ROMANZO WICCA

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view post Posted on 10/11/2008, 15:16

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L'Oro delle streghe

Inquisizione a Venezia
Capitolo I




13 dicembre 1250. Si spegne Federico II di Svevia, imperatore universale del Sacro Romano Impero. La sinistra profezia della sua morte sub Flore si è dunque avverata a Castel Fiorentino di Puglia.

A Palermo uno spesso velo di silenzio è calato sulla sfarzosa e lieta corte di un tempo, tace il centro da cui l'Imperatore aveva governato il prospero Regno delle Due Sicilie col sostegno di una burocrazia diligente e sottomessa. Un brivido di perplessità si è diffuso a tutta la Sicilia: con la crisi dell'Impero essa teme di perdere il vantaggio di sede geografica privilegiata che le consente di esportare in tutto il Mediterraneo merci preziose quali lo zucchero, l'indaco, le pelli, la seta greggia, il cotone e le ceramiche di qualità. Opulento granaio d'Europa in quest'epoca di esplosione demografica, l'isola ha immagazzinato grandi quantitivi di frumento la cui vendita, subordinata agli intrecci commerciali coi Genovesi, potrebbe venire compromessa dai recenti mutamenti politici.

Tanta ricchezza da tempo attirava le tenaci ambizioni dei pontefici. Innocenzo IV, col recondito disegno di imporre i suoi diritti sovrani sull'isola, aveva accusato Federico II di essere un precursore dell'Anticristo, aveva reso note le sue presunte simpatie per gli infedeli e sottolineato la sua caparbia insubordinazione alle direttive papali, ne aveva condannato la condotta immorale e denunziato pubblicamente la sodomia. Infine, aveva proclamato a tutte le forze della Cristianità una solenne crociata diretta a sradicare e cancellare per sempre la dinastia sveva degli Hohenstaufen.

Rovinoso fu per l'Imperatore il biennio precedente la sua morte. Durante l'assedio della città di Parma un'abile sortita dei ribelli distrugge il suo accampamento; Como abbandona gli imperiali ed entra nella Lega Lombarda; i guelfi bolognesi, nel corso di un acerrimo scontro, sbaragliano a Fossalta le aquile nere degli scudi ghibellini e catturano Re Enzo di Sardegna, il figlio dell'Imperatore, poi imprigionato nel palazzo comunale di Bologna.

Sotto questi duri colpi Federico II finì per mostrarsi sempre più diffidente, ossessionato da continui timori di veleni e congiure. Sicché, vittima insigne delle inquietudini imperiali, cadde sotto giudizio perfino il suo più valente consigliere, Pier delle Vigne, l'abilissimo rétore che in vent'anni di servigi aveva ribattuto colpo su colpo le apocalittiche accuse del pontefice e al mondo intero aveva presentato Federico II nella visione escatologica dell'Imperatore della Fine dei Tempi. Con l'accusa di peculato, Federico II confiscò le ingenti ricchezze che quel capuano di modeste origini aveva accumulato nel corso della sua ascesa politica e dopo averlo accecato lo rinchiuse nella fortezza toscana di San Miniato. Ma Pier delle Vigne preferì il suicidio e si fracassò il cranio contro il pilastro cui era stato incatenato.

In realtà taciti rancori contro l'Imperatore non mancavano, ma provenivano semmai dal popolo, Federico II aveva portato l'Impero sull'orlo del dissesto finanziario, le spese militari avevano superato di gran lunga le entrate e i debiti contratti con i banchieri romani erano arrivati sul ciglio dell'insolvibilità. Una volta la settimana i castelli venivano ispezionati a scopo fiscale e si compilavano rapporti sul numero dei servitori e dei soldati presenti. Particolarmente vessati dalle imposizioni fiscali erano stati i portolani, spremuti fino all'osso e obbligati a tenera conto dei carichi, a verificare i prezzi e a scrivere nei loro registri ogni particolare dei pagamenti ricevuti. In Lombardia si era cercato di massimizzare le entrate tramite i podestà siciliani insediati nelle città sottomesse e intanto pesavano sui sudditi le spese tutt'altro che trascurabili necessarie a soddisfare i piaceri esotici e bizzarri dell'Imperatore e a mantenere la sua lussuosa corte di Palermo. Come conseguenza i Lombardi avevano moltiplicato vertiginosamente le controversie fiscali rivolte all'autorità del tribunale supremo di Palermo, segno evidente del malcontento strisciante e dell'amaro risentimento dei sudditi verso quella affannosa ricerca di fondi.

Il Libero Comune di Venezia si era schierato con i guelfi e questo da quando Federico II aveva voluto indirizzare i suoi favori alla rivale città di Ferrara permettendole l'estensione del controllo mercantile sul sistema fluviale della Lombardia orientale. Venezia, stretta tra la morsa ghibellina della potenza pisana e le trame preparate a Verona dal feroce Ezzelino da Romano, mirava soprattutto a difendere la sua fiera autonomia risalente ben al 697, anno dell'elezione del primo doge.

Sulle orme della tradizione orientale del Basileus bizantino, capo insieme politico e religioso, il doge costantemente aspirava a realizzare nella sua figura l'unità del rex-pontifex, di fatto non sottomettendosi ad alcun potere ecclesiastico esterno. L'adesione alla Lega Lombarda aveva però creato un varco alle interferenze pontificie perciò il Papa, facendo leva sull'alleanza guelfa, era riuscito ad imporre la Santa Inquisizione anche nei territori di Venezia, città marinara consona da sempre a godere di un clima di cosmopolita tolleranza. Pertanto all'atto del giuramento del nuovo doge Marino Morosini (sei mesi prima della morte di Federico II) era comparsa una norma insolita in cui il doge si impegnava ad eleggere "uomini probi, saggi e cattolici" che indagassero sugli eretici condannando al rogo i colpevoli. Era consuetudine antica che il giuramento prestato prima di entrare in carica, detto promissione, stabilisse una serie di vincoli vecchi e nuovi che avevano l'intento di limitare e circoscrivere il potere dogale. Ma l'ex Duca di Candia, eletto doge a sessantotto anni, aveva dovuto accettare controvoglia quella nuova aggiunta alla promissione, controvoglia perché la sua famiglia era tradizionalmente sostenitrice delle fazioni avverse al Papato. Comunque, anche se formalmente il Morosini aveva accolto le regole della Santa Inquisizione, aveva fatto in modo di eluderne la prassi arrogando a sé e al voto del suo consiglio la scelta degli Inquisitori di Stato e la decisione sulla applicazione delle pene.

In un periodo di reggenza ducale che per il resto trascorreva in prosperità e ricchezza, ecco dunque l'ombra cupa dell'Inquisizione calare insidiosa sulla laguna con l'incombente minaccia dei suoi orrori.

Il che viene a turbare la proverbiale serenità della gente veneta e non può non mettere in apprensione l'animo ribelle del nostro veneziano:

"Libertà va cercando ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta".



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Quella grigia mattina del 13 dicembre 1250, mi affaccio al piano superiore della mia casa in legno e mi sporgo tra le colonnine del balcone coperto che da sul canale.

Alto e snello, possiedo una folta criniera castana raccolta alla nuca dal codino e tradisco nel volto qualche tratto orientale a motivo dei miei occhi scuri leggermente disegnati a mandorla. Ho gli zigomi ampi ed il naso diritto, il collo grosso ed una bocca dalle labbra piene.

Sono ignaro della morte di Federico II, ci vorrà del tempo perché la notizia giunga a Venezia. Guardo in alto. Spio il cielo plumbeo per intuire se promette pioggia. In un attimo, scendo lungo la scala esterna.

Indosso una tunica pesante con lunghe maniche strette ai polsi e sottana che arriva alla caviglia; la tunica è bicolore, la meta destra azzurra e la meta sinistra rosso mattone, il cappuccio che copre ampio le spalle è viceversa azzurro a sinistra e rosso a destra; una serie dei bottoni bianchi scende sulla linea di mezzo del torace e un cinturone nero mi strige i fianchi, nero come gli stivali a punta.

A piedi, attraverso in fretta gli spazi sterrati del mio Campo, sacrificati tra la svettante facciata in mattoni di S. Maria della Fava e la prepotenza delle case. Le fitte abitazioni lignee, hanno poche e strette finestre, un tetto spiovente coperto di paglia e il piano superiore che sporge sopra le calli fin quasi a toccare la casa controlaterale. Qui, in Campo della Fava, non si vedono certo i palazzi in pietra con cui i nobili sfoggiano potere e ricchezza a ridosso del Canal Grande, il mio è un quartiere artigiano. Il poco spazio sul Campo viene conteso dalle bancarelle che mettono in mostra le fave, per intenderci, i frutti a grosso legume nero che vengono acquistate dai passanti per alimentazione o per foraggio, e come oggetto di magia da coloro che le adoprano per allontanare dalle case i fantasmi.

Oltrepasso il canale su un ponticello di legno e bel bello lungo il sestriere di San Marco, percorro le mercerie in terra battuta. Per prima merceria del Salvatore ove costeggio la chiesa romanica; il suo portone è spalancato e di sfuggita posso lanciare un'occhiata all'interno: muri spessi e piccole finestre ne rendono buia e tetra la navata, tozze colonne sormontate da archi a semicerchio reggono un antico soffitto di legno i cui colori han perso ogni lucentezza. Girato l'angolo raggiungo la merceria istriana con le sue stoffe multicolori esposte in vendita sui banconi a cavalletto.

Non appena imbocco l'inizio della stretta e lunga Calle Spadaria ecco sullo sfondo uno spicchio della Basilica, una stretta fascia verticale adorna di medaglioni scolpiti. Salgo i gradini che sopraelevavano la Piazzetta dei Leoni e faccio una breve sosta, seduto sul bordo del pozzo ad osservare la Basilica d'Oro.

E' uno spettacolo che toglie il respiro! Edificata intorno al mille sullo stile delle chiese dell'oriente bizantino, ricca di sculture policromatiche e di motivi floreali, la Basilica è un tripudio di cupole dorate le cui rotonde simmetrie comunicano un senso di pace profonda; parrebbe di avere davanti agli occhi, trapiantata a Venezia, una copia del maestoso Apostoleion edificato a Bisanzio da Costantino il Grande. Le mura massicce, interrotte dalla magia colorata di piccole vetrate al centro degli archi, sono sorte sulla reliquia del corpo di San Marco trafugato ad Alessandria d'Egitto da due mercanti veneziani. Per scongiurarne il furto la reliquia è stata nascosta nella Basilica in luogo segretissimo, talmente segreto che adesso nessuno sa più dove sia.

Seduto in cima al bordo del pozzo, fermo lo sguardo dritto davanti a me sui quattro medaglioni della facciata nord della Basilica. Aguzzo le palpebre, socchiudo gli occhi fino a ridurli a sottili fessure, minuzioso osservo le loro figure scolpite nella pietra.

Sono dei simboli magici, segni in codice che fanno riferimento a significati smarriti, ricordano e richiamano tutto un mondo nascosto che corrisponde loro su un piano più elevato: maestosamente assiso sulla sfera c'è un pavone che dispiega la ruota dai cento occhi, che significherà mai?

In un altro c'è un leone. Azzanna la spalla di un uomo che lo affronta a spada tratta, altro mistero.

Nell'altro ancora un leone beato e sorridente che avanza fra due querce, un uomo lo cavalca suonando il flauto.

Questi medaglioni mi rimangono oscuri nonostante tutti gli sforzi del mio intelletto e non mi resta che sperare in una improvvisa rivelazione interiore, la sola che potrebbe fornirmi la chiave per decodificarne l'arcano linguaggio.

Intanto, ho già una traccia. Nel medaglione in basso alla mia destra è scolpito un uomo nudo con la testa girata all'indietro ed il codino sui capelli; costui brandisce in aria una spada sguainata e cavalca un essere mostruoso, una cavalcatura con un solo corpo e due teste, l'una di cane l'altra di ariete. Ebbene ne conosco il significato. Chi me l'ha consegnato? Maestro Bernardo da Treviso, l'architetto zoppo della Basilica d'Oro. Proprio lui. Poco prima di stabilirsi a Zara per la progettazione della cattedrale di S. Anastasia, egli mi rivelò come questo medaglione nascondesse in realtà tre princìpi magici: il cane che digrigna i denti rappresenta il "Sale", l'ariete rappresenta lo "Zolfo" e l'uomo con la testa curiosamente girata il "Mercurio".

Indietro nel tempo rivedo il volto squadrato di Mastro Bernardo e odo la sua calda voce che mi ronza nelle orecchie biasimando l'impazienza del mio carattere frivolo e fin troppo estroverso:

"Come nella giusta stagione il contadino semina sotterra il granello dorato del frumento, lo innaffia di giorno in giorno, e con pazienza attende che il seme muoia affinché possa germogliare e portare molto frutto, così tu altrettanto assiduamente... senza fretta... dovrai coltivare nel tuo recinto interiore l'immaginario della Stregoneria".

Ebbene sì, mi diletto di Stregoneria! Nel novero di quei veneziani d'animo indipendente, impertinenti al punto di rinunciare alla vita tranquilla in favore della tanto cara libertà, or dunque figuro anch'io: Petrangèsio... Mago Vanesio, nella vita artigiano di mestiere e mosaicista della Basilica d'Oro.

I miei precedenti sono già abbastanza conditi per collocarmi in vago sospetto agli occhi dell'Inquisizione. Purtroppo, sopra il grosso collo, la mia bocca carnosa è perennemente smaniosa di parlare con tutti e di tutto e, quel che è peggio, non mi è facile trattenermi nemmeno davanti agli argomenti più proibiti. Così sono vittima predestinata della mia innocente passione per le ciacole, amo chiacchierare per ore ed ore senza stancarmi, acuto e spiritoso nei giochi di parole e nell'evocare all'occasione la celata saggezza dell'umorismo. Comunque sia, le doti di brillante parlatore mi hanno reso simpatico alla gente e nella rete delle mie conoscenze figurano persone di ogni età e condizione, dagli umili pescatori ai gioiellieri di Rialto, dai giovani manovali ai nobiluomini, dalle cameriere ai mercanti d'Oltremare. Curioso fuori misura, sono attirato morbosamente da tutti gli avvenimenti mirabili, straordinari o soprannaturali e bramo stringere amicizia con i soggetti più strani apposta per udire ogni volta un nuovo eccitante racconto.

La smania di conoscere è una passione che risale alla mia infanzia quand'ero solito passare il tempo sul molo ad ascoltare i marinai di ritorno dall'Oriente, storie qualche volta vere e qualche volta inventate ad arte per sbalordire la mia vulnerabile fantasia di fanciullo. Gli ambienti e i personaggi di quei racconti si coloravano di emozioni e prendevano vigore per dimorare nel magico mondo dei miei sogni ad occhi aperti. Quando si giocava alla guerra fra bande di ragazzini il mio eroe preferito era l'Imperatore dei Mongoli, il famoso conquistatore Tartaro che alla testa della sua mobilissima ed invincibile cavalleria aveva messo insieme il più grande impero mai esistito, esteso da un confine all'altro della terra. Non sapevo che il suo nome fosse Gengis Khan: a dieci anni suo padre era stato avvelenato ed egli era entrato al servizio di un potente sovrano della Mongolia, poi quel piccolo orfano era cresciuto e aveva riunito sotto di sé le battagliere tribù mongole, si era scagliato in una furibonda battaglia contro le sue tribù convertite al Cristianesimo, e di conquista in conquista aveva sottomesso la Cina e sconfitto i russi.

Oggidì domino egregiamente la piazza, aggiornato su tutto ciò che si dice dentro e fuori città, e si può ben dire che pochi in Piazzetta dei Leoni siano informati quanto me intorno ai più remoti ed insoliti argomenti. Per di più, quasi che d'istinto sapessi leggere le sorti, m'è capitato più d'una volta di predire avvenimenti che si sono puntualmente avverati, sicché le dicerie della gente hanno finito per attorniare la mia persona di un certo alone di magia. E devo ammettere che tempo fa, quando l'Inquisizione ancora non c'era, l'idea che la gente mi ritenesse un po' stregone non mi dispiaceva per niente, anzi mi divertiva. Tanto che volentieri approfittavo della credulità altrui, proprio così, come quella volta con la tecnica oracolare della piramide cabalistica quando fornii ad una ragazza, ma solo dopo un lungo e approfondito studio dell'anima, il numero esatto del giorno e del mese in cui avrebbe incontrato l'uomo delle sua vita. Ovviamente allo scadere del giorno fatale mandai all'abbordo un ragazzo scelto nella nostra allegra compagnia e opportunamente istruito su come assecondare i lati più riposti dell'indole della ragazza. Eh, per certi aspetti sono un po' burlone e rientro nella categoria di coloro che sono pronti allo scherzo ogni qualvolta se ne presenta una buona occasione ed il fine è pur sempre quello, farsi onore davanti agli amici più scapestrati; ripagato dai veneziani col nomignolo di Mago Vanesio.
Scherzi a parte, confesso che in verità pratico la magia Ecatea nei tre mondi dell'Ecate nera con la frusta, Ecate bianca con la spada ed Ecate rossa con la torcia. In pratica do vita all'incantesimo visualizzando l'oggetto del mio desiderio, affermandolo con una frase e concentrandomi sulla sensazione dell'energia; della vera magia Ecatea, quella per manipolare gli altri, parlerò più oltre... Spiegherò anche l'anatomia occulta del Caduceo e i sette cancelli magici che si aprono solo con le domande: Perchè? Quale? Come? Chi? Cosa fare? Dove? Quando?
E dire che già da un pezzo avrei dovuto mettere la testa a posto, sono nato a Venezia nel 1222 ed ho 28 anni, anche se non li dimostro, sia per il mio aspetto giovanile sia appunto per i miei modi da eterno ragazzino.

Malauguratamente con il funesto avvento dell'Inquisizione le cose sono cambiate di brutto e mio malgrado sono costretto a mettere a freno l'innata spensieratezza. Fatalità ho smesso di scherzare, massimamente perché mi ritrovo a dover custodire tra le mani un gravoso segreto che nessuno, proprio nessuno, deve assolutamente scoprire.

Un nugolo di bambini laceri e scalzi invade la Piazzetta dei Leoni, mi assale, mi ronza intorno, schiamazza ponendo fine alle mie meditazioni sui quattro medaglioni della Basilica. Salto giù dal bordo del pozzo e proseguo per la mia destinazione, imbocco un ponticello, percorro una stretta Ruga e un vasto Campo, sorpasso un altro ponticello, rallento e cammino lungo il canale delle Fondamenta.

Eccomi davanti S. Giorgio dei Greci, la chiesa greco-ortodossa tutta tappezzata all'interno da icone d'intensa e straordinaria bellezza. Appena dopo il suo campanile scorgo degli operai intenti a sgomberare le macerie di una torre diroccata. Con aria interrogativa mi rivolgo a uno di loro, è un mio caro amico, un sedicenne dagli occhi chiarissimi; lo interrompo mentre sta caricando mattoni su una carriola di legno:

«Ciao Rafael, che è successo?»

Il ragazzo solleva l'ovale perfetto del suo volto e lascia cadere sul mucchio il mattone che ha fra le mani:

«E' crollato il piano superiore, la torre era vecchia come la Torre di Babele».

«Di nuovo il crollo di un edificio in pietra! C'era dentro qualcuno?»

«Sì un condannato, un eretico di nobile famiglia con il suo guardiano. Abbiamo estratto il cadavere del guardiano. L'eretico invece era sepolto vivo sotto le macerie, siamo riusciti a trarlo in salvo», sottolinea con un sorriso.

«Prima dell'arrivo dell'Inquisizione non si sentivano neanche nominare e invece adesso... sembra che la città pulluli di eretici da ogni parte».

«Ma è vero, basta girare l'angolo e zac alla prima locanda trovi il covo» e riprende a caricare i mattoni sulla carriola.

«Quale locanda?» chiedo irrequieto.

Si ferma e mi fissa con i suoi luminosi occhi celesti, ho la sensazione che possa leggermi nell'animo e distolgo lo sguardo nel timore di fargli intuire le mie intenzioni.

Rafael bisbiglia piegando in avanti il busto:

«Il Mastino di Khorassan è il ritrovo degli stregoni di Grecia. Ho sentito dire che per riconoscersi fra loro portano una benda nera sul capo».

Il Mastino di Khorassan... ecco l'informazione che attendevo con ansia, ci vado subito senza perdere altro tempo.

Lungo la Calle mi precipito in Salizzada dei Greci e laggiù, in fondo alla via trovo appesa l'insegna della mia locanda, un cane nero su una tabella viola.
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Edited by birillino8 - 21/1/2009, 22:23
 
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view post Posted on 10/12/2008, 16:59

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La locanda ha per struttura portante un'ossatura di pali che dà stabilità alla costruzione, mentre un muro di mattoni e terra secca mista a gesso riempie gli spazi quadrati, rettangolari e triangolari, che l'impalcatura delimita. Le piccole finestre sono un mosaico di vetri colorati uniti da una grata di strisce di piombo. Il piano superiore sporge sopra il pianterreno per dare riparo in caso di pioggia e su un angolo dell'edificio si proietta in fuori una piccola sala accessoria dotata di un proprio tetto, appuntito come il tetto principale e sormontato da una bandierina viola. Noto sulla bandierina un cerchio con ai lati due falci di luna )O(

Oltre la soglia vengo investito da una ventata d'aria calda, carica dell'odore del pesce che cuoce per il pranzo di mezzogiorno. Tra la chiassosa baraonda dei marinai cerco subito qualcuno che porti sul capo la benda nera. Un uomo da solo sul tavolo all'angolo è intento a mangiare con incredibile voracità, strappa con i denti grossi brandelli di carne mentre tiene con le mani le estremità dell'osso. Potrebbe avere su per giù la mia età. Ha la veste lunga, la barba corta e riccia, la carnagione appena scura e gli occhi grandi ed espressivi, si vede lontano un miglio che è un greco. I capelli neri ricci e lunghi sulle spalle sono cinti sulla fronte dalla fatidica benda nera.

Ostrega, l'eretico!

Mi guardo bene intorno e controllo se ci sia per caso qualcuno che mi conosce. Nessuno. Bene, allora con andatura sciolta e disinvolta porto due coppe colme di vino al suo tavolo, la mia invadenza trova giustificazione nel fatto che i posti liberi a sedere sono pochi.

Mi siedo e inizio a parlargli cordialmente:

«Benvenuto a Venezia, amico».

Egli non mi degna di uno sguardo e continua a fissare la sua enorme bistecca al sangue, più cruda che cotta.

Proseguo:

«E' per me un vero peccato ignorare la tua lingua, io so che tra i greci v'è una così illustre serie di grandi poeti, basti nominare Virgilio, Orazio...».

Il greco esibisce una leggera smorfia. Faccio una breve pausa in attesa di risposta ma egli non dice nulla.

Mi gratto il collo e aggiungo avvicinandomi al suo orecchio:

«Mi trovo nella necessità di tradurre un papiro greco in mia custodia. Intendo proporti il lavoretto di traduzione, non hai che da fissare il prezzo, guarda che sono disposto a ben pagare...».

Il greco alza finalmente gli occhi e mi scruta con aria diffidente, ma subito ricomincia imperterrito a succhiare l'osso.

«Eh eh, anche i sordi sentono suonare l'argento. La traduzione è un lavoro facile, anzi facilissimo, tu leggi e io scrivo, devi solo avere un po' di pazienza, sai... io scrivo molto lentamente. Però alla fine ti porterai a casa un bel gruzzoletto, credimi è proprio un affare d'oro», detto questo per un po' non mi azzardo ad importunarlo, lo lascio finire di mangiare.

Sono già arrivato al nocciolo della questione e ancora non so se intenda o no la mia lingua... di solito gli eretici sono gente istruita, spero tanto che questo non sia un analfabeta.

Appena finisce di azzannare il cibo afferra il vino che gli ho offerto e senza staccare la bocca dal calice lo tracanna d'un sol fiato fino all'ultima goccia, si asciuga le labbra e finalmente mi fa udire la sua voce, in un veneziano dal pesante accento greco:

«Di che tratta?»

«Tratta di Stregoneria» accenno candidamente strizzando l'occhiolino e cercando di cogliere qualche segno d'intesa nella sua espressione.

«Mhm».

«Arabeschi, più o meno arabeschi - dissimulo agitando in aria le dita -. Non ha importanza se non ne intenderai il senso, mi basta la traduzione letterale. Ma tu sai leggere bene?»

«Certo, ho letto e riletto gli Inni di Orfeo e come me, ben pochi li conoscono tutti a memoria», replica secco.

Faccio un sospiro di sollievo e sfodero sulla punta delle labbra un sorriso pieno di soddisfazione.

Non soltanto costui sa leggere ma addirittura è uno dei rari che abbiano letto qualcosa di diverso dalla Bibbia, conosce a memoria un libro di inni che sfugge al monopolio letterario della Chiesa; lo sapevo, lo sapevo, gli stregoni sono spesso degli eruditi, è proprio l'uomo che fa al caso mio, anche se a dire il vero... continuo a percepire questa sua manifesta ritrosia e scontrosità.

Entrambi continuiamo a pesare ad una ad una le parole e non facciamo altro che studiarci a vicenda, io non intendo certo rivelargli il mio nome o il mio lavoro, né il greco d'altra parte mi fornisce alcuna notizia sul suo conto, non si sa perché sia a Venezia, né da dove venga o dove sia diretto.

Poi, con un cenno il greco chiama al tavolo l'oste tarchiato che è apparso dietro il banco, anche lui è un connazionale e porta la benda nera sul capo. Il mio commensale gli parla in greco, paga il conto e gli consegna una lettera con dei vistosi sigilli in cera.

Infine il greco mi guarda negli occhi e conclude:

«Tradurrò il tuo papiro. Vieni da me fra un'ora. Mi sta bene di leggere qualcosa di nuovo, anche se non ne avrei il tempo... ho fretta di ripartire da Venezia».

Premura ne ho anch'io, da più di un mese corro dei rischi non indifferenti col sobbarcarmi la custodia e le incognite del prezioso documento. Il Papyrus di Micca, stilato dalle streghe a dire del libraio, è un trattato scampato miracolosamente all'incendio appiccato dai primi cristiani alla grandiosa Biblioteca di Alessandria, ricca di più di 100.000 volumi. Sfogliandolo nella libreria del mio sestriere vi avevo scorto delle figure di alambicchi sormontati dai segni magici dell'oro per cui ho sottoscritto una cambiale senza interessi e l'ho acquistato prima che venisse sequestrato dall'Inquisizione e finisse definitivamente bruciato.

Come mai un artigiano come me sa leggere e scrivere? Quattordicenne, ho fatto un anno di novizio in un convento di frati. Sì, è così. Però scaduto l'anno di rito, una settimana prima di pronunciare i tre voti di obbedienza povertà e castità sono scappato dal convento a gambe levate. Sarò pure un prete mancato, ma almeno so leggere e scrivere in volgare. Il latino? No, non ho fatto in tempo a studiarlo e tanto meno il greco. Purtroppo a questo mondo gli unici che sanno leggere il greco fanno parte del clero, cosicché non é facile, in tempi di Inquisizione, trovare qualcuno disposto a tradurre un testo proibito.

Ma io ho scovato un personaggio affidabile in questo paganus Orpheus. Il fatto che egli sia uno stregone mi dà un consistente margine di sicurezza perché equivale alla garanzia di non venir denunciato: è logico, fra stregoni non ci si denuncia. E già, perché oramai devo abituarmi anch'io a portare l'etichetta di stregone, benché, devo specificare, ciò cui miro non sono le contorte introspezioni magiche di Mastro Bernardo. Al diavolo la mia biasimevole impazienza e la semina del contadino, ho altri obbiettivi per la testa e tutt'altro che frivoli. Certo, grazie al Papyrus di Micca conto di riuscire a decifrare tutti e quattro i medaglioni magici della Basilica d'Oro ma non intendo accontentarmi di questo. Conosco fin troppo bene l'ostinata puntigliosità del mio carattere e so come essa sia capace, pur d'ottenere lo scopo, di condurmi a sfidare anche il mortale pericolo dell'Inquisizione. Nel novero dei mosaicisti della Basilica sono quello che ha l'incarico di fondere usualmente l'oro per farne lo sfondo dorato dei mosaici e così a forza di veder scorrere sotto i miei occhi quel metallo nobile e lucente ho finito per bramarlo avidamente, più di ogni altra cosa al mondo.

L'arte della magia mi consegna nelle mani una fantastica opportunità, non intendo per niente lasciarmela sfuggire e pur di realizzarla sono pronto a venire a patti anche col demonio: voglio fabbricare l'oro! Oro a palate! Troverò il modo di produrlo magicamente. Che me ne importa se sarò costretto a vendere l'anima, in cambio del commercio col diavolo diventerò ricco e straricco. L'inferno è dopo morti, il paradiso sarà invece per me un luogo sulla terra: andrò a fare la bella vita nella Contea di Provenza, potrò circondarmi di lusso e belle donne.

Perché non mi accontento dell'onesto, di quel po' di positivo che ho costruito nella mia vita? Sì d'accordo, sono stimato e rispettato all'interno della mia Corporazione ed il salario di artigiano addetto ai mosaici è sicuramente superiore a quello di un semplice manovale, ma non posso certo affermare di nuotare nell'oro. La magia invece mi permetterà di raggiungere possibilità economiche superiori a quelle di un agiato nobiluomo. In effetti, ragioniamo seriamente, per un artigiano esiste forse alcun mezzo lecito per ottenere la ricchezza?

