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Marco Porcio Catone
Marco Porcio Catone, detto il Censore, nacque a Tuscolo nel 234 a.C. da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Egli stesso coltivò ed amò la terra al punto che in un frammento pervenutoci, egli dice di essere uno “la cui giovinezza era stata spesa nel duro lavoro di zappare, vangare e seminare...”. Il giovane Marco trascorse la sua prima giovinezza in Sabina a coltivare il piccolo podere ereditato dal padre, ma ben presto, sollecitato da Lucio Valerio Flacco, si trasferì a Roma, dove fece una fortunata quanto rapida carriera pubblica. Iniziò la carriera militare che aveva appena 17 anni e a 20 anni, nel 214, fu tribuno militare in Sicilia. Ritornato dall’isola, nel 207, agli ordini del console Caio Claudio Nerone, partecipò alla battaglia del Metauro dove i romani sconfissero Asdrubale, il fratello di Annibale; la sua opera, nell’occasione, fu ritenuta di grande importanza; nel 204 fu questore del console Publio Cornelio Scipione; edile della plebe nel 199. Dopo aver ottenuto la pretura nel 198 (fu pretore in Sardegna), nel 195 raggiunse il consolato, avendo come collega proprio quel Lucio Valerio Flacco che lo aveva spinto alla vita pubblica. Come console gli toccò la Spagna citeriore; nel 194 fu proconsole nella stessa Spagna e nelle operazioni spagnole si meritò anche il trionfo. Publio Cornelio Scipione l’Africano, console per la seconda volta, avrebbe voluto allontanarlo da quella provincia, ma, nonostante fosse la persona più influente di Roma, non vi riuscì. Dopo quello smacco, detto per inciso, l’Africano, deluso, si ritirò dalla vita pubblica. Oltre che alla guerra punica, Catone partecipò anche alle guerre macedoniche. Nel 187 sostenne i tribuni della plebe nel processo contro gli Scipioni, dei quali Catone avversava soprattutto la politica filo-orientale. Completò brillantemente il cursus honorum raggiungendo la censura nel 184, avendo come collega ancora Lucio Valerio Flacco: la sua censura fu memorabile. Come censore, infatti, diventò famoso per le misure prese contro la decadenza dei costumi e radiò dal Senato, per indegnità, parecchi nobili, fra i quali Lucio Scipione.
Catone era severissimo con tutti, soprattutto con se stesso: era nemico di ogni lusso (e di conseguenza di tutti quei ricchissimi aristocratici che ormai nel lusso ci nuotavano) e nelle ricchezze vedeva la rovina dello stato e la corruzione della gente. Per questo attaccava quegli amministratori pubblici che si arricchivano con il malgoverno e poi vivevano nello sfarzo e nell’abbondanza. Contro di loro coniò la famosa frase "Fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures pubblici in auro atque in purpura" (I ladri di cose private passano la vita in ceppi e catene, quelli pubblici nell’oro e nella porpora).
Oggi il grande Catone avrebbe avuto molto più di che parlare.
Catone fu anche un grandissimo oratore e non poteva essere diversamente. Per la sua intransigenza, infatti, il Censore ebbe moltissimi nemici, alcuni dei quali anche agguerriti, che lo sottoposero ad innumerevoli processi nei quali egli si difese sempre da solo rimanendone ogni volta assolto. La sua oratoria era rude e sobria, priva di fronzoli, incisiva e mirante subito al nocciolo della questione, proprio l’opposto di quello che sarà poi Marco Tullio Cicerone.
Catone si rese, inoltre, celebre per la sua opposizione a ogni novità e all'influsso crescente della Grecia, favoriti in Roma dagli Scipioni. Si può sostenere che egli rappresentò, senza dubbio alcuno, lo spirito conservatore romano in lotta con il progresso rappresentato dalla cultura greca. Egli, da saggio contadino qual era, intuiva che la civiltà greca avrebbe corrotto la sana società romana ed i costumi austeri che l’avevano resa invincibile e alla fine l’avrebbe condotta alla rovina. Da questo gli derivava la sua grandissima avversione all’ellenismo e a tutto ciò che proveniva dalla Grecia, arrivando al punto da far cacciare via i filosofi che si trovavano in ambasceria a Roma. Tra i colpiti dagli strali di Catone in un’occasione ci fu anche il famoso Carneade. Il Censore non si fermò ai filosofi, ma prese ad osteggiare perfino i medici, accusandoli perfino di attentare alla vita dei romani, quasi una quinta colonna.
A tal proposito è illuminante l’introduzione ai “Preacepta ad Marcum filium”: “Marco, figlio mio, a suo tempo di dirò su questi greci, quello che ho saputo in Atene e come sia bene dare un’occhiata alle loro lettere, ma non studiarle a fondo; ti dimostrerò anche che la loro razza è perversa e malvagia. E ritieni che questo te lo abbia detto un vate: quando questa gente ci darà la sua letteratura, corromperà ogni cosa e ancora di più se manderà i suoi medici. Hanno giurato tra di loro di uccidere tutti i barbari con la medicina, ma facendola pagare affinché si abbia fiducia in loro e ci sterminino più facilmente. Anche noi chiamano barbari e ci insudiciano ancora di più chiamandoci Opici. Perciò ti proibii di servirti dei medici.”
Bastano queste poche righe a darci l’idea dell’odio davvero molto acceso di Catone verso i greci e del suo tentativo di ostacolare in ogni modo l’“invasione” di Roma da parte loro.
Si narra, però, che Catone abbia imparato la lingua greca a 80 anni. Egli sostenne di averlo fatto per conoscere i greci che tanto avversava e combatterli meglio (a questo sembrano essere di conforto le parole rivolte al figlio “è bene dare un’occhiata…”); i suoi denigratori, invece, sono del parere che ciò avvenne a causa di un amore senile per una ragazza greca (questo potrebbe anche essere plausibile in tanti i casi, ma non certo quando si parla di una persona del calibro del Censore).
Oltre che il mondo greco, Catone avversò strenuamente anche Cartagine, della quale chiese insistentemente la distruzione al punto da terminare ogni suo discorso in Senato con la celeberrima frase: “Ceterum censo Carthaginem esse delendam” (Per il resto penso che bisogna distruggere Cartagine).
Marco Porco Catone morì a Roma nel 149, poco prima della distruzione di Cartagine, da lui tanto ostinatamente propugnata.
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