L'Oro delle streghe
Inquisizione a Venezia
Capitolo I
13 dicembre 1250. Si spegne Federico II di Svevia, imperatore universale del Sacro Romano Impero. La sinistra profezia della sua morte sub Flore si è dunque avverata a Castel Fiorentino di Puglia.
A Palermo uno spesso velo di silenzio è calato sulla sfarzosa e lieta corte di un tempo, tace il centro da cui l'Imperatore aveva governato il prospero Regno delle Due Sicilie col sostegno di una burocrazia diligente e sottomessa. Un brivido di perplessità si è diffuso a tutta la Sicilia: con la crisi dell'Impero essa teme di perdere il vantaggio di sede geografica privilegiata che le consente di esportare in tutto il Mediterraneo merci preziose quali lo zucchero, l'indaco, le pelli, la seta greggia, il cotone e le ceramiche di qualità. Opulento granaio d'Europa in quest'epoca di esplosione demografica, l'isola ha immagazzinato grandi quantitivi di frumento la cui vendita, subordinata agli intrecci commerciali coi Genovesi, potrebbe venire compromessa dai recenti mutamenti politici.
Tanta ricchezza da tempo attirava le tenaci ambizioni dei pontefici. Innocenzo IV, col recondito disegno di imporre i suoi diritti sovrani sull'isola, aveva accusato Federico II di essere un precursore dell'Anticristo, aveva reso note le sue presunte simpatie per gli infedeli e sottolineato la sua caparbia insubordinazione alle direttive papali, ne aveva condannato la condotta immorale e denunziato pubblicamente la sodomia. Infine, aveva proclamato a tutte le forze della Cristianità una solenne crociata diretta a sradicare e cancellare per sempre la dinastia sveva degli Hohenstaufen.
Rovinoso fu per l'Imperatore il biennio precedente la sua morte. Durante l'assedio della città di Parma un'abile sortita dei ribelli distrugge il suo accampamento; Como abbandona gli imperiali ed entra nella Lega Lombarda; i guelfi bolognesi, nel corso di un acerrimo scontro, sbaragliano a Fossalta le aquile nere degli scudi ghibellini e catturano Re Enzo di Sardegna, il figlio dell'Imperatore, poi imprigionato nel palazzo comunale di Bologna.
Sotto questi duri colpi Federico II finì per mostrarsi sempre più diffidente, ossessionato da continui timori di veleni e congiure. Sicché, vittima insigne delle inquietudini imperiali, cadde sotto giudizio perfino il suo più valente consigliere, Pier delle Vigne, l'abilissimo rétore che in vent'anni di servigi aveva ribattuto colpo su colpo le apocalittiche accuse del pontefice e al mondo intero aveva presentato Federico II nella visione escatologica dell'Imperatore della Fine dei Tempi. Con l'accusa di peculato, Federico II confiscò le ingenti ricchezze che quel capuano di modeste origini aveva accumulato nel corso della sua ascesa politica e dopo averlo accecato lo rinchiuse nella fortezza toscana di San Miniato. Ma Pier delle Vigne preferì il suicidio e si fracassò il cranio contro il pilastro cui era stato incatenato.
In realtà taciti rancori contro l'Imperatore non mancavano, ma provenivano semmai dal popolo, Federico II aveva portato l'Impero sull'orlo del dissesto finanziario, le spese militari avevano superato di gran lunga le entrate e i debiti contratti con i banchieri romani erano arrivati sul ciglio dell'insolvibilità. Una volta la settimana i castelli venivano ispezionati a scopo fiscale e si compilavano rapporti sul numero dei servitori e dei soldati presenti. Particolarmente vessati dalle imposizioni fiscali erano stati i portolani, spremuti fino all'osso e obbligati a tenera conto dei carichi, a verificare i prezzi e a scrivere nei loro registri ogni particolare dei pagamenti ricevuti. In Lombardia si era cercato di massimizzare le entrate tramite i podestà siciliani insediati nelle città sottomesse e intanto pesavano sui sudditi le spese tutt'altro che trascurabili necessarie a soddisfare i piaceri esotici e bizzarri dell'Imperatore e a mantenere la sua lussuosa corte di Palermo. Come conseguenza i Lombardi avevano moltiplicato vertiginosamente le controversie fiscali rivolte all'autorità del tribunale supremo di Palermo, segno evidente del malcontento strisciante e dell'amaro risentimento dei sudditi verso quella affannosa ricerca di fondi.