E' poco probabile che mi scoprano. Ai Provenzali non verrà in mente di indagare l'origine dei miei acquisti smodati né ai veneziani di sospettare una mia attività di falsario; non lascerò alle spalle alcuna prova contro di me, dacché di notte, di nascosto, potrò usufruire della fucina del nostro stesso laboratorio di mosaicisti. E' un rischio calcolato che vale la pena di correre, ho ben studiato il mio piano.

E' giunto il momento di rompere gli indugi: accetto il patto col demonio!



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All'appuntamento col greco vado per prudenza senza il papiro. In sua vece, forte del motto in vino veritas sto portando con me una piccola damigiana di vino, confido in tal guisa di sciogliergli la lingua.

La sua reticenza insospettisce un po', non intendo fidarmi subito ciecamente, è preferibile continuare a sondarlo ancora. Gli avevo proposto di vederci nelle isole della Giudecca, ma ha voluto per forza scegliere lui il luogo dell'incontro, la camera che ha affittato al piano superiore dell'albergo al Pellegrino.

Da Piazza S. Marco costeggio le Fondamenta lungo il canale alberato, oltrepasso baldanzoso il ponte e supero con passo elastico le rivendite dei macellai assiepate lungo la Frezzeria.

Dopo il Campo striscio sotto la facciata della Scuola di S. Girolamo nota anche come Scuola della Buona Morte in quanto i suoi membri hanno il funesto incarico di accompagnare i condannati a morte sul luogo dell'esecuzione. Mi tocco le palle in gesto scaramantico. Assai più della morte temo l'in pace, formula infida che cela la condanna ad essere murati vivi in una strettissima cella di pietra, stesi sui propri escrementi ad attendere il pane e l'acqua dall'unica fessura sulla parete.

C'è nell'aria di che stare all'erta. Gli Inquisitori spiano le minime mosse dei sospetti come un nugolo di avvoltoi volteggianti: compiono larghi giri sulle teste dei malcapitati in attesa di sfiorare a volo radente la vittima predestinata, farle udire il sinistro fruscio d'ali della morte e al momento opportuno, piombare a strappargli la lingua e gli occhi. Poi comincia il lugubre banchetto e a turno gli avvoltoi ficcano la testa nel posteriore della vittima, vi allungano il collo spennacchiato e tirano fuori col becco le budella.

Con la testa nel buco del culo, come gli struzzi con la testa sotto la sabbia, gli Inquisitori riescono nonostante tutto a non vedere la loro crudele violenza e a giustificare la sopraffazione di esseri umani che semplicemente la pensano in modo diverso. Sicché, quando devono eseguire le condanne, consegnano gli eretici al braccio secolare che spande in loro vece quel sangue di cui gli Inquisitori hanno sacro orrore di macchiarsi.

All'una e mezza in punto come d'accordo sono già sul luogo destinato. La corte è piena della spazzatura e dei rifiuti gettati dalle porte e dalle finestre. L'alloggio del greco è al primo piano, in cima ad una lunga scala esterna che sporge sulla facciata in legno dell'albergo al Pellegrino. Alla base della scala, come in tanti edifici veneziani è scolpita sul ceppo la ruota della fortuna.

Immagine profana oltremodo di buon auspicio, essa mi ricorda le scadenze del tempo necessario in stregoneria al compimento delle operazioni magiche: finalmente è arrivato il mio momento, tra non molto pagherò la cambiale con le briciole del mio oro, ancora quel mezzo giro di ruota e dal basso verso l'alto la fortuna mi catapulterà negli agi, tra gli uomini ricchi e potenti!

Sono euforico e benché gravato dal peso della botticella salgo la scala a grandi passi, trovando subito a sinistra la camera del greco.

Busso, nessuno apre.

Forse prima di aprire il greco vuol sentire la mia viva voce.

Busso di nuovo e grido:

«Ehi greco, apri! Sono io, non c'è nulla da temere».

La porta si spalanca all'improvviso, impallidisco. Cinque sbirri vestiti di nero mi fissano dall'interno affollato della camera. Resto di sasso.

Dunque il greco era una spia, dov'è finito quell'infame?

Lo sbirro che ha aperto la porta mi afferra bruscamente per un braccio e mi trascina dentro. La camera è completamente a soqquadro, stanno cercando qualcosa e hanno sventrato anche il materasso di paglia.

Scorgendomi paralizzato dalla paura, il loro capo esordisce ironicamente:

«Complimenti per la puntualità, aspettavamo con ansia la tua visita di cortesia, ma guardate che gentile... ci ha portato del vino il buon vignaiolo!».

Però deve lottare energicamente per togliermi dalle mani la botticella, al che gli altri sbirri scoppiano in una fragorosa risata.

Devo subito escogitare un alibi, anche se il greco ha fatto la spia gli sbirri non hanno in mano la prova, il Papiro di Micca.

Raccolgo tutto il fiato che mi è rimasto soffocato in gola e replico tremando come una canna:

«Il greco... giuro l'ho visto oggi per la prima volta, l'ho incontrato alla locanda, gli piaceva tanto il vino veneziano che ho pensato di... lo vedete voi stessi, sono venuto a vendergli questa botticella di buon vino, viene dal mio sotterraneo».

«Ottimo, sei in arresto».

«Perché?», protesto.

«Sbattetelo al fresco!», due di loro si precipitano, mi legano le mani e mi trascinano verso la scala.

Ho appena il tempo di voltarmi a fissare la botticella del vino e replicare scalpitando:

«Ehi, ehi, la porto con me al fresco: nei sotterranei del Palazzo si conserva meglio», terminando la frase con tono distaccato.

Si va al Palazzo Ducale, i due sbirri mi tengono a braccetto, camminano frenetici in mezzo alla gente, a passi larghi e rumorosi, giunti al portico bizantino dell'ingresso scambiano messaggi con le guardie, mi scortano attraverso corridoi sontuosi affollati da nobili che vanno e vengono, entriamo infine in uno stanzone enorme, equivalente in ampiezza ad una piazza, ma è vuoto non c'è proprio nessuno.

Gli sbirri si bloccano bruscamente, ricevo ordine di sedermi nell'angolo.

Non avevo mai messo piede in questo immenso salone, lungo duecento piedi e alto almeno cinquanta. E' la Sala del Maggior Consiglio, centinaia di sedie vuote occupano ogni spazio ricavabile. Ammiro con stupore le decorazioni dell'imponente soffitto... sbalordito per la grandiosità degli affreschi alle pareti laterali, ma soprattutto intensamente colpito dalla maestosa ampiezza di questo ambiente illuminato a giorno da altissime finestre. A bocca aperta muovo lo sguardo in alto e a destra e a sinistra.

Echeggiano dei tacchi. Si ferma trafelato davanti a me un nobile mai visto, ha una sopravveste ampia, aperta sul davanti, provvista di maniche larghe e lunghissime, ornata di ricami e foderata di pelliccia. A confronto la mia sbiadita tunica bicolore, azzurra e rosso mattone, evoca tutta la distanza sociale che ci divide.

Costui mi squadra attentamente da capo a piedi:

«Gli abiti colorati non ti sono consentiti».

E ordina agli sbirri:

«Perquisitelo!».

I due frugano dappertutto la tunica, ma non trovano nulla.

Il nobile scompone i lineamenti per il disappunto e urla:

«Dov'è lo scritto!»

«Quale scritto?»

«Sei duro di legname? La lettera, dov'è la lettera...», insiste con impazienza.

Sono scombussolato, tutto mi appare incomprensibile:

«Come? Non capisco che... Una lettera, io non ne so niente».

«Avanti, dimmi dove l'hai nascosta».

«State sbagliando persona».

Il nobile se ne va in fretta facendo un gesto di stizza con la mano, come per mandarmi al diavolo.

Giunto a metà del grande salone deserto si ferma come per un ripensamento, si gira verso gli sbirri e strilla:

«Gli avete sequestrato del sale?»

«No, signore», rispondono solerti.

Appena scompare alla vista domando agli sbirri chi fosse colui, ma quelli non si degnano manco di rispondere, mi sollevano per un braccio e dall'immenso salone mi spingono attraverso uno stretto pertugio, tanto angusto, che vi può passare solo una persona alla volta ammesso che vi si immetta di sbieco. Il pertugio conduce ad un corridoio buio e tetro, seguono delle ripide scalette che scendono al piano sottostante, poi altra rampa a zig zag e altro piano, calcolo che siamo al piano della Loggia. Scendiamo una decina di gradini, giriamo l'angolo, altri dieci gradini più in giù. Causa la scarsità di luce cammino sempre più tentoni, sui gradini viscidi di muffa e umidità a un tratto scivolo... ma con uno scatto dei riflessi ritrovo l'equilibrio, per un pelo non ruzzolavo dalle scale.

Ecco le prigioni. Nell'imboccarne il corridoio, fiocamente illuminato in alto da poche finestrelle strette e orizzontali, percepisco un odore di putredine e mi assale a colpo l'impulso di vomitare. Il camminamento abbraccia esternamente una decina di celle, è poco più largo di tre piedi e se allungassi il braccio in alto potrei quasi toccarne la volta.

Ma che succede! Si scende ancora. Ancora più giù?

Cinque gradini, dieci gradini. Siamo al livello del mare, il pavimento del corridoio è lì lì, massimo una ventina di centimetri più in sotto della superficie dei canali.

Attraversiamo un camminamento che si inoltra nel labirinto. Le porticine delle celle sono alte solo sette piedi, le hanno studiate apposta per costringere il prigioniero a piegarsi a metà quando esce, un espediente che gli impedisce di attaccare frontalmente i suoi guardiani.

Siamo a destinazione, ci fermiamo in una guardiola. Sul tavolo vedo sparsi numerosi sacchetti di sale, probabilmente frutto di un illecito commercio e sequestrati in qualità di merce soggetta al monopolio di Stato della Camera del Sal.

Inizia a piovere, attratto dall'improvviso ticchettio della pioggia sul vetro alzo lo sguardo in alto verso le due strette finestre orizzontali. Fino ad un momento prima ero stordito e offuscato da un mulinare di idee confuse ma ora, in questa breve attesa, la mia testa comincia a lavorare con estrema lucidità e improvvisa si affaccia sul baratro una certezza agghiacciante: i Pozzi.

Erano i Pozzi delle prigioni speciali, destinate a coloro che fossero passibili della pena di morte, più che prigioni nell'immaginazione della gente erano delle vere e proprie tombe.

Arriva Cengio. I due sbirri mi consegnano nelle sue mani. Una vicina torcia appesa al muro mi consente di rimirarlo con curiosità, tanto è grottesco. Pancia laida sporgente e grandi mani ciondolanti, testa completamente rapata con orecchino infilato all'orecchio sinistro, profonde e nere occhiaie intorno agli occhi, e sul viso una specie di sorriso ebete e sardonico disegnato dalle rughe. Cengio mi invita a seguirlo. Senza scomporsi mi conduce alla cella, apre la porticina in legno, apre quella in ferro e fa cenno con la testa di inchinarmi per entrare. Esito, lo guardo in faccia ancora una volta e oltrepasso la soglia.


Edited by birillino8 - 21/1/2009, 22:26
 
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view post Posted on 11/1/2009, 15:52

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C'è qualcuno dentro la cella e appena gli occhi si abituano all'oscurità riconosco il greco disteso sul tavolaccio.

«Spia!», gli grido con impeto.

Il greco si alza di scatto e mi si avventa contro, mi sbatte con le spalle al muro, afferra il collo e stringe le mani per strangolarmi:

«Veneziano di merda!».

Lo prendo per i capelli fin quasi a strapparli, ma non molla. Mi sento soffocare... gli ficco i pollici in bocca, li uncino e tiro ai due angoli delle labbra stendendo con forza l'orifizio, la sua espressione si muta in una maschera di dolore. Cede, riesco a liberarmi dalla morsa. Il greco prende allora a tirarmi calci con gli stivaletti da caccia. Paro i colpi. Gli afferro una gamba e lo sbilancio. Si accascia in terra, rimane immobile e muto, seduto sul legno del pavimento.

Mi pulisco la veste con la mano e commento con freddezza:

«Quando ti hanno acciuffato potevi risparmiarti di tirarmi in ballo».

«Di te non ho parlato. Semmai la spia sarai tu - e si rialza in piedi puntandomi contro l'indice -. Tu mi hai denunciato!».

Sbalordito, replico in tono conciliante:

«Ma sei impazzito? Io una spia! In giro sapevano tutti del vostro covo segretissimo. Se siamo qui tutti e due, la spia non può essere uno di noi».

Anch'egli accenna un tono accomodante e si alza per sedersi sul suo tavolaccio:

«Gli sbirri avranno pattugliato la camera dell'albergo per attendere l'arrivo di complici. Se hanno preso anche te non è colpa mia».

Resto in piedi, muovo nervosamente le dita e dopo una breve pausa riaccendo la lite esplodendo a voce alta:

«Ma di sicuro tu hai parlato con qualcuno del mio manoscritto e quel qualcuno ci ha denunciati, nessuno sapeva del mio papiro, nessuno!», e tiro con rabbia un pugno contro la parete.

«No! No! Immaginarsi se vado a parlare in giro del tuo papiro del cazzo!».

Mi siedo sul mio tavolaccio:

«Spero sia vero, comunque adesso sospettano anche me e soltanto per aver frequentato uno stregone».

«In tutta questa faccenda la stregoneria non c'entra».

«Come no, è inutile cercare di nasconderlo, - indico a braccio teso la sua testa - so benissimo che quella benda nera è il vostro segno di riconoscimento».

«O Numi, i veri motivi del mio arresto sono politici. Qualcuno è stato pagato dal governo per consegnare accuse di eresia al Tribunale dell'Inquisizione, ma si tratta solo di un espediente per farmi fuori più alla svelta. Sono un nemico dei veneziani», ribatte.

«Ma allora tu sai chi è stato a fare lo spione?», lo incalzo.

«No!», risponde secco.

«Se le cose stanno così non lo sapremo mai, il nome di chi sporge denunzia alla Santa Inquisizione rimane segreto per regola. E' vano sperare che lo dicano».

«A che gioverebbe saperlo oramai, - aggiunge in tono amareggiato - uscire da qui è impresa più ardua che uscire dal Labirinto di Cnosso».

Mi concedo una pausa di ripensamento e cerco di fare un po' di ordine nella mia mente sconvolta: se voglio salvare la pelle mi conviene lasciar perdere ogni inutile ostilità e mostrarmi suo amico, solo così potrei convincerlo a giurare il silenzio sul manoscritto di Micca.

Cerco di consolarlo:

«Non è detta l'ultima parola... come hai detto che ti chiami?».

«Zagreo».

«Ascoltami Zagreo, il momento decisivo sarà l'interrogatorio, a quel punto potremo tagliar la testa al toro con i trucchi dell'arte retorica!», con entusiasmo.

«Tagliare la testa al toro? Ma di che parli... del Minotauro?»

«E' un modo di dire veneziano, significa togliere di mezzo gli ostacoli e porre fine risolutamente ad una questione».

«Che stranezze».

«Viene dalla cerimonia del Giovedì Grasso».

«Mi pareva, i veneziani hanno in mente solo il Carnevale», aggiunge acido e continua a fissare la nuda parete.

«E' una vecchia storia. Inizia un secolo fa quando Ulrico di Treffen, Patriarca tedesco di Aquileia e gran devoto dell'Imperatore, se la prese a morte per via di una bolla papale che assegnava tutta la Dalmazia al Patriarca veneto di Grado. Ulrico di Treffen assalì Grado mentre i Veneziani erano impegnati nella guerra contro i Ferraresi, ma prontissimo il Doge sbarcò in armi, catturò il Patriarca nemico e lo condusse prigioniero a Venezia, assieme a dodici canonici».

«E allora?».

«Per chiudere la disputa e tornarsene in Friuli quei tedeschi furono obbligati ad un umiliante riscatto: un toro e dodici maiali.

Ecco che da quella volta la celebrazione della vittoria segue ogni anno lo stesso rigido rituale. Il Giudice, di fronte al toro e ai maiali schierati nella Piazzetta, emette la condanna capitale e ne affida l'esecuzione ai fabbri agghindati a festa con ghirlande bandiere e trombe. Un nerboruto rappresentante della corporazione si fa avanti con la sciabola. E' un momento di grande trepidazione. Il toro scalpita al centro, trattenuto da una corda. Il fabbro si concentra, sferra un colpo violentissimo e taglia di netto la testa al toro. La folla grida eccitata e applaude la testa che rotola sanguinante mentre la spada si ferma giusto a un palmo da terra».

«Quest'anno metteranno te al posto del toro», commenta il greco abbozzando una risata sarcastica mentre si distende nel suo letto.

La nostra cella, a parte i due stretti tavolacci sui sostegni di pietra, non contiene altro mobilio che un secchio di legno nell'angolino destinato ai bisogni corporali. Grossi lastroni di marmo formano le pareti che danno sul corridoio mentre le pareti confinanti con le altre celle sono probabilmente di mattoni, il tutto è comunque rivestito in legno. La cella non ha finestre, ma appena sopra la porticina c'è la nostra unica sorgente di luce, un buco rotondo largo una spanna e dotato di inferriata a croce.

Il greco si sta a poco a poco calmando. Dalla sua posizione stesa solleva in aria il dito e indica sulla parete, all'altezza di poco più di un metro da terra, una specie di ferro di cavallo del diametro di circa 12 centimetri.

Sporge con i due estremi paralleli:

«A che serve?».

Mi preoccupo di non spaventarlo, non vorrei gli venisse voglia di spifferare tutto, papiro compreso, e invento lì per lì una frottola:

«Ah quello, serve per legare i polsi ai prigionieri quando devono frustarli», accenno in tono evasivo.

In realtà conoscevo benissimo la sua orribile applicazione.

Il prigioniero veniva fatto sedere su uno sgabello, con le spalle appoggiate al muro e con il collo bloccato entro il ferro di cavallo. Sotto il mento si faceva passare un nastro di seta e i suoi due capi venivano infilati in un anello fissato alla parete. Attraverso l'anello il nastro di seta poteva scorrere agevolmente mentre veniva avvolto su di un marchingegno a ruota portato dai carcerieri. La trazione, causava lo strangolamento del condannato.

Pesanti e interminabili silenzi seguirono nelle ore successive.

Calma tediosa.

Un'atmosfera greve di lamenti taciuti.

Ancora silenzio...

Sento un peso sullo stomaco, mi manca un po' l'aria.

Niente.

Non abbiamo più nulla da dirci.

E sì... parlare di che cosa? Il peso sullo stomaco, l'aria che mi manca? Ma no.

Non abbiamo proprio niente da dirci.

Tanto...

Qui non succede nulla, è tutto così immobile.

Stesi sui nostri giacigli con le mani dietro il capo evitiamo perfino di incrociare lo sguardo, ma col mio carattere questo mortorio è sempre più insopportabile, non ce la faccio più, la tensione è insostenibile.

Mi decido a rompere il ghiaccio:

«Come mai sei tanto nemico dei veneziani?».

Zagreo solleva la schiena dal tavolaccio, si mette a sedere e risponde con un ruggito di orgoglio:

«Sono un greco di Candia. Dacché è caduta Bisanzio più di trecento famiglie veneziane sono sbarcate a spolpare l'isola e a noi greci, messi da parte in ogni cosa, non resta che fare i servi dei vostri feudatari. Questo ti basta?».

«Ve lo siete voluto: quel vostro degno imperatore, Manuele Comneno, in un sol giorno fece arrestare tutti i veneziani di Bisanzio, per confiscarne gli averi ovviamente, e poi - mi sforzo di concludere in tono pacato - qualche anno più tardi permise che la follia dei greci massacrasse tutti i latini della città».

Zagreo sbatte le palme in uno schiocco secco e alza il tono:

«I bambini e le donne che i latini hanno fatto schiavi, vili scorribande su coste indifese. L'odio greco è antico...».

«E' inutile rispolverare vecchi rancori, - continuo senza scompormi - in fin dei conti, piuttosto che i Mamelucchi è meglio il dominio veneziano. Greci e Veneziani si somigliano: una la faccia, una la razza; non è il vostro proverbio?».

Si alza in piedi irritato:

«E no! Ti sbagli di grosso. Greci e veneziani sono ben diversi e da sempre in lotta l'uno contro l'altro, fin dai tempi della guerra di Troia».

«La guerra di Troia? Ma che c'entra», gesticolo sollevandomi a sedere.

«Ah certo, - scuote la testa - voi stessi non lo sapete... Omero citò la vostra alleanza con i Troiani quando ancora i Veneti erano insediati vicino a Troia, in Paflagonia».

«Pafla che?».

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge».

«Mai sentito».

«Magari invece conosci a mena dito la storiella di Elena?».

«Beh...».

«Immaginarsi se i più valorosi eroi della Grecia andavano a farsi ammazzare per una donna».

«Perché allora? Dimmelo tu, Omero!».

«L'oro fu il movente vero della guerra di Troia, le miniere aurifere del Caucaso. L'accesso marittimo alla regione era sotto controllo troiano. Libero approdo era concesso solo agli alleati Veneti, che vi raccoglievano l'oro alluvionale stendendo pelli di pecora sul fondo del fiume Rion. Achille era un vero greco mentre Agamennone era di stirpe veneta, voleva riappropriarsi delle terre anatoliche dei suoi avi.

La storia è la mia grande passione, io mi compiaccio nel dimostrare l’utilità della sua conoscenza, specie se si vuole capire a fondo il presente».

Predecessori veneti che facevano i cercatotori d'oro in giro per il Mar Nero, è veramente buffo! Chiedo a Zagreo di precisare quali fossero dunque i confini del loro regno.

Mi spiega che secondo Omero i Veneti erano stanziati nella Paflagonia, regione dell'Anatolia settentrionale affacciata sulle sponde del Mar Nero tra le acque nere del torrente Billaeus e le foci dell'impetuoso Halys. Nella zona litorale le lunghe e scoscese catene degli Eritini correvano parallele alle sponde del mare, lasciando spazio solo ad una stretta striscia di riva pianeggiante. Buona parte della costa era soggetta ad un continuo vento da nord che produceva un clima moderato, fresco e abbastanza piovoso, pure in estate. Sicché numerosi torrenti scendevano dai fianchi delle montagne mentre, nella regione interna, il fiume Halys traeva alimento sufficiente per forzare la via e per scavare gole profonde lungo un tragitto che abbracciava con una grande ansa l'altipiano anatolico. La Paflagonia confinava a ovest con i Mariandini, devoti alla dea Marian, e a est con il regno delle Amazzoni, le famose donne guerriere.

La mia fantasia si eccita subito al mitico nome delle Amazzoni, mi sa di nature selvagge, di istinti semplici e primordiali; comincio a trovare interessante l'argomento ed esorto il greco a fornirmi altre notizie su questi antichi Veneti d'Anatolia.









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Zagreo li dice noti ovunque per i magnifici cavalli che allevavano, una razza superiore ricercata perfino in Magna Grecia. Città principali erano la capitale Enete, famosa per il bosco di bosso, poi Sesamo, Crobialo e Cromma, importanti centri commerciali da cui partivano navi cariche di colorante rosso ocra, di metalli per uso bellico e di legname delle foreste di Citoro.

Il loro alfabeto era più antico di quello cadmeo. Erano dotati di vivida fantasia e di grandissima sensibilità musicale, specie nel suono della lira, dei cembali e del doppio flauto. I Veneti erano apprezzati per i loro fregi marmorei, per i tappeti, per le stoffe ricamate in oro e per la ricercatezza dell'arte orafa. Coltivavano i fiori e soprattutto le rose, con cui producevano oli essenziali per profumi ed unguenti. Vivevano entro città circondate da mura poderose con la pianta a stella, in case rettangolari formate da travi lignei ricoperti da tetti spioventi di canne di paglia. Sulla testa portavano tutti un copricapo simile a quello che ora è privilegio del doge e secondo la moda del loro paese portavano stivaletti alti fino a metà polpaccio.

I soldati veneti si distinguevano per l'elmo piumato formato da strisce di cuoio intrecciato, portavano piccoli scudi, pugnali e aste non lunghe sebbene all'occorrenza sapessero usare anche i giavellotti. Il loro re aveva cavalli bianchi come la neve e veloci come il vento, guidava un carro lavorato in oro e argento e possedeva armi così straordinarie che non parevano destinate a un mortale ma a un dio celeste.

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge». Il racconto ritorna sulla guerra di Troia e allora ne approfitto per farmi chiarire il destino degli alleati Veneti dopo la sconfitta troiana.

Come ben si sa, dopo i lunghi e aspri combattimenti descritti nell'Iliade, il troiano Antenore aprì le porte del cavallo di legno e vi fece uscire i guerrieri rinchiusi provocando la caduta della città ed il suo saccheggio. In cambio del tradimento, per ordine di Ulisse Antenore ed i suoi figli furono risparmiati.

Zagreo accenna all'insieme delle tribù anatoliche dei Cari, Misi, Lici e Lelegi, alleate di Troia come i Veneti e ugualmente colpite dalla sciagura. All'incendio di Troia seguì nel tempo la progressiva penetrazione dei coloni greci nelle coste anatoliche, i Micenei occuparono la Troade, i Dori occuparono il Bosforo, gli Joni scacciarono le tribù delle coste Egee e occuparono a nord le terre abbandonate dai Veneti.

«Perché abbandonate, dove erano andati i Veneti dopo la caduta di Troia?», mi chiedo.

Tloc, tloc. Passi cadenzati nel corridoio delle prigioni, si fermano davanti alla nostra porta. Lo spioncino si apre cigolando sui cardini rugginosi, qualcosa luccica, è la testa pelata di Cengio che si abbassa a guardare dalla fessura. Occhi cerchiati da profonde occhiaie ci fissano spalancati, è un istante, subito lo spioncino si richiude.

Questa visita inopportuna mi urta, fa tornare la paura, mi ripiomba nella dura realtà.

Il mio compagno ha interrotto il racconto. La sua voce ha il potere di trasportarmi fuori del tempo e lontano da qui, nel magico mondo degli eroi. Risveglia in me il vivo desidero di ascoltarlo per ore e ore, le sue descrizioni avvincenti mi entusiasmano, mi sembra quasi di tornare bambino, come quando andavo sul molo ad ascoltare le avventure dei marinai di ritorno dall'Oriente.

Zagreo riapre il racconto, stende il braccio e lo fa scivolare lentamente lungo un orizzonte immaginario...

«L'immensa schiera dei Veneti con a bordo i loro favolosi tesori, scomparve oltre il Mar Pontico.

Ucciso Pilemene per mano di Achille e rimasti privi di un capo, i Veneti in cerca di una nuova sede avevano accettato la guida del sopravvissuto Antenore. Costui ripercorse attraverso il Danubio la rotta solcata dagli Argonauti un paio di generazioni prima, più di mille anni avanti di Cristo».

Mi azzardo ad anticipare che di sicuro i Veneti saranno finiti in qualche falsa pista se Antenore, un traditore, li aveva guidati sulle orme di un viaggio fiabesco come quello della conquista del Vello d'Oro.

Quasi offeso, Zagreo minaccia di troncare la sua esposizione e rimarca che il viaggio degli Argonauti è storia vera, fedelmente descritta e compilata da Orfeo in 1400 versi.

Mi scuso e lo invito, quasi lo supplico, a raccontami dunque questo viaggio e anzi, per valutarne la veridicità, mi dichiaro disposto ad ascoltare uno per uno fino alla fine tutti i 1400 versi di Orfeo.

E va bene. Visto e considerato che per passare il tempo altre risorse non abbiamo, Zagreo si offre di illuminarmi sul percorso dei gloriosi eroi imbarcati su Argo. Argo, una nave in legno di quercia con due grandi occhi dalle ciglia ricurve dipinti ai lati della prua.

In tono pontificante e teatrale come avesse davanti a sé non un misero compagno di cella ma il pubblico forbito di una corte, egli si ferma con reverenza ogni qualvolta nomina un eroe greco.

Diomede capo della spedizione, un giovane alto e bello, con i capelli biondi lisci a coda di cavallo, vestito di una tunica aderente in cuoio e di una pelle di leopardo; era un principe, ma fu abbandonato in fasce e allevato dai centauri dei monti della Magnesia, la terra dal fogliame tremante. Orfeo, dalla Tracia, si era affrettato ad unirsi all'equipaggio: Orfeo l'aedo il cui compito non sarebbe consistito nel remare ma nel dare la cadenza ai rematori e allietare con la cetra la folta schiera degli eroi imbarcati. Ed eccoli: per primo il greco dalla forza prorompente e incontrollabile, Ercole con il suo scudiero Ila; il pilota Tiphys, i dioscuri Castore e Polluce, poi Calais e Zete figli del Vento del Nord, Bute l'apicoltore, Mopso che indossava un copricapo di piume d'uccello e aveva la lingua divisa in due dal coltello, e ancora Asterio, Fano, Idmone, il litigioso Ida e molti altri valorosi. Tutti votati alla conquista del Vello d'Oro, il mantello di lana dorata, appeso a una quercia della Colchide e proveniente dal sacrificio di un ariete alato.

Questa la rotta:

«Salpati e oramai lontani dalla Magnesia, stanchi di faticare sui remi di frassino, gli Argonauti fecero una prima tappa nell'Egeo settentrionale, in un'isola abitata solo da donne...».

