| XV
E ora, ateniesi, state un po' a sentire com'è che egli afferma tutto questo e tu, Meleto, rispondi pure. Voi, però, come vi pregai prima, non protestate se io parlo al mio solito.
C'è qualcuno, Meleto, che crede nell'esistenza di fatti pertinenti all'uomo, ma, poi, non crede che esistono gli uomini? Suvvia, che mi risponda, ateniesi, invece di star lì a dimenarsi. E vi è chi non crede all'esistenza dei cavalli ma a quella di cose ad essi pertinenti? Oppure chi non crede che esistono i flautisti ma l'arte del flauto sì? No, mio bello, se tu non vuoi rispondere, rispondo io per te, per questi signori. Tu, intanto, rispondi almeno a questo: c'è chi crede nelle opere divine e poi non crede alle divinità?
«No, non ci può essere.»
Ah, qual grazia mi hai fatto, questa volta, rispondendomi, anche se a malincuore, perché ti ci hanno costretto loro. Dunque, tu ammetti che io credo nelle opere divine e che insegni a credervi, antiche o recenti che siano e che io vi creda, l'hai detto tu e poi l'hai dichiarato nell'atto di accusa. Ma se io credo nelle opere divine, necessariamente, devo credere anche nelle divinità, non è così? Sì, certo, anche per te, penso, dato che non rispondi. E questi esseri soprannaturali, non sono forse dei o figli di dei? Sì o no?
«Ah, certo.»
E allora, se io credo in questi esseri, come tu stesso hai ammesso e se essi sono dei, è proprio come dicevo io, che tu, cioè, proponi dei rebus e ti prendi gioco di noi, dicendo che io non credo negli dei e poi che ci credo per il fatto che ammetto gli esseri divini. E se, d'altra parte, questi esseri sono i figli illegittimi degli dei o nati, a quel che si dice, da ninfe o da donne, chi è quell'uomo che potrebbe credere che esistono i figli degli dei e non esistono gli dei? Sarebbe un'assurdità. come dire, per esempio, che esistono i muli, nati appunto, dai cavalli e dagli asini, ma che non esistono asini e cavalli. No, Meleto, non è possibile pensare che tu abbia mosso quest'accusa se non per mettermi alla prova o perché non sapevi qual'altra colpa imputarmi. Come, poi, tu possa persuadere qualcuno, anche di poco cervello, che un uomo creda nelle opere divine e soprannaturali e poi non creda nelle divinità, negli dei e negli eroi, questo mi sembra impossibile.
XVI
Insomma, cittadini, a me pare che non occorra un'ulteriore difesa per dimostrare l'infondatezza dell'accusa di Meleto ma che siano sufficienti le cose già dette.
La verità è, invece, che io mi sono attirato l'odio di molti ed è questo che mi perderà. Se io verrò condannato, non sarà certo né per Meleto, né per Anito, ma per l'invidia e la generale calunnia. Esse hanno portato alla rovina molti altri galantuomini e molti ancora ne perderanno. Ah, io, certo, non sarò l'ultimo.
Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe dirmi: «Non ti vergogni, Socrate, di avere svolto un'attività per la quale, ora, corri il rischio di morire?» A costui io potrei ragionevolmente rispondere: «Hai torto, amico, se pensi che un uomo di qualche merito debba star lì a calcolare il rischio di vita e di morte, invece di pensare se ciò che fa è giusto o ingiusto e se si è comportato da uomo onesto o malvagio. Secondo il tuo ragionamento sarebbero stati degli sciocchi quei semidei e tutti quegli altri che morirono sotto le mura di Troia, compreso il figlio di Tetide che, incapace di ogni viltà, ebbe sempre in dispregio il pericolo. Quando, infatti, la madre, che pur era una dea, lo vide tutto bramoso di uccidere Ettore, io credo che gli disse presso a poco così: ‹ Figlio mio, se tu vendicherai l'uccisione del tuo amico Patroclo e ucciderai Ettore, anche il tuo destino si compirà ›. Ascoltò Achille queste parole ma non tenne in alcun conto il pericolo e la morte, temendo, piuttosto, di vivere come un vile senza aver vendicato l'amico: ‹ Ah, › rispose, ‹ possa io morire subito dopo aver punito il colpevole, piuttosto che vivere deriso, qui, presso le navi ricurve, inutile peso alla terra ›. Credi forse che egli si sia curato della morte e del pericolo?»
Poiché la verità sta in questo, cittadini: quando si è fatta la propria scelta, credendo sia la migliore o quando un capo ti ha affidato un compito, bisogna restar saldi e affrontare i pericoli e non temere la morte o altro, più del disonore. Questo io credo.
XVII
Per esempio, mi sarei comportato malissimo se, mentre a Potidea, ad Anfipoli, a Delio, rimasi, come gli altri, al posto che coloro da voi scelti a comandarmi mi assegnarono, pur correndo rischio di morte, quando poi dio mi ordinava, come penso e credo, di dedicarmi alla filosofia e di indagare su me stesso e sugli altri, per timore della morte o di qualche altro pericolo, io avessi abbandonato il mio posto. Oh, questa sarebbe una brutta azione e davvero qualcuno potrebbe citarmi in giudizio e giustamente accusarmi di non credere negli dei, perché disubbidisco all'oracolo, temo la morte e credo di essere sapiente senza esserlo. Poiché così è, ateniesi: temere la morte altro non è che credere di esser saggi senza esserlo, di sapere ciò che non si sa. Infatti, nessuno sa che cosa sia la morte, se per l'uomo il più grande dei beni; eppure tutti la temono come se fossero sicuri che essa è il più grande dei mali. E non è forse la più riprovevole ignoranza, questa, di credere di sapere ciò che non si sa?
E in questo, forse, ateniesi, io mi sento diverso dagli altri; e se dovessi credere di essere più sapiente di qualche altro sarebbe per il fatto che, non conoscendo nulla dell'aldilà, non presumo di saperlo. So, però, che commettere ingiustