo che pretendeva di possederla e qualcosa, negli occhi chiari di lui, spalancati a leggerle sul viso quella sua bellezza di fuoco, per un attimo le fece sognare un mondo diverso, credere che esistessero anche per lei diverse possibilità...... Affascinato, il Signore si immobilizzò, tentato di rispettare quell'intatta bellezza. Per un attimo, persino il tempo parve arrestarsi, e le foglie degli alberi cessarono di stormire, e si quietò il cinguettio degli uccelli e tacquero gli abitanti del villaggio, stupiti, in attesa.
Ancora esitante, il Padrone volse intorno lo sguardo, e vide accanto a Bella, lo sposo che le era destinato, il contadino col capo chino, pronto alla rinuncia e al disonore. "Per essere di costui, puoi anche esserlo dopo che ti avrò preso" sogghignò, dimentico di quel suo breve istinto di nobiltà e trascinò con sé Bella in un vicino campo di girasoli per farla sua.
La fanciulla però riuscì ad impadronirsi del pugnale che l'uomo portava sempre con sé, e rapida come una lingua di fiamma lo diresse verso colui che voleva disonorarla.
Ucciderlo, e poi uccidersi, e andarsene per sempre, ma intatta. Questo Bella aveva nel cuore.
Eppure....quegli occhi chiari che per un interminabile momento l'avevano guardata come una donna, quella ardente, spavalda giovinezza di lui cui tanto prometteva la vita....lei invece, lei era comunque condannata: ad essere di quell'uomo, e poi di quell'altro, che ancora immobile, a capo chino, aspettava.
Così Bella, in un istante, decise, e deviò il corso della lama, e rapida se la conficcò nel cuore.
Bella cadde tra i grandi fiori, che si piegarono su di lei, nascondendola. Il Signore, sconvolto, spronò il suo cavallo, lontano da quel luogo di morte.
Si racconta che, ossessionato dai fieri occhi di lei, e dalla generosità che gli aveva risparmiato la vita, cominciasse a vagare per le sue terre, ovunque ordinando che venissero abbattuti i girasoli, sicché neppure un campo restasse a ricordargli l'episodio di cui ormai si vergognava. Si dice che egli vagasse per tutta la vita che gli rimase da vivere, spingendosi sempre più lontano, sempre distruggendo i grandi fiori che incontrava al suo passaggio.
Fu così che i grandi fiori del sole scomparvero dalle terre d'Europa, per ritornarvi poi provenendo dagli Stati Uniti d'America.
In luglio, la strada statale che da Parma conduce a Mantova, è un'unica, solare, bellissima distesa di questi fiori inondati di luce, a motivo di quella storia lontana condannati a piegare il capo nella direzione del sole, a ricordo della viltà degli abitanti del villaggio.
Sempre, però, tra la gran massa, per lo meno una coppia di girasoli si erge diritta nei campi, ed entrambi levano il capo superbo verso il cielo, a ricordo della triste storia di Bella e del Signore che non ebbe il coraggio di amarla.
 
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view post Posted on 29/11/2008, 13:56

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Il nontiscordardime, messaggero d'amore.

Un tempo, in un regno prospero e felice, la giovane Daina abitava con la madre ormai vecchia in una piccola capanna dipinta di bianco, sul limitare di un campo di grano, vicino ad un ruscello che scorreva gioioso, alla quieta ombra di alberi secolari. Era bello in inverno, coi severi alberi spogli, i rami immobili contro il cielo grigio e i bruni campi silenziosi dove volavano pigramente i corvi dalle nere, lucide ali. Ed era bello in estate, sotto le fresche foglie luccicanti dove tubavano le colombe innamorate l'una dell'altra, accompagnando con il loro linguaggio d'amore il lieto scorrere del torrente d'argento.
Le donne andavano a riempire di purissima acqua i loro secchi in quel luogo incantato, ed i viandanti si sedevano per riposare e parlare con Daina, flessuosa, dolce e paziente come l'animale di cui portava il nome.
Ella lavorava filando alla rocca tessuti leggeri e preziosi per le ricche signore del regno e sognava, filando, i suoi sogni, il bel viso piegato sotto il peso dei lunghi capelli neri, raccolti sul capo in una treccia splendida, degna di una regina, i grandi occhi liquidi e scuri levati talvolta ad osservare fiduciosi chi voleva fermarsi a parlare con lei.
Un giorno, uno dei viandanti la informò che il Nobile Signore, padrone del regno, stava visitando tutte le terre che gli appartenevano, e quindi certo sarebbe giunto anche lì.
Turbata - senza nemmeno ben capirne la ragione - per la prima volta nella sua breve, placida vita, Daina corse dalla madre, per chiedere alla saggezza di lei quale mai vestito dovesse indossare per rendere omaggio al loro Signore. Quanto ai gioielli, la scelta era obbligata. Daina e la madre erano molto povere, vivevano del lavoro della fanciulla, e non possedevano che la piccola capanna bianca dove vivevano ed uno splendido gioiello, un grande zaffiro che racchiudeva in sé tutti i tenui bagliori del cielo, incastonato in una montatura degna di un re.
Quello zaffiro era appartenuto ad un possente signore del regno, che in anni ormai lontani aveva amato la madre di Daina, bella allora come ora la figlia, e poi l'aveva abbandonata, lasciandole in dono la piccola e quel gioiello prezioso.
La madre, sgomenta per il turbamento della figlia, pregò in silenzio perché la storia non si ripetesse, perché alla fanciulla così ignara fossero risparmiati il dolore dell'abbandono e del disinganno, le lacrime dello struggimento e della solitudine, ma ben sapendo che ogni cosa è già scritta, aiutò comunque la sua bella figlia ad acconciare i lunghi capelli neri e ad indossare un abito bianco come l'alba del mattino, fermandole sul seno il gioiello azzurro colore del cielo.
Finalmente il Nobile Signore passò davanti alla piccola casa di Daina, che attendeva tremando, ma, anche se vide la graziosa capanna dipinta di bianco, la giudicò troppo piccola per prestarle attenzione e passò oltre senza badare alla bellezza di quell'angolo fatato; era estate, ma preso dai gravi pensieri del suo regno, egli non vide le lucide foglie dei grandi alberi, non udì il richiamo amoroso dei colombi innamorati, non fu attratto dal fresco gorgoglio del ruscello d'argento.
Daina però non poteva tollerare il pensiero di non aver reso alcun omaggio al suo Signore.
E così, in un gesto dettato da inconsapevole orgoglio, poiché anche nelle sue vene scorreva nobile sangue, e dalla delusione di un'inconfessata speranza, lanciò verso il Principe il suo prezioso gioiello di cielo.
cielo.
Indifferente, il Principe passò col suo cavallo là dove il gioiello era caduto, e dietro a lui gli infiniti zoccoli dei cavalli di tutto il suo seguito numeroso. E il bello zaffiro si frantumò in numerose piccole schegge di luce azzurra, che riflettevano il sole.
Fu una dea pietosa che passava di lì a trasformare quelle schegge in migliaia di piccoli fiori azzurri, cui venne dato il nome di "non ti scordar di me" perché il ricordo del gesto orgoglioso e gentile della piccola Daina non andasse del tutto perduto.
Edoardo VIII, nel 1936, in un secolo dunque apparentemente privo di fiabe, rinunciò al trono di Inghilterra, assumendo il titolo di duca di Windsor, gettando così ben più che un monile di zaffiro ai piedi della donna che amava. La rinuncia al trono era infatti l'unico mezzo per rendere possibili l'anno successivo le nozze con l'americana, due volte divorziata, Wallis Simpson, che, a differenza del principe della fiaba, si chinò a raccogliere il dono.
IL duca volle che nel giorno delle nozze i "non ti scordar di me" decorassero a migliaia la loro abitazione, e che l'abito della sposa avesse quella particolare tonalità di chiaro azzurro che mostrano i petali del fiore sacro all'amore.
La piccola Daina, dal suo mondo di fiaba, deve pur aver visto tutto questo e certamente, nella sua generosità, ne ha sorriso felice.