Il Libero Comune di Venezia si era schierato con i guelfi e questo da quando Federico II aveva voluto indirizzare i suoi favori alla rivale città di Ferrara permettendole l'estensione del controllo mercantile sul sistema fluviale della Lombardia orientale. Venezia, stretta tra la morsa ghibellina della potenza pisana e le trame preparate a Verona dal feroce Ezzelino da Romano, mirava soprattutto a difendere la sua fiera autonomia risalente ben al 697, anno dell'elezione del primo doge.
Sulle orme della tradizione orientale del Basileus bizantino, capo insieme politico e religioso, il doge costantemente aspirava a realizzare nella sua figura l'unità del rex-pontifex, di fatto non sottomettendosi ad alcun potere ecclesiastico esterno. L'adesione alla Lega Lombarda aveva però creato un varco alle interferenze pontificie perciò il Papa, facendo leva sull'alleanza guelfa, era riuscito ad imporre la Santa Inquisizione anche nei territori di Venezia, città marinara consona da sempre a godere di un clima di cosmopolita tolleranza. Pertanto all'atto del giuramento del nuovo doge Marino Morosini (sei mesi prima della morte di Federico II) era comparsa una norma insolita in cui il doge si impegnava ad eleggere "uomini probi, saggi e cattolici" che indagassero sugli eretici condannando al rogo i colpevoli. Era consuetudine antica che il giuramento prestato prima di entrare in carica, detto promissione, stabilisse una serie di vincoli vecchi e nuovi che avevano l'intento di limitare e circoscrivere il potere dogale. Ma l'ex Duca di Candia, eletto doge a sessantotto anni, aveva dovuto accettare controvoglia quella nuova aggiunta alla promissione, controvoglia perché la sua famiglia era tradizionalmente sostenitrice delle fazioni avverse al Papato. Comunque, anche se formalmente il Morosini aveva accolto le regole della Santa Inquisizione, aveva fatto in modo di eluderne la prassi arrogando a sé e al voto del suo consiglio la scelta degli Inquisitori di Stato e la decisione sulla applicazione delle pene.
In un periodo di reggenza ducale che per il resto trascorreva in prosperità e ricchezza, ecco dunque l'ombra cupa dell'Inquisizione calare insidiosa sulla laguna con l'incombente minaccia dei suoi orrori.
Il che viene a turbare la proverbiale serenità della gente veneta e non può non mettere in apprensione l'animo ribelle del nostro veneziano:
"Libertà va cercando ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta".
--------------------------------------------------------------------------------
Quella grigia mattina del 13 dicembre 1250, mi affaccio al piano superiore della mia casa in legno e mi sporgo tra le colonnine del balcone coperto che da sul canale.
Alto e snello, possiedo una folta criniera castana raccolta alla nuca dal codino e tradisco nel volto qualche tratto orientale a motivo dei miei occhi scuri leggermente disegnati a mandorla. Ho gli zigomi ampi ed il naso diritto, il collo grosso ed una bocca dalle labbra piene.
Sono ignaro della morte di Federico II, ci vorrà del tempo perché la notizia giunga a Venezia. Guardo in alto. Spio il cielo plumbeo per intuire se promette pioggia. In un attimo, scendo lungo la scala esterna.
Indosso una tunica pesante con lunghe maniche strette ai polsi e sottana che arriva alla caviglia; la tunica è bicolore, la meta destra azzurra e la meta sinistra rosso mattone, il cappuccio che copre ampio le spalle è viceversa azzurro a sinistra e rosso a destra; una serie dei bottoni bianchi scende sulla linea di mezzo del torace e un cinturone nero mi strige i fianchi, nero come gli stivali a punta.