«L'Isola delle Donne? - saltando sulla panca - Dimmi dov'è, che appena esco ci vado di corsa! Che bello, essere attorniato da uno sciame di donne che ti toccano e ti accarezzano e ti ronzano intorno assatanate come le api intorno al favo».

Mi è presa la voglia di scherzare, Zagreo è sempre così serioso, a pensarci bene trovo un po' ridicola tutta la sua boria.

Come se non avessi aperto bocca, egli continua a pontificare con il consueto tono da attore sul palco:

«Colà gli Argonauti, già al primissimo scalo, furono sul punto di scordar l'obiettivo giurato e in luogo di darsi anima e corpo alla nobile ricerca dell'aureo Vello, giacquero a letto chi con quella chi con l'altra, chi con l'una e l'altra. Quelle femmine avide di lussuria, tempo addietro erano state ripudiate dai loro uomini dacché emanavano un puzzo pesante ed insopportabile, ma le tapine si erano poi brutalmente vendicate uccidendoli tutti con... «.

«Con le scoregge?».

«No! Con le armi in pugno, perché gli uomini preferivano sposarsi le schiave trace».

«Ma quali armi, le armi delle donne te lo dico io quali sono: mona, tette e cul».

Zagreo si blocca, lascia cadere le braccia, protesta; le mie interruzioni lo infastidiscono, le trova insulse, dice che gli fanno perdere il filo.

Taglia corto, racconta che issando di notte una vela nera gli Argonauti elusero la sorveglianza del Bosforo e riuscirono a superare le insidiose scogliere dello stretto. All'alba, si aprì davanti a loro la vastità del Ponto Eusino e la nave Argo avanzò rapida nel vento come uno sparviero ad ali spiegate. Costeggiarono quindi la terra dei Mariandini e raggiunsero presto le coste dell'ospitale regione dei Veneti, la Paflagonia. Colà la nave fu lambita dalle correnti del Partenio che dolcemente scendeva nel mare e nelle cui tiepide acque, inghirlandate dai fiori dei prati, la dea Artemide amava rinfrescarsi di ritorno dalla caccia.

Ai primi raggi del tramonto doppiarono le rosse scogliere di Capo Carambi e costeggiarono a forza di remi la Grande Spiaggia. Nei pressi vi era la città veneta di Sinope che aveva preso il nome da una donna del posto, una mortale di cui Zeus si era invaghito. Per conquistarla egli aveva fatto solenne promessa di regalarle la cosa che ella più desiderasse ma Sinope, pur di liberarsi dell'invadente corteggiatore, aveva scelto in dono la verginità.

Ben gli sta, commento. Zeus, non aveva in testa altro che possedere tutte quelle che gli passavano a tiro.

Zagreo rimarca che mi aveva ordinato di non interromperlo; non si ricorda più dove era rimasto. Ah sì, l'itinerario ripercorso da Antenore.

Toccata la foce del fiume Halys, la nave Argo prese il mare aperto in direzione nord - ovest e non cessarono i venti né lo splendore del fuoco celeste fino a che non vennero avvistate le foci del Danubio. Largo e profondo, il corso del Danubio poteva essere navigato agevolmente dalla grossa carena della nave, sicché in trenta giorni si poté raggiungere la confluenza con la Sava e attraversare l'immensa regione oltre il soffio del vento del Nord, lontano verso settentrione, ove mormoravano le sorgenti delle Alpi.

L'epilogo fu la discesa degli Argonauti nel golfo dell'Alto Adriatico e lo sboccare in quel mare già noto nell’età dell'oro come Mare di Crono. Questo stesso fu l'itinerario di Antenore.

Affascinante, sottolineo, dunque nell'età dell'oro il Golfo di Venezia si chiamava Mare di Crono.


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Edited by birillino8 - 21/1/2009, 22:27
 
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Riceviamo la cena da Cengio e mi avvedo che il cibo non è poi così scarso e scadente come sarebbe logico aspettarsi, la zuppa d'orzo e d'erbe non dev'essere male, il pane di segala e avena con dentro i fagioli secchi non è affatto duro, ma io non tocco nulla perché m'è passato l'appetito.

Il greco inizia a tirare improperi e maledizioni, a suo parere il cibo è poco e cattivo, se la prende in modo particolare con il pane dopo averne ingoiato il primo morso:

«Puah! Il pane del governo. Con tutto il frumento che ci ruba».

«Non è pane del governo. Il Comune non passa i pasti ai carcerati, se oggi mangiamo dobbiamo ringraziare le confraternite di carità, che si preoccupano di noi».

«Loro la chiamano carità. A Candia facevo il mugnaio, conosco ogni tipo di farina e giuro, non ho mai mangiato un pane così schifoso! I contadini che vengono al mio mulino non lo darebbero in pasto ai loro cani, per paura di offenderli».

Nonostante le proteste non lascia nessun avanzo sul piatto e infine, accortosi che disdegno di mangiare, afferra la mia ciotola e il mio pane e consuma voracemente anche la mia parte.

Un boato... fa rimbombare le pareti della cella, mi giro scandalizzato per il rutto del greco. Ha finito di mangiare, si stiracchia e si distende satollo sul tavolaccio.

Chiedo con un filo di voce:

«Dunque i Veneti sono un popolo mediterraneo?»

«Non è del tutto esatto. D'accordo, ai tempi di Troia i Veneti si erano stabiliti in Anatolia e là avevano assorbito la cultura mediterranea ma, in origine, vennero da Nord».

«Ma no?»

«I Veneti discendono dal mitico popolo degli Iperborei».

«Tu come lo sai?»

«A Candia possedevo un testo rarissimo dello storico Ecateo, forse esemplare unico, era intitolato «Il cammino degli Iperborei».

«Ah».

«Gli Iperborei provenivano dal lontano Nord, per l'esattezza dall'Apollonia».

«Dov'era l'Apollonia?»

«L'Apollonia arrivava fino alle rive del Mar Baltico, estesa tra i bacini fluviali dell'Oder e della Vistola.

In quella remota regione vi erano dei ricchissimi depositi d'ambra e proprio lì iniziava la via commerciale che esportava a sud la preziosa resina dalle sfumature giallo - dorate. Durante l'Età dell'oro, gli Iperborei si spostarono nel cuore dell'Europa e prosperarono nell'area del medio corso del Danubio.

Noi greci li chiamiamo Iperborei perché le loro tribù erano stanziate al di sopra di Borea ovvero oltre il vento del Nord che soffia gelido sui monti di Tracia».

Zagreo precisa che i Veneti erano soltanto una delle numerose tribù iperboree esistenti. Erano tutte figlie del fulgido Apollo, cui sacrificavano il lupo in olocausto, ed avevano in comune l'usanza di cremare i morti e di comporli in urne per poi deporli in campi consacrati.

Un giorno fatidico intere tribù della grande famiglia degli Iperborei, tra cui Frigi - Veneti e Dardani, si misero in marcia su pesanti carri e dal Danubio piombarono a sud abbattendosi come una bufera su tutti i popoli che incontrarono sul loro cammino. Tra le vittime del ciclone che premeva minaccioso da Nord ci furono i Greci. Scacciati dalle loro terre di Macedonia e d'Epiro e messi a loro volta in movimento, i Greci vennero inseguiti a sud fino al Golfo di Corinto. Fu laggiù, nell'avamposto di Delfi, che i Frigi introdussero il culto di Apollo in un preesistente santuario.

Le altre tribù iperboree presero invece stabile dimora in Tracia e anche i Veneti, per qualche tempo, si fermarono a ridosso dei Dardani nel nord della Macedonia.

«La tribù iperborea dei Frigi, fremente per il desiderio di nuove conquiste - prosegue Zagreo - si lasciò alle spalle la Macedonia e trascinò con sé i Veneti alla volta dell'Asia Minore. Piegato con una guerra accanita il potente Impero degli Ittiti, i Frigi si stabilirono all'interno dell'altipiano Anatolico, la tribù dei Dardani fondò la città di Troia...».

«Ma come? Anche i Troiani discendono dagli Iperborei, non è che per caso mi stai raccontando un sacco di balle?»

«Atlante era il capostipite dei Dardani e la dimora di Atlante era presso gli Iperborei».

«Va beh, scusa l'interruzione, e i Veneti dove si stabilirono?»

«I Veneti si presero le coste settentrionali dell'Asia Minore che corrispondevano appunto alla ricca Paflagonia».

E' strano, pensavo. Per quanto ci si possa sforzare, riesce difficile immaginare i Veneti in un periodo di splendore eguale o addirittura superiore all'attuale. Le concezioni che ho dei nostri precursori sbiadiscono a confronto dei fulgori della Roma Imperiale, ricalcano molti luoghi comuni e non vanno oltre la minuta comunità di pescatori e salinai, condannati a strappare alla viscida melma della laguna lo spazio per le loro capanne.

Borbotto:

«Al tempo dell’età dell'oro gli Iperborei dovevano essere molto potenti».

«Certo, l'immensa moltitudine delle tribù Iperboree copriva un territorio vastissimo che occupava il centro dell'Europa con propaggini perfino nella lontana Britannia, esteso lungo un'asse che da Nord - Ovest a Sud - Est collegava il Danubio all'Anatolia».

«Come faceva questa moltitudine a mantenere la concordia al suo interno?»

«Le tribù iperboree facevano parte di una confederazione. Sebbene ogni tribù godesse localmente di larga autonomia amministrativa, esse erano legate da stretti vincoli di alleanza politico - militare, come si evince del resto dall'esempio della guerra di Troia».

Con una serie di larghi giri concentrici siamo nuovamente tornati al punto di partenza, la guerra di Troia:

«Guidava i Paflagoni il forte cuore di Pilemene dalla veneta terra ove nasce la razza delle mule selvagge».

Sono stordito. Chiedo un attimo di pausa e riassumo a voce il giro di peripezie dei Veneti completo di tutte le loro complicate peregrinazioni. L'Apollonia, l'Area danubiana centrale, la Macedonia, la Paflagonia. Se il destino mi riserverà di uscire da qui andrò dritto in Piazzetta dei Leoni a sbandierare queste incredibili notizie, nessuno le sa.









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Zagreo si complimenta per la buona memoria che dimostro di possedere e riprende implacabile la narrazione:

«Fuggendo da Troia in preda alle fiamme e solcando come già ti dissi l'antica rotta degli Argonauti, i Veneti guidati da Antenore ritornarono alla terra dei loro padri nella regione danubiana centrale. Vi trovarono ad accoglierli gli Iperborei rimasti a presidiare l'antica capitale e furono calorosamente abbracciati da Zabio, il re dell'ascia di bronzo, quell'ascia bipenne che assommava in sé il sommo potere politico e religioso.

Zabio accolse benevolmente il culto della Grande Madre che i profughi Anatolici avevano assorbito e portato seco e in tal modo Reitia, affiancata ad Apollo, venne riconosciuta come la somma dea dei Veneti».

Col sorriso sulle labbra il mio compagno di cella descrive il clima temperato del Danubio e i buoni raccolti, tratteggia i costumi gentili degli Iperborei, ne cita l'estrema longevità, la vita all'aria aperta nei prati e nei boschi sacri. Mobili come il vento sugli eleganti cavalli essi riuscivano a scoprire i più reconditi recessi ove la natura celasse i suoi tesori.

Accadde però, e qui Zagreo si rabbuia in volto, che dopo anni e anni di pace un giorno si addensarono sui Veneti le orde minacciose dei Cimmeri.

I Cimmeri provenivano dalla terra di Ade, un paese perennemente avvolto dalle nebbie ove non splende mai il sole, erano un popolo dell'ombra, dal carattere malvagio e brutale. Piccoli e pallidi, tuttavia forniti di terribili armi di ferro apparivano solo al crepuscolo per razziare e depredare i vicini.

Non costruivano città né fortezze, vivevano in dimore sotterranee collegate insieme dal tortuoso intrico di gallerie che i loro schiavi erano costretti a scavare. Non erigevano templi né santuari, ma nelle viscere della terra evocavano le creature delle tenebre. Gli antri echeggiavano delle tetre cantilene degli stregoni ed il fumo dell'hashish si sviluppava denso dai bracieri dando forma a poco a poco alle sagome dei démoni, allora i presenti si prostravano davanti alle apparizioni e offrivano loro in nutrimento il sangue caldo di una pecora nera. Gli stregoni acquisivano così il potere di addormentare con lo sguardo chiunque li fissasse un attimo negli occhi e in quello stato potevano ordinargli di compiere qualsiasi azione. Il loro supremo sacerdote, nascosto nella grotta più profonda ed inaccessibile, era solito compiere sacrifici umani davanti un caprone imbalsamato che era cinto alla fronte da una stella a cinque punte, rovesciata con la punta in giù.

Nella terra di Ade, i Cimmeri erano un tempo padroni della Crimea e delle steppe che si estendono sopra le coste settentrionali del Mar Nero, ma da oriente erano arrivati gli Sciti del Turkestan e li avevano scacciati. In realtà gli Sciti conquistarono quelle steppe senza colpo ferire perché, non appena si seppe del formidabile esercito scita che marciava minaccioso sulla Crimea, i Cimmeri furono presi dal panico e si prepararono a fuggire. I capi militari cercarono di fermarli incitando il popolo alla difesa e dichiarandosi pronti a morire e a farsi seppellire nella propria terra piuttosto che scansare il combattimento, ma il popolo insisteva sulla necessità di cedere rapidamente il campo ed evitare una sicura sconfitta. Ne seguì una cruenta rivolta, i generali e gli aristocratici furono assassinati ed i loro cadaveri seppelliti frettolosamente sulle rive del fiume Dniestr. Il mucchio selvaggio si mise in fuga, lasciò agli Sciti un deserto di steppe e risalì il Danubio saccheggiando e devastando ogni cosa come un esercito di cavallette.

Zagreo dipinge un grandioso affresco dalle tinte fosche:

«Un giorno funesto il flagello dei Cimmeri si presentò alle porte della capitale iperborea, l'avanguardia nemica assaltò alcune fortificazioni e nel ritirarsi incendiò il bosco sacro prospiciente la città...

I cavalieri veneti erano schierati e pronti per la battaglia, si stringevano nelle file, avvolti nei loro mantelli azzurri, e attendevano l'ordine della carica. Anche l'agguerrita fanteria iperborea era uscita allo scoperto e si era piazzata nelle retrovie. L'attesa fu lunga e snervante. Al calar del sole ancora lo sguardo era teso all'orizzonte allorché in lontananza, in direzione del bosco incenerito, videro avanzare una nube di polvere nera. La nube procedeva lentamente verso di loro finché in mezzo alla fuliggine cominciarono a distinguere i profili di quei tetri guerrieri: curvi sulle selle e con le corna sugli elmi, al rombo cupo degli zoccoli i Cimmeri al galoppo tenevano alte le loro insegne di morte, e l'ombra nerastra si sollevava in aria, in colonne di polvere che oscuravano il sole del tramonto.

Lo stato d'animo dei cavalieri veneti era tesissimo, non avevano mai combattuto oltre l'imbrunire, i cavalli erano irrequieti, roteavano gli occhi e scalpitavano... si alzò chissà dove un grido di battaglia, il grido si propagò all'unisono e fu sommerso quasi istantaneamente da un assordante scalpitio di zoccoli. La carica! A faccia a faccia col nemico i cavalieri veneti incrociarono gli sguardi stralunati dei Cimmeri col bianco degli occhi che spiccava sui visi sporchi di cenere, e nell'urtarne i cavalli videro le teste mummificate appese alle briglie: macabri trofei degli uccisi in duello. Sul campo di battaglia si udiva il clangore del corpo a corpo, i nitriti dei cavalli che imbizzarrivano e cadevano, i martelli che fracassavano i crani, le urla bestiali degli assalitori mescolate ai lamenti dei feriti. Furono visti i Cimmeri inginocchiarsi sui corpi dei nemici agonizzanti, berne il sangue che sgorgava dalle ferite e poi rialzarsi furenti con i denti digrignanti e la bocca intrisa del sangue che gocciolava lungo i baffi.

La cavalleria veneta era efficace e molto mobile, si spostava con rapidità ove c'era più bisogno, si batteva con accanimento, incalzava mulinando le spade e abbatteva gli avversari. Però, col procedere della battaglia i Veneti furono costretti sulla difensiva ed invocarono l'aiuto della fanteria iperborea: gli attaccanti erano un numero spropositato, appena uccisi quelli delle prime file altri ne sopraggiungevano senza fine, la loro forza era nel numero e sotto l'impeto di quell'orda selvaggia gli Iperborei dovettero ripiegare.

Coloro che erano rimasti in città assistettero ai funesti presagi del tempio di Apollo, il nibbio appollaiato sul treppiede ruppe il laccio, spalancò le larghe ali al cielo e con un balzo spiccò il volo, il cigno fuggì atterrito dal laghetto sacro ed i corvi ammaestrati si allontanarono dal tempio per dilaniare i cadaveri sparsi sul campo di battaglia».

Con dovizia di particolari Zagreo narra la capitolazione e l'orrendo sacco della città, difesa unicamente da palizzate di legno. Racconta che i Cimmeri riuscirono ad oltrepassare le palizzate scavando delle gallerie sotterranee, sbucarono in città nel buio della notte e poterono aprire le porte al loro esercito avido di saccheggio. Nella piazza centrale crebbe presto una montagna di teste recise, appartenevano a centinaia e centinaia di Iperborei, questo perché aveva diritto alla propria parte di bottino solo chi avesse consegnato ai capipopolo la testa dei nemici uccisi. Dal cuoio capelluto i Cimmeri asportavano lo scalpo, che veniva usato come salvietta oppure cucito insieme con altri scalpi per confezionare delle casacche. Gli arcieri scuoiavano con le unghie la mano destra dei cadaveri e ricavata la pelle umana, che è spessa e lucente, ne facevano dei coperchi per le loro faretre.

Si videro due guerrieri Cimmeri spogliare una donna e metterla in ginocchio, l'uno la strangolava lentamente con un laccio e sogghignava... mentre l'altro con macabra lussuria la sodomizzava e la godeva nel dimenarsi spasmodico dell'agonia. Il piccolo bambino strappato a quella donna venne raggruppato con altri della stessa età, era destinato da quel giorno a non rivedere mai più la luce del sole, sarebbe stato istruito per entrare nella congregazione degli schiavi scavatori di gallerie.

A Zabio, comandante supremo degli Iperborei, toccò un'orribile fine, venne scorticato vivo da capo a piedi e quando ancora il suo cuore non aveva cessato di pulsare, le sue carni furono date in pasto ai maiali.

Il santuario del Sole?

Abbandonato precipitosamente dai sacerdoti, fu ben presto insozzato dai Cimmeri che trasformarono il tempio di Apollo in una stalla per i loro cavalli.

Zagreo continua a narrare, parla molto veloce e faccio fatica a seguirlo. E' un fiume di notizie che si susseguono senza tregua, senza un attimo di respiro.

Le terrificanti notizie del saccheggio si propagarono nella pianura Danubiana e arrivarono ai villaggi non ancora raggiunti dai Cimmeri. Tutti coloro che erano in grado di mettersi in salvo risalirono il Danubio fino alle sue sorgenti. Sfociarono sul Lago di Costanza e giunti al versante nord della barriera alpina, sfidarono i pericoli del suo attraversamento per andare a rifugiarsi in massa sui monti, fortificando rupi e passi in modo da renderli inaccessibili agli inseguitori.

I fuggiaschi si inoltrarono così nei territori dei Reti, che tuttavia li accolsero pacificamente e permisero loro di stabilirsi nella Valle alpina del Reno. Nei monti i Veneti riuscirono a sopravvivere grazie alla coltivazione delle fave e della vite; divennero abili nel commercio del sale di miniera e dell'ambra che arrivava da nord; ormai esperti nella caccia al cervo, adottarono l'usanza di sacrificarlo sui roghi votivi dedicati ad Artemide, la sorella gemella di Apollo.

I Reti? Mentre Zagreo era intento a narrare questo soporoso e pesantissimo intreccio di guerre e di popoli, ho perso il filo del racconto, mi sono distratto, e con gli occhi persi nel vuoto ho continuato a fantasticare sulla nube di cenere sollevata dai Cimmeri alla carica. In mezzo alla polvere infiammata dalla luce del tramonto rivedevo quei tetri guerrieri curvi sulle selle, le ombre disegnate in contro luce, con le corna appuntite... simili a furibondi diavoli appena usciti dall'inferno. Si avvicinano. Vedo il bianco dei loro occhi, spicca sui visi di cenere, le falci e le insegne di morte sollevate sulle aste, le teste mummificate appese alle briglie. Odo il rombo cupo del galoppo, è assordante, un muggito bestiale, un coro di tamburi rullanti, insistente, sempre più forte, un tremendo boato!

Scuoto la testa e mi risveglio da quella specie di incubo, Zagreo sta enfatizzando l'alleanza tra Veneti e Latini:

«Re Latino era figlio di un'iperborea, Palanto!»

Il greco conclude finalmente il suo interminabile poema, dimostra di conoscere meglio di me la geografia dei nostri monti ed esplica come attraverso le Alpi i Veneti siano scesi pian piano a valle, spodestando i Colchi dai Colli Euganei e guadagnando il golfo dell'Alto Adriatico. Ivi prosperando fino all'epoca romana allorché ebbero il loro daffare per ostacolare la pressione dei Celti, che dovettero combattere prima insieme agli Etruschi e poi insieme agli alleati Romani.

«Già, gli alleati Romani - faccio eco -.

Enea, si sa, discende dai Dardani di Troia. Pilemene discende dai Veneti d'Anatolia.

Ergo la nostra gente è affine alla Latina...».

«Proprio così, si tratta di tribù iperboree nate da uno stesso ceppo».

«Al contrario, i greci non hanno nulla a che vedere con gli Iperborei e quindi, sempre secondo te, sono in tutto differenti dai Veneti.

La logica conclusione è che un greco di Candia non deve sottostare a un feudatario veneto» innervosendomi.

«Esatto».

«Ma tu credi veramente - lo aggredisco -, che i Veneti di Paflagondia o come si dice... di Paflagonia siano identici a quelli che ora circolano per le calli di Venezia o che i greci di Agamennone fossero lo stesso dei greci di oggi?

Che frottole! E' avventato, è fuori luogo. E' una presunzione assurda. Chi sei? Chi sei tu per sostenere un peso reale di legami così arcaici. Ma chi ti credi di essere? Che pretese! Dimostrare che i Veneziani sono agli antipodi dei Greci... tirando in ballo le tribù del tempo di Troia».

«I popoli han la memoria lunga».

«Sì... anche le balle di Noè!»


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view post Posted on 24/1/2009, 12:50

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Quindici piedi di lunghezza, nove di larghezza... come un'anima in pena Zagreo misura accuratamente il pavimento della cella, poi tocca il soffitto con la punta del dito e calcola otto piedi di altezza. Non riesce a star fermo, continua a camminare avanti e indietro, nervosamente.

Nella penombra lo guardo con la coda dell'occhio. Osservo le sue gambe robuste, i capelli ricci e neri, gli occhi vivi e intelligenti, la benda nera ancora sulla testa.

Questo greco, che si dichiara perseguitato politico, afferma di aver letto e riletto gli Inni di Orfeo, conosce a memoria la guerra di Troia, recita le contorte peripezie degli Argonauti. Indubbiamente, ha un suo stile ricercato di esporre, si immedesima come un attore e sa comunicare ad arte i sentimenti dei protagonisti. Poco fa, mentre cantava l'epopea degli Iperborei e ne descriveva lo scontro con i Cimmeri, con le mutevoli espressioni del suo volto ha saputo trasmettermi il senso tragico degli avvenimenti. L'individuo taciturno e scontroso che ho incontrato al Mastino di Khorassan sa in realtà parlare in modo garbato e rendersi gradevole a chi lo ascolta. Non ha proprio nulla del mugnaio asservito alla macina e abituato a trattare con i servi della gleba, Zagreo sembra piuttosto una specie di cantastorie. Ecco cos'è: un trovatore, chissà perché non ha voluto dirmelo?

Gli chiedo a bruciapelo:

«Sai suonare la viella?»

«Sì» annuisce fissando a testa bassa il pavimento di legno mentre continua a girare in tondo.

«Tu sei un trovatore!»

Zagreo si blocca di colpo e mi guarda sorpreso con gli occhi luccicanti.

Poi riprende a camminare, ma più lentamente e inizia a confidarsi:

«Non proprio, ma sarei potuto diventarlo come mio padre e mio nonno.

Loro erano molto diversi dagli spensierati trovatori provenzali. Mio nonno fu trovatore a Bisanzio alla corte di Alessio III. Nell'attacco del 1203, la flotta Veneziana sbarcò angeli sterminatori cinti da splendide armature e da preziosi drappi di seta: sicché alla vista dell'esercito crociato l'Imperatore fuggì precipitosamente. Si diresse verso Adrianopoli con sua figlia Irene e il loro fedele trovatore li seguì, mentre la guardia danese e inglese riusciva a malapena a ritardare la caduta della città.

Ma quando Alessio III finì in catene a Nicea, mio nonno decise di tornare a Candia per riabbracciare i genitori. Nell'altipiano di Lassìthi essi possedevano un mulino a vento, costruzione in pietra a forma di ferro di cavallo allungato e con le pale ricoperte di stoffa. Come lui, moltissimi altri greci si erano rifugiati nell'altipiano per timore dei Veneziani. Sposatosi ebbe mio padre. Mio padre, imparò i poemi e i racconti che arrivavano da Bisanzio ed ereditò il mestiere di trovatore però, per poterlo esercitare, dovette abbandonare l'altipiano e recarsi a San Nikòlaos dal signore veneziano del castello di Mirabello.

Perciò durante tutta la mia spensierata giovinezza vissi al castello, ove mio padre a sua volta mi trasmise l'intero repertorio bizantino, avrebbe voluto che un giorno prendessi il suo posto... Disgraziatamente, sebbene fossi ben preparato nel canto e sapessi suonare la viella, non ebbi il tempo di farmi nome come trovatore perché fui presto espulso dal castello».

«Come mai?»

«Avevano scoperto che ero io... l'imprendibile bracconiere della riserva del Signore. Catturavo con le trappole un sacco di animali, lepri, tassi, donnole, martore e capre selvatiche. Cacciato malamente dal castello tornai nell'altipiano e mi misi a fare il mugnaio nel nostro mulino, dovevo pur guadagnarmi da vivere.

I greci che trovai nell'altipiano erano perennemente irrequieti, molti dei rifugiati avevano subito soprusi dai veneziani o mantenevano una caparbia opposizione al regime. Il Signore di San Nikòlaos pensò di poter tenere a freno lo scontento e di amministrare meglio la zona tramite l'investitura di un uomo d'arme, sicché un giorno consegnò tutte le terre dell'altipiano ad un Valvassore, ovviamente veneziano. Costui mi prese subito di mira, mi considerava pericoloso perché avevo stretto amicizia con i ribelli e facevo attiva propaganda contro il regime».

«Capisco».

«Sai, mi sarebbe piaciuto diventare un vero trovatore, avevo il talento per rendermi celebre con versi scritti di mio pugno, ma i veneziani me l'hanno impedito in tutti i modi».

«Perché non sei andato in un altro castello?»

«Ci ho provato ma ero ovunque messo al bando, mi hanno rifiutato a Rodia, Chania, Etia, ho bussato a Ierapetra e a Frankokastello ma mi hanno risposto che volevano solo menestrelli provenzali... e che un greco non può darsi arie da trovatore».

«Vedrai, col tempo anche la prepotenza di quei rozzi ignoranti si piegherà alla gentilezza della vostra cultura, immagino tu conosca il proverbio chi va al mulino s'infarina».

«Altro che! Il nuovo Valvassore è venuto al mulino e se n'è subito appropriato, adduceva che secondo l'usanza poteva costruirli solo il feudatario».

«Perché non siete andati a protestare dal Signore?»

«Era inutile. Per gratitudine verso mio padre il Signore di San Nikòlaos aveva tollerato la proprietà del mulino anche se era contro l'usanza, ma con l'investitura egli aveva ceduto la terra stessa ove sorgeva il mulino, conferendo al Valvassore il diritto di comportarsi da padrone.

Obbligato a fare il servo nel mulino mio, ricevevo dal Valvassore un compenso da fame, un sacco di farina ogni trenta sacchi macinati anziché venire pagato come prima dai contadini. Ai Greci egli aveva vietato di macinare i cereali in casa, li costringeva ad utilizzare il mulino e pretendeva tasse esose per ogni macinazione. Con l'avvento della carestia di grano il fermento della ribellione era sul punto di esplodere ed io ne approfittai per incitare alla rivolta i contadini esasperati. Nell'altipiano mi conoscevano tutti, alle mie arringhe alternavo i canti accompagnati con la viella, ero solito cantare per il popolo le gesta degli Argonauti, i contadini si commuovevano, mi riempivano di semplici doni e di ammirazione incondizionata.

Un giorno abbiamo assaltato di sorpresa il palazzo del Valvassore, le sue guardie hanno usato le armi e la cosa è degenerata. Uno dei ribelli ha ucciso il Valvassore».

«Quale fu la risposta veneziana all'uccisione di un nobile?»