 
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view post Posted on 30/11/2008, 19:52

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La primula, il fiore caro alle fate.



Questo fiore delicato annuncia la nuova stagione, ed il perenne rinnovarsi della natura. E' pertanto considerato di buon augurio. Essa possiede un potere unico, nel mondo delle fate : quello di rendere visibile l'invisibile. Infatti, si racconta che, per chi ci crede, mangiare le primule sia un metodo sicuro per vedere le fate.
Ci sono due tipi di primule : secondo una deliziosa leggenda un giorno San Pietro, uomo e santo di carattere sanguigno, avendo saputo che il Signore voleva un altro mazzo delle chiavi del Paradiso, buttò il suo dal Cielo. Le chiavi caddero in una regione dell'Europa settentrionale, per fortuna senza procurare gran danno, e dove caddero spuntò la primula veris: questo fiore giallo, dai piccoli capi penduli, assomiglierebbe, secondo la tradizione popolare, alle chiavi di San Pietro, tant'è che in Inghilterra, viene chiamato anche "mazzo di chiavi".
Nelle nostre regioni è invece più diffusa la primula vulgaris, dal piccolo capo eretto.
Narra una storia di molto tempo fa, di quando, per intenderci, ancora il popolo degli uomini e quello degli esseri fatati vivevano entrambi sulla terra ciascuno la propria vita, senza danneggiarsi a vicenda, che fu proprio in un prato, luminoso di primule gialle appena spuntate, che il re degli elfi perse il suo cuore per una donna mortale. Erano i primi giorni di sole, e sulla terra erano nate le primule a rallegrare i prati col loro colore di pallido oro, dopo un inverno così lungo e cupo che persino gli esseri fatati ne avevano subito la tristezza.
IL Re degli elfi veniva da un suo splendido mondo d'oro e di cristallo, attraversato da verdi lame di luce, luminose come raggi di sole, da un mondo dove tutto era bellezza, incanto e malia e dove abitavano bellissime fate. E tuttavia, quando, affacciandosi da una delle sue torri, vide occhieggiare tra la terra ancor secca dal freddo invernale quei primi annunci di sole, venne colto dal desiderio di far visita alla bellezza del mondo degli uomini.
Proprio da quelle parti viveva un nobile re, in un castello che si alzava superbo e possente sulla collina. Anche il re era possente e superbo, e già avanti negli anni. Con lui viveva la sua giovane sposa, un po' intimorita da quel marito così altero, un po' melanconica per la solitudine alla quale la costringeva la gelosia di lui.
Quel primo giorno di sole, anche la giovane regina, attratta dai primi raggi di luce e dai fiori gentili spuntati così numerosi nei prati, indossò un suo bell'abito di seta frusciante, verde come la tenera erba, scese dalle sue alte stanze e corse felice come una bimba verso quella promessa di primavera. Ovunque, le primule profumavano del loro profumo leggero, del profumo di ogni cosa del bosco e dei prati.
IL re degli elfi era abituato alla bellezza del suo mondo e della sua gente, eppure, quando vide quella giovane donna mortale muoversi lieve in quel prato di primule gialle, i lunghi capelli biondi del medesimo oro quieto dei fiori appena nati....Quando vide quei capelli che le danzavano leggeri dietro le spalle una danza che sembrava in onore della primavera, incarnazione della primavera ella stessa con quell'abito di tenero verde di seta, il suo cuore fu preso in un istante, e per sempre.
Si avvicinò dunque alla splendida giovane, promettendole che un giorno l'avrebbe condotta nel suo invisibile mondo. E lei, alzando gli occhi a guardare quella bella creatura di un'altra epoca e regno, gli lesse nel cuore i sorrisi, la dolcezza, il riso gentile che egli aveva conservati per la compagna, e si abbandonò senza esitare a quella promessa sconosciuta di gioia.
La giovane però era a sua volta sposa di re, e non poteva allontanarsi dal proprio mondo senza il consenso del suo signore. Fu così che un giorno il re fatato, si presentò alla corte del re mortale, e lo sfidò ad un gioco simile agli scacchi, che si giocava in quei tempi.
Imbaldanzito da due vittorie consecutive, ritenendo, nella sua superbia, impensabile una sconfitta, il re mortale sfidò infine la creatura non mortale ad una terza partita, invitandola a scegliere la posta della vittoria.
"Quello che il vincitore chiederà, sarà suo." Disse sorridendo il re degli elfi, ed il re umano non vide - accecato dall'avidità delle due splendide vittorie consecutive e dalla sua stessa alterigia - il bagliore verde negli occhi dell'avversario.
Ovviamente, questa volta la vittoria arrise all'essere fatato, che espresse il suo desiderio : voleva Lei, la bellissima sposa del re, la voleva da quando l'aveva vista danzare tra i fiori, in un giorno ormai lontano di primavera, e non era disposto ad aspettare un momento di più. L'onore non avrebbe dovuto lasciare al re degli uomini alcuna scelta, eppure egli si fece istintivamente più accosto alla sposa, stringendo la spada, e tutti i suoi cavalieri con lui.
IL re degli elfi però, sguainò la sua spada e prese ad avanzare, impassibile, mentre la schiera si apriva magicamente per lasciarlo passare, raggiunse la donna e la cinse con il braccio che non impugnava l'arma. Come per incanto, i due si sollevarono da terra, sempre più in alto, fino a quando sembrarono due uccelli, forse due cigni, che scomparvero nel sole.
Raggiunsero così la luminosa terra del sovrano fatato, ed è a causa di ciò che scoppiò la prima guerra tra gli uomini ed il popolo degli elfi, il cui re, però, non abbandonò mai la sua sposa mortale.
Si dice che ancora oggi, talvolta, nei primi giorni di sole dopo un cupo inverno, il re degli elfi e la sua sposa vengano sulla terra a raccogliere le primule d'oro dai prati, e sarebbe questo il motivo per cui questi fiori scompaiono così rapidamente dai campi. Qualcuno racconta anche di avere intravisto la sagoma scura di due esseri, forse fatati, o forse solo due uccelli, volare in coppia contro il sole e scomparire nei cielo di primavera.
 