A piedi, attraverso in fretta gli spazi sterrati del mio Campo, sacrificati tra la svettante facciata in mattoni di S. Maria della Fava e la prepotenza delle case. Le fitte abitazioni lignee, hanno poche e strette finestre, un tetto spiovente coperto di paglia e il piano superiore che sporge sopra le calli fin quasi a toccare la casa controlaterale. Qui, in Campo della Fava, non si vedono certo i palazzi in pietra con cui i nobili sfoggiano potere e ricchezza a ridosso del Canal Grande, il mio è un quartiere artigiano. Il poco spazio sul Campo viene conteso dalle bancarelle che mettono in mostra le fave, per intenderci, i frutti a grosso legume nero che vengono acquistate dai passanti per alimentazione o per foraggio, e come oggetto di magia da coloro che le adoprano per allontanare dalle case i fantasmi.
Oltrepasso il canale su un ponticello di legno e bel bello lungo il sestriere di San Marco, percorro le mercerie in terra battuta. Per prima merceria del Salvatore ove costeggio la chiesa romanica; il suo portone è spalancato e di sfuggita posso lanciare un'occhiata all'interno: muri spessi e piccole finestre ne rendono buia e tetra la navata, tozze colonne sormontate da archi a semicerchio reggono un antico soffitto di legno i cui colori han perso ogni lucentezza. Girato l'angolo raggiungo la merceria istriana con le sue stoffe multicolori esposte in vendita sui banconi a cavalletto.
Non appena imbocco l'inizio della stretta e lunga Calle Spadaria ecco sullo sfondo uno spicchio della Basilica, una stretta fascia verticale adorna di medaglioni scolpiti. Salgo i gradini che sopraelevavano la Piazzetta dei Leoni e faccio una breve sosta, seduto sul bordo del pozzo ad osservare la Basilica d'Oro.
E' uno spettacolo che toglie il respiro! Edificata intorno al mille sullo stile delle chiese dell'oriente bizantino, ricca di sculture policromatiche e di motivi floreali, la Basilica è un tripudio di cupole dorate le cui rotonde simmetrie comunicano un senso di pace profonda; parrebbe di avere davanti agli occhi, trapiantata a Venezia, una copia del maestoso Apostoleion edificato a Bisanzio da Costantino il Grande. Le mura massicce, interrotte dalla magia colorata di piccole vetrate al centro degli archi, sono sorte sulla reliquia del corpo di San Marco trafugato ad Alessandria d'Egitto da due mercanti veneziani. Per scongiurarne il furto la reliquia è stata nascosta nella Basilica in luogo segretissimo, talmente segreto che adesso nessuno sa più dove sia.
Seduto in cima al bordo del pozzo, fermo lo sguardo dritto davanti a me sui quattro medaglioni della facciata nord della Basilica. Aguzzo le palpebre, socchiudo gli occhi fino a ridurli a sottili fessure, minuzioso osservo le loro figure scolpite nella pietra.
Sono dei simboli magici, segni in codice che fanno riferimento a significati smarriti, ricordano e richiamano tutto un mondo nascosto che corrisponde loro su un piano più elevato: maestosamente assiso sulla sfera c'è un pavone che dispiega la ruota dai cento occhi, che significherà mai?
In un altro c'è un leone. Azzanna la spalla di un uomo che lo affronta a spada tratta, altro mistero.
Nell'altro ancora un leone beato e sorridente che avanza fra due querce, un uomo lo cavalca suonando il flauto.
Questi medaglioni mi rimangono oscuri nonostante tutti gli sforzi del mio intelletto e non mi resta che sperare in una improvvisa rivelazione interiore, la sola che potrebbe fornirmi la chiave per decodificarne l'arcano linguaggio.
Intanto, ho già una traccia. Nel medaglione in basso alla mia destra è scolpito un uomo nudo con la testa girata all'indietro ed il codino sui capelli; costui brandisce in aria una spada sguainata e cavalca un essere mostruoso, una cavalcatura con un solo corpo e due teste, l'una di cane l'altra di ariete. Ebbene ne conosco il significato. Chi me l'ha consegnato? Maestro Bernardo da Treviso, l'architetto zoppo della Basilica d'Oro. Proprio lui. Poco prima di stabilirsi a Zara per la progettazione della cattedrale di S. Anastasia, egli mi rivelò come questo medaglione nascondesse in realtà tre princìpi magici: il cane che digrigna i denti rappresenta il "Sale", l'ariete rappresenta lo "Zolfo" e l'uomo con la testa curiosamente girata il "Mercurio".