«Fu l'immediata evacuazione dell'intera piana di Lassìthi e il drastico divieto di accesso all'altipiano, compresi i monti circostanti. Con tale disposizione il governo veneziano ha voluto impedire ai ribelli di arroccarsi in quel territorio sopraelevato, facile da difendere. Hanno bruciato i miei libri, hanno raso al suolo il mio mulino e tutti i villaggi dell'altipiano e adesso, un terreno così fertile e ricco di frumento è completamente spopolato, ridotto a un deserto incolto».

«Per questo hai lasciato Candia».

«Sì, non avevo scelta, con gli sbirri alle calcagna ho dovuto prendere clandestinamente la prima nave veneziana in partenza.

A Smirne, nell'Impero di Nicea, la nave ha fatto scalo e io ne ho approfittato per procurarmi alcuni sacchetti di sale da contrabbandare a Venezia».

Il monopolio del Sale, geloso privilegio fin dalle origini della Serenissima, fu una delle cause del suo rapido arricchimento. Ovunque nel litorale salmastro della laguna figurano saline a struttura industriale in parte utilizzate per la salagione del pesce, principale alimento della città, ma soprattutto destinate all'esportazione. Il sale è il prodotto più venduto all'estero dai mercanti veneziani, ma non soltanto venduto: in Puglia, in Libia e nelle Baleari, viene sistematicamente comprato dalle navi veneziane che ne fanno incetta per il governo.

«Ah ho capito, -esulto- ti sei messo a fare il contrabbandiere di sale. Per questo, quand'ero nel salone del Palazzo Ducale, quel nobile ha chiesto agli sbirri se mi avevano sequestrato del sale. Allora erano tuoi i sacchetti di sale sul tavolo della guardiola?»

«Sì, ma dovevano servire solo per pagarmi il viaggio, volevo raggiungere i miei amici dell'altipiano. Si sono rifugiati a Verona. La è signore un ghibellino attento e ospitale verso gli esuli greci, un uomo che non ha pregiudizi nei riguardi degli eretici. Io contavo nella sua munificenza per farmi accettare come trovatore, il genere politico non è il solo delle mie canzoni, so anche allietare con melodie gaie e leggere».
 
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view post Posted on 24/1/2009, 13:10

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Esiste forse compagno migliore per un carcerato? Il destino avrebbe potuto riservarmi la vicinanza di un brigante capace solo di vomitare bestemmie oppure di un friulano che non ti dice una parola in tutta la giornata e invece no, ho per compagno di cella un trovatore, vengo allietato dalle delizie della cultura e della poesia al pari di un principe nella sua corte. Senza la viella egli non può cantare ma potrà almeno raccontarmi qualche storia sui re di Paflagonia.

Zagreo lo fa con piacere, non è stanco, sembra preso dalla frenesia di liberarsi di tutto il suo repertorio in una sera, come se fosse l'ultima occasione per tramandare un sapere che solo lui conosce. Inizia a narrare del suo re più famoso, Pelope, che teneva corte ad Enete sulle sponde del Mar Nero. Regnò poco dopo il crollo dell'impero Ittita, quando i Veneti erano tra i più potenti della coalizione anatolica.

Tutti i suoi successori al trono, compreso Agamennone a Micene, vennero consacrati con riti solenni che si ispiravano a lui, Pelope Faccia nera.

Il novello monarca indossava una maschera di pelle nera ed un vello nero. Durante il rituale veniva ucciso simbolicamente, ma veniva fatto rinascere a nuova vita da sacerdoti vestiti di candidi velli. Infine, fatto simile a Zeus, il re veniva ricoperto da un maestoso vello tinto di rosso porpora.

Interrompo Zagreo per sapere di chi fosse figlio Pelope.

Egli fa il nome di Tantalo, un titano generato da Pluto, la dea della ricchezza a sua volta figlia dell'iperboreo Atlante.

Tantalo, non era quello del famoso supplizio?

Era proprio lui, aveva tenuto nascosto il mastino d'oro rubato al dio della metallurgia Efesto e spergiurò di non averlo mai visto né di averne mai sentito parlare. Comunque, fu punito dall'olimpico Zeus per un assai più grave misfatto...

Invitati gli dei ad un suo sontuoso banchetto sul monte Sipilo, Tantalo si rese conto di aver finito le provviste e preso dal panico tagliò a pezzi il figlioletto Pelope. Smembrate, lessate e poi arrostite, le tenere carni del bimbo furono servite in tavola agli ospiti, costoro tuttavia ne compresero immediatamente la provenienza e inorriditi si rifiutarono di toccare cibo. Solo Teti la consorte di Oceano, essendosi in quel momento distratta, mangiò il pezzo di carne che corrispondeva alla spalla sinistra del fanciullo.

Dunque il supplizio?

La condanna inflitta a Tantalo dal sommo Zeus fu l'eterna tortura della fame e della sete, appeso nella palude tartarea ai rami di un albero sovraccarico di ogni qualità di frutti. L'acqua in piena saliva fino all'altezza del suo mento ma non appena Tantalo chinava il capo e protendeva le labbra arse per bere... l'acqua si ritirava improvvisamente e lasciava solo nero fango ai suoi piedi. Quando poi esasperato dai morsi della fame, tormentato dal bisogno di cibo, allungava il braccio e protendeva la mano per afferrare una mela matura, una pera o un fico dolcissimo... un soffio di vento gli allontanava il ramo dalle dita e l'agognato frutto cadeva nella melma.

Tantalo... il bimbo a pezzi... il supplizio... Queste storie raccapriccianti mi hanno assorbito al punto di farmi scordare ogni cosa, perfino il luogo penoso in cui mi trovo. Dopo il mio arrivo in cella la sera era scesa quasi subito, in effetti da molte ore siamo pressoché senza luce e non mi sono nemmeno accorto del lento trapassare nella notte fonda. Chissà, potrebbero essere le tre, le quattro. Discorrendo ci siamo inoltrati nell’oscurità desolante dell'interminabile notte invernale, diciannove ore di buio mortale.

Privato di stimoli sensoriali esterni, disorientato dall’immobilità di queste quattro pareti, solo adesso mi sveglio da un viaggio percorso indietro del tempo. Ero fuori della mia epoca, lontano dalle baruffe dei guelfi e dei ghibellini, dalle pretese e dalle tasse dell'Imperatore, dalle lotte accanite della Lega Lombarda. Il presente mi viene incontro nella sua pochezza. Tutto mi appare piccolo, meschino, insignificante.

Cerco di assopirmi ma nella gelida morsa dell'inverno vi riesco solo per brevi tratti, risvegliandomi di continuo.

Nel buio mi lamento con Zagreo:

«Che freddo cane! Ho i piedi congelati».

Odo la sua voce rauca:

«Ci penserà l'Inquisitore a scaldarti per bene i piedi».

«Come?»

«Devi sapere che ai sottoposti al tormento usano spalmare i piedi con lardo di maiale, poi bloccano le caviglie con i ceppi e accendono vicino un bel fuocherello ardente».

«Però, che raffinatezze».

«E ricordati di non chiedere un po' d'acqua da bere altrimenti ti spalancano la bocca con uno strumento di metallo, prendono l'imbuto e ti costringono ad ingurgitare decine e decine di litri d'acqua. Legato a testa in giù, con la schiena ad arco, lo stomaco si dilata enormemente e preme sul torace provocando atrocissime sofferenze».

«Staremo a vedere il trattamento che toccherà a noi».

«Intanto per questa notte ci penseranno i topi».

«A far che?» incalzo spaurito.

«A rosicchiarci le orecchie. Appena sono entrato in cella ho trovato ad abitarla due enormi ratti, avevano il pelo nero e lucido sul dorso e grigio sulla pancia, hanno fatto il giro della cella a tutta velocità e sono usciti di corsa dalla porta».

«Speriamo che siano usciti tutti, le pantegane sono le uniche bestie che non sopporto».

Preferirei la tortura dei piedi bruciati alla presenza silenziosa dei topi, li odio, ho il terrore che qualcuno sia rimasto nascosto sotto i tavolacci, se il greco me lo avesse detto prima avrei potuto controllare. Magari è sotto il mio letto e attende che mi addormenti per rosicchiarmi le scarpe e i vestiti.

Mi rigiro insonne. Sto con le orecchie tese per cogliere il minimo rumore delle zampette, quand'ecco... Zagreo emette un lamento soffocato subito seguito da un lugubre ululato che mi fa sobbalzare dalla paura.

«Zagreo!» chiamo tremando, seduto sul letto con un sudore gelido e appicicaticcio che mi incolla la camicia alla schiena.

«Ho avuto un incubo - mi rassicura dal suo tavolaccio -. Mi trovavo a Candia, nell'altipiano. Ero riverso sul pavimento del nostro mulino. Il mio corpo giaceva a terra orrendamente smembrato, gambe e braccia amputate alla radice, mani e piedi separati dagli arti e la testa staccata dal collo. Pur decapitato, gli occhi mi consentivano di vedere, ed era lo spettacolo agghiacciante del mio misero corpo, poi... poi un corvo è entrato dalla finestra, svolazzava in aria finché si è appollaiato sulla mia testa. Si è aggrappato ai capelli con le unghie e ha cominciato a beccarmi la faccia. Ero impotente di fronte a quel dolore atroce e insopportabile, non avevo mani per scacciare quell'uccellaccio, non mi restava che urlare a squarciagola, ma... appena ho spalancato la bocca quello mi ha strappato la lingua».




Il mattino seguente la luce comincia a filtrare dalla finestrella come un bene raro e prezioso e, nell'oziosa frustrazione del carcere, scopro uno spassoso passatempo nel guardare i granelli di polvere che a miriadi attraversano il fascio di luce in una danza frenetica e disordinata.

Zagreo si sfrega gli occhi e appena alzato ha già fame:

«Non vedo l'ora che suoni mezzogiorno, le mie budella lo hanno già suonato in anticipo. Ho voglia di un po' di pane, ma di quello buono. Sento una gran nostalgia delle pagnotte del forno di casa mia, mi piacevano da matti quelle impastate con l'uva passa, calde e croccanti, mhm che profumo! Mi viene l'acquolina in bocca».

«Il pane è l'alimento principe».

«Principe? Certo, non per nulla è sacro a Demetra. Nella poesia arcadica il pane simboleggia uno dei princìpi fondamentali, il Secco in opposizione all'Umido, il vino».

«Fatalità, Secco e Umido, Fuoco e Acqua, figurano anche nella magia».

«Questo mi incuriosisce, sentiamo pure po' di magia sono stufo di parlare sempre io, ora tocca a te, tira fuori quello che sai!»

Ecco, ci siamo, questo è il momento che aspettavo. Pretenderò da lui il solenne giuramento, deve tacere all'Inquisitore il mio papiro, ormai conosco a puntino la sua caparbia fierezza, è uno di quelli capaci di resistere a qualsiasi tortura pur di non tradire la parola data.

Uso un tono circospetto:

«Sono più che disposto a parlarti apertamente, ma in vero questi misteri esigono per regola un giuramento di silenzio su tutto ciò che vien detto nonché... ovviamente sulle fonti, nella fattispecie quel papiro che ti avevo proposto di tradurre».

«Va bene, se ci tieni tanto lo giuro».

«Manterrai il giuramento anche sotto tortura? E giuri di non nominare il Papyrus di Micca?»

«Sì».

«Ne sei sicuro?» guardandolo negli occhi.

«Sì! Per chi mi hai preso?»

«D'accordo, amico. Il mio nome è Petrangésio, deriva da anghelio e vuol dire messaggero della Pietra, ma in vero le mie conoscenze circa la magia sono piuttosto esigue e un po' confuse... tanto che i Veneziani mi hanno affibbiato il nomignolo di Mago Vanesio».

Quando Alessandro Magno fondò in Egitto la città che porta il suo nome vi condusse dalla Macedonia i più grandi esperti nell'arte magica e li fece accogliere con tutti gli onori nei templi egiziani dei sacerdoti di Serapide. I sapienti arabi non fecero altro che attingere ai testi magici tesaurizzati nelle biblioteche di Alessandria e ne furono i gelosi custodi; infine, tradotti in latino, i papiri tornarono in circolazione e furono riconsegnati all'Europa .

Continuo:

«Della magia di Ecate mi sono noti i tre elementi che compongono tutte le cose: il Sale che ne rappresenta il Corpo ovvero ciò che è limitato dalla sua superficie tangibile; il Mercurio che s'identifica con lo Spirito cioè la sostanza invisibile comune ad ogni varietà di cose ed infine lo Zolfo che ne è l'Anima».

«La magia conferisce un'anima alle cose, al pari dell'uomo? Questo mi stupisce!»

«Certo, al pari dell'uomo e lo fa anche il vostro Aristotele allorché attribuisce ai metalli un'anima vegetativa. Tutto la terra è vivente.».

«Ma come puoi credere alla presenza dell'anima in un metallo?» insiste.

«Prendiamo un metallo che cristallizza entro la miniera. L'Anima, è l'architetto intento a progettare il disegno della complessa struttura reticolare, viceversa il Corpo del metallo è l'operaio che realizza il progetto del poliedro scolpendone le facce regolari».

«Oh Numi, non ti credevo filosofo della natura».

«Più in generale il problema è chiarire la relazione Anima - Corpo, dato che l'Anima è immateriale ed incorporea come un progetto ancora nella mente dell'architetto, mentre il Corpo è al contrario tangibile quanto le mura di un edificio. Al riguardo la magia afferma questo... che l'Anima programma gli eventi fisici del Corpo tramite la predisposizione occulta».

«Che intendi per predisposizione occulta?»

«Ad esempio, allorché un individuo afferma ho fame secondo la logica occulta della sua disposizione ad agire significa che se ci fosse da mangiare egli mangerebbe».

«Tutto qui» deluso. Chiede se c'è nient'altro che i maghi abbiano preso dai filosofi greci.

Cito i quattro elementi di Empedocle di Agrigento.

«...discepolo di Pitagora», egli mi fa eco.

Enumero la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco, corrispondenti ai quattro stati della materia, cioè solido, liquido, gas e plasma. Enumero poi le sette potenze planetarie rette ognuna da un Titano: il pianeta Saturno retto da Crono, Venere da Teti, Marte da Crio, quindi Giove da Giapeto, Mercurio da Ceo, la Luna da Febe e il Sole da Iperione.

Zagreo ne conclude frettolosamente che dunque anche la magia non esce dall'ambito del pensiero greco.

Poi mi guarda sospettoso:

«Ma dimmi in confidenza, che cosa speri di ottenere per mezzo della stregoneria?»

«Oro, oro senza fine, oro tenero e brillante, oro duttile e incorruttibile... puro, purissimo, più puro di quello che si estrae dalle migliori miniere!»

«In che modo lo otterresti?»

«Tramutando in oro un metallo vile, tipo il piombo che posso comprare ovunque a bassissimo prezzo».

«Mah, lo trovo un'impresa impossibile, se fosse così facile procurarsi dell'oro lo farebbero tutti».

«In futuro, man mano che si andranno affinando le nostre conoscenze sulle proprietà dei metalli, la trasmutazione diverrà una banale operazione di laboratorio, sarà cosa nota a tutti e nessuno si sorprenderà più sentendone parlare. L'importante è arrivare per primi e arricchirsi prima degli altri».

«Ti prego, non offenderti, ma tu mi sembri un apprendista stregone devoto al male, trasformare una cosa in un'altra cade sotto il dominio della magia nera. Si sa che questa magia è capace di creare delle apparenze che confondono la chiarezza dei sensi, ci si può illudere di stringere dell'oro mentre si ha in mano un volgare pezzo di piombo».

Gli spiego che la mia magia è semmai filosofia della natura perché io non mi accontento semplicemente di osservare i fenomeni naturali ma cerco di dedurne le regolarità di comportamento per ricrearle e ripeterle in laboratorio, imitando in ciò la natura stessa. Certo, ammetto come i maghi insistano troppo sull'aspetto qualitativo, perciò soggettivo, dei fenomeni a discapito di quello quantitativo e convengo quanto sia da mettere in risalto l'importanza dei pesi e delle misure necessarie alle varie operazioni magiche, anzi affermo che se possibile sarebbe meglio ricondurre tutto alla matematica, poiché se possiamo prevedere con certezza il valore di una quantità fisica, allora esiste un elemento di realtà che corrisponde a quella quantità fisica.

Zagreo vuole sapere in quanto tempo conto di riuscire nella mia titanica impresa, domanda fra quanti giorni gli regalerò un po' del mio oro purissimo.

Rispondo che in teoria ci vogliono da sei mesi a sei anni, ma può anche capitare di lavorare a vuoto tutta la vita e fare la fine di Sisifo. Costui era condannato a dover spingere un macigno fino in cima ad una montagna del Tartaro, ma non appena ne raggiungeva la sommità il macigno rotolava giù e Sisifo doveva ricominciare da capo per infinite volte. Reputo che il successo dipenda sì dall'interpretare nel modo giusto le operazioni nascoste dietro le allegorie e le infinite metafore degli stregoni, ma che sia soprattutto legato al trovare o meno la chiave della corretta successione delle operazioni magiche.

Zagreo è scettico.

Insisto che ci vuole moltissima pazienza, i forni non riescono a sviluppare un calore superiore a quello di un uccello che cova e per l'opera completa ci vuole una quantità smisurata di fuoco sommato nel tempo. Ma se il fuoco del laboratorio non basta l'astrologia ci può venire in soccorso con la potenza del fuoco astrale. In che modo? Operando la trasmutazione dei metalli sotto gli influssi di un prodigio celeste. Nel 1054, poco prima della morte di papa Leone IX, esplose una stella nel segno del Granchio. Per mezzora la stella splendette in pieno giorno con una corona di fuoco più brillante del sole. Ebbene, coloro che dell'evento astrale approfittarono per operare trasmutazioni metalliche, riuscirono nell'intento.

Egli dubita che riuscirò ad arricchirmi grazie alla stregoneria, è al corrente solo di ricercatori ridotti sul lastrico, semplici illusi che hanno venduto tutte le loro proprietà per pagare i debiti di esperimenti inutili e costosi. E conclude lapidario:

«Ciascuno è libero di inseguire le chimere che vuole: i sogni e le illusioni rendono più sopportabile l'amarezza della vita, si vedono cose che non esistono pur di non vedere ciò che ci angoscia».

Mi sfotte. Incredibile. Rivelo al greco i preziosi misteri della magia e lui mi sfotte. Adesso devo mordermi la lingua, mi son lasciato trascinare dalla solita foga di parlare, era meglio se me ne stavo zitto. Sotto tortura si fa presto a dimenticare i giuramenti fatti e sotto le minacce di morte si fa altrettanto presto a sacrificare un altro al proprio posto, specie se lo si conosce da poco più di un giorno. Devo rimediare rapidamente alla mia imprudenza e non vedo di meglio che spingerlo a sua volta a scoprirsi col rivelarmi i suoi più intimi segreti, se porta la benda nera deve pur essere anche lui uno stregone, anche se fa finta del contrario. Con il peso del ricatto potrò almeno barattare il suo silenzio con il mio. Gli converrà tacere sapendomi disposto a confessare sul suo conto cose che è meglio gli Inquisitori non sappiano.
 
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view post Posted on 24/1/2009, 13:29

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Con domande subdole e insistenti, per tutto il pomeriggio mi sforzo di venire a capo del tipo di stregoneria abbracciata da Zagreo. Ma egli mi anticipa e nega recisamente i miei sospetti. Gli chiedo allora se pratica i culti segreti dei Cabiri o se è addentro nei misteri greci, se...

Mi risponde seccato che in Grecia non ci sono misteri.

Gli ribatto che è impossibile non ci siano con la mania di occulto che circola a Bisanzio.

Sono manie che provengono da culti forestieri, minimizza Zagreo.

Gli ribadisco, ostinato, che deve pur esserci un qualcosa che i bizantini tengano nascosto, argomenti di cui hanno pudore di parlare.

Zagreo accenna titubante che, beh, ci sarebbero certi misteri tipo...

Ecco, appunto! Lo pungolo a parlarmene.

Egli palesa la necessita di fare una premessa. La mutilazione del corpo, celata nell'enigma dell'evirazione, è un motivo ricorrente in tutta la mitologia pagana e non soltanto in quella greca, basti pensare a Urano e a Osiride cui toccò parimenti l'amputazione del fallo; a Dioniso, originario della Tracia, che nacque per separazione dalla coscia di Zeus; o allo stesso Zeus, che dopo aver commesso un atto incestuoso con sua madre Reitia, simulò di evirarsi e le gettò in grembo i testicoli di un ariete. Attis e Agdistis hanno fatto anche di peggio...

Attis e Agdistis? Mi suonano bene, esclamo sfregandomi le mani.

Zagreo anticipa che i Misteri di Attis hanno a che fare con Reitia, l'arcaica signora delle fiere.

Reitia? Sulle prime rimango un po' deluso, a Roma i suoi devoti facevano scandalo, colti da follia mistica afferravano il primo oggetto tagliente a portata di mano e - ne scimmiotto il gesto - si tagliavano le palle.

Zagreo ribatte che quelli erano dei perfetti imbecilli, eccessi del genere nascono quando si perde il primitivo significato simbolico di un mito e si finisce per applicarlo alla lettera.

Ecco, il grecuccio comincia a scoprirsi. Sottolineo che dunque egli è a conoscenza di doppi sensi, di codici arcani.

Ovvio, conferma Zagreo e si spinge a rivelare che nei Misteri di Attis l’élite dei sacerdoti rivestiva di immagini mitiche dei processi di purificazione e di redenzione dell'animo umano. Conoscenze esoteriche che non uscivano dal circolo chiuso dei riti iniziatici; mentre il volgo, escluso da ogni attiva partecipazione, si accontentava di credere ciecamente a tutto quello che la religione ufficiale gli imponeva di credere, bastava che non fosse troppo difficile da capire.

Ci siamo, lo incito ad esporre integralmente il mito di Attis, senza censura, e ricomincio a sfregarmi le mani, sono convinto che mi rivelerà di far parte di quella setta eretica di evirati. Lui che fa tanto il duro me lo vedo vestito da donna in una confraternita di pederasti, con la benda nera sulla testa, a fare porcherie con la scusa dei riti satanici. Sono tutt'orecchi.

Zagreo accenna ad una scogliera deserta sulla frontiera con la Paflagonia, si chiamava Agdo e Reitia vi veniva adorata sotto forma di una pietra nera. Zeus, innamorato di Reitia, cercava invano di unirsi a lei e nell'angoscia di una notte d'incubo, mentre la sognava ardentemente, il suo seme schizzò sulla pietra generando l'ermafrodito Agdistis.

(Mi scoppia da ridere ma mi sforzo di trattenermi, temo di rovinare tutto se Zagreo se ne accorge).

Agdistis era malvagio e violento. Con le sue continue prepotenze aveva maltrattato tutti, perfino Dioniso che esasperato volle vendicarsi architettando ai suoi danni uno scherzo atroce. Gli portò in dono dell'ottimo vino e lo accompagnò a bere in cima ad un grande melograno finché Agdistis, ubriaco fradicio, si addormentò disfatto in cima a un ramo. Pian piano con una cordicella Dioniso gli legò i genitali al ramo e poi scosse l'albero cosicché, appena il malcapitato si riebbe, cadde giù rovinosamente e nel brusco risveglio si strappò di netto il prezioso organo.

(Mi mordo le labbra per non ridergli in faccia.)

Agdistis morì dissanguato mentre il suo sangue lavava il melograno e lo faceva rifiorire rigoglioso e stupendo e carico di frutti succosi. La ninfa del fiume Sangario passava di là per caso e sfiorando con la sua pelle vellutata uno di quei magici frutti, rimase incinta di un dio. Costui, Attis il bello, fu il grande amore di Reitia. La Signora delle fiere suonava in suo onore la lira e lo teneva perennemente occupato in voluttuosi amplessi. Ingrato e irriconoscente, Attis volle tuttavia abbandonare quelle gioie celesti e fuggì via da lei per vagare sulla terra alla ricerca di un'altra donna. Reitia sapeva bene che nessuna infedeltà sarebbe potuta sfuggire alla sua vista onnipotente e trainata dai leoni, lo sorvegliava dall'alto del suo carro. Attis giaceva spensieratamente con una donna terrena, convinto che le fronde profumate di un alto pino fossero sufficienti a nascondere il tradimento, invece si vide presto scoperto e assalito da un rimorso tormentoso... all'ombra del pino si evirò.

Pure lui?

Sì, continua Zagreo, e per questo al centro del tempio i sacerdoti di Reitia adornano un pino con palle multicolori.

A 'sto punto scoppio, non ne posso più, mi esce una fragorosa risata e tra le risa a singhiozzo commento che fu quello il primo albero di Natale!

Sono storie talmente assurde, concludo tra me, che nemmeno gli Inquisitori udendole potrebbero prenderle sul serio, è meglio lasciar perdere il mio piano del ricatto. Questo greco non ha segreti, e non è affatto uno stregone, è solo un cantastorie. Il furbastro cambia di volta in volta i personaggi ma si limita a recitare sempre la stessa storiella perché egli segue un'unica e sola trama, già prefissata nella sua mente. Ma questo ritornello non ha niente a che vedere con la vera magia. Mi resta da sperare una sola cosa e cioè che Zagreo sia un uomo di parola e che non si azzardi a nominare all'Inquisitore quel papiro che è fonte della mia incessante ossessione.
 
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view post Posted on 24/1/2009, 13:58

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Egli si distoglie dal dialogare, sta in piedi contro la parete della cella e si concentra. In profondo raccoglimento bisbiglia un monologo in greco, forse ripete a memoria un testo; ha il braccio destro conserto e agita delicatamente la mano sinistra come se stesse solfeggiando.

Lo interrompo incuriosito:

«Che stai facendo?»

Smette e si gira, un po' seccato per la mia intrusione:

«Sto ripetendo gli inni di Orfeo».

«Orfeo, il cantore deluso nel suo sogno di salvare Euridice! Ti prego, fammi partecipe della poesia che addolcisce la vita», esortandolo a ripetere a voce alta.

«Perché dovrei?»

«E' l'ultimo desiderio del condannato a morte» semiserio.

Riluttante il greco inizia a illustrare come Orfeo fosse il cantore dello spirito, entità immortale e divina e tuttavia prigioniera di un corpo che ne funge da tomba. La lirica orfica è tutta incentrata sul mito di Dioniso, il divino fanciullo che in dispetto a suo padre Zeus fu smembrato e divorato dai Titani. I Titani... Erano usciti come ombre dall'oltretomba e con quel gesto nefando intendevano proclamare la loro ribellione a Zeus, dopo che li aveva da tempo sconfitti e rinchiusi nel Tartaro. Per vendetta Zeus scagliò contro di loro il fulmine e dalla folgorazione di quei corpi giganteschi si sprigionò un gran vapore misto ad un bagliore di fumo e faville. I figli della notte tornarono nel Tartaro urlando di dolore ma dalla fuliggine depositatasi lungo il loro cammino ebbe origine il genere umano, che dunque possiede in sé l'elemento titanico ma anche la scintilla divina proveniente da Dioniso.

Ancora favole mitologiche, uffa che barba! Ma io gli avevo chiesto della poesia.

Insisto nella mia richiesta:

«Abbiamo appurato che io sono un apprendista stregone mentre tu sei solo un greco cantastorie. Ma ora devi dimostrarmi che sei anche un poeta, avanti, recita gli Inni di Orfeo. Non avevi detto che sei uno dei pochi al mondo che li conoscono tutti a memoria?»

In piedi e colmo di devozione, Zagreo declama un bellissimo... estasiante... inno a Reitia; fa seguire l'inno alla Notte, al Daimon, a Thanatos e ad altre divinità sconosciute. Conclude con l'invocazione ai Titani. La sua voce vibra di toni ieratici e trasmette una forte carica emotiva mentre risuona cupamente tra le pareti, simile al culminare solenne di una tragedia greca:

«Audaci Titani,

che ora a dimorate nelle tartaree case

sotterra nell'infima regione del mondo.

O temerari progenitori dei nostri padri,

origine di noi mortali afflitti dal dolore:

voi imploro, d'allontanare l'ira funesta

allor che da infero buio a noi s'accosti».

Ammaliato, suggestionato dal patos profondo di questi versi, mi guardo intorno attonito, sento odore di incenso e da un momento all'altro mi aspetto di veder apparire le ombre dei figli delle tenebre, i Titani sfuggiti alle catene del Tartaro, invece... l’oscurità della cella si fa sempre più densa ed il nero più nero del nero.
 
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view post Posted on 25/1/2009, 13:48

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Lo scoccare della mezzanotte, i dodici rintocchi della torre di Piazza San Marco. Il sinistro cigolio del nostro catenaccio, seguito dal secondo catenaccio, Cengio spalanca la porta, è venuto a prenderci:

«I Signori di Notte vi attendono» mugugna.

«Loro? Meno male, - dico rivolto a Zagreo - questo vuol dire che non avremo a che fare con l'Inquisizione, verremo invece giudicati come criminali comuni, molto meglio così. Coi Signori di Notte è la tortura... con l'Inquisitore è la sepoltura!»

Aiutato da un altro carceriere, Cengio ci lega insieme pancia contro schiena e mentre passa la corda intorno alle nostre cintole sfodera il suo cinico sarcasmo:

«Materia prima per la nobile arte della tortura» e stringe ancor più forte le corde ai nostri fianchi, incollandoci talmente l'uno all'altro da farci sembrare un solo corpo con due teste.