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APRILE, il mese del Tulipano.



Si ritiene che il tulipano sia stato introdotto in Europa dalla Persia, ed in effetti ancor oggi in Iran gli innamorati si scambiano tulipani come simbolo d'amore.
Giunti comunque in Europa, i tulipani divennero di moda, grazie alle donne francesi che per prime li apprezzarono. La moda dilagò poi dalla Francia all'Olanda, dove si selezionarono nuove varietà ed i tulipani divennero oggetto di coltivazione intensiva; i bulbi venivano contrattati con accanimento dai ricchi mercanti olandesi, e le più rilevanti di tali contrattazioni all'inizio si svolgevano nel palazzo del mercante Van der Burse, palazzo che si trasformò nella sede non soltanto del commercio dei tulipani, ma anche di altri prodotti. Derivò così dal nome di quel mercante la parola Borsa, che ancora oggi indica il luogo delle contrattazioni di titoli azionari e di monete.
Io però conosco una storia diversa, che attribuisce la spettacolare fioritura dei tulipani ad una delicata leggenda.
In un tempo ormai lontano, viveva in Olanda un contadino che traeva dalla terra i prodotti necessari al suo sostentamento. Egli conosceva soltanto le nozioni indispensabili alla propria sopravvivenza. Conosceva quindi il ritmo delle stagioni, e quando seminare e quando raccogliere, le erbe buone per nutrire le bestie da lui accudite, e le erbe cattive che le avrebbero avvelenate. Altro non sapeva: ignorava dunque l'esistenza delle grandi città che cominciavano a sorgere non molto lontano da lui, il concetto e l'utilità del denaro, i miracoli della sapienza degli uomini.
Accadeva che, spinto dall'ansia di un'attesa senza scopo, si soffermasse talora ad osservare la lunga fuga dei campi verdi, di un verde monotono, sempre uguale, interrotto soltanto dagli ordinati canali di irrigazione che riflettevano il cielo. E il suo sguardo si spingeva fino all'orizzonte che dove lui viveva sembrava ancora più lontano di quanto non sia solitamente l'orizzonte, perché la sua terra piatta non era in alcun modo interrotta dalle linee ondulate dei monti.
Poiché era giovane, talvolta un comando impellente correva nelle sue vene, ma egli ne ignorava il significato, perché da quando si ricordava, era sempre stato solo, e così pensava - se pure pensava un futuro che non fosse l'immediato accadere dopo il presente - che sempre sarebbe stato.
Accadde tuttavia che un giorno, saltando senza motivo, in un impeto di felicità, un canale che scorreva quieto fra i verdi prati silenziosi che erano l'unico mondo da lui conosciuto, piombò in un mondo di bellezza che gli era ignoto: egli vide, spuntati tra l'erba sottile, fiori stupendi dai mille colori, aperti come ninfee, e sospesi su essi creature di luce, vestite di veli anch'essi dai mille colori, e con grandi ali leggere scintillanti d'argento, di quello scintillio che egli aveva scorto, nelle notti di luna piena, capovolto nei mille canali che attraversavano la sua placida terra.
Erano innumerevoli,quelle creature, e ciascuna aveva in mano uno strumento fatto di luce, che suonava insieme alle altre, in armonia di suoni. Una sola tra tutte non possedeva alcuno strumento. Era la più bella di quegli esseri lucenti e muoveva piano le sue leggere ali di farfalla, e rideva felice, danzando la musica evocata dalle compagne, musica che il giovane era certo non fosse umana, anche se di umano non aveva mai udita altro suono che quello del vento che spazzava le grandi pianure che erano tutto il suo mondo.
In quella bella creatura sorridente il giovane contadino concentrò alfine il comando imperioso che correva talvolta nelle sue vene, la somma di tutte le cose che sapeva esistere anche se gli erano sconosciute, l'ansia di bellezza che troppe volte lo aveva divorato quando osservava il mare fondersi nel cielo, all'orizzonte.
E l'amò, senza nemmeno sapere che era amore, d'un subito, profondamente e inutilmente, con la disperazione di chi intuisce di amare l'irraggiungibile.
La creatura fatata non conosceva purtroppo l'amore, poiché quello è un dono riservato agli uomini, ed anche loro solo raramente riescono a possederlo, ed ancor più raramente a condividerlo: la creatura era bella, buona e gentile, ma non poteva comprendere l'ansia che divorava il giovane umano.
Lui, a sua volta, che vedeva la bellezza e la bontà di lei, che si struggeva per la malia evocata dalla sua danza e dalla musica e dai canti delle fate compagne, si lasciò consumare dal desiderio di tutto questo fino a morirne, addormentandosi quieto, in un giorno d'aprile, al suono di quella musica, sull'argine del canale che un destino imperscrutabile, un giorno, gli aveva ordinato di attraversare.
La regina delle fate, sfiorata forse per la prima ed unica volta in quella sua vita diversa da un senso di umana pietà, pur non comprendendo il motivo di quella morte, intuì confusamente di esserne la causa innocente, e volle che le terre che il giovane aveva amato in vita, fossero da allora, nel mese aprile, coperte dai fiori che servivano da casa alle fate. E' da allora che ogni anno, nel mese di aprile, i tulipani fioriscono tutti insieme, a migliaia, coloratissimi, nella terra d'Olanda.
Mi hanno raccontato che chiunque abbia visto questa miracolosa fioritura, non fatichi a credere in questa storia che ne racconta l'origine fatata.
 