Indietro nel tempo rivedo il volto squadrato di Mastro Bernardo e odo la sua calda voce che mi ronza nelle orecchie biasimando l'impazienza del mio carattere frivolo e fin troppo estroverso:
"Come nella giusta stagione il contadino semina sotterra il granello dorato del frumento, lo innaffia di giorno in giorno, e con pazienza attende che il seme muoia affinché possa germogliare e portare molto frutto, così tu altrettanto assiduamente... senza fretta... dovrai coltivare nel tuo recinto interiore l'immaginario della Stregoneria".
Ebbene sì, mi diletto di Stregoneria! Nel novero di quei veneziani d'animo indipendente, impertinenti al punto di rinunciare alla vita tranquilla in favore della tanto cara libertà, or dunque figuro anch'io: Petrangèsio... Mago Vanesio, nella vita artigiano di mestiere e mosaicista della Basilica d'Oro.
I miei precedenti sono già abbastanza conditi per collocarmi in vago sospetto agli occhi dell'Inquisizione. Purtroppo, sopra il grosso collo, la mia bocca carnosa è perennemente smaniosa di parlare con tutti e di tutto e, quel che è peggio, non mi è facile trattenermi nemmeno davanti agli argomenti più proibiti. Così sono vittima predestinata della mia innocente passione per le ciacole, amo chiacchierare per ore ed ore senza stancarmi, acuto e spiritoso nei giochi di parole e nell'evocare all'occasione la celata saggezza dell'umorismo. Comunque sia, le doti di brillante parlatore mi hanno reso simpatico alla gente e nella rete delle mie conoscenze figurano persone di ogni età e condizione, dagli umili pescatori ai gioiellieri di Rialto, dai giovani manovali ai nobiluomini, dalle cameriere ai mercanti d'Oltremare. Curioso fuori misura, sono attirato morbosamente da tutti gli avvenimenti mirabili, straordinari o soprannaturali e bramo stringere amicizia con i soggetti più strani apposta per udire ogni volta un nuovo eccitante racconto.
La smania di conoscere è una passione che risale alla mia infanzia quand'ero solito passare il tempo sul molo ad ascoltare i marinai di ritorno dall'Oriente, storie qualche volta vere e qualche volta inventate ad arte per sbalordire la mia vulnerabile fantasia di fanciullo. Gli ambienti e i personaggi di quei racconti si coloravano di emozioni e prendevano vigore per dimorare nel magico mondo dei miei sogni ad occhi aperti. Quando si giocava alla guerra fra bande di ragazzini il mio eroe preferito era l'Imperatore dei Mongoli, il famoso conquistatore Tartaro che alla testa della sua mobilissima ed invincibile cavalleria aveva messo insieme il più grande impero mai esistito, esteso da un confine all'altro della terra. Non sapevo che il suo nome fosse Gengis Khan: a dieci anni suo padre era stato avvelenato ed egli era entrato al servizio di un potente sovrano della Mongolia, poi quel piccolo orfano era cresciuto e aveva riunito sotto di sé le battagliere tribù mongole, si era scagliato in una furibonda battaglia contro le sue tribù convertite al Cristianesimo, e di conquista in conquista aveva sottomesso la Cina e sconfitto i russi.
Oggidì domino egregiamente la piazza, aggiornato su tutto ciò che si dice dentro e fuori città, e si può ben dire che pochi in Piazzetta dei Leoni siano informati quanto me intorno ai più remoti ed insoliti argomenti. Per di più, quasi che d'istinto sapessi leggere le sorti, m'è capitato più d'una volta di predire avvenimenti che si sono puntualmente avverati, sicché le dicerie della gente hanno finito per attorniare la mia persona di un certo alone di magia. E devo ammettere che tempo fa, quando l'Inquisizione ancora non c'era, l'idea che la gente mi ritenesse un po' stregone non mi dispiaceva per niente, anzi mi divertiva. Tanto che volentieri approfittavo della credulità altrui, proprio così, come quella volta con la tecnica oracolare della piramide cabalistica quando fornii ad una ragazza, ma solo dopo un lungo e approfondito studio dell'anima, il numero esatto del giorno e del mese in cui avrebbe incontrato l'uomo delle sua vita. Ovviamente allo scadere del giorno fatale mandai all'abbordo un ragazzo scelto nella nostra allegra compagnia e opportunamente istruito su come assecondare i lati più riposti dell'indole della ragazza. Eh, per certi aspetti sono un po' burlone e rientro nella categoria di coloro che sono pronti allo scherzo ogni qualvolta se ne presenta una buona occasione ed il fine è pur sempre quello, farsi onore davanti agli amici più scapestrati; ripagato dai veneziani col nomignolo di Mago Vanesio.