Questo sciocco espediente ci ha trasformati in una ridicola caricatura che mi riporta a un Carnevale di tanti anni fa e alle impressioni in me suscitate alla vista di un curiosissimo travestimento. Ero bambino e quella maschera ricordo mi fece prendere un gran bello spavento. L'avevo scorta nella calle, stava in piedi appoggiata al muro di una casa, giusto davanti al davanzale della finestra. Reggeva una maschera a due facce che non mi consentiva di distinguere da quale parte stesse la vera testa. «Psst, psst!» mi chiamava e con una specie di rebus mi interrogò circa la sua ambiguità. Com'è che da Cosa Doppia nasce la Cosa Unica? disse con voce bitonale facendo gesto di avvicinarmi. Inquieto, feci un passo indietro seguito da qualche timoroso passo in avanti e con infantile terrore scoprii che tutte due le facce mi fissavano con occhi veri, occhi veri che ammiccavano. Di colpo si tolse la maschera, aveva proprio due teste, una femminile ed una maschile incastrate in uno stesso corpo. Feci un salto dalla paura e scappai via terrorizzato, ero troppo piccolo per accorgermi del trucco: dall'interno della casa l'uomo aveva appoggiato la sua testa sulla spalla della donna che stava in piedi addossata al davanzale e una sciarpa circondava i loro due colli nascondendone la diversa origine.

Nei Pozzi, avanziamo goffamente lungo i corridoi, saliamo incespicando i numerosi gradini di pietra. Approfitto di un pertugio per guardare fuori, nell’oscurità cerco di distinguere il molo ma scende una pioggia talmente fitta da togliere ogni visibilità. Una porta dalla forma strana semi nascosta in un cunicolo: aperte dall'interno le ante del finto armadio, sbuchiamo negli uffici del quartier generale della Santa Inquisizione. Veniamo condotti direttamente nella Sala del Tormento. Ad attenderci non ci sono affatto i Signori di Notte:

«Idiota» dico sottovoce nell'orecchio del nostro fido carceriere.

Insulso com'è, Cengio si è sbagliato, ci ha stimati al livello di criminali comuni mentre invece possiamo ben fregiarci dell'onorevole titolo di Prigionieri di Stato, oggetto delle attenzioni e cure della Santa Inquisizione. Infatti i due altezzosi figuri seduti al tavolo sono membri dell'Altissima, l’autorità giudiziaria dell'Inquisizione di Stato e non solo, per l'occasione ci si onora addirittura della presenza di Sua Serenità. Con la mantellina in maglia d'acciaio del rocchetto il doge Morosini è al centro; alla sua destra c'è l'Inquisitore, un uomo robusto di mezza età con la tonsura e l'abito da frate domenicano, cappa nera su scapolare bianco. Alla sua sinistra il Vicario, segnato da una magrezza impressionante, con il naso adunco ed il volto tinto di un cereo pallore, tutto vestito di nero, con i capelli nerissimi lisci e unti.

Veniamo subito slegati da un uomo col volto incappucciato che non può essere altro lieto personaggio fuor del nostro carnefice. Io vengo rinchiuso in una delle due cellette laterali da cui, attraverso una piccola finestrella rotonda sbarrata a X, posso vedere il mio compagno al centro della sala ma non gli esaminatori, benché possa udirne distintamente le parole.

Sento per prima la voce dell'Inquisitore, energica e precisa nell'eloquio:

«Costituito personalmente nel tribunale del Santo Ufficio e toccati i Sacri Vangeli ti chiediamo di giurare di dire la verità».

«Lo giuro» con la mano sul vangelo avvicinatogli dal carnefice.

«Sei interrogato sul nome e patria di provenienza».

«Zagreo, greco di Candia».

Il suo torace possente e statuario viene denudato dal boia. Zagreo, a testa alta con una fiera espressione di sfida negli occhi, sale i tre gradini della piccola piattaforma di legno. Gli vengono legati i polsi dietro la schiena con una corda che pende allentata dalla carrucola affissa all'alto soffitto della Sala del Tormento.

L'Inquisitore inizia l'interrogatorio con maniere che vogliono essere piacevoli e caritatevoli:

«Presumi il motivo della tua carcerazione?»

«Sono prigioniero perchè ribelle greco».

«Caro Zagreo, tu sei gravemente indiziato per l'omicidio di un nobile veneziano, tale Bartolomeo Gradenigo, delitto spettante al foro secolare in quanto perpetrato per mano di sommossa popolare da te ideata e condotta ai danni del Governo veneziano. Ma l'eresia è crimine incomparabilmente più grave poiché come dice San Girolamo, l'eretico è un omicida che uccide le anime degli uomini con dannose e letali passioni».

«Quel nobile si era impossessato di un mulino appartenente alla mia famiglia e pretendeva tasse esose da chi era costretto ad utilizzarlo per la macinazione. I contadini erano in collera...».

L'Inquisitore lo interrompe a meta frase:

«I contadini sono sempre in collera e il loro cuore non è mai contento. A noi non risulta che alcun contadino sia mai stato fatto santo».

«C'era una terribile carestia di grano e comunque sia, quell'omicidio non fu voluto da me, non era affatto nei piani della nostra ribellione. E' stato un incidente. Il Valvassore doveva venire semplicemente catturato in ostaggio per scambiarlo con dei sacchi di grano invece, quando i contadini hanno assaltato il palazzo e le guardie hanno risposto con le armi, un greco deve aver perso la testa e ha contraddetto gli ordini. In quel momento non ero all'interno, non so assolutamente chi possa essere stato l'esecutore materiale ed in ogni caso è lui soltanto il responsabile del suo crimine».

Interviene allora il doge Morosini:

«Anche tu ne sei moralmente responsabile dacché sobillare la ribellione, come tu stesso hai ammesso di fare, non porta altre conseguenze che il crimine e la vendetta di sangue. Complice nel delitto non è solamente colui che è materialmente compagno nel delitto stesso, ma anche chi è compagno nelle vicende annesse e connesse che causano il delitto. Ma c'è dell'altro, tu sei un nemico della Lega Lombarda, venuto fin qui per cercare appoggi fra gli alleati di Federico II. Nel 1230 ero duca di Candia e i greci in rivolta non si sarebbero impossessati delle nostre fortezze se non grazie all'appoggio esterno di un alleato di Federico II: a quei tempi l'alleato era un greco, Giovanni Vatace da Nicea, ma oggi è direttamente alle nostre spalle ed è niente meno che un veronese, Ezzelino da Romano! Costui soffia sul fuoco del malcontento greco e finanzia lautamente i ribelli, spera in un nostro impegno militare a Candia, lontano da casa, per poterne approfittare e ritentare di sorpresa la presa di Treviso. Non è passato molto tempo Dacché il podestà di Treviso, figlio del Doge che mi ha preceduto, si è trovato a comandare la difesa della città davanti all'esercito del feroce Ezzelino, il peggior nemico della pace».

«Quel demonio è sempre in agguato, - lo interrompe l'Inquisitore - ha sottratto Trento al vescovo ed incarcera impunemente gli ecclesiastici. Ezzelino non fa mistero del suo dispregio per la religione, è costantemente in compagnia degli eretici e si compiace di compiere atti sacrileghi nelle chiese».

Il Doge continua l'interrogatorio:

«Avanti, confessa che eri diretto nella Marca Trevigiana per incontrare qualcuno dei suoi scagnozzi? Se tu sei passato per Venezia di sicuro avevi appuntamento con qualche spia, è forse Petrangesio il tramite degli Ezzelino?»

Nell'udir nominare il mio nome mi sento raggelare il sangue e piombo in una crisi di panico.

Ma Zagreo nega:

«No, Petrangesio non c'entra per niente in questa faccenda, lo ho conosciuto per caso in osteria, dove abbiamo solo bevuto insieme e non abbiamo parlato di politica».

«Lo giuri tu?»

«Sì. Sì lo giuro, qui a Venezia non dovevo incontrare nessuno».

«Dove eri diretto allora?»

«A Verona. Là avrei dovuto incontrare degli esuli di Candia, perseguitati dai vostri sbirri».

«Dunque ci siamo, sei in combutta con quello sfegatato ghibellino, fanatico fino all'ultimo anche dopo le schiaccianti vittorie della Lega. Dicci il nome di quei traditori!»

«No!»

«Se non ci dirai i nomi ti faremo accecare e ti rinchiuderemo a vita nei pozzi!»

«Mai, da me non avrete i loro nomi, non sono traditori, lottano per la libertà di Candia, non devono nessuna fedeltà allo straniero».

Il doge irritato fa cenno al boia. La corda che lega i polsi dietro la schiena viene tirata fino a sollevare in aria il prigioniero, provocandogli atroci sofferenze alle articolazioni delle spalle. Zagreo rimane appeso per un interminabile quarto d'ora misurato dalla clessidra posata sul tavolo, finché non sopportando più il dolore prende a gridare con veemenza gonfiando le vene del collo:

«Maledetti figli di cani, non avrete mai quei nomi!»

Il Vicario, che aveva ascoltato attentamente ogni cosa stando appollaiato sul margine della sedia, fa abbassare la corda con un gesto di quella sua mano a zampa d'uccello:

«Tieni a freno la lingua, questi insulti potrebbero costarti la vita. Sappiamo che a Candia tu vai predicando di onorare gli dei pagani, pratica da secoli obsoleta dopo che i nostri santi martiri ne ebbero dimostrato la falsità e le menzogne. Tu ti infervori nell'apologia di dottrine pagane che si oppongono direttamente e contraddittoriamente alle verità rivelate e proposte dalla Chiesa Cattolica Romana. Formalmente è un dipartirsi da tutta la Fede e la Religione già ricevute, cotal circostanza, ovvero l'apostasia, notabilissimamente aggrava il delitto di eresia. Sei dunque pronto a confessare?»

«Il Messia ha acquisito parte della sua dottrina da un sapere che già i poeti dell'Arcadia tenevamo per scontato ed ora voi mi accusate e mi minacciate di morte perché onoro quello stesso sapere che il Cristo non disdegnò di fare proprio».

«Che intendi insinuare?»

«Tra il lago di Genezareth e la costa fenicia il Cristo ha conosciuto i culti pagani della vite. Da dove proviene il mistero dell'Eucarestia se non dal vino di Dioniso e dal pane di Demetra?»

Il Vicario dilata le narici come chi sente un odore sgradevole sotto il naso:

«Nel mistero Eucaristico si compie la redenzione dell'uomo e la sua liberazione dal peccato attraverso l'incarnazione, la morte e la resurrezione del Cristo. Gli dei che hai nominato non possiedono queste stesse virtù, non c'è mai stata relazione alcuna tra i culti dei pagani e la Santa Eucarestia».

«Che ne sapete voi delle dottrine pagane? Il mistero di redenzione di Attis contraddice le vostre affermazioni categoriche. E' forse soltanto opera del maligno che il mite Attis sia nato in una grotta, sia morto nel tempo di Pasqua e sia risorto il terzo giorno come il Cristo?»

«La verità rivelata dal Vangelo testimonia che l'unigenito figlio di Dio non può essere che unico, perciò agli dei pagani non è dato in alcun caso possedere le esclusive virtù del Cristo, il politeismo dei selvaggi è stato spazzato via da tempo dalle coscienze dei giusti».

«Voi vi rifugiate nei dogmi per non ammettere l'evidenza, le vostre pretese di unicità ed originalità del messaggio cristiano non reggono ad una prospettiva storica, perfino Reitia la dea di Candia è vergine e madre esattamente come la Madonna».

Al che il Vicario, che fino ad ora aveva trattenuto a stento l'indignazione, irrigidisce il volto in un’espressione terribile:

«Questo è troppo! Infame, tu bestemmi! Queste non sono soltanto volgari eresie, sono bestemmie atrocissime e orrendissime!»

Poi, mutando improvvisamente a calmo e pacato il tono della voce, il Vicario riprende:

«Ora devi spiegare al Tribunale se le tue idee ti hanno condotto a praticare opere e culti conformi alle tue credenze e a comandare ad altri di sacrificare agli idoli».

Il Vicario invita il carnefice a procedere. Vedo così il boia che regge per i lunghi manici le tenaglie mentre ne scalda sul braciere le estremità, quindi si avvicina a Zagreo e gli stringe alternativamente i capezzoli con la morsa delle tenaglie incandescenti. Il boia continua ad infierire crudelmente, ben sapendo che i capezzoli sono una delle zone corporee più sensibili al dolore.

Zagreo si contorce sempre più spasmodicamente e grida:

«Che culto pagano posso mai praticare se avete distrutto tutto, tutto, perfino l'erba che cresceva nei templi!»

«Però predicasti ad altri il paganesimo?» chiede il Vicario.

Zagreo risponde lucidamente:

«E' la cultura, è la storia della mia gente, sicuro, più volte ho spinto i greci ad onorare la memoria degli dei e degli eroi della loro terra, volevo infondere in loro il sacro entusiasmo della rivolta di popolo. Molti sono caduti ai miei piedi ad acclamare commossi i miei discorsi».

«Molti sono caduti a fil di spada ma non quanti sono periti per colpa della lingua, dicono le scritture. Ratifichi la tua confessione?» domanda il Vicario.

«Sì».

Una breve pausa di silenzio e il doge scambia delle frasi in tono sommesso con i due esaminatori. Odo poi la voce imperiosa dell'Inquisitore:

«Sotto giuramento il reo ha confessato d'aver più volte affermato e predicato l'apostasia pagana. Davanti a noi non ha voluto ammettere d'essere in errore e con stizza, superbia ed arroganza ha risposto di credere fermamente negli idoli. Avendo noi attentamente considerato la suddetta pertinacia ed ostinazione, veramente satanica e dannevole al punto di rendere assai più gravi le sue colpe, non vogliamo che egli per l'impunita sua di malvagio divenga peggiore di quello che è, né che con il suo morbo pestifero infetti altri. Pertanto, invocando il santissimo nome di Cristo, sentenziamo davanti al tribunale del Santo Ufficio che Zagreo di Candia risulta eretico pertinace impenitente e come tale, lo condanniamo e lo scacciamo via da noi per rilasciarlo da ora al braccio secolare, che provvederà alla pena con il voto del Consiglio».

Il Vicario scambia un'occhiata furtiva col Doge e aggiunge:

«Che gli sia fin d'ora tagliata la lingua per purgare l'infame offesa arrecata al preziosissimo corpo e al soavissimo sangue del Cristo, nonché alla immacolata purezza della Vergine Maria».

Il carnefice raccoglie da terra un piccolo strumento di metallo, una cornice rettangolare dotata di un morsetto a vite che allontana due brevi lame. Mentre Zagreo oppone una estrema inutile resistenza il boia gli inserisce le due lame fra le arcate dentarie e girando il pomello piatto del morsetto apre progressivamente la bocca fino a tenerla spalancata, quindi afferra la lingua con un panno e la recide alla radice, dopo di che getta la lingua mozzata entro un cesto.

Tra le sbarre a X osservo con gli occhi sbarrati. Zagreo viene trascinato in disparte, è pallido e stremato, il sangue gli scorre all'angolo della bocca. E' arrivato il mio turno, mi fanno uscire e mi legano alla corda.

Il Doge commenta il supplizio di Zagreo:

«L'eretico solitario nuoce soltanto a se stesso, diversamente quello che si adopra a fare il maestro di eresia è cagione di altissima rovina anche per gli altri cittadini. Dunque deve essere punito con grandissimo rigore non solo come eretico ma come nemico del Libero Comune».

Senza esitare prendo la parola sotto lo sguardo fisso e indagatore dei tre:

«Sua Serenità, altissimo Inquisitore di Stato, vi supplico di prestare la vostra benevola attenzione alle semplici, ma sincere parole, di un suddito che massimamente confida nella Vostra illuminata giustizia. Una serie di circostanze fortuite ha fatto sì che comparissi al cospetto del tribunale, tuttavia posso dimostrare come ciò sia dovuto ad un banale equivoco e mi scagionerò in breve da ogni sospetto, lasciando il vostro prezioso tempo a disposizione di più gravi e urgenti questioni di Stato.

L'altro ieri a mezzogiorno mi trovavo alla locanda del Mastino di Khorassan, i posti liberi a sedere erano pochi ed il greco acconsentì a dividere con me il suo tavolo. Vi giuro sui Sacri Vangeli che era la prima volta che vedevo quell'uomo, come avrei potuto in alcun modo sospettare che egli abbracciasse segretamente l'eresia o che fosse un pericoloso nemico della Lega? Ci scambiammo qualche parola come si suole in osteria davanti ad una coppa di vino, egli era piuttosto reticente e non mi disse i motivi né la destinazione del suo viaggio. Altro non fece che elogiare la qualità del nostro vino tracannandone intere coppe d'un sol fiato sicché, quando mi sollecitò a procurargli il miglior vino che avessi a disposizione, mi sentii in dovere di ospitalità. Con la mia piccola damigiana mi sono diretto candidamente al suo alloggio ma caso volle che in quel momento la camera fosse presidiata dalle guardie. Diligenti fuori misura, esse mi hanno condotto ai Pozzi a pagare così duramente la mia generosità verso gli sconosciuti.

La confessione elargita dal greco sotto tortura ha reso inconsistente ogni accusa nei miei riguardi e conferma quanto vi ho narrato. Essa dimostra la mia estraneità alle sue macchinazioni politiche e nega la possibilità che io abbia perpetrato il nefando ed orribile crimine di tradire la patria, mentre tutti i veneziani d'intera fama sanno in quanta venerazione e assoluta sottomissione tenga Sua Serenità. L'onere della prova spetta all'accusa, dunque io chiedo alla Vostre eccellenze quale prova potreste mai portare in questa sede di giudizio ad inficiare la mia innocenza, dato che mai nessuno mi ha udito parlare in modo scellerato e non conforme alla dottrina della Chiesa Cattolica Romana, viceversa con licenza del Tribunale io potrei portare al vostro cospetto un coro di voci di uomini da bene pronti a fornire prove irrefutabili sull'ardore e sulla devozione con cui compongo le immagini dei nostri santi nei mosaici della Basilica.

Dunque è di per se stesso chiaro come io sia stato vittima di una svista delle guardie, che hanno male interpretato circostanze del tutto fortuite. Ogni sospetto e congettura su un mio coinvolgimento nelle turpi diavolerie del greco si scioglie come neve al sole di fronte all'evidenza dei fatti e pertanto vi supplico di concedermi la libertà affinché io possa tornare ad onorare come prima i santi, componendo i miei mosaici nella Basilica d'Oro, la meravigliosa cappella che tutti i sovrani d’Europa invidiano al nostro doge" concludo inchinandomi.

Prende allora la parola il doge:

«E se mettessi in libertà una spia di Ezzelino?»

«Sua Serenità, sapete bene che una vera spia non prende appuntamento con un noto ribelle in un'osteria piena zeppa di gente, per di più allo scoccare del mezzodì; la spia attua i suoi incontri in luoghi appartati, al riparo da occhi indiscreti, e aspetta la notte fonda per scambiare fugacemente poche parole e poi dileguarsi nuovamente nell’oscurità. Esaminate inoltre il caso del mio arresto in casa del greco: prima di entrare in un luogo ove sia attesa, la spia sta appostata per ore ed ore, osserva chi entra e chi esce e si decide ad entrarvi solo quando sia sicura di evitare presenze inopportune. Gli astuti informatori dei ghibellini non sono così avventati da mancare di prudenza, sapendo che una volta scoperti li attende morte certa».

L'Inquisitore dice al doge:

«Il reo finge, seppur bene».

E continua rivolgendosi a me:

«Tu affermi che nessuno può testimoniare contro di te, invece un Capo di Contrada ci ha riferito che una certa persona presente in quella locanda ti ha udito nominare dottrine eretiche durante la conversazione con Zagreo. Bada, ora sei ancora in tempo per scagionarti se ammetti di essere stato vittima del plagio, cioè della stregonesca suggestione esercitata dal greco per persuaderti ad abbracciare l'eresia. Conferma la verità e ti lasceremo andare: se rettifichi la deposizione e dichiari esplicitamente d'essere stato oggetto della propaganda mefitica di Zagreo, sebbene tu non lo conoscessi per eretico prima di quell'incontro fortuito nella locanda, proverai in tal modo la tua ignoranza e non sarai meritevole di castigo».

Cerco di mantenere la calma e rifletto veloce che potrebbe essere vero ma potrebbe anche essere una trappola, un trabocchetto fatale dal quale non potrei facilmente uscire. Se si tratta di una finzione escogitata lì per lì dall'Inquisitore ho ancora una via di salvezza:

«No lo nego, è totalmente falso, quello non può averci sentiti parlare di dottrine eretiche perché non le abbiamo nominate. Confermo la mia versione dei fatti e sono pronto a testimoniarla sotto tortura, se non vi è rimasto altro rimedio per scoprire la verità» e lo sottolineo con tutto l'impeto e la decisione necessarie a mascherare il mio sgomento, simulo coraggio ma ho il terrore della tortura.

L'inquisitore rimane impassibile, non riesco a cogliere nella sua espressione il minimo segno di cedimento, egli si limita a dire meccanicamente:

«Lo vedremo... Si mormora in giro che tu ti interessi di stregoneria» e da al boia l'ordine di sollevarmi in aria.

Mi agito come un pollo legato per le zampe.

Il doge Morosini sbuffa, tamburella le dita, inizia a dare segni di impazienza e interrompe quasi subito la manovra del boia:

«Basta così! E' ora di passare al processo successivo, non ho intenzione di perdere tutta la notte in questioni da osteria. Anche se il reo si offre spontaneamente al boia non mi risulta che sia stato indiziato a tortura. Vi prego di usare maggiore cautela nell'arrestare i rei, poiché la sola carcerazione per il delitto di eresia comporta considerevole infamia al carcerato».

Mi slegano le braccia doloranti per riportarmi in cella. Tiro uno smisurato sospiro di sollievo, ma poi sulla porta incrocio lo sguardo di Zagreo, seduto sul pavimento di legno con le spalle appoggiate ad un angolo di parete, immobile come una statua di ghiaccio, ridotto ad una pallida ombra di se stesso. Vorrei abbracciarlo, dirgli all'orecchio qualche parola di consolazione, fargli capire che siamo ancora tutti e due nella stessa barca, che ho mentito sì ma...

Abbasso gli occhi davanti al trovatore, quasi mi sento complice di quella crudeltà inutile, inutile come uccidere un usignolo.
 
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view post Posted on 25/1/2009, 14:15

ottimo

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« ...e lo scacciamo via da noi per rilasciarlo da ora al braccio secolare!»
Muto, in attesa della pena votata dal Consiglio, il mattino seguente Zagreo è seduto a terra nell'angolo della cella.

Ora so. Zagreo è l'ultimo dei "Gentili", rappresenta l'anello finale nella catena di persecuzioni inflitte ai pagani. Pochi sanno e nessuno parla dei secoli d'intolleranza contro i pagani, tra i più grandi crimini commessi nella storia dell'umanità. Quante innumerevoli volte fuori della porta del tempio si udì la terribile minaccia:
«E se non vi sottomettete all'autorità del Papa, signore del mondo, state certi che con l'aiuto di Dio noi vi daremo poderosamente contro, vi assoggetteremo al giogo e obbedienza della Chiesa; prenderemo le vostre persone, le vostre mogli e figli e li faremo schiavi, e come tali li venderemo e disporremo di essi. Prenderemo i vostri beni e vi faremo tutto il male e il danno che potremo, come a chi non obbedisce al proprio signore e gli resiste e lo contraddice; affermiamo che la morte e il danno che seguirà da ciò sarà per vostra colpa, non nostra».

Inizio a riflettere sulla confessione di Zagreo e la confronto con quanto mi aveva confidato appena il mattino precedente:

«I culti pagani della vite… il vino di Dioniso e il pane di Demetra».

Ammiro in lui la fiera indipendenza di pensiero, fino ad un momento prima del processo ero convinto mi avesse raccontato soltanto delle belle favole ma ora lo scopro un vero filosofo, uno di coloro che assaporano il raro privilegio di pensare con la propria testa, al contrario alla maggioranza del genere umano che usualmente è capace di trascorrere una vita intera a mangiare, lavorare e riprodursi senza mai sfiorare un pensiero che abbia il sapore della filosofia. Devo approfondire i princìpi che Zagreo ha enunciato e cercare di analizzare con cura il credo che egli ha difeso, lucido e coerente, fino alle estreme conseguenze.

L'Umido, cui accennava, dovrebbe dunque essere il principio spirituale e invisibile, la sostanza che permea e unifica l'intero universo restando tuttavia intangibile allo scorrere della freccia del tempo. Al suo estremo egli ha posto il principio Secco, ovvero la molteplicità degli individui e delle forme, espressione dell'innumerevole varietà di specie che Noè caricò nell'arca e che ora popolano ogni angolo della terra. C'è abbastanza spazio per coinvolgere Aristotele, anche costui concepiva due analoghi aspetti del creato, la Forma e la Sostanza. Come spiegava Mastro Bernardo intento a rifinire una scultura con lo scalpello: la Sostanza è riconoscibile nella pietra della statua e la Forma nel peculiare aspetto forgiato dallo scultore; potenzialmente, dalla pietra allo stato grezzo possono emergere infinite immagini, ma una ed una sola è la figura che lo scultore decide di attuare, un profeta, un cavallo o una fanciulla... e come contemplando la statua si può percepire ad un tratto la nuda pietra, così contemplando il mondo fenomenico si può percepire ad un tratto la Sostanza Universale - concludeva il Maestro.

La Forma sta alla Sostanza come l’Attuale al Potenziale. Il pane viene cotto e mantiene la forma impressa dal panettiere; il vino è un liquido, cioè una sostanza che potenzialmente può venire contenuta in qualsiasi recipiente. Pane / Vino, Secco / Umido, non mi è difficile capire che tutte queste coppie in qualche modo equivalenti si rifanno al principio generale degli opposti. Però, appena cerco di collocare la Realtà all'interno dei due opposti, oscillo dall'uno all'altro cadendo in preda al dubbio. Che confusione! Dov'è la Realtà che dà contenuto e valore concreto alla vita, nell'esile sostanza sottostante alle cose o nelle forme concrete e tangibili? In sintesi, nello spirituale o nel mondano? Questo è il problema.

Finito nei vicoli ciechi di un labirinto inestricabile non riesco a trovare la via d'uscita e mi ritiro dai miei ragionamenti sempre più disorientato e perplesso. Se dovessi commettere l'errore di prendere l'irreale per il reale o viceversa il vero per il falso, la mia mente verrebbe ad invischiarsi in una trappola letale. Se invece, per porre termine a questa sorta di sdoppiamento, dovessi ammettere la presenza congiunta della Realtà tanto nella Forma che nella Sostanza dovrei addirittura ricorrere ad una logica nuova e bizzarra che permette la verità simultanea di due aspetti contraddittori: il mondo trae forse sostegno dalla follia?

Mi accorgo di non avere risposte certe e mi perdo a fantasticare pigramente dietro una costante irrisolta incertezza, ritrovandomi dopo un po' in una sorta di limbo, ove sogno e rimembranza possono facilmente confondersi. In questo stato, lontano dai ritmi abituali della mia vita, impresso nelle terribili cose appena successe, non so più se considerare maggiormente veritiero il sognare o il ricordare. Più autentico il sogno premonitore di Zagreo col corvo che gli strappa la lingua o più autentica la mia immagine mentale del carnefice che gli taglia orribilmente la lingua? Dentro di noi un ricordo non è affatto dissimile da un sogno. Persino il futuro, le nostre speranze, non sono molto diverse dai sogni. Ed il presente? Che cosa mai è il presente se non quanto di più inafferrabile esista, nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo... anche l'attimo scivola nel passato. Solo i sogni restano mentre pian piano la realtà svanisce.

Malinconicamente, ho trascorso l'intera giornata a meditare, senza concludere nulla... sicché ho finito per dubitare di quelle stesse capacita di discernimento che il Creatore avrebbe riservato alla coscienza umana. Più investigo il mondo più torno sconcertato sui miei passi, in nessun modo posso superare l'abisso che mi separa dai suoi impenetrabili misteri. Devo ammettere di ignorare che cosa sia il mondo e cosa sia io stesso, nonché quella parte di me che ora mi consente di pensare. Non so perché io sia venuto al mondo, perché viva in questo istante del tempo e non in altro, perché ora mi trovi in questo punto dello spazio e non in un altro. Oltre le pareti della mia cella, cerco invano di misurare l’immensità del cosmo, in ogni direzione incontro spazi incommensurabili e cammini eterni che mi inghiottono come un granello di polvere. Esausto... approdo a quel Silenzio di fronte al quale le parole ed i pensieri si ripiegano su se stessi senza raggiungerlo.

Terza notte nei pozzi. Il buio avanza, l’umidità mi entra nelle ossa e indolenzisce le articolazioni. A un tratto percepisco nei corridoi uno sciacquio d'acqua corrente, non ci faccio caso e mi rigiro nel tavolaccio. Di nuovo lo sciacquio, questa volta sembra provenire dall'interno della cella, punto le mani sul bordo del tavolaccio e appoggio i piedi sul pavimento, la pianta del piede s'immerge in due dita d'acqua gelida.

L'acqua alta! Il mare è entrato nel cortile interno del Palazzo Ducale, ha invaso i corridoi dei pozzi ed ora filtra da sotto la porta.