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view post Posted on 3/12/2008, 20:35

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La mimosa, fragile e gentile

In un paese lontano, all'altro capo del mondo, nell'isola di Tasmania, ed in un tempo altrettanto lontano, nacque il fiore della mimosa.
Gli abitanti dell'isola ne raccontano la leggenda.
In quel tempo, l'isola era dominata da un re guerriero, molto coraggioso e bello, alto ed agile, di pelle scura e coi capelli neri e lucenti come l'ala dei corvi, ma col cuore indurito dalle numerose battaglie. Così era tutta la sua gente: alta, scura di pelle e brusca di modi, con lunghi, lisci capelli a incorniciare il viso severo. Essi amavano i combattimenti contro le numerose tribù nemiche, e le cacce pericolose alle belve che infestavano l'isola. Combattimenti e cacce che affrontavano con altre grida crudeli, per spaventare il nemico.
Un giorno, durante l'ennesimo combattimento, il re venne gravemente ferito.
La madre e la sorella del re amavamo molto il loro caro, ma non amavano affatto la sua bella e giovane moglie, che non giungeva gradita al loro cuore, duro quanto quello di lui. La giovane regina era una creatura del tutto diversa, piccola di statura, timida e gentile, con i capelli arruffati in corti riccioli, biondi come batuffoli d'oro, la pelle dorata come miele puro e una bassa voce soave che sembrava una musica.
Pareva giunta lì da un altro mondo, la piccola regina, da un mondo di fiori, di sorrisi e di pace. Le due donne, scarne, scure e crudeli come il loro congiunto regale, erano inevitabilmente gelose della dolce, tenera bellezza di lei.
Approfittando della timidezza della piccola sposa, le due donne si precipitarono a curare il loro congiunto, trattenendo con vari pretesti la moglie lontana dalla tenda dove giaceva il ferito. Lei si disperava, perché era molto innamorata di quel suo marito rude e forte, ma non osava far valere i propri diritti di moglie, dimentica, nel suo sgomento, che erano anche doveri, temendo di far cosa sgradita alla suocera ed alla cognata, e quindi di turbare la convalescenza dell'uomo che amava.
La piccola regina era sola, nessuno la consigliava, perché i cortigiani, con la viltà dei deboli, si erano schierati dalla parte che intuivano più forte, e crudele, in quella lotta silenziosa per impadronirsi del cuore del Re.
Passarono i giorni, che divennero settimane, e poi mesi. Quando infine il Re fu guarito era ormai solo desideroso di punire la piccola regina le cui visite aveva tanto aspettato, senza che il suo orgoglio di re gli avesse permesso di ordinare la presenza della donna che nel suo cuore invocava. E dunque il Re bandì dal suo cospetto, senza esitazione, la giovane moglie innocente, senza nemmeno volerne ascoltare le ragioni, tanto il solo vederla, ormai, gli riusciva sgradito.
Giunse infine il fratello a riprendersela, il fratello, della stessa impietosa razza del Re.
Venne per riportarla a casa, ripudiata, libera, lei che era cinque volte madre, di darsi ad un altro uomo.
Ed in soli sette giorni il fratello la rimaritò ad un Principe di luoghi lontani, distanti dal regno dal quale la piccola regina era stata senza colpa bandita.
Pure, timida e dolce com'era, la piccola, infelice Azar, ormai senza più lacrime né desideri, non si ribellò al suo destino. Chiese soltanto, come dono di nozze, un velo che le consentisse, nel lungo viaggio per raggiungere la sua nuova dimora, di coprirsi il volto ed il corpo, per non essere riconosciuta quando fosse passata dalle terre di Asan, padre dei suoi figli e crudele signore, poiché l'incontro coi suoi piccoli le avrebbe senza alcun dubbio spezzato il cuore.
Il Principe suo nuovo sposo era meno duro di cuore di Asan, e in qualche modo la disarmata dolcezza della piccola regina scacciata dal suo regno ebbe a parlare al suo cuore. La giovane ebbe dunque il suo velo, col quale si ricoprì interamente. Ma quando passò davanti alla reggia che era stata sua, i figli di lei, che ogni giorno spiavano dall'alto delle torri il ritorno della madre, la riconobbero nonostante il lungo velo ed accorsero piangendo e invocando a gran voce il suo ritorno.
Ancora una volta, Azar fece appello alla pietà del suo nuovo Signore, chiedendo che le fosse consentito fermarsi un momento, e lasciare un dono a ciascuno dei figli. Ed il Principe ebbe ancora una volta pietà della piccola sposa disperata, e acconsentì alla richiesta. Così, Azar poté regalare ai suoi bambini stivali trapunti d'oro, e lunghe, ricche vesti alle fanciulle, e lascio un abitino per il più piccolo, che dormiva ignaro nella culla. Il padre però, da lontano, vide tutto questo, e richiamò a sé i figlioli, che dimenticassero in fretta la madre indegna di loro.
Azar sentì quella voce dura dettare ancora una volta il suo destino, e ancora non seppe trovare parole a difesa della sua inutile innocenza. Si accasciò allora, ormai sfinita dall'ingiustizia e dal dolore, e sopra di lei il lungo velo di nuova sposa si posò pietoso a coprirla da tutti gli sguardi.
Andò più tardi il suo nuovo Signore a riprendersi l'infelice creatura, deciso a regalarle una vita intera di felicità. Ma ormai il destino di Azar era giunto a compimento.
E fu così che il Principe pietoso, sotto il lungo velo che era stato il suo dono di nozze, non trovò che un fragile arbusto fiorito di mimosa, ben abbarbicato con le sue radici alla terra, deciso a non lasciarsi strappare dal luogo dove era tutto il suo cuore, i piccoli fiori odorosi a ricordare ai figli di Azar i batuffoli biondi che ricoprivano il capo della loro madre, al tempo in cui era stata felice.
Ad Azar, così dolce, remissiva, obbediente e infelice, il tempo renderà poi giustizia alla sua bizzarra maniera: perché il fiore nato da lei verrà riconosciuto da tutte le donne come il simbolo della propria presa di coscienza, e della capacità di decidere esse stesse il proprio destino.
Apparentemente delicato, in realtà forte e resistente, impossibile da sradicare, contro il suo volere.
 