Scherzi a parte, confesso che in verità pratico la magia Ecatea nei tre mondi dell'Ecate nera con la frusta, Ecate bianca con la spada ed Ecate rossa con la torcia. In pratica do vita all'incantesimo visualizzando l'oggetto del mio desiderio, affermandolo con una frase e concentrandomi sulla sensazione dell'energia; della vera magia Ecatea, quella per manipolare gli altri, parlerò più oltre... Spiegherò anche l'anatomia occulta del Caduceo e i sette cancelli magici che si aprono solo con le domande: Perchè? Quale? Come? Chi? Cosa fare? Dove? Quando?
E dire che già da un pezzo avrei dovuto mettere la testa a posto, sono nato a Venezia nel 1222 ed ho 28 anni, anche se non li dimostro, sia per il mio aspetto giovanile sia appunto per i miei modi da eterno ragazzino.
Malauguratamente con il funesto avvento dell'Inquisizione le cose sono cambiate di brutto e mio malgrado sono costretto a mettere a freno l'innata spensieratezza. Fatalità ho smesso di scherzare, massimamente perché mi ritrovo a dover custodire tra le mani un gravoso segreto che nessuno, proprio nessuno, deve assolutamente scoprire.
Un nugolo di bambini laceri e scalzi invade la Piazzetta dei Leoni, mi assale, mi ronza intorno, schiamazza ponendo fine alle mie meditazioni sui quattro medaglioni della Basilica. Salto giù dal bordo del pozzo e proseguo per la mia destinazione, imbocco un ponticello, percorro una stretta Ruga e un vasto Campo, sorpasso un altro ponticello, rallento e cammino lungo il canale delle Fondamenta.
Eccomi davanti S. Giorgio dei Greci, la chiesa greco-ortodossa tutta tappezzata all'interno da icone d'intensa e straordinaria bellezza. Appena dopo il suo campanile scorgo degli operai intenti a sgomberare le macerie di una torre diroccata. Con aria interrogativa mi rivolgo a uno di loro, è un mio caro amico, un sedicenne dagli occhi chiarissimi; lo interrompo mentre sta caricando mattoni su una carriola di legno:
«Ciao Rafael, che è successo?»
Il ragazzo solleva l'ovale perfetto del suo volto e lascia cadere sul mucchio il mattone che ha fra le mani:
«E' crollato il piano superiore, la torre era vecchia come la Torre di Babele».
«Di nuovo il crollo di un edificio in pietra! C'era dentro qualcuno?»
«Sì un condannato, un eretico di nobile famiglia con il suo guardiano. Abbiamo estratto il cadavere del guardiano. L'eretico invece era sepolto vivo sotto le macerie, siamo riusciti a trarlo in salvo», sottolinea con un sorriso.
«Prima dell'arrivo dell'Inquisizione non si sentivano neanche nominare e invece adesso... sembra che la città pulluli di eretici da ogni parte».
«Ma è vero, basta girare l'angolo e zac alla prima locanda trovi il covo» e riprende a caricare i mattoni sulla carriola.
«Quale locanda?» chiedo irrequieto.
Si ferma e mi fissa con i suoi luminosi occhi celesti, ho la sensazione che possa leggermi nell'animo e distolgo lo sguardo nel timore di fargli intuire le mie intenzioni.
Rafael bisbiglia piegando in avanti il busto:
«Il Mastino di Khorassan è il ritrovo degli stregoni di Grecia. Ho sentito dire che per riconoscersi fra loro portano una benda nera sul capo».
Il Mastino di Khorassan... ecco l'informazione che attendevo con ansia, ci vado subito senza perdere altro tempo.
Lungo la Calle mi precipito in Salizzada dei Greci e laggiù, in fondo alla via trovo appesa l'insegna della mia locanda, un cane nero su una tabella viola.
--------------------------------------------------------------------------------
Edited by birillino8 - 21/1/2009, 22:23