Cerco il mio compagno tentoni nella penombra, non è sdraiato sulla sua panca, lo trovo seduto sul pavimento allagato, è ancora nello stesso angolo di quando era tornato in cella. Lo prendo in braccio e lo sollevo a forza sul mio tavolaccio. Zagreo è tutto inzuppato, mi rincresce di averlo abbandonato lì in terra, sono colto da mille rimorsi. Gli strizzo la veste fradicia, cerco di scaldargli le mani con il calore delle mie ascelle e lo tengo appoggiato a me sostenendo le sue membra, rannicchiate e tremanti. Il tavolaccio poggia su dei pilastri di pietra non più alti di due piedi, se l'allagamento supera questa misura finiremo a mollo nell'acqua gelata e moriremo entrambi assiderati. Gli Inquisitori lo sanno, forse ci hanno sbattuti qui proprio per questo, secondo il piano di una sadica esecuzione.

Cresce. Non si ferma. L'acqua continua a salire. Stendo il piede in direzione del pavimento. Scivolo sulla pietra del pilastro e immergo l'intero alluce. Dopo un po' ripeto l'operazione e rituffo il piede iperesteso sulla caviglia. Sono sotto fino a meta piede, vuol dire che l'acqua aumenta in modo impercettibile ma inesorabile. Il rumore d'acqua che goccia echeggia nei corridoi e vi si aggiunge lo sciacquio di stivali di qualcuno che passa. La marea accelera, arriva alla caviglia iperestesa e la supera, va oltre il piede di profondità, non manca molto ai due piedi e vinto dal panico vado prospettando lo spettro vicinissimo d'una morte lenta e orribile e controllo spasmodicamente il livello dell'acqua. Però, col trascorrere del tempo, non ci giurerei ma sembra abbia smesso di crescere, controllo il livello dell'acqua un'altra volta, sta scendendo.

Sento un tuffo al cuore, mi sembra che stia scoppiando, stringo forte Zagreo al mio petto, lui ricambia l'abbraccio, grosse e calde lacrime mi rigano le guance.


* * *
In seguito, appena sul pavimento non rimane che un sottile velo d'acqua stagnante, riesco finalmente ad abbandonarmi al sonno. A notte inoltrata vengo svegliato dal rumore dei catenacci, la cella si illumina con la torcia, Cengio è vistosamente agitato e mi esorta ad uscire:

«Svelto, prendi la tua roba e seguimi, non c'è tempo da perdere».

«Dove mi vuoi portare a 'ste ore?» chiedo pigramente.

«Sbrigati, devi cambiare cella».

Scatto in piedi sbattendo le suole in terra e alzo la voce sdegnato:

«Io resto qui, non hai nessun diritto di spostarmi di cella, fammi parlare con i tuoi superiori!»

Cengio si fa avanti e inizia a tirarmi per un braccio:

«Muoviti».

«Toglimi le mani di dosso, martuffo!»

Mi libero dalla sua presa ma altri due guardiani si affacciano alla cella attirati dalle grida. Sono costretto a cedere. Più che mai frastornato, abbattuto per quella assurda disposizione, mi decido a congedarmi da Zagreo. Una separazione penosissima, simile a dover abbandonare nel bisogno il migliore amico o di più, un fratello sventurato. Zagreo guarda mestamente la parete e con il dito indice vi disegna la falce della luna, abbassa la mano e poi disegna il disco solare con intorno i raggi, dopo di ché prende il palmo della mia mano, vi posa una medaglia, vi chiude sopra le mie dita e avvolge il mio pugno entro le sue mani. Stringe la presa e mi fissa negli occhi con il suo sguardo insieme fiero e dolcissimo, mentre i guardiani spazientiti mi trascinano via.

Nel corridoio, alla luce delle torce osservo meglio la medaglia. Non vale nulla. E' una moneta antica, fuori corso, ed il suo metallo non è pregiato. Vi sono incisi un uomo e una donna congiunti in amplesso. Effigie curiosa per una moneta da utilizzarsi nella vita quotidiana, non riesco proprio ad immaginare in che epoca i greci abbiano potuto coniarla. Chissà cosa ha voluto dire Zagreo disegnando il sole e la luna? Questa medaglia potrebbe avere un valore di portafortuna o forse, ecco, potrebbe riferirsi alla medaglia magica del sole e della luna, quella che Medea appese al collo del principe magnesio, un istante prima di fare l'amore con lui sopra il Vello d'Oro. Chi lo sa?

Girato l'angolo del nostro corridoio vengo sistemato nella nuova cella, poco distante dalla precedente. Appena entrato mi scervello per indovinare una qualche relazione tra l'ultimo muto messaggio di Zagreo e la leggenda del Vello d'Oro. Ripercorro il racconto così come egli me l'ha esposto il primo giorno di prigione:

...Finalmente le sponde settentrionali del mare di Crono, l'Alto Adriatiaco. Entrati in una palude di canne, tosto gli Argonauti balzarono giù dalla nave e lasciarono le loro impronte sulla spessa melma nerastra in cui marcivano le piante. Essi percepivano costantemente un nauseabondo odore di putrefazione finché si presentò ai loro occhi uno spettacolo terrificante: il cimitero dei Colchi, una serie sterminata di cadaveri appesi alle cime dei salici e offerti in pasto ai corvi e ai nibbi. Era costume dei Colchi esibire in tal guisa i loro defunti, ma solo quelli di sesso maschile poiché le donne venivano seppellite con tutti gli onori.

Gli Argonauti si introdussero in profondità nella pianura avvolti in una nebbia fittissima, una barriera provvidenziale che li nascose alla vista dei Colchi ed in cui nemmeno Linceo riusciva a vedere oltre un palmo. Sulla soglia del palazzo regale, arroccato nella cima più alta dei Colli Euganei, Diomede incontrò degli esuli greci e confidò loro i segreti motivi dello sbarco. Gli esuli gli fecero ben presente i rischi dell'impresa: Eete è un re crudele, violento e terribile. Ma c'è un ostacolo ancor più duro, prodigio orrendo a vedersi, un drago immortale che veglia perpetuamente il Vello d'Oro e né giorno né notte il dolce sonno vince i suoi occhi. Quel drago è nato dal sangue di Tifone, il mostro dell'abisso che si ribellò al trono di Zeus. Quando si mette a soffiare nella notte, scuotendo le enormi spire rivestite di squame e allungando il lunghissimo collo, emette un sibilo agghiacciante che risuona lontano nella sconfinata foresta, le donne allora si svegliano dallo spavento e abbracciano piene d'angoscia i bimbi che piangono.

Udito il racconto degli esuli, Diomede impallidì dalla paura e si chiuse in un cupo mutismo, ma gli dei propizi mandarono un segno... ed una colomba sfuggita miracolosamente alla violenza di uno sparviero, cadde tremante nel suo grembo. Fattosi coraggio, il principe magnesio si presentò raggiante al cospetto di Eete e dell'indocile sua figlia, Medea. Ella nel vederlo fu presa da muto stupore e il dardo di Eros la centrò in pieno petto penetrando in profondità nel suo cuore di fanciulla. Dolcemente l'amore le rapì gli occhi lucenti e la sua natura ribelle si aprì alla gioia, come la rugiada dell'aurora si scioglie sopra le rose. Medea era una maga consacrata alla Luna ed era ben conscia che senza di lei Diomede non avrebbe potuto superare le durissime prove imposte da suo padre, perciò col proposito di favorire l'amato gli diede un appuntamento segreto nel tempio di Ecate. Uscita da palazzo sotto un leggero velo di lino, la vergine inviolata strinse fra le braccia il bel corpo di Diomede, baciò avidamente il suo petto e si accordò con lui su come sfruttare al meglio le risorse dei suoi espedienti magici.

Il re Eete pretese che Diomede soggiogasse all'aratro due tori dagli zoccoli di bronzo, creature di Vulcano che sputavano fuoco dalle nari diffondendo un gran fumo fuligginoso all'intorno. Diomede riuscì nell'impresa: era protetto contro le fiammate da un unguento incombustibile che Medea aveva tratto dal Crocus Aureus e spalmato amorevolmente sul suo corpo. Come gli era stato ordinato, Diomede arò un campo con i tori aggiogati e seminò nei solchi i denti di un drago, quello ucciso a Tebe da Cadmo. Dai denti nacquero immediatamente dei guerrieri e tutto il campo fu irto di solidi scudi, di lance e di elmi brillanti. Egli ricordò il suggerimento di Medea e da lontano lanciò nel mucchio una enorme pietra rotonda sicché, non sapendo chi li avesse colpiti, i guerrieri si accusarono a vicenda e si massacrarono fra loro.

Io ricordo che proprio a questo punto del racconto, Zagreo si era messo a declamare con vigore, teneva elevatissima la tensione, la sospendeva con enfasi in un crescendo che annunciava il culmine risolutivo. Lo rivedo nella cella, arruffato e gesticolante:

«Medea si avvide che il padre Eete sapeva delle sue trame e pur in preda a laceranti conflitti, invitò Diomede a seguirlo nel bosco sacro per appropriarsi del Vello e fuggire insieme. Il principe magnesio volle attardarsi ad accendere un falò in onore agli dei, versò nel fiume il miele di una coppa d'oro e quindi si lasciò guidare docilmente da Medea. Entrati nel recinto del terribile Ares, l'indomito dio della guerra, si ritrovarono in un bosco di lauri, cornioli e grandi platani ove il sottobosco era tappezzato di mandragola e panacea. Al centro del bosco videro il tronco possente di una enorme quercia che toccava il cielo con la cima e spiegava tutt'intorno le sue fronde. Là, appeso ai rami pendeva l'aureo Vello, simile a una nuvola che si fa rossa e infiammata sotto i raggi del sole nascente.

Venne fuori il drago. Sibilò spaventosamente e fece scricchiolare gli alberi intorno scuotendoli fino alle radici, ma Medea, impassibile, fissò negli occhi del drago, spruzzò sulle sue palpebre le gocce di un filtro soporifero e lo fece crollare a terra, addormentato. Allora Diomede affondò entusiasta le dita nella soffice e morbida lana e staccò dal ramo il pesante Vello.

Raggiunto l'ormeggio della nave Argo, l'equipaggio fece cerchio intorno esultando. Diomede esibì ai compagni di viaggio la meta così faticosamente conquistata e non mancò di presentare loro Medea quale sua legittima sposa e sorella. Felici, gli Argonauti presero il largo. Sul castello di poppa, fu preparato il letto nuziale al dolce suono della cetra di Orfeo. La maga Medea, stesa nuda sopra la soffice lana dorata, fece al suo sposo un dono preziosissimo: una medaglia che portava il Sole inciso su una faccia e la Luna sull'altra. Poi, mossi dai loro impulsi d'amore, Medea e il principe magnesio consumarono il matrimonio sull'aureo Vello, come sopra una nuvola che si fa rossa e infiammata sotto i raggi del sole nascente».

Seguì la conclusione, in tono sommesso.

Eete, l'inflessibile figlio del Sole, non si rassegnò alla perdita del Vello e della figlia prediletta, e lanciò le navi all'inseguimento degli Argonauti. Sotto la guida di suo figlio Fetonte, la flotta colca tagliò il golfo per impedire agli Argonauti di tornare in patria lungo la via del Danubio. Ma allorché stavano per essere raggiunti, Medea e Diomede ricorsero ad un nuovo inganno e tesero un agguato a Fetonte. Medea dichiarò di essere stata rapita con la forza e fece sì che il fratello venisse da solo all'appuntamento nel tempio istriano di Artemide, situato ove la via Danubiana aveva accesso al Mare di Crono. Lì Fetonte, mentre contemplava la sgargiante tunica purpurea portatagli in dono da Medea, fu colpito a tradimento da Diomede e cadde in ginocchio nel vestibolo del tempio.

I comandanti della flotta colca, per timore della punizione, non osarono tornare a mani vuote dal terribile Eete, si appostarono lungo le coste dell'Istria e vi fondarono la città di Pola. Gli Argonauti cercarono allora ad occidente la via del ritorno ed entrarono nel delta del Po ove si imbatterono nelle figlie del Sole che trasformate nei tremuli pioppi della riva piangevano lacrime d'ambra nel ricordo di Fetonte.

Questo è il racconto di Zagreo, tori che sputano fiamme, alberi che piangono, è ben difficile cavarci un senso e capire cosa possa in realtà significare questa medaglia del Sole e della Luna!

Delle grida interrompono bruscamente le mie riflessioni, tendo l'orecchio... non riesco a distinguere le singole parole ma sembrano le proteste di un prigioniero. Dopo alcuni minuti sento uno scalpitio di passi frettolosi nel corridoio, balzo su dal tavolaccio, avvicino alla porta il secchio dei bisogni, monto in piedi sul suo coperchio, mi allungo sul muro sopra la porta ed ecco mi affaccio a curiosare dal buco rotondo largo una spanna che comunica col corridoio. E' Cengio, con l'aiuto di due secondini sta trascinando un qualcosa di pesante avvolto in un lenzuolo, non riesco a distinguere bene la scena, ho dei dubbi ma mi sembra che nel lenzuolo possa essere avvolto il cadavere di un uomo.

Normale amministrazione, penso. Torno sul tavolaccio e subito dopo piombo a colpo in un sonno profondo che copre abbondantemente tutte le ore di buio. Dopo due notti senza chiudere occhio, il sonno è la più grande fortuna che mi possa toccare in mezzo a tanta tribolazione. Sogno all'orizzonte dolci colline coperte di vigne e cammino con Zagreo su vaste e verdi estensioni di prati, come capita al prigioniero che sogna la libertà e mentre sogna è libero dalla sua prigione.


* * *
 
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view post Posted on 25/1/2009, 14:41

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Apro gli occhi al risveglio: scritte indecifrabili sul legno, date e nomi dimenticati da tutti, odori, lamenti, lunghi silenzi impregnano queste quattro squallide pareti, sono le storie di coloro che hanno concluso qui dentro la loro misera esistenza.

Sono solo.

Non riuscirò a sopportare a lungo la solitudine. Pur di parlare con qualcuno sarei disposto a tollerare la compagnia di chicchessia, fosse anche un carcerato con la lebbra.

Il tempo si trascina con una lentezza esasperante, regolarmente scandito dai rintocchi delle campane. Un'ansia incontenibile mi assale.

Quanto a lungo dovrò rimanere nei pozzi? Se a conclusione dell'interrogatorio mi avessero ritenuto innocente a quest'ora sarei già stato scarcerato per insufficienza di prove. Invece sono ancora dentro. E' un brutto segno. Forse hanno perquisito casa mia e hanno trovato la prova della mia colpevolezza.

Le idee più nere si addensavano nella mia mente.

Nessuno è mai riuscito a fuggire da qui. Aborrisco il solo pensiero di restare rinchiuso nei pozzi fino a vecchiaia inoltrata. A confronto è meglio morire subito, impenitente, arso vivo sul rogo. Concedere spettacolo tra le fiamme, contorcersi in convulsioni spasmodiche con i bulbi oculari, cotti, che sporgono bianchi sul corpo annerito, carbonizzato. Fino a ché si viene ridotti ad un mucchietto d'ossa incandescenti.

Dipende tutto da me. Potrei sempre dichiarare il pentimento e avere salva la vita, ma quale vita? Consumare un'infelice esistenza nella condanna al carcere perpetuo, languire lentamente, patire giorno per giorno l'implacabile erosione sulla mia persona, l'ineluttabile restringimento del lume della ragione che mi farà somigliare ad un animale solitario, chiuso nella sua gabbia. Malattie e cattivo cibo finirebbero per rendermi presto irriconoscibile, al punto di trasformare il mio corpo in uno scheletro ricoperto da una pelle sottile. Un cadavere vivente, un'ombra che cammina, che orrore.

Meglio andare immediatamente all'inferno, almeno lì non soffrirò di solitudine, ben venga la compagnia dei dannati anche se condita dai tormenti dei diavoli. Credo di non temere il rogo, non mi pentirò a nessun costo, io non mi piego, nemmeno davanti al mondo intero che congiura contro di me, sputerò in faccia agli Inquisitori e manderò loro e il pubblico e tutti quanti in culo a sa mare.

Aspetta un attimo e se invece mi faranno uscire, dopo una pena di pochi anni? Se invece mi faranno uscire, allora mi metterò a capo della rivolta dei greci. Vendicherò Zagreo! In barba alla Lega e a quel bacucco del Doge chiederò ad Ezzelino nuovi finanziamenti e con quei soldi armerò i ribelli di Candia. Mi vedo già nei panni di un eroe foriero di giustizia.

Ma, un momento, che mi passa per la mente? Ho superato il limite del buon senso. Sragiono. Devo rilassarmi. Anche senza la mia vendetta, prima o poi come tutti noi, anche questi miei aguzzini strapieni di alterigia verranno divorati dalla morte ed io fin d'ora li considero come fossero da gran tempo sepolti. Meglio cercare consolazione nella filosofia, magari potrei ripetere i limpidi ragionamenti di ieri... ma non ci riesco, non ci riesco. Se ispeziono le nude pareti della cella mi sembra solo che l'esistenza mi abbia confinato a vivere entro una tenue bolla di luce che si estende tutto intorno a me fin dove cade la mia vista, oltre c'è un ignoto che mi spaventa. Non riesco in nessun modo ad uscire dallo stretto orizzonte in cui il limite dei sensi mi ha relegato. Oltre, dietro ogni angolo, l'altrove assoluto... un mondo invisibile che mi spia insidioso come una lama sottile.

Il campanile suona le dieci. Mentre me ne sto a rodermi l'anima sdraiato sul tavolaccio sento pizzicare e prudere le gambe. Devo purtroppo fare la gradita conoscenza con gli inquilini della nuova cella, le pulci. Peggio di un carnefice questi maledetti insetti mi tormentano di continuo. Comincio a sentirmi confuso e agitato, forse ho la febbre. La fronte scotta. Una morsa pungente mi stringe la gola. Le mie fantasie si vanno facendo deliranti. Ecco ci mancava, torna ad assillarmi una vecchia conoscenza di quando avevo nove anni, l'apparizione che mi svegliava di soprassalto negli incubi notturni: ha piume di struzzo, corna di caprone e coda di scorpione, è un mostro dalle gambe deformi che vomita oscenità dalla bocca. Ha il volto infame di uno storpio che aveva abusato sessualmente di me, quando mio padre tardava a ritornare dal viaggio in Crimea. Ora questa bestia orrenda annuncia eventi apocalittici e col suo illimitato potere costringe i quattro elementi a scontrarsi vorticosamente fra di loro, la terra trema e i deserti di ghiaccio si frantumano, il gelo è aggredito dal calore dell'aria riarsa, l'umido evapora per effetto del secco, acqua e fuoco si mescolano, tutti gli elementi infuriati girano in cerchio trasformandosi l'uno nell'altro in un immane cataclisma: esplosioni di fango, vapori, fumi, magma incandescente! I segni zodiacali si affrontano in una cosmica rissa. Il sagittario trafigge la vergine con la freccia, il cancro afferra i pesci con le chele, lo scorpione punge al piede l’acquario, il toro incorna il leone, ariete e capricorno si fracassano il cranio l'uno contro l'altro, la bilancia cade in testa ai gemelli.

Ho i nervi a pezzi. Ammetto di avere varcato la soglia della pazzia e lo so, è tutta colpa della magia, molti stregoni sono impazziti davvero, e non solo per l'esposizione ai vapori del mercurio. La minima cosa mi urta. Dal secchio dei bisogni esce un odore pestifero che sa di letame di cavallo, vivere nella sporcizia mi ossessiona. Sono scocciatissimo con Cengio perché questa mattina non ha eseguito le pulizie quotidiane, fra l'altro è passato da molto mezzogiorno e quel martuffo non mi ha portato neanche un pezzo di pane secco.


* * *


La testa pelata, le occhiaie nere, l'orecchino ed il solito sorriso ebete, il faccione di Cengio spunta dalla porta spalancata:

«Fuori di qua, sei libero!» mi dice con gli occhi sgranati ed una espressione di viva contentezza come se dovesse essere lui a venire liberato.

Rimango paralizzato per un attimo, sono sopraffatto dalla sorpresa e attraversato da un fremito di sollievo. Ma scotendomi gli chiedo:

«E Zagreo?»

«Pensa per te e sbrighiamoci a uscire dal guscio, tartaruga!»

Resto inchiodato al pavimento manifestando la ferma intenzione di non uscire dalla cella finché non avessi ricevuto precise notizie dell'amico:

«Voglio sapere esattamente quale pena gli ha assegnato il Consiglio! Non ha forse scontato a sufficienza, che gli resta da patire di peggio della lingua mozzata? Deve uscire subito, adesso!» grido fuori di me dalla rabbia.

«Lascialo riposare in pace, il greco non può uscire di casa: ha il torcicollo». Cengio si stringe il collo con entrambe le mani, tira fuori la lingua penzoloni e finisce la frase con un rutto che diffonde tutto intorno il suo alito vinoso.

«Lo avete strozzato?» gli urlo in faccia.

Cengio non risponde, abbassa le palpebre sugli occhi e guarda in basso confuso balbettando dei suoni inarticolati.

Le sue allusioni, le grida che ho udito indistintamente durante la notte, il cadavere che ho visto trasportare lungo il corridoio. E' chiaro. perché non l'ho capito subito? Sul momento ho rifiutato l'idea della sua morte, ma Zagreo è stato strangolato nella cella con quel marchingegno infernale appeso al muro. Più ubriaco del solito, Cengio si è lasciato sfuggire un segreto di Stato. Questa esecuzione sommaria è stata escogitata per evitare ogni risonanza pubblica, agli occhi dei greci il rogo avrebbe trasformato Zagreo in un eroe e in un martire della ribellione. Invece, tutto in segreto. Hanno rinunciato ad ogni consuetudine di rito, non un rintocco dal campanile di S. Marco: il campanone del maleficio ha taciuto l'avvenuta esecuzione capitale. Una scena raccapricciante invade la mia immaginazione, Cengio di spalle che gira la ruota del marchingegno, Zagreo che cerca disperatamente di liberarsi mentre i due secondini gli spingono la schiena contro il muro e gli bloccano il collo entro il ferro di cavallo. Le dita mi si tendono, devo lottare contro l'impulso di affondare le mani sul collo di Cengio e strangolarlo sul posto per vendetta. Desisto, salgo dietro di lui i gradini in salita, rampa dopo rampa fino alla sala del Tribunale. Il Giudice mi aspetta per promulgare la sentenza. Entro. Oltre all'Ordinario sono presenti Vicario e Inquisitore, come pure il Notaio che deve autenticare gli atti. Il Doge invece è assente.

Prende la parola il frate Inquisitore:

«Il qui presente Petrangesio, mosaicista della Basilica d'Oro, veneziano dell’età sua d'anni 28, ha confessato di aver tenuto conversazione con un eretico, indi di averlo visitato e onorato con doni. Sebbene egli neghi ogni intenzione malevola ed affermi in buona fede di non averlo saputo eretico, ciò non toglie da lui il sospetto, per quanto leggero».

Poi rivolto a me:

«E' necessario che tu abiuri formalmente l'apostasia pagana a titolo di cautela per l'avvenire».

Non ho scelta, stendo le mani sul Vangelo:

«Io Petrangesio, inginocchiato avanti di voi, toccando i sacrosanti Evangeli, giuro che ho sempre creduto e sempre crederò in tutto ciò che insegna la Santa, Cattolica e Apostolica Romana Chiesa. Volendo togliere dalla mente dei Cattolici questo leggero sospetto sorto contro di me abiuro, maledico e detesto l'apostasia pagana e qualunque altra eresia. Giuro per l'avvenire che non avrò conversazione con i perfidi eretici e se ne conscerò alcuno come tale lo denuncerò all'Inquisitore».

Magrissimo e cereo, il Vicario si alza e mi punta l'indice ossuto:

«Ricordati bene che se dopo aver abiurato cadrai in eresia, confermando così la fondatezza dei nostri sospetti, dovrai venire punito dal braccio secolare in quanto recidivo. Sai come?»

Nego con il capo mostrando il palmo delle mani.

Il tribunale rintrona della minaccia del Vicario:

«Abbruciato prima dal fuoco temporale e poi da quello sempiterno, castigo degli scellerati nemici di Dio e della sua Fede».

Inghiotto un fiotto di saliva.

Egli continua:

«Intanto affinché questo tuo errore non resti del tutto impunito e tu possa essere di esempio agli altri ti condanniamo ad inginocchiarti ogni domenica, a testa scoperta, davanti il portale della Basilica di S. Marco. Per tutta la novena di Natale dovrai attendere l'uscita dei fedeli dalla Messa maggiore, tenendo in mano una candela accesa. E per salutare penitenza ti imponiamo in aggiunta la recita quotidiana della corona della Beatissima sempre Vergine Maria».

Stordito e barcollante, mi lascio accompagnare da Cengio. Appena sono sul portone d'uscita l'avvilimento emerge in tutta la sua rabbia repressa. E' il momento di congedarmi dal mio carceriere: con una mossa veloce alle sue spalle gli tiro una sberla sonora e schioccante sulla zucca pelata, mi sgancio e attraverso il cortile del Palazzo Ducale. Cengio, bloccato sulla soglia, rimane a fissarmi con il solito sorriso ebete.

Il gelo stringe in una morsa Piazza S. Marco. La gente è chiusa in casa. I palazzi in sasso dei nobili si ergono simili ad una foresta pietrificata: le fitte colonne dei porticati diventano tronchi e gli intrecci, in rilievo sopra i balconi, rami che si dipartono verso l'alto mentre più in su, nelle merlature dei cornicioni, i triangoli traforati si alternano a piramidi acuminate ricordando punte di abeti. Mi viene incontro un mondo fiabesco di alberi vetrificati dal ghiaccio, contorti in vibrazioni musicali, avvitati su se stessi, congiunti ad altri in archi acuti e ombrose gallerie.

La mia città, baciata dal sereno che segna la fine di abbondanti piogge, è avvolta in una giornata incredibilmente splendida e azzurra. I colori gialli e rosa delle case, le cappe blu e verdi dei passanti risaltano sulla leggerissima lastra di ghiaccio che ricopre di grigio perla la piazza e mi danno la sensazione di non averli mai visti così accesi e vivaci, tinte che mi paiono oltremodo smaglianti a confronto della penombra e dell’oscurità cui ero abituato nei Pozzi. Sono libero ed è per me una giornata specialissima, anche se per gli altri, quei pochi che mi sfrecciano intorno indaffarati, è un sabato qualsiasi.
 
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Domenica 17 dicembre: la rivincita della quaresima. Inizia oggi la novena che vieta ogni forma di mascheramento e blocca temporaneamente un Carnevale già in pieno ritmo dal mese di novembre. Devo accantonare la mia voglia matta di festeggiamenti e purtroppo dedicarmi all'umiliante penitenza impostami dal Vicario.

Ora canonica della Messa di mezzogiorno, sono inginocchiato a capo scoperto davanti il portale centrale della Basilica, ho in mano una lunga candela accesa, tutto come prescritto. Odo mormorare le ultime preghiere oltre le porte chiuse, tra poco uscirà la folla. Mi sento tremendamente a disagio, obbligato a figurare nei panni dell'imbecille. Ho dedicato la mia vita alla Basilica, ho faticato duramente giorno e notte perché i mosaici venissero degnamente apprezzati dai fedeli ed ora eccomi qua, presto diventerò lo zimbello di tutti.

Ma cosa succede, perché c'è questo silenzio, hanno finito? Si spalanca con fragore il portone, un chierichetto tiene in alto una croce pesante, altri spandono incenso. Si leva il canto "Ite missa est".

Oh no, ci mancava la cerimonia della processione. In testa, il vescovo regge il pastorale ricoperto di gemme favolose e indossa, sopra la splendida tunica di seta violacea, un manto scarlatto ornato di frange e ricamato in oro; seguono appresso i prelati in pompa magna, poi con stola e dalmatica arcidiaconi diaconi e suddiaconi; in mezzo, sostenuto da quattro aste, avanza il baldacchino con il drappo che ricade ai lati in frange; in coda i monaci e le suore. Dietro a costoro si accalca la massa in corteo e poco ci manca che mi calpestino. Alcuni fedeli, nel riconoscermi lanciano occhiate miste di curiosità e riprovazione, un gruppetto di bambini mi prende di mira con sberleffi e boccacce, intanto passano a braccetto due mie amiche e fanno finta di non vedermi, ma dopo qualche passo trattengono a stento le risa tenendosi la bocca con le mani.

La processione completa lentamente il giro di Piazza S. Marco lungo la striscia selciata del Listone e ritorna sotto il portale della Basilica. A un passo da me il vescovo traccia nell'aria il segno della croce per sciogliere le fila. Sto sulle spine. Come se non bastasse molti si fermano lì vicino a chiacchierare in ossequio alla tipica abitudine domenicale, e manco a farlo apposta non vanno più via.

Da uno di quei crocchi assiepati all'intorno si stacca un uomo dalle spalle strette ed un po' curve, che mi supera di poco in altezza benché io sia in ginocchio. Sembra quasi uno gnomo con quel cappuccio a punta che gli scende dietro fino ai polpacci, la corta mantellina rossa aperta sulla tunica nera e le punte delle scarpe arricciate fino a meta gamba e quella barbetta grigia...

Ostrega! E' il libraio del mio sestriere, il commerciante di bibbie che mi ha venduto il manoscritto!