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Giugno : il solstizio d'estate e le erbe di san Giovanni



Al solstizio d'estate, quando il sole raggiunge la sua massima inclinazione positiva rispetto all'equatore celeste, per poi riprendere il cammino inverso, comincia l'estate
Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.
E nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori.
Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell'arco di duemila anni, benché la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, o perlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità e si esauriscono soltanto con la sistematica repressione dei governanti laici dell'Italia unita: nelle zone rurali si mantengono tuttavia i riti più semplici e naturali, propri della società contadina e pastorale.
Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo : il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull'orizzonte : insomma, noi crediamo che cominci l'estate, ma in realtà, da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, al fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali. Sarà all'altro solstizio, quello invernale, che in realtà l'inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all'estate.
E' così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni.
Nella notte della vigilia di San Giovanni, la notte più breve dell'anno, in tutte le campagne del Nord Europa l'attesa del sorgere del sole era (è ?) propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poiché da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre con le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava, e nella notte magica avvenivano prodigi : le acque trovavano voci e parole cristalline, le fiamme disegnavano nell'aria scura promesse d'amore e di fortuna, il Male si dissolveva sconfitto dalla stessa forza di cui subiva alla fine la condanna la feroce Erodiade, la regina maledetta che ebbe in dono il capo mozzo del Battista. Nella veglia, tra la notte e l'alba, i fiori bagnati di rugiada brillavano come segnali ; allo spuntar del sole si sceglievano e raccoglievano in mazzi per essere benedetti in chiesa dal sacerdote. Bagnarsi nella rugiada o lavarsene almeno gli occhi al ritorno della luce era per i fedeli cristiani un gesto di purificazione prima di partecipare ai riti in chiesa.
La rugiada ricordava il battesimo impartito dal Battista nel Giordano, le erbe dei prati e dei boschi riproponevano l'austera penitenza di Giovanni nel deserto prima della sua missione di precursore del Messia. Anche in Valsesia ritroviamo l'usanza dei falò, del lavacro con la rugiada e della benedizione in chiesa del mazzo di erbe e di fiori. Conservate gelosamente in casa, portate all'alpeggio in estate - verso il quale da molti paesi si partiva la stesso giorno del 24 di giugno - le erbe benedette riconsacravano la baita di montagna lasciata l'anno prima mantenendo tra le famiglie dei pastori un legame con la sacralità della festa e del rito d'inizio d'estate. Al ritorno dall'alpe, quelle stesse erbe essiccate, unite ad un ramo di olivo e ad uno di ginepro, venivano bruciate nella stalla a protezione degli animali. Non a caso, dunque, il precursore di Cristo, rappresentato con l'Agnello mistico e vestito da eremita, pastore del deserto, fu assunto dai pastori come patrono privilegiato fino dai primi secoli cristiani.
IL rito della benedizione dei "fiori di San Giovanni", erbe benefiche e medicine medievali per curare il corpo ed evitare il malocchio, per proteggere la casa e gli animali domestici era assai diffuso in Valsesia, fino a pochi decenni fa. Ma ancora adesso, a Rossa, piccolo paese della Val Sermenza, valle minore della Valsesia, il parroco di Boccioleto, Don Luigi, mi ha raccontato che i fedeli richiedono la preghiera "magica", quella che proteggerà dai mali i raccolti. E la richiederebbero anche ad Oro di Mezzo, frazione di Boccioleto, se non fosse che non ci sono più anime a popolare la piccola frazione. Tutti se ne sono andati, ormai. Rimangono le montagne, immobili, maestose, gravide di leggende di cui nessuno ricorda più la trama, e tanto meno il significato.
E rimane, l'antica, suggestiva preghiera che un anno dopo l'altro, un secolo dopo l'altro, ha convinto di aiuto e pietà generazioni di donne e ancora adesso, in questo mondo impazzito, in un piccolo paese nascosto tra le montagne, raccoglie le donne lì giunte in processione a chiedere aiuto e pietà ad un Dio di cui si prega l'ascolto :
"Dio onnipotente ed eterno, che hai santificato nell'utero di tua madre il beato Giovanni Battista, e nel deserto hai voluto nutrirlo di erbe, di radici e di locuste silvestri, degnati di benedire questi rami, i fiori e le nuove biade, i frutti e le erbe che i popoli ......raccolgono, affinché .....siano una medicina per tutte le anime e per i corpi.
Dio, che in principio hai creato tutte le cose con la Tua onnipotenza e ad esse hai assegnato una forza, degnati di benedire questo insieme di erbe e di fiori, affinché tutti quelli che li portano con sé o li conservano nelle loro case, siano liberati da ogni inganno diabolico.
Dio onnipotente ed eterno, che ti sei degnato di nutrire nelle grotte del deserto il beato Giovanni Battista di locuste e di miele selvatico, degnati pure, Signore, di benedire e di santificare questi fiori oggi preparati in onore al Tuo nome, affinché a tutti quelli che li portano in mano o li conservano nelle loro abitazioni, siano di protezione per i corpi e per le loro anime e di medicina per tutte le malattie.
Dio onnipotente ed eterno, creatore di tutte le cose per l'utilità del genere umano degnati di benedire e di santificare queste creature di erbe e di fiori, affinché tutti quelli che da esse ne abbiano presi alcuni e li abbiano portati con sé ricevano la guarigione tanto del corpo come dell'anima, e affinché per propria forza, e in onore di Tuo Figlio e Nostro Signore e in onore del beato Giovanni Battista siano nuovamente beati e santificati e abbiano potere contro le tenebre, le nubi e le malignità delle tempeste e contro le incursioni dei demoni ....."
Ed ancora le donne si recano in processione, recando con loro i fiori da benedire.
I fiori di San Giovanni, dunque : l'artemisia, l'arnica ; le bacche rosso fuoco del ribes ; la verbena, della quale è credenza diffusa che, colta a mezzanotte della vigilia di San Giovanni, costituisca un'infallibile protezione contro i fulmini, ed è conosciuta in Bretagna come "erba della croce", perché si ritiene che protegga chi la porta con sé da qualsiasi male ed anche come "erba della doppia vista" perché il berne un infuso facilita la visione di realtà altrimenti nascoste.
E l'erica, la pianticella sottile.
L'erica è un fiore delle nevi e dei terreni poveri ed ostili. Infatti, il suo nome deriva dal verbo greco "ereiko", spezzo, rompo, proprio perché l'erica è più forte della dura crosta di terra invernale o della neve che la ricopre, tant'è che la buca senza fatica, emergendo all'aria aperta.
I fiori dell'erica, che vanno dal bianco alle varie tonalità di rosa, assomigliano, rovesciati, ai copricapi degli elfi.