Mi copro la testa, tiro su il cappuccio azzurro e mattone della mia tunica bicolore, ma quello si avvicina e mi scappuccia. Tengo il capo più chino che posso, lo giro dall'altra parte, quasi cerco di nascondermi dietro il cero, ma il libraio si pianta a un palmo dalla mia faccia. Mi ha riconosciuto. Dalla sorpresa alza le sopracciglia e tira indietro la testa rientrando il mento nel collo, poi fa un sorriso di sufficienza con mezza guancia sollevata.

Ha un tono che mi suona beffardo:

«Petrangesio, la tua cambiale giace ancora nel cassetto della mia bottega. Ricordati che vale sempre come prova per la giustizia».

Si allontana senza aggiungere altro. In quella maledetta cambiale sta scritto il mio nome e la somma di cui gli sono debitore. Allude al fatto che ha in mano una prova contro di me, sono spacciato, il mostriciattolo vuole fare la spia; la sua testimonianza verrà pienamente accolta anche se il processo è già stato pubblicato, verrò considerato recidivo e spedito dritto al braccio secolare.

Ho davanti agli occhi lo spettro ossessivo del rogo. Un fumo denso e lattiginoso si sviluppa dalle fascine poste sotto i miei piedi, le fiamme cominciano a crepitare sommessamente poi in un batter d'occhio le lingue di fuoco si uniscono in una vampata esplosiva. I capelli scompaiono nel bagliore, la pelle si raggrinzisce e gli arti si ritorcono su se stessi in una danza macabra. Infine, cogliendo il diradarsi delle fiamme la folla trattiene il respiro incuriosita e rimangono i miseri resti di un corpo carbonizzato con i bulbi oculari, bianchi e cotti, protrusi a fissare i presenti. Si leva allora il grido del Vicario: «Abbruciato prima dal fuoco temporale e poi da quello sempiterno, castigo degli scellerati nemici di Dio e della sua Fede».

Giro la testa per vedere la direzione presa dal libraio. Mi alzo dalla posizione genuflessa e con un gesto di stizza scaravento il cero contro lo stipite del portale. Abbandono a terra i due frammenti spezzati e comincio a pedinare la mantellina scarlatta del libraio. Temo che vada dritto a denunciarmi. Invece si dirige al domicilio e dopo un lungo tragitto imbocca la sua calle stretta e deserta. E' entrato in casa. La domenica il negozio è chiuso, al piano superiore pare non ci sia nessuno, il libraio vive da solo, so che è vedovo e che i figli non vivono con lui. Lo spio attentamente dalle finestre, appoggiato al muro sorveglio le sue minime mosse. E' al pianterreno, da solo nel negozio. Mette in ordine dei libri. Mangia qualcosa nel retro bottega e poi si addormenta, lo sento russare distintamente.

Questo è il momento cruciale. Devo decidere ora: o scelgo di eliminare il manoscritto o scelgo di eliminare il libraio e di rubare la cambiale che resterebbe un movente fin troppo chiaro. Sono ancora in tempo per precipitarmi a casa di corsa e bruciare subito il manoscritto, toglierei così all'Inquisitore la possibilità di esaminarlo; però mi sembra un'azione indegna, il papiro è stato salvato da mani pietose durante l'incendio della Biblioteca di Alessandria e oggi finirebbe distrutto proprio per mano mia. Far fuori il libraio è un'azione ancora più indegna, però è troppo rischioso tentare altre vie con uno come lui... è un essere viscido, insipido e melenso, tutti lo considerano imperdonabilmente vile e indolente, è inutile cercare un'intesa parlandogli in modo aperto.

Che scelgo? Cosa conta di più per me in questo momento?

L'oro, conta l'oro! Un raptus maniacale si impadronisce della mia mente, non intendo rassegnarmi a perdere il papiro perché significherebbe rinunciare per sempre alla fabbricazione dell'oro. Ha prevalso la mia avidità: in tre giorni nei pozzi ho imparato a conoscere tutte le tare della mia anima, ma non vi sono rimasto abbastanza a lungo per fissarmi su dei proponimenti atti a guarirle.

Faccio qualche passo felpato verso l'ingresso della bottega e con la mano nascosta dal mantello afferro il pugnale che porto sempre appresso dacché sono uscito di prigione. La porta non è chiusa a chiave, la spingo lentamente, entro e vedo la testa del libraio appoggiata sul tavolo, la tempia posata sul dorso della mano. Il cassetto con la cambiale è dietro di lui, dovrò forzarne la serratura. Guidato da un impulso ormai irrefrenabile mi avvicino con la mano saldamente appoggiata sul manico del pugnale. Il cuore mi batte all'impazzata. Il pavimento è tutto ricoperto di giunchi palustri e devo prestare un'attenzione estrema per non fare rumore. Gli sono quasi di fianco, il pugnale è ancora nascosto sotto il mantello ma ho il braccio già contratto, ancora qualche piccolo passo e potrò tagliargli la gola agevolmente prima che abbia il tempo di fiatare. Fisso il pomo d'Adamo sporgente sotto la barbetta. Ha pochi e grigi capelli, il volto pallido e scavato, le orecchie un po' a sventola, la bocca socchiusa come un cadavere. Non russa più. Così immobile sembra proprio morto, tanto che mi soffermo un attimo a osservare il ritmo dei suoi atti respiratori, quasi per convincermi che sia ancora vivo.

Uno scatto e il libraio solleva la testa. Sobbalzo dal panico. Ha gli occhi sgranati dallo stupore e la sua bocca si spalanca per urlare, ma non ne esce alcun suono. Mi fissa paralizzato, non gli riesce di mettere a fuoco la situazione.

Balbetto:

«Oh, oh mi scusi. Mi... mi perdoni se l'ho svegliato».

«Vuoi farmi morire dallo spavento? Che cosa vuoi di domenica? E' chiuso».

Rispondo col tono di uno che si sente fin troppo sicuro di sé:

«Ecco. Per errore suppongo, voi signore mi avete venduto un libro che tratta di argomenti eretici, questo è il punto. Vendere libri del genere è un grave crimine. Dovreste saperlo. Io credo comunque nella vostra buona fede, se prima di venderlo vi foste preso la pena di leggerlo... scoprendo le sozzure che contiene senz'altro l'avreste bruciato».

«Come potevo leggerlo, io non conosco la lingua greca. Non sapevo affatto che contenesse eresie».

Non riesco a nascondere la mia sorpresa, se costui dice il vero come al solito mi sono ficcato da solo in un bel pasticcio:

«Ah, non lo sapevate? Comunque non preoccupatevi caro amico, continuate pure tranquillamente i vostri sonni, io non intendo affatto denunciarvi, non lo saprà mai nessuno che mi avete venduto un libro proibito, anzi facciamo finta che non sia mai esistito».

«Siete venuto per ricattarmi, solo perché questa mattina mi son preso licenza di ricordarvi il vostro debito? Non volete più pagare la cambiale?»

«No, no, non fraintendetemi. Sebbene mi sia sobbarcato il pio incarico di dare il papiro in pasto alle fiamme, pagherò comunque la vostra cambiale, statene certo. Voglio solo mettervi in guardia per l'avvenire, cercate di fare attenzione ai libri che sono all'indice, sono un veleno mortale per le anime dei cattolici».

«Ma dimmi, che ci facevi alla fine della messa in atto da penitente?» e mi scruta con insistenza negli occhi.

«Ah niente, ho fatto un voto alla Santissima Vergine».

Mentre mi allontano dalla bottega, imprecando fra me per l'equivoco, mi accorgo che il libraio si è affacciato alla finestra del piano superiore e con lo sguardo continua a seguirmi sul Campo della chiesa dei Frari. Sentendomi osservato mi dirigo compostamente all'ingresso della chiesa, quindi a un metro dalla soglia mi genufletto e faccio un ampio segno di croce con la riposta intenzione di convincerlo quanto io sia un devoto cristiano.


* * *


Entro. Crollo sul banco, la testa fra le mani.

Provo disgusto per me stesso. Al processo ho mentito per timore dell'Inquisizione, durante l'abiura ho spergiurato davanti a Dio e ora di falsità in falsità sono caduto vittima delle mie stesse menzogne. Zagreo, quello sì è un uomo! Fiero e nobile fino all'ultimo, ha detto in faccia all'Inquisitore tutto ciò che pensava. Piuttosto che fare il nome dei suoi compagni Zagreo era pronto a dare la vita, io invece, preoccupato soltanto di salvare me stesso, ho tentato di toglierla ad un altro uomo che ho bollato con l'etichetta di ignavo, ma non era che un pretesto per eliminarlo senza rimorsi e solo adesso scopro la mia totale ignoranza sulla sua persona, che ne so di lui? perché volevo ucciderlo?

Detesto la mia malvagità. Il pugnale comincia a bruciarmi addosso, ho vergogna della sua riprovevole presenza. E' troppo doloroso doversi ravvedere, troppo profondo e incolmabile il mio sconforto: mi ficco il pugnale nel cuore e la faccio finita. Il suicidio. Non c'è altra via d'uscita. Attratto dal miraggio dell'oro mi sono invischiato con leggerezza in una insostenibile catena di guai, ah meschina avidità! E' solo colpa mia. Avanti, il pugnale è qui, ben affilato, un colpo secco al costato, è questione di un attimo.

Qualcosa mi trattiene dall'atto fatale. Forse la sacralità del luogo.

I Frari. In questo tempio dedicato alla morte, saturo da ogni parte della commemorazione d'illustri defunti, regna incontrastata un'atmosfera particolarissima che pian piano mi cattura col fascino discreto del suo funereo e mesto rigore. Mi alzo e cammino adagio. Abbassando gli occhi al pavimento mi accorgo di calpestare ignaro le pietre tombali dei cavalieri, scorro le pareti e vedo ovunque sepolcri scolpiti e in alto in bilico casse da morto appese. Porto avanti lo sguardo verso l'altare maggiore, la fredda pietra delle statue mi comunica un indescrivibile turbamento, misto di perplessità e rispetto: sculture di dogi, comandanti e principi, distesi sul coperchio del sarcofago con le mani giunte al petto, il volto impassibile. Sono tutti diligentemente presenti all'appello, fermi al loro posto, pietrificati per sempre. Uomini d'eccelsa grandezza e avventurieri dai pochi scrupoli, santi o peccatori che fossero, sono comunque ospiti dell'abbraccio della morte che li rende tutti eguali ed ugualmente muti. Nessun profumo di fiori, nessun canto, nessun addobbo, un silenzio nudo e severo che rende vano ogni banale e pretenzioso ornamento.

Furono uomini potenti, graziati dalla fortuna per ardore e doti eccellenti, in loro più che in altri fremeva il sangue e la carne, eppure son ridotti a un nonnulla insignificante, un mucchietto di ossa consunte dal tempo. Avevano fortemente amato, lottato sudato e pianto per i loro ideali, per quanto vi era di più sacro al mondo, la famiglia, la patria. Tutto invano. In questo tempio la morte ha scacciato lontano la vanità che li aveva illusi un tempo.

Che ne è dunque dell’immortalità loro, seppure il corpo li tradì al fatale appuntamento?

Lo spirito... lo spirito... Persistente alla dura prova della morte esso è nell'invisibile abbraccio che li tiene uniti l'uno all'altro, è ciò che si respira in quest'aria liberata da ogni scoria, è cemento, marmo, il porto di pace cui approda il loro viaggio mondano. Per incorporea natura alieno all'effimero, esso è ciò che permane, in eterno, una volta cessato il breve corso delle illusioni terrene. Lo spirito è ciò che è, non un fasullo paradiso ove prolungare in eterno l'egoistico appagamento dei sensi, ma l'Essere nella sua prepotenza, la divina sostanza che non avendo avuto inizio non potrà avere fine.

Ah tu immateriale, dove volasti anima di costoro? Psiche, dalle ali di farfalla!

Furono poeti e condottieri, l’animosità dell'indole loro mise in movimento ragioni e mete lontane che altri al loro posto non cessarono di perseguire e ancora oggi le orme di quei passi vengono cercate da chi non vuole perdersi nelle paludi dell'incertezza. L'anima grande dei forti, come una nave varata sullo specchio della laguna, ha increspato la calma superficie generando ampi cerchi lentamente propagati al largo, lontano lontano quelle stesse timide onde si son fatte lunghe e agitate, lontanissimo in Oltremare son diventate alte e ripide e ora si sollevano furiose a scatenare un tifone. Il vento soffia turbolento e strappa dalle creste spruzzi e schiuma tali da oscurare il cielo, seppur poco fa... impercettibile battito d'ali di farfalla, l'anima loro alitasse sola nel tempio.

Rinfrancato dall'offuscamento dei rimorsi, lascio i sepolcri con rinnovata speranza, ho preso il sano proponimento di bruciare il manoscritto che in pochi giorni ha sconvolto la mia vita: questa sera stessa lo darò sul serio in pasto alle fiamme e così sarà anche la fine di questa storia assurda.

Esco adesso dai Frari. Non saprei calcolare quanto a lungo vi sia rimasto assorto. Due ore, tre? Non so dire, avevo perso completamente la nozione del tempo. Ripasso davanti al negozio del libraio, porte e finestre sono sbarrate. Una foschia sempre più densa sta salendo dall'acqua, appena girato l'angolo tiro fuori il pugnale e lo getto frettolosamente nel canale.

Al lancio segue un rumoresecco di legno colpito e gli improperi del gondoliere. Lascio il rematore alla cantilena delle sue bestemmie e mi avvio deciso verso casa.

A mezza via, con l'immancabile martello alla cintola, mi viene incontro trafelato il mio fratello maggiore, il muratore:

«Sono venute le guardie dell'Inquisizione! Hanno messo a soqquadro la casa e ne sono uscite con un papiro. Era nascosto dentro il vaso di ceramica».

Mi dirigo a casa in tutta furia, prendo i miei risparmi, afferro il mantello, riempio una borsa da viaggio e fuggo, pur sapendo che la fuga pone indizio e presunzione di colpevolezza al fuggitivo.

Di nuovo incombe su di me l'incubo del rogo, di nuovo il Vicario, magrissimo e cereo, ossessivo, con i capelli neri unti e lisci e quel dito puntato su di me:

«Abbruciato prima dal fuoco temporale e poi da quello sempiterno, castigo degli scellerati nemici di Dio e della sua Fede».

In riva degli Schiavoni prendo al volo la prima gondola che trovo e ordino al gondoliere di portarmi al canale di Cannaregio, in direzione dell'approdo di Mestre. L'acqua della laguna sta fumigando, la nebbia invernale fluttua e si accumula, l’umidità mi entra nelle ossa e mi gela il respiro. In piedi sulla gondola, avvolto e imbacuccato nel lungo mantello, potrei essere facilmente scambiato per uno spettro malinconico.

La gondola nera fende la nebbia con la sua prua dentata dipinta di bianco, avanza senza far rumore coi remi fasciati dai vapori, sorpassa ad una ad una le ombre dei passanti sulla riva. Diretta all'imbocco del Canal Grande, costeggia piazza San Marco per l'ultima volta. Dal fitto della nebbia esce il Palazzo Ducale, ha le colonne sospese nel vuoto per illusione, e mentre ci allontaniamo adagio, la nebbia ingoia i merli traforati del cornicione, l'immagine della facciata si fa sempre più tenue, opalina, rarefatta, fino a scomparire nel nulla.

Fu allora che un tumulto di sentimenti invase con prepotenza il mio petto, giudicavo fortunato l'ultimo degli straccioni che poteva vivere in libertà nella sua patria, più fortunato di me, forzato ad un esilio non meritato in terra straniera. Parte della mia anima era rimasta a Venezia e non avrei trovato pace finché non l'avessi ricongiunta a me.
 
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view post Posted on 25/1/2009, 19:49

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andare?

Milano, Brescia, Alessandria... no, le città della Lega Lombarda sono lontanissime.

Riflettendo, pian piano mi porto alle spalle della porta settentrionale, l'ultima delle quattro porte che si aprono sui quattro quartieri in cui é diviso il contado: quartiere di Mezzo, Duomo, Oltre Cargnano e Riva. Sta calando la notte, le guardie cominciano ad alzare il ponte levatoio e mettono le catene alle porte, le mura si stanno armando di numerose sentinelle e ad intervalli le feritoie si illuminano del bagliore delle torce.

Per sottrarmi alla vista dell'Inquisizione devo rendermi invisibile almeno quanto il pianeta mercurio nel cielo notturno, cosa che posso realizzare solo al prezzo di un allontanamento dal mondo, cercando rifugio nei luoghi più impervi e irraggiungibili. Perciò saluto Treviso, la mia città di belle donne, e mi dirigo a nord verso il territorio dei da Camino.

Attraverso le dolci colline del trevigiano, dopo tanta terra incolta e selvaggia, ecco il popoloso abitato di Conegliano raccolto all'ombra di un castello che domina la campagna dal colle più alto. Fresche sorgenti alimentano numerosi bacini per l'allevamento dei pesci. Frutteti, verdi praterie e terre arate circondano il castello dei ricchi proprietari terrieri.

Basse nubi grigie si addensano appena sopra il maniero. I vessilli del feudatario sventolano sui torrioni e sulla vetta appuntita della rocca, costruzione massiccia e squadrata alta tre piani e situata entro le solide mura del castello. Al piano superiore della rocca vive la famiglia del podestà imperiale e alcune damigelle si affacciano curiose alle strette finestre.

Una processione della Confraternita dei Battuti esce dal ponte levatoio e scende serpeggiando lungo le pendici del colle. I membri sfilano indossando un cappuccio bianco dotato di due sole aperture per gli occhi, si auto flagellano a scopo di penitenza oppure portano sulle carni il cilicio, cintura ruvidissima e nodosa che infligge penosi tormenti ad ogni movimento del corpo. Si battono il petto, recitano giaculatorie e implorano perdono con alti lamenti. Nella pia confraternita non figura nessuno dei nobili castellani, occupati semmai a gozzovigliare con gustosi piatti di selvaggina e con abbondanti libagioni di vino caldo alle spezie, ironia della sorte gli aderenti sono tutti reclutati tra i rappresentanti della vessatissima stirpe dei servi della gleba.

Costoro, i villani, sono la categoria tradizionalmente oppressa e sfruttata dal feudalesimo. I privilegi del feudatario sono garantiti dai trattati di diritto e dalle usanze feudali avallate dalla stesura di documenti in cui i villani sono equiparati più o meno a buoi da lavoro. Pertanto il servo della gleba è perennemente sovraccarico di compiti che vanno dal dissodamento e aratura dei terreni, alla manovalanza per tutte le esigenze dei signori, come raccogliere la frutta, riparare gli edifici, tagliare la legna e conciare le pelli con la scorza delle querce. La fatica è tanta. Dalla cima del colle l'ombra detestata del maniero sorveglia senza tregua il villano. Benché sogni il ritorno ad un’età dell'oro priva di servi e di padroni, egli non osa tuttavia ribellarsi al Signore, voci insistenti di feroci repressioni gli tolgono ogni velleità.

La terra affidata ai villani è avara e talvolta la fame fa sentire i suoi morsi, quando poi il capriccio del tempo ci si mette di mezzo rovinando i raccolti, è l'apocalisse. L'inverno del 1234 ad esempio fu freddissimo: una spessa coltre di neve si estendeva su tutta la campagna, morì la selvaggina, le vigne si seccarono e gli alberi da frutto si fissurarono lungo il tronco.

Anche se era tempo di Quaresima, i prelati si concessero in via eccezionale di mangiare la carne rimasta. Gli speculatori si arricchirono mandando alle stelle i prezzi degli alimenti, la farina diventò preziosa come l'oro e i più poveri diventarono ancora più poveri. Tutto ciò in ossequio alla sentenza dell'evangelista Matteo, che dice: «A coloro che hanno sarà dato e a coloro che non hanno sarà tolto anche ciò che hanno».

L'anno successivo si ripeté lo stesso freddo. Per disperazione si mangiavano bacche e cibi avariati, si metteva l'argilla nella zuppa o addirittura si staccavano i condannati dalla forca per divorarli. Il ciclo si chiuse ovviamente con una serie di epidemie, che riducendo il numero delle bocche da sfamare ristabilirono l'equilibrio.

Quando invece il raccolto è buono, ecco che il contadino può andare fiero dell'unica autentica ricchezza di cui è proprietario: il maiale. Ingrassato in autunno e amorevolmente rimpinzato di ghiande poco prima di ammazzarlo, esso fornisce il vitale sostentamento per buona parte dell'inverno.

In tutte le stagioni i villani vengono flagellati senza pietà dalle imposte che possono esaudire sia in denaro sia in natura, sotto forma di un bue o di un certo numero di pecore. L'economia del sistema feudale si basa infatti sull'appropriazione da parte del Signore di ogni soprappiù messo da parte dalla gran massa dei contadini e così i tributi riducono il popolo ad una condizione di mera sussistenza atta a soddisfare nulla di più che i bisogni vitali. A chi non è in grado di rimettere i censi non resta altro che la prigione e molti sventurati villani finiscono per indebitarsi fino al collo con gli usurai ebrei.

Come la classe nobiliare pretende denaro in cambio della difesa militare, altrettanto gli ecclesiastici si sentono in dovere di vessare i villani con le odiosissime decime in cambio della difesa delle loro anime dalle fiamme dell'inferno.

In fin dei conti anche l'auto flagellazione dei Battuti è un'ammenda per poter riconciliarsi con Dio: un pagamento che ripara le colpe commesse con i peccati.


* * *


L'immenso bosco del Cansiglio nel vasto feudo dei da Camino. Oltre Conegliano un mare sconfinato di abeti alti e verdi si perde lontano all'orizzonte, alberi e alberi si succedono senza fine. Estensione enorme e selvaggia, la foresta vergine in cui orsi e lupi affamati fanno da incontrastati padroni incute al viaggiatore sentimenti contrastanti e un reverente timore si mescola sovente alle mistiche sensazioni evocate dalla contemplazione del paesaggio. Entro l'oscuro manto della selva v'è la rassicurante presenza di santi eremiti vestiti di pelli e dediti alla pia ricerca della solitudine, ma bisogna purtroppo annoverare anche un gran numero di bracconieri e di pericolosi briganti coi quali ovviamente è preferibile non avventurarsi.

La pioggia ricomincia a martellare. Il feltro verde del mio mantello è completamente inzuppato d'acqua tranne il bavero di ermellimo che tengo sollevato a riscaldare il collo. Il viaggio è veramente massacrante. Duramente provato dalla fatica mi trascino con un bastone a forma di tau sotto braccio e con gli stivali da cittadino già mezzi scuciti. Davanti a me un carro in transito verso nord è rimasto impantanato nel fango della pista. Il conducente intercala tremende imprecazioni alle frustate per i suoi pur robusti buoi. Stendo dei rami sotto la ruota e lo aiuto a disincagliarsi. In cambio ottengo dal carrettiere un provvidenziale passaggio. Divido con lui il pane che ho messo da parte ed un vaso di miele vendutomi da un boscaiolo.

A Ponte nelle Alpi dormo in un fienile. Al mattino presto finalmente la pioggia è cessata e proseguo con la zattera che traghetta passeggeri lungo il Piave fino a Codissago. Con mia grande meraviglia la zattera è affollatissima, a bordo ci sono contadini che emigrano, mendicanti vestiti di stracci, pellegrini, frati bigi e miseri cavalieri erranti, c' è un malato che come San Giobbe si gratta le piaghe col coltello e accanto uno storpio che esibisce la sua deformità, segno esteriore del peccato e della maledizione di Dio.

Che se ne stiano alla larga. Costoro mi ricordano gli squallidi messaggeri di un mondo sull'orlo della rovina. Non ci tengo affatto ad arruolarmi nelle loro file per dividere in modo equo la fame. Un mosaicista come me anche in capo al mondo può guadagnarsi una paga onorevole e comunque sia ho ancora un piccolo gruzzolo, ho speso qualcosa per la zattera e per i pedaggi dei ponti ma la consistenza della mia borsa non dev'essere calata di molto.

Vorrei tastare di nascosto il sacchetto dei denari ma non posso farlo, ho addosso i loro sguardi. Mi stanno mangiando con gli occhi, sotto il mantello aperto osservano i colori sgargianti rossi e azzurri della mia veste da cittadino, si soffermano con invidia sui miei stivali a punta mentre loro portano zoccoli di legno e hanno i piedi fasciati di pezze puzzolenti. Sono imbarazzato, per nascondere il mio disagio mi volto dalla parte opposta e faccio finta di guardare intorno alla zattera. La visibilità è scarsa a causa dei fumi di nebbia che salgono dall'acqua, la zattera si muove a rilento contro il fiume in piena, le rive sono disabitate e la foresta fa loro cornice per ogni dove.

In lontananza comincio a distinguere il molo del nostro approdo. Stringo gli occhi per scrutare meglio, poi li spalanco con tanto di pupille dilatate, impallidisco, mi si rizzano i capelli, scosto le braccia e apro le mani a dita divaricate: ad attenderci sul molo ci sono due domenicani in compagnia dei gendarmi!

La zattera avanza, non ho scampo, i miei piedi sono incollati alle tavole, non provo nemmeno a tuffarmi in acqua, sulle rive sbucano altri gendarmi da dietro le fronde. La zattera scivola inesorabilmente verso il molo. Attracca. Subito due gendarmi si gettano ad acciuffare una vecchia cenciosa che si distingue solo per essere tutta vestita di nero!

Scampato pericolo. Segue il sesto giorno di viaggio. Imbocco la strada del Canal e sbuco nella val di Zoldo. E' una vallata ridente e prospera che attira l'immigrazione, la sua fortuna sta nei giacimenti di rame e di piombo, ma soprattutto nelle ricche miniere di ferro: le officine vendono i chiodi che viaggeranno per mezzo Mediterraneo affissi agli scafi della Serenissima e i fabbri zoldani forgiano le armi che andranno a Milano, a Brescia, a combattere in mano ai soldati della Lega Lombarda.

Ho deciso. Mi fermo in mezzo a questi industriosi montanari, gente riservata ma ospitale, è il posto ideale per trovare subito lucrose offerte di lavoro e far valere la mia maestria di artigiano del mosaico. Modestamente nel mio mestiere ci so fare, tanto più che qui non esiste davvero concorrenza per uno uscito dalla Corporazione musiva di Venezia.

Corro dunque alla chiesa di Zoldo e appena varcato il portone getto lo sguardo a terra, ma rimango deluso: il pavimento a scacchi bianchi e neri è in ottimo stato e non richiede alcun intervento di manutenzione. Scruto ogni angolo dell'edificio ma la chiesa è piccola, affrescata, non ci sono spazi per ricavare dei mosaici. Allora esco di gran carriera sulla piazza principale e vado a bussare all'unico palazzo di ricconi.

Il maggiordomo apre la porta in fessura:

«Cossa vutu? Vutu che?»

Accenno un affabile inchino:

«Buongiorno a voi, sono un esperto mosaicista di Venezia, a disposizione del Signore del palazzo per un bel pavimento di mosaico».

«No, non gli occorre» ribatte secco e ritira il portone per chiuderlo.
 
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La strega di Bosconero

Capitolo II



Pioggia torrenziale. Allontanatomi alla svelta da Mestre, mi avvicino ai confini della Marca Trevigiana varcando a piedi le campagne semi allagate. Con l'animo sospeso avanzo avvolto nel verde pastello del mio mantello. Evito un ponte sorvegliato e passo a guado un corso d'acqua. Senza imbattermi in posti di blocco posso inoltrarmi indisturbato fino alla roccaforte di Casier sul Sile. Mi par quasi impossibile che vada tutto così liscio, ho addosso una tensione continua, mi mette in agitazione la sola idea di incrociare lungo la via le cappe e i cappucci neri sopra la tonaca bianca dei domenicani.

La strada maestra. Da dietro gli orti e i vigneti mi appare in lontananza una cinta muraria circondata da un fossato e difesa da guardie e ponte levatoio: Treviso! A quella vista seducente nasce in me la tentazione di sostare in quella città rinomata per valore e cortesia, città di belle donne, celebre per le feste e i tornei, centro galante di danze e conviti, luogo di ritrovo per i giovani figli dei vassalli e per i numerosi trovatori che dalla Provenza vi accorrono.

La vita raffinata delle famiglie castellane è costellata di festeggiamenti che spesso culminano nel castello d'amore, un castelletto di legno tutto ricoperto di stoffe e difeso dalle donzelle contro l'assalto dei giovani. Le armi incruente dei contendenti sono rose e garofani e frutti ricercati come arance e datteri. Lusso e lussuria si esaltano a vicenda e si consumano insieme quando a sera, proclamata la tregua fra i contendenti e terminate le barbose sfilate delle scuole artigiane, ognuno torna nella sua stanza e le costose vesti di seta delle donzelle calano davanti le insistenze dei nobili rampolli.

Il suo clima godereccio mi attira, volentieri mi stabilirei in questa città opulenta; ho sentito ben nominare le sue case eleganti adagiate all'intreccio dei numerosi corsi d'acqua, come pure i graziosissimi affreschi della chiesetta di S. Francesco o il Palazzo dei Trecento, con le grandi finestre a trifora ed il tetto che sale merlato.