Della stessa famiglia dell'erica è un'altra pianticella, detta brugo (cognome assai diffuso nei paesi ai piedi delle nostre montagne, e davvero molto a Romagnano Sesia), da brucus, termine tardolatino di origine celtica, da cui deriva il termine brughiera, poiché in questa terra povera e arida la pianticella riesce a vivere meglio di altre, coprendo immense distese.
L'erica, dal nome più romantico, era tenuta in grande considerazione fin dall'antichità, tanto da essere utilizzata per costruire le scope che sarebbero servite a pulire i templi degli Dei, e successivamente, in tempi più severi, il forno dove cuocere il pane.
L'utilizzo dell'erica per costruire scope era così diffuso che, in alcune regioni, l'erica stessa viene chiamata scopa e ancora oggi, alcune località soprattutto della Toscana, dove l'erica ricopre a distesa campi e colline, vengono chiamate Scopeto, Poggio delle Scope, Pian di Sco'. Stessa origine dovrebbero avere i paesi di Scopa e Scopello, della nostra Valsesia.
Le leggende associano spesso l'erica alle Entità Fatate, facendole dimorare fra i suoi rami e sconsigliando di
sdraiarsi a dormire fra queste piantine, per non correre il rischio di essere rapiti dal mondo delle fate. Di contro, era possibile accedere ai segreti dell'Aldilà, semplicemente dormendo su un letto di erica, che è anche spesso giaciglio degli amanti in numerose leggende.
E l'erica è posta a guardia del solstizio d'estate, periodo nel quale raggiunge la fioritura più completa. Usanza derivante probabilmente dal mondo celtico, dove l'erica è collegata sia all'Aldilà sia all'amore : le api, simbolo di saggezza segreta che proviene dall'Altromondo, sono particolarmente ghiotte dei fiori di questa piantina e producono così un miele squisito, da sempre legato a riti e significati di immortalità e di rinascita.
E ancora, tipico della notte di San Giovanni, il raro, misterioso fiore della felce che cresce nella notte magica, e si dice fiorisca a mezzanotte.
La storia relativa ai fiori magici è interessante, ed è frutto di credenze molto diffuse. In Boemia, ad esempio, si crede che il fiore della felce risplenda come l'oro, o come il fuoco, nella notte di San Giovanni : chiunque lo possieda in questa magica notte, e salga una montagna tenendolo in mano, scoprirà una vena d'oro, e vedrà brillare di fiamma azzurra i tesori della terra.
In Russia, i contadini raccontano che chi riesce ad impadronirsi del meraviglioso fiore nella vigilia di San Giovanni, se lo getta in aria, lo vedrà ricadere per terra nel punto preciso dove è nascosto un tesoro. Pare che questo fiore fiorisca improvvisamente, talvolta, a mezzanotte precisa della magica notte del solstizio d'estate ; e, sempre in Russia si racconta che chi abbia la fortuna di cogliere l'istante di quella fioritura improvvisa, potrà nello stesso tempo assistere a tanti altri spettacoli meravigliosi : gli sarebbero apparsi tre soli, e una luce avrebbe illuminato a giorno la foresta, e avrebbe udito un coro di risa, ed una voce femminile chiamarlo. IL fortunato a cui accade tutto questo non deve spaventarsi : se riesce a conservare la calma, raggiungerà la conoscenza di tutto ciò che sta succedendo o succederà nel mondo. Anche se resta da vedere se quest'ultima sia una buona magia.
Ma anche il seme della felce, che si vuole risplenda come oro nella notte di San Giovanni, non diversamente che dal magico fiore, farebbe scoprire i tesori nascosti nella terra : i contadini del Tirolo credono che alla vigilia di San Giovanni si possano veder brillare come fiamme i tesori nascosti e che il seme della felce raccolto in questa mistica notte possa portare alla superficie l'oro celato nelle viscere della terra. Nel cantone svizzero di Friburgo, il popolo usava un tempo vegliare vicino ad una felce la notte di San Giovanni, nella speranza di guadagnare il tesoro che qualche volta il diavolo in persona portava loro.
Un altro fiore, questo facilmente rintracciabile e che appare d'oro anche ad occhio nudo, è legato nella memoria popolare al solstizio d'estate. La densità della sua fioritura è tale da risaltare sulle grandi distese, come una gran macchia di colore giallo oro misto a rame ; i fiori infatti, così numerosi e brillanti, durano poco, un giorno soltanto, e subito appassiscono e assumono un colore rosso ruggine. Si tratta dell'iperico, un fiore dei campi che è detto erba di San Giovanni, perché anticamente chi si trovava per strada la notte della vigilia, quando le streghe si recavano a frotte verso il luogo del convegno annuale, se ne proteggeva infilandoselo sotto la camicia insieme con altre erbe, dall'aglio, all'artemisia, alla ruta. IL suo stretto legame col Battista sarebbe testimoniato dai petali che, strofinati tra le dita, le macchiano di rosso perché contengono un succo detto per il suo colore "sangue di San Giovanni". E' davvero difficile risalire alla motivazione di questo accostamento - perché il Battista e non un altro martire ? - se non forse il fatto che l'iperico è un fiore che si accontenta di poco, per sopravvivere, e vive anche nei climi desertici, come fece un tempo Giovanni il Battista.
Nelle leggende si parla anche di un 'erba piccolissima e sconosciuta, detta Erba dello Smarrimento. Si dice che essa venisse seminata dalle Fate e dai Folletti nei luoghi da loro frequentati e, calpestata, avrebbe allontanato dalla retta via il malcapitato. A questa leggenda si intreccia quella, di origine tedesca ma alquanto diffusa nel biellese, che, se taluno passa vicino alla magica fioritura della felce, nella notte di San Giovanni, senza raccogliere il seme che la pianta lascia cadere, sarà condannato a smarrirsi per via, anche se percorre strade a lui note.
Altrettanto conosciuta era l'Erba Lucente, che consentiva, se portata sul corpo, di vedere la verità delle cose senza mascheramenti o inganni. Poiché quest'erba era invisibile agli uomini, ma non ai bovini domestici, la si poteva raccogliere solo seguendo un vitello al suo primo pascolo, oppure le mandrie, nella notte di San Giovanni. Si raccontava infatti che in quelle occasioni i bovini mangiassero solo quell'erba, dando così la possibilità a chi proprio lo desiderava di individuarla. Le vecchie storie non tramandano cosa accadesse agli incauti che ci riuscivano, cui da allora, conoscendo ogni verità, era negata la possibilità dell'illusione.
Anche in Valsesia, come abbiamo già detto, ritroviamo l'usanza dei falò, del lavacro con la rugiada e della benedizione in chiesa del mazzo di erbe e di fiori. Conservate gelosamente in casa, portate all'alpeggio in estate - verso il quale da molti paesi si partiva la stesso giorno del 24 di giugno - le erbe benedette riconsacravano la baita di montagna lasciata l'anno prima mantenendo tra le famiglie dei pastori un legame con la sacralità della festa e del rito d'inizio d'estate. Al ritorno dall'alpe, quelle stesse erbe essiccate, unite ad un ramo di olivo e ad uno di ginepro, venivano bruciate nella stalla a protezione degli animali. Non a caso, dunque, il precursore di Cristo, rappresentato con l'Agnello mistico e vestito da eremita, pastore del deserto, fu assunto dai pastori come patrono privilegiato fino dai primi secoli cristiani.

 
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Agosto: il fiore di loto, dove abitano le fate delle acque.



In un tempo lontano ormai più di diecimila, ventimila anni, alla foce del grande fiume che già da allora attraversava la pianura padana, dai monti fino al mare, il fiume grande e placido che gli antichi chiamavano Eridano, e i più recenti abitanti della pianura Po, alla foce del gran fiume dunque c'era una immensa palude, così grande che arrivava ad occupare gran parte di quella che adesso è diventata pianura.
La palude era grande e bellissima, come tutto era bello nel mattino del mondo. L'acqua era chiara, di un indescrivibile colore verde-azzurro, là dove spuntavano le leggere canne sottili dei giunchi a migliaia, docili al vento come enormi ventagli mormoranti di dee sontuosamente abbigliate. Più scura era invece l'acqua, là dove affioravano i grandi fiori di loto, gli enormi petali bianco-rosati posati sull'acqua placida che immobile rifletteva il verde delle canne e l'oro del sole.
Si diceva che i fiori di loto proteggessero i regni delle fate delle acque, che si nascondevano proprio sotto le grandi corolle, ma a nessun essere vivente era dato vederli, e comunque nessuno che si credeva li avesse visitati era mai tornato per raccontarne.
Perché i regni delle fate possono svelarsi dovunque, all'improvviso, luminosi di promesse di gioia, e sparire altrettanto improvvisamente, lasciando un vuoto buio di incolmabile rimpianto. Si può morire di nostalgia, struggendosi per il desiderio di quel mondo perduto. Si può impiegare il resto della vita nella ricerca vana di qualcosa che forse non esiste, immaginata sempre un filo al di là dell'orizzonte, sempre un pelo sotto la limpida acqua di un lago, alla fine delle dune che si inseguono in un deserto, appena dopo la svolta di un sentiero nella foresta, quando già sembra di sentire le risate argentine degli esseri fatati confuse col canto degli uccelli.
Si, può essere davvero pericoloso, per la quiete della propria anima, anche solo intravedere il mondo delle fate.
Gli uomini che vivevano nei villaggi sparsi ai limiti della grande palude sapevano tutto questo, al modo che un tempo gli uomini sapevano le cose, essendo tra loro in sintonia tutti gli esseri del creato; affrontavano quindi la grande palude con prudenza e rispetto, e ne avevano un poco timore, pur ammirandone la variegata bellezza e pur traendo da essa il proprio sostentamento; si cibavano infatti dei pesci della palude, e ne cacciavano le molte specie di uccelli: anatre e folaghe durante l'autunno, ed aironi, e gallinelle d'acqua: con le canne e coi giunchi, poi, costruivano le loro abitazioni e le barche con le quali scivolavano sull'acqua quieta, e con gli splendidi boccioli dei fiori di loto le loro donne si adornavano i capelli.
In uno di questi villaggi viveva una giovane vedova, con un bambino nato da poco, ed il fratello un poco più giovane di lei, fiero e indomabile come un guerriero barbaro, invece del povero pescatore che era. IL giovane amava andarsene per la palude, ed amava anche i rischi che questo comportava, più che temerli. Con la sua barchetta leggera scivolava tra i giunchi, tuffandosi proprio là dove erano più folti, perché aveva sentito raccontare dai vecchi che talvolta, nei ciuffi più folti, si apriva una porta che conduceva ai regni delle fate.
Infine, un giorno in cui il meriggio sembrava essersi allungato all'infinito, e la notte non sopravvenire mai, e al giovane gli occhi bruciavano talmente per il luccichio del sole che non riusciva più a distinguere la direzione che aveva preso, né riusciva a comprendere dove era finito, e il sudore colava lungo il suo corpo fino a trasformarlo in una statua di bronzo e il mondo intero sembrava tacere in attesa, e non si udivano versi di anitra dall'ombra dei canneti, né voli striduli di uccelli nel cielo, e tutto era verde, oro ed azzurro, e silenzio, perché nemmeno la barca faceva rumore mentre scivolava verso un gruppo più folto degli altri come se la direzione fosse decisa e inevitabile, il mondo delle fate si spalancò davanti agli occhi del ragazzo, all'improvviso. Egli comprese subito - sebbene non sapesse spiegarsene il perché - che il luogo dove si trovava era fatato, e si avvicinò al centro di quel luogo misterioso, dove, affioranti dalle acque e quasi sospesi sopra di esse, si trovava un forziere colmo di monete d'oro, ed accanto dormiva quieta, sdraiata su un comodo divano, una fanciulla, i lunghi, lisci capelli scintillanti come oro filato e le labbra piegate da un misterioso sorriso.
Le fate, accorse in gran numero lievi come farfalle, si raccolsero intorno al giovane con le lucide ali dorate scosse da un fremito leggero e lo invitarono con le ridenti voci argentine a scegliere uno dei due doni. IL forziere lo avrebbe ovviamente reso ricco, con la bellissima giovinetta avrebbe diviso una lunga vita felice di reciproco amore.
IL giovane esitò, ma solo per poco; pensò alla sorella, alla povera vita che lei viveva, al bimbo nato da poco e che già conosceva il dolore, al fatto che di belle donne il mondo era pieno e che, in fondo, all'amore lui non credeva...... Scelse dunque il forziere e lasciò senza rimpianti quel mondo incantato.
Da quel giorno, la vita della famigliola cambiò radicalmente, poiché le monete nel forziere sembravano non finire mai. Per ognuna che se ne toglieva, un'altra misteriosamente compariva al suo posto. La sorella era finalmente tranquilla e felice ed il suo bel bambino cresceva forte e sano. IL fratello però, a mano a mano che il tempo passava, si interessava sempre meno dell'accumularsi della ricchezza, perché il suo unico pensiero era l'immagine della bellissima fanciulla che non aveva svegliato.
La dolce ossessione non lo abbandonò più. Lui passava i suoi giorni scivolando sull'acqua con la sua barchetta, sempre alla ricerca della caverna fatata, sempre sperando che al prossimo ciuffo di giunchi, al prossimo colpo di remo si riaprisse la porta che lo avrebbe condotto alla bella creatura che lo aveva stregato.
Finì per non tornare neanche più a casa a dormire, si dimenticò di mangiare e di bere, e infine morì. Lo ritrovarono qualche giorno più tardi, che sembrava addormentato, con la barchetta impigliata in un ciuffo di giunchi più folto degli altri e sulle labbra un misterioso sorriso.
La sorella, che aveva compreso di essere stata in parte la ragione della scelta che aveva portato alla morte il fratello tanto amato, volle dare al bambino nato da poco il nome di "Giunchi", in ricordo della storia dolce-amara che era all'origine della fortuna della famiglia, che col tempo crebbe sempre più in importanza e ricchezza.
Le fate, però, non dimenticarono di punire la scelta priva d'amore del giovinetto che le aveva, in un tempo lontano, trovate nella grande palude e così tutti i primogeniti della famiglia vennero condannati a non saper riconoscere l'amore, quando lo incontrano, e a vivere senza conoscerne la felicità.
La grande palude è ormai quasi sparita, col passare dei millenni.
Però una quindicina di chilometri prima di confluire nel Po, il fiume Mincio forma la distesa lacustre che abbraccia da tre lati la città di Mantova, e lì si possono trovare, sulla distesa d'acqua placida, ancora ciuffi di giunchi e di canne che tremolano al vento, e, verso il finire d'agosto, i fiori di loto che aprono a migliaia le grandi corolle bianco-rosate. Qualche barchetta si avvicina cauta scivolando sull'acqua quieta, ma nessuno osa addentrarsi fra la grande distesa dei fiori sospesi sull'acqua più scura , anche se i rematori sorridono alle domande indiscrete dei turisti curiosi, se sia vero che là sotto hanno trovato l'ultimo rifugio i regni delle fate delle acque.