Treviso è retta da Alberico da Romano, fratello di Ezzelino e tuttavia ostile a lui ed alla sua politica ghibellina. Ostile anche ai Veneziani, che inneggiando alla Lega Lombarda fomentano i numerosi patrizi divisi dalle discordie cittadine e invisi ad Alberico. Venezia, pur di eliminarlo è disposta all'uso di qualsiasi mezzo per cui, e qui sta il mio inghippo, la città è piena zeppa di spie della Serenissima, altrettanto pronte a somministrarmi i loro mortali veleni in ossequio alla ragion di Stato.

Ma mi azzardo ad oltrepassare lo stesso la frontiera delle mura cittadine, supero il ponte levatoio sul Sile e passo attraverso la porta meridionale. Sono in Treviso. Giro a sinistra, ma dopo pochi passi all'interno vado a sbattere contro la facciata di un convento gremito di frati domenicani, imponente per l'altezza inusuale e per il taglio netto dei volumi: faccio velocemente marcia indietro e a malincuore ripercorro in senso inverso la porta meridionale. Affrettando il passo costeggio all'esterno i bastioni di terra, scivolo sotto le torri rotonde che svettavano al di sopra del fossato e mentre cammino sconsolato, penso alle alternative.

Nella Marca Trevigiana Verona Padova e Vicenza sono nelle mani di Ezzelino, tutte città da evitare poiché una mia eventuale presenza fornirebbe prova di legami con i cospiratori greci;

a Villa di Corva c'è il feudo di Gueccello, parente e fedelissimo di Ezzelino;

a Ceneda niente meno che il Vescovo;

in Cadore i da Camino, escludendo Feltre e Belluno da poco preda dell'onnipresente Ezzelino.

Fuori della Marca Trevigiana ci sono ad est la Patria del Friuli e a sud, ma troppo distante, il dominio degli Estensi.

Dove altro posso andare?

Milano, Brescia, Alessandria... no, le città della Lega Lombarda sono lontanissime.

Riflettendo, pian piano mi porto alle spalle della porta settentrionale, l'ultima delle quattro porte che si aprono sui quattro quartieri in cui é diviso il contado: quartiere di Mezzo, Duomo, Oltre Cargnano e Riva. Sta calando la notte, le guardie cominciano ad alzare il ponte levatoio e mettono le catene alle porte, le mura si stanno armando di numerose sentinelle e ad intervalli le feritoie si illuminano del bagliore delle torce.

Per sottrarmi alla vista dell'Inquisizione devo rendermi invisibile almeno quanto il pianeta mercurio nel cielo notturno, cosa che posso realizzare solo al prezzo di un allontanamento dal mondo, cercando rifugio nei luoghi più impervi e irraggiungibili. Perciò saluto Treviso, la mia città di belle donne, e mi dirigo a nord verso il territorio dei da Camino.

Attraverso le dolci colline del trevigiano, dopo tanta terra incolta e selvaggia, ecco il popoloso abitato di Conegliano raccolto all'ombra di un castello che domina la campagna dal colle più alto. Fresche sorgenti alimentano numerosi bacini per l'allevamento dei pesci. Frutteti, verdi praterie e terre arate circondano il castello dei ricchi proprietari terrieri.

Basse nubi grigie si addensano appena sopra il maniero. I vessilli del feudatario sventolano sui torrioni e sulla vetta appuntita della rocca, costruzione massiccia e squadrata alta tre piani e situata entro le solide mura del castello. Al piano superiore della rocca vive la famiglia del podestà imperiale e alcune damigelle si affacciano curiose alle strette finestre.

Una processione della Confraternita dei Battuti esce dal ponte levatoio e scende serpeggiando lungo le pendici del colle. I membri sfilano indossando un cappuccio bianco dotato di due sole aperture per gli occhi, si auto flagellano a scopo di penitenza oppure portano sulle carni il cilicio, cintura ruvidissima e nodosa che infligge penosi tormenti ad ogni movimento del corpo. Si battono il petto, recitano giaculatorie e implorano perdono con alti lamenti. Nella pia confraternita non figura nessuno dei nobili castellani, occupati semmai a gozzovigliare con gustosi piatti di selvaggina e con abbondanti libagioni di vino caldo alle spezie, ironia della sorte gli aderenti sono tutti reclutati tra i rappresentanti della vessatissima stirpe dei servi della gleba.

Costoro, i villani, sono la categoria tradizionalmente oppressa e sfruttata dal feudalesimo. I privilegi del feudatario sono garantiti dai trattati di diritto e dalle usanze feudali avallate dalla stesura di documenti in cui i villani sono equiparati più o meno a buoi da lavoro. Pertanto il servo della gleba è perennemente sovraccarico di compiti che vanno dal dissodamento e aratura dei terreni, alla manovalanza per tutte le esigenze dei signori, come raccogliere la frutta, riparare gli edifici, tagliare la legna e conciare le pelli con la scorza delle querce. La fatica è tanta. Dalla cima del colle l'ombra detestata del maniero sorveglia senza tregua il villano. Benché sogni il ritorno ad un’età dell'oro priva di servi e di padroni, egli non osa tuttavia ribellarsi al Signore, voci insistenti di feroci repressioni gli tolgono ogni velleità.

La terra affidata ai villani è avara e talvolta la fame fa sentire i suoi morsi, quando poi il capriccio del tempo ci si mette di mezzo rovinando i raccolti, è l'apocalisse. L'inverno del 1234 ad esempio fu freddissimo: una spessa coltre di neve si estendeva su tutta la campagna, morì la selvaggina, le vigne si seccarono e gli alberi da frutto si fissurarono lungo il tronco.

Anche se era tempo di Quaresima, i prelati si concessero in via eccezionale di mangiare la carne rimasta. Gli speculatori si arricchirono mandando alle stelle i prezzi degli alimenti, la farina diventò preziosa come l'oro e i più poveri diventarono ancora più poveri. Tutto ciò in ossequio alla sentenza dell'evangelista Matteo, che dice: «A coloro che hanno sarà dato e a coloro che non hanno sarà tolto anche ciò che hanno».

L'anno successivo si ripeté lo stesso freddo. Per disperazione si mangiavano bacche e cibi avariati, si metteva l'argilla nella zuppa o addirittura si staccavano i condannati dalla forca per divorarli. Il ciclo si chiuse ovviamente con una serie di epidemie, che riducendo il numero delle bocche da sfamare ristabilirono l'equilibrio.

Quando invece il raccolto è buono, ecco che il contadino può andare fiero dell'unica autentica ricchezza di cui è proprietario: il maiale. Ingrassato in autunno e amorevolmente rimpinzato di ghiande poco prima di ammazzarlo, esso fornisce il vitale sostentamento per buona parte dell'inverno.

In tutte le stagioni i villani vengono flagellati senza pietà dalle imposte che possono esaudire sia in denaro sia in natura, sotto forma di un bue o di un certo numero di pecore. L'economia del sistema feudale si basa infatti sull'appropriazione da parte del Signore di ogni soprappiù messo da parte dalla gran massa dei contadini e così i tributi riducono il popolo ad una condizione di mera sussistenza atta a soddisfare nulla di più che i bisogni vitali. A chi non è in grado di rimettere i censi non resta altro che la prigione e molti sventurati villani finiscono per indebitarsi fino al collo con gli usurai ebrei.

Come la classe nobiliare pretende denaro in cambio della difesa militare, altrettanto gli ecclesiastici si sentono in dovere di vessare i villani con le odiosissime decime in cambio della difesa delle loro anime dalle fiamme dell'inferno.

In fin dei conti anche l'auto flagellazione dei Battuti è un'ammenda per poter riconciliarsi con Dio: un pagamento che ripara le colpe commesse con i peccati.


* * *
 
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L'immenso bosco del Cansiglio nel vasto feudo dei da Camino. Oltre Conegliano un mare sconfinato di abeti alti e verdi si perde lontano all'orizzonte, alberi e alberi si succedono senza fine. Estensione enorme e selvaggia, la foresta vergine in cui orsi e lupi affamati fanno da incontrastati padroni incute al viaggiatore sentimenti contrastanti e un reverente timore si mescola sovente alle mistiche sensazioni evocate dalla contemplazione del paesaggio. Entro l'oscuro manto della selva v'è la rassicurante presenza di santi eremiti vestiti di pelli e dediti alla pia ricerca della solitudine, ma bisogna purtroppo annoverare anche un gran numero di bracconieri e di pericolosi briganti coi quali ovviamente è preferibile non avventurarsi.

La pioggia ricomincia a martellare. Il feltro verde del mio mantello è completamente inzuppato d'acqua tranne il bavero di ermellimo che tengo sollevato a riscaldare il collo. Il viaggio è veramente massacrante. Duramente provato dalla fatica mi trascino con un bastone a forma di tau sotto braccio e con gli stivali da cittadino già mezzi scuciti. Davanti a me un carro in transito verso nord è rimasto impantanato nel fango della pista. Il conducente intercala tremende imprecazioni alle frustate per i suoi pur robusti buoi. Stendo dei rami sotto la ruota e lo aiuto a disincagliarsi. In cambio ottengo dal carrettiere un provvidenziale passaggio. Divido con lui il pane che ho messo da parte ed un vaso di miele vendutomi da un boscaiolo.

A Ponte nelle Alpi dormo in un fienile. Al mattino presto finalmente la pioggia è cessata e proseguo con la zattera che traghetta passeggeri lungo il Piave fino a Codissago. Con mia grande meraviglia la zattera è affollatissima, a bordo ci sono contadini che emigrano, mendicanti vestiti di stracci, pellegrini, frati bigi e miseri cavalieri erranti, c' è un malato che come San Giobbe si gratta le piaghe col coltello e accanto uno storpio che esibisce la sua deformità, segno esteriore del peccato e della maledizione di Dio.

Che se ne stiano alla larga. Costoro mi ricordano gli squallidi messaggeri di un mondo sull'orlo della rovina. Non ci tengo affatto ad arruolarmi nelle loro file per dividere in modo equo la fame. Un mosaicista come me anche in capo al mondo può guadagnarsi una paga onorevole e comunque sia ho ancora un piccolo gruzzolo, ho speso qualcosa per la zattera e per i pedaggi dei ponti ma la consistenza della mia borsa non dev'essere calata di molto.

Vorrei tastare di nascosto il sacchetto dei denari ma non posso farlo, ho addosso i loro sguardi. Mi stanno mangiando con gli occhi, sotto il mantello aperto osservano i colori sgargianti rossi e azzurri della mia veste da cittadino, si soffermano con invidia sui miei stivali a punta mentre loro portano zoccoli di legno e hanno i piedi fasciati di pezze puzzolenti. Sono imbarazzato, per nascondere il mio disagio mi volto dalla parte opposta e faccio finta di guardare intorno alla zattera. La visibilità è scarsa a causa dei fumi di nebbia che salgono dall'acqua, la zattera si muove a rilento contro il fiume in piena, le rive sono disabitate e la foresta fa loro cornice per ogni dove.

In lontananza comincio a distinguere il molo del nostro approdo. Stringo gli occhi per scrutare meglio, poi li spalanco con tanto di pupille dilatate, impallidisco, mi si rizzano i capelli, scosto le braccia e apro le mani a dita divaricate: ad attenderci sul molo ci sono due domenicani in compagnia dei gendarmi!

La zattera avanza, non ho scampo, i miei piedi sono incollati alle tavole, non provo nemmeno a tuffarmi in acqua, sulle rive sbucano altri gendarmi da dietro le fronde. La zattera scivola inesorabilmente verso il molo. Attracca. Subito due gendarmi si gettano ad acciuffare una vecchia cenciosa che si distingue solo per essere tutta vestita di nero!

Scampato pericolo. Segue il sesto giorno di viaggio. Imbocco la strada del Canal e sbuco nella val di Zoldo. E' una vallata ridente e prospera che attira l'immigrazione, la sua fortuna sta nei giacimenti di rame e di piombo, ma soprattutto nelle ricche miniere di ferro: le officine vendono i chiodi che viaggeranno per mezzo Mediterraneo affissi agli scafi della Serenissima e i fabbri zoldani forgiano le armi che andranno a Milano, a Brescia, a combattere in mano ai soldati della Lega Lombarda.

Ho deciso. Mi fermo in mezzo a questi industriosi montanari, gente riservata ma ospitale, è il posto ideale per trovare subito lucrose offerte di lavoro e far valere la mia maestria di artigiano del mosaico. Modestamente nel mio mestiere ci so fare, tanto più che qui non esiste davvero concorrenza per uno uscito dalla Corporazione musiva di Venezia.

Corro dunque alla chiesa di Zoldo e appena varcato il portone getto lo sguardo a terra, ma rimango deluso: il pavimento a scacchi bianchi e neri è in ottimo stato e non richiede alcun intervento di manutenzione. Scruto ogni angolo dell'edificio ma la chiesa è piccola, affrescata, non ci sono spazi per ricavare dei mosaici. Allora esco di gran carriera sulla piazza principale e vado a bussare all'unico palazzo di ricconi.

Il maggiordomo apre la porta in fessura:

«Cossa vutu? Vutu che?»

Accenno un affabile inchino:

«Buongiorno a voi, sono un esperto mosaicista di Venezia, a disposizione del Signore del palazzo per un bel pavimento di mosaico».

«No, non gli occorre» ribatte secco e ritira il portone per chiuderlo.

«Ehi, un momento - insisto. - Fatemi parlare con il Signore in persona, è mio diritto», cerco di bloccare la porta tenendola per la maniglia ma il maggiordomo la serra con un gran tonfo.

«Ruspante!», gli grido più che mai offeso.

Mi giro e vedo sulla piazza i braccianti riuniti, manodopera a salario in attesa di un occasionale datore di lavoro. Non ho molta scelta: con loro o presto o tardi la fame. Raggiungo perciò il gruppetto dei manovali e a braccia conserte come gli altri, aspetto.

Ecco avanzare tronfio il mandante di un datore di lavoro, con mio disappunto vi riconosco l'antipatico maggiordomo che poco prima mi aveva sbattuto la porta in faccia. Ora indossa un ridicolo berretto a quadretti bianchi e verdi.

Gracchia:

«Ci occorre un bovaro per la malga. Lo chiedo per l'ultima volta!»

Nessuno fiata, i manovali si scambiano degli sguardi perplessi.

Approfitto del loro momento di incertezza:

«Eccomi! Io, io» alzo il braccio teso e faccio un passo in avanti.

I manovali ridacchiano rumorosamente alle mie spalle. Che umiliazione, un cittadino veneziano come il sottoscritto, mosaicista delle cupole d'oro, un artista del mio valore ridotto a fare il bovaro... dalle stelle alle stalle.

Vengo dunque assunto come guardiano presso una mandria composta da buoi dal pelo fulvo e da gagliardi vitelli di razza italica. La stalla, situata nell'altipiano di Mas di Sabbe, è al centro di un'ampia distesa di prati in pendio ed ha un leggiadro soffitto ricoperto da una moltitudine di pipistrelli appesi a grappoli. Il primo incarico del nuovo lavoro è particolarmente raffinato, trattasi di ripulire la stalla da cima a fondo. Il letame non veniva allontanato da anni, arriva fin quasi al ginocchio e diffondeva intorno un lezzo nauseabondo.

Conclusa in alcuni giorni la gran sfaticata, comincio pian piano ad apprezzare la mia occupazione di mandriano e devo dire che non mi capita affatto di soffrire la solitudine. Accudisco le bestie, ogni giorno le abbevero e le nutro col fieno profumato di selvatico e al termine delle faccende, mangio in santa pace la mia zuppa. Pensare che nessuno voleva venirci a lavorare perché corre voce che un tempo l'altipiano fosse il luogo di ritrovo delle streghe.

Paura delle streghe? Mai vista l'ombra di una strega a Mas di Sabbe. Anzi, è un luogo delizioso. L'incanto della natura intorno mi affascina. Passo le ore e i giorni nel candore delle colline innevate, assaporo la quiete di alture alpine abitate solo dalle pernici bianche, contemplo la vastità dei panorami e delle vallate sotto di me. L'atmosfera è quasi sempre limpida e tersa, la visibilità ottima, tanto che nei punti più remoti gli abeti sembrano vicinissimi e pare di poterli raggiungere con le dita e sradicare come ciuffetti d'erba. Al contrario, zone appena sotto danno un'illusione di lontananza: lunghe lingue di ghiaia simili a spiagge remote lambiscono un mare di pini mughi e, come isole nella corrente, gruppi di larici spuntano gialli nel verde di quella distesa agitata dal vento.

Gironzolo per i boschi. Cammino sul tappeto intessuto dalle foglie dei faggeti, mi soffermo a sfiorare con le dita la corteccia bianca delle betulle, bevo con le mani l'acqua fresca del torrente Maè e intanto il picchio muraiolo esce da una fenditura della roccia e prende rapido il volo sopra la mia testa.


* * *


I Monti Pallidi furono scolpiti dalla mano sapiente di un divino Artista. Spesso mi perdo estasiato a carezzare la vastità delle pareti rocciose che dominano la vallata di Zoldo e nel rievocare la penosa ristrettezza dei pozzi, un genuino senso di riconoscenza esce dalle profondità del mio spirito. Iddio ti ringrazio di essere vivo ad ammirare la suprema bellezza della tua opera! ...se solo Zagreo potesse essere qui con me, penso.

E nel vincolo di quell'amicizia nefasta, anche in mezzo al costrutto del Grande Architetto dell'Universo, finisco per cadere nella seduzione esercitata da un'opera che viene dal maligno: il granito grigio e rosa pallido di un monte dalla forma possente, un gigantesco trono fornito di schienale e poggioli a semicerchio, che i montanari del luogo chiamano il Caregon del Diavul.

Il massiccio si staglia isolato al di sopra dei profili ondulati delle alture e poggia sul piedistallo creato dalle falde dei detriti rocciosi. Quando osservo dalla malga gli sparvieri che sfrecciano alti nel cielo, il mio sguardo si posa inevitabilmente sulle sue cime maestose e così a poco a poco sorge in me la determinazione di violarle. Nessuno fra i montanari ha mai osato tanto, nati in mezzo alle rupi essi non hanno costume di scalarle, eppure io muoio dalla voglia di superare quella specie di varco teso sul baratro e innalzato con superbia verso il cielo. E' come se vi fossi attratto da una forza irresistibile, annidatasi in un legame indissolubile, forse il patto stesso che ancora mi pone in debito col diavolo.

Durante i primi mesi del 1251 l'inverno fu particolarmente mite e la neve scarsa per cui, proteggendomi dal freddo con una semplice pelle di daino, già a febbraio posso tentare la mia scalata. Poco prima dell'alba avanzo dalla forcella più prossima al monte, mi introduco nella vegetazione e scompaio dietro le fronde, mentre gli abeti richiudono alle spalle i loro rami profumati. Proseguo nella foresta in assenza di qualsiasi traccia di sentiero. Ho sete e non trovando alcun ruscello mi vedo costretto a bere dalle pozzanghere, chino con la bocca sulla superficie dell'acqua.

Uscito finalmente allo scoperto, mi tocca dannarmi su interminabili ghiaioni di grosse pietre aguzze. Intanto studio la struttura del monte. Ad ogni trenta quaranta passi la prospettiva ne cambia i contorni e l'imponenza di nuove spettacolari angolature è tale da sorprendermi ogni volta. Ecco, individuo il punto più agevole per l'attacco. Salgo in cima al ghiaione e mi ritrovo sotto la spalla orientale del massiccio, ai piedi della parete si riconosce facilmente la sua stratificazione orizzontale in bande alte qualche metro.

Un momento prima di afferrare con le mani la nuda pietra, mi concedo una pausa nel tenue tepore del primo mattino e mi guardo intorno indugiando ad assaporare il colore giallo dei prati, l'azzurro del cielo e i raggi solari che risplendono scintillanti sulle vette. Imprimo dentro di me queste immagini. Penso a quanto la vita sia incomparabilmente preziosa: il solo fatto di respirare quest'aria pura e di vedere il cielo sopra la mia testa basta a darmi una soddisfazione completa e sono contento di esistere, integro e sano nei miei ventotto anni. Che meraviglia amare la vita, con semplicità. Le mie sensazioni si dilatano, questi indimenticabili momenti mi sembrano una immensa ricchezza, un tempo infinito, come se contemporaneamente nello stesso istante dovessi vivere tante vite diverse.

Nel tastare con la punta delle dita la consistenza della roccia, friabile e pericolosamente scivolosa, vengo assorbito da un'ondata di ricordi e rapidamente ripercorro a ritroso la mia esistenza fino all'epoca della mia fanciullezza ...fino a Gengis Khan.

Quel marinaio sul molo raccontava che l'imperatore dei Mongoli, divenuto molto vecchio, doveva essere trasportato su un monte situato a lontanissima distanza (non era nelle facoltà di un bambino concepire l'idea della morte, l'eroe della mia infanzia non poteva morire). La scorta dovette attraversare il Gobi, un vastissimo deserto di ghiaia totalmente privo d'acqua salvo l'eccezione di qualche minuto lago salato. Quell'inverno, sugli altipiani del Gobi la temperatura era scesa precipitosamente sotto lo zero e la scorta fu decimata dagli stenti e dal freddo, i superstiti riuscirono tuttavia ad attraversare il deserto e finalmente raggiunsero la catena montuosa dell'Altai. All'interno di un altissimo monte considerato l'asse del mondo, essi deposero il grande Gengis Khan, l'Imperatore che vive e non vive, immerso in un eterno letargo, morto benché appaia vivo e vivo benché appaia morto.

Inizio ad arrampicare. Salgo sulla paretina gradinata usando mani e piedi, mi aggrappo tenacemente alle roccette chiare, ne percepisco la consistenza porosa. Non c'è più tempo per pensare, l'azione mi assorbe. Trenta metri da terra. Il minimo passo falso sarebbe anche l'ultimo, ogni attimo diventa prezioso, segna il confine incerto tra la vita e la morte. Sì, in effetti il pericolo semplifica di molto le circostanze: o si è vivi o si è morti. Così mi abbraccio con tutta la forza alla roccia e non per amore della roccia, ma per timore del vuoto. La paura, e in tutta sincerità d'altro non si tratta, paradossalmente accende in me emozioni euforizzanti, in fin dei conti forse sto salendo proprio per trovarmi faccia a faccia con lei, la paura nuda e cruda.

In breve raggiungo la cengia che orizzontalmente traversa l'intera parete orientale. Vi cammino in precario equilibrio salendo sempre più in alto lungo le cornici rocciose. Ad un tratto devo arrampicare di nuovo come un ragno, la mia attenzione è tutta concentrata sulla sensibilità delle dita appese agli appigli, gli stivali di feltro col massimo della prudenza cercano la roccia più solida. Ho la sensazione di essere al limite delle mie possibilità, la difficoltà è estrema, ma da questa posizione tornare indietro è escluso. Guardo giù nel precipizio. Un brivido mi attraversa da capo a piedi. Conta solo andare avanti, superare questo passaggio non è impossibile, dove c'è una volontà ci deve essere una via. Finalmente! Una sporgenza transitabile interrompe la ripidezza del muro. Prendo fiato e osservo con un po' di vertigine le pareti lisce sopra di me, l'acqua del disgelo vi disegna lunghe striature nere che scendono in verticale. Camminando in direzione sud seguo le rientranze a strapiombo di una gola e poi di un'altra.

A un paio d'ore dall'attacco, guardo la vetta del Trono del Demonio e comincio a percepirla entro la mia portata, mi sento un titano alle prese con un'azione sovrumana quando, al termine della terza gola... sorpresa inaudita, vedo un vecchietto seduto sul bordo del precipizio!

Mi saluta agitando le sue grosse mani:

«Sani! Sani!»

La lunga barba bianca gli conferisce un'aria patriarcale, ha gli zigomi sporgenti e un'espressione austera e venerabile. Chi è costui con una barba simile, non sarà mica il fantasma di Gengis Khan?

Ne ho soggezione, mi avvicino esterrefatto e ansimante:

«Come avete fatto a salire?»

«Per la stessa strada che avete fatto voi - risponde tranquillo -. Appena vengo stremato dalla fatica mi stendo con la schiena appoggiata al suolo, assorbo forza dalla roccia e mi rialzo più rinvigorito e più scattante di prima».

Guardandolo bene pare molto vecchio, in vita mia ho conosciuto ben poche persone che abbiano raggiunto la sua veneranda età. A colpo ridimensiono la portata della mia ascensione, altro che impresa titanica, se questo vetusto montanaro è arrivato quassù non deve trattarsi di una arrampicata poi tanto difficile. Il vecchio della montagna risveglia in me una immediata simpatia e mentre siedo al suo fianco a riposare, ho modo di farmi chiarire con tutta calma perché mai i suoi monti vengano chiamati Monti Pallidi.

Gerione, è questo il nome del vecchio, come rivolgendo la spiegazione a un nipotino mi racconta una favola soavissima.

... C'era una volta un re nelle Alpi Orientali. Egli regnava in pace ma suo figlio era l'unico infelice del regno, perché tormentato da un desiderio irrealizzabile: niente popò di meno che andare sulla luna. I dottori, preoccupati dal suo umore nero, ritenevano fosse afflitto da una strana forma di pazzia da loro denominata Melanconia. Il popolino, malignava invece che il principe fosse in potere delle streghe.

Una splendida notte di luna piena il principino perse del tutto la testa e andò errando per le montagne finché capitò ai piedi di una rupe, alta e dritta come una torre. Smanioso di vedere la luna più da vicino, cominciò ad arrampicarsi per le pareti verticali della rupe. Su e su e su, salì aggrappandosi alle rocce, finché venne avvolto dai densi vapori di una nube che ne rendeva invisibile la cima.

Miracolo, la nube si staccò dalla rupe e salì in alto nel cielo trasportando sulla luna il principino. Fuori di sé dalla gioia egli poté contemplare le impronte dei suoi piedi stampate sul suolo lunare. Superò poi un cancello d'argento e davanti ai suoi occhi apparve una sconfinata distesa di fiorellini bianchi, in tutto simili alle stelle alpine. Finalmente arrivò in vista di una città e quando ne varcò le mura si accorse che le case e le piazze e gli alberi erano bianchi, ogni cosa era bianca e lucente come candida neve.

Il principe si diresse trionfante al palazzo reale, al suo interno ammirò le pareti di alabastro dei saloni e giunse al cospetto di una splendida regina che aveva la pelle color del latte, gli occhi chiarissimi e i capelli platinati. Per giorni e giorni la regina ascoltò appassionata il principe che le narrava le meraviglie della terra e dei suoi abitanti. Egli parlava sciolto e brillante, aveva scordato ogni tristezza e in preda a un totale appagamento, avrebbe desiderato restare lì per sempre.

Però, la luce abbagliante che emanava da ogni cosa lo costringeva sovente a chiudere le palpebre dal fastidio e col passare dei giorni gli occhi cominciarono a dolergli dal bruciore. Temendo di diventare completamente cieco il principe supplicò la regina di sposarlo e di andare a vivere con lui sulla terra. Ella, per amore, acconsentì alla richiesta e i due novelli sposi entrarono nella nuvola miracolosa per scendere sulla terra.

Allorché approdarono sulle Alpi, il principe riacquistò subito la salute e si precipitò a cogliere un mazzo di rossi rododendri per mostrarle con orgoglio i colori del mondo terrestre. Al castello, la regina fu accolta festosamente da tutti i sudditi del regno. La figlia della Luna ammirava stupita la varietà dei paesaggi alpini, il verde dei laghi, il rosa dei tramonti e tutti quei dolci colori che per lei rappresentavano una assoluta novità.

Ma col tempo la regina cominciò a soffrire. La notte rimaneva sveglia alla finestra. Aveva nostalgia della bianchissima luce della luna, non sopportava più di vedersi imprigionata tra le rocce oscure e tetre delle Alpi. Cominciò a pensare che sarebbe morta di crepacuore se fosse rimasta ancora sulla terra. Il suo sposo non trovava soluzione al problema e ricadde in preda alla disperazione.

Per fortuna il popolo dei nani accorse in loro aiuto. Alla prima notte di luna piena i nani salirono in vetta ai monti e alzate le mani sopra la testa, si misero a fare degli strani movimenti con le dita come se stessero afferrando alcunché di invisibile.

La regina si affacciò languente alla finestra e chiese al re dei nani che cosa mai stessero facendo.

«Stiamo filando i raggi della luna», rispose re Laurino.

In vetta ai monti, comparvero dei grandi gomitoli luminosi che i nani srotolarono lungo le pareti fino alla base delle rocce. Abilmente, essi intrecciarono una meravigliosa rete luminosa che diffondeva il chiarore lunare da tutte le pareti delle dolomiti.

La regina si riprese all'istante e rivolta al principe esclamò entusiasta:

«Oh, ora sì, sono diventati più belli e più lucenti della luna i tuoi Monti Pallidi!»

I nani erano i discendenti di un popolo numerosissimo che da tempo immemorabile abitava una regione del lontano Oriente. Al culmine del loro splendore essi furono invasi da un popolo di feroci guerrieri. Costretti a fuggire, andarono in cerca di una nuova sede ove vivere in pace. Purtroppo ovunque arrivassero, i nani venivano scacciati e nessuno voleva averli entro i confini del proprio regno, sicché si erano rassegnati a vivere nascostamente, appartati fra i monti.

Tuttavia da quel giorno le peripezie dei nani erano finite perché il principe dell'antico popolo dei Reti, al colmo della gratitudine, permise loro di restare nel suo regno ove vissero per lunghi anni felici e contenti.
 
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34 replies since 10/11/2008, 15:16   5691 views
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