 
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view post Posted on 4/12/2008, 14:35

ottimo

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Il rododendro, rosa delle Alpi

Il nome di questo fiore deriva dal greco ròdon, che significa rosa, e déndron, che significa albero; dunque, "albero delle rose".
In tedesco il rododendro è chiamato viceversa alpenrose, rosa delle Alpi, perché cresce fino a duemila metri d'altezza, mentre negli Appennini viene chiamato anche "rosa dei morti" perché una vecchissima leggenda narra che fosse nato dal sangue di un giovane che si era ucciso per amore.
La leggenda però più bella di questo fiore narra del principe dei ghiacci, che viveva sereno e tranquillo con la regina madre in un castello posto fra gli alti ghiacciai della catena alpina del Monte Bianco, fino a quando il suo cuore fu preso dall'amore.
Ancora adesso può capitare che, osservando la cima del Monte Bianco nelle notti di luna piena, la si veda risplendere di bagliori dorati; alcuni raccontano che sono le fate, che giocano con palline d'oro, berillo ed acquamarina ; si favoleggia da costoro che la cima del Monte sia d'oro purissimo, celato dai ghiacciai perenni.
Altri invece sostengono che quei bagliori sono quanto si riesce ad intravedere, in condizioni favorevoli, delle torri dorate, svettanti verso il cielo, del castello dove per lungo tempo ha abitato il principe dei ghiacci, e che ormai è abbandonato. Questa è la storia di quel principe.
In un tempo lontano, narrano i vecchi che abitano a ridosso del monte, il luogo era abitato. [SL1]IL castello
era bellissimo, sembrava fatto di cristallo, e nei lunghi corridoi e nelle ampie stanze radiose sembrava di camminare immersi nell'arcobaleno, quando il sole splendeva.
Era impossibile essere infelici in un luogo così bello e il principe, la madre, i numerosi amici che venivano in visita, i servitori fedeli e trattati con umanità e cortesia, persino gli animali erano lieti di vivere in un luogo tanto bello.
Un giorno il principe, che amava molto cacciare, si spinse nell'inseguire la preda ben oltre i confini del suo regno, fino ad arrivare ad una valle sconosciuta, piena di fiori dagli smaglianti colori, dove vide, seduta in mezzo al prato, una bella creatura solitaria e luminosa come una stella. La vita del principe cambiò il suo corso, in quel quieto giorno di primavera, poiché lei lo guardò con occhi così grandi e dolci che il cuore del giovane tremò, e fu smarrito per sempre. Voleva portarla immediatamente nel suo castello fra i ghiacci, e farla sua sposa.
Lei, a sua volta affascinata, scosse il capo piangendo. IL compito che il destino le aveva affidato, portare la primavera, non avrebbe mai potuto sopravvivere in un luogo dove non poteva far nascere e crescere i fiori.
IL principe comprese che il rifiuto di lei era definitivo, e non osò neppure insistere ; così fece ritorno al suo castello col cuore gonfio di tristezza e di nostalgia, lui, che non aveva mai conosciuto, né procurato dolore ad anima viva, ma neanche mai provato lo struggimento del desiderio rimasto inappagato.
La madre regina, che amava moltissimo quel suo figlio tanto bello e buono, una volta saputo il motivo della malinconia che non lo abbandonava mai, cominciò a vagare tra i ghiacci, alla ricerca di una soluzione. Con quelle sue scarpe eleganti e sottili, fatte per camminare sui preziosi tappeti del suo bel palazzo di cristallo e di luce, si trascinò da un capo all'altro del regno, su e giù per i ripidi sentieri, per interrogare una dopo l'altra, tutte le maghe che conosceva, senza badare né alla stanchezza né al dolore, ma senza riuscire a trovare una soluzione. Quando le sue belle scarpe furono consumate, la regina continuò a camminare, senza badare alle piaghe che si aprivano sui piedi ghiacciati e al sangue che cominciava ad uscire da mille piccole ferite. Infine, senza più fiato né speranza e con gli occhi pieni di lacrime dovette risolversi a riprendere la via del suo bel castello di ghiaccio.
IL principe, che l'aspettava con ansia, si accorse meravigliato che ai piedi della madre, là dove era colato il sangue sgorgato dalle tante ferite dei poveri piedi massacrati, erano spuntati innumerevoli fiori rossi come il sangue, mentre dalle lacrime della regina erano sbocciate piccole palline bianche, come quelle che in primavera si vedono sui cespugli dei rododendri.
Fu così che il Castello di Ghiaccio ebbe i suoi fiori, che continuano a sbocciare ancora adesso fino ai duemila metri d'altezza, ed il principe ebbe la sua fanciulla in i sposa, e nel castello tornò la felicità, persino tra nuora e suocera, cosa che raramente accade, anche nei racconti di fate.


 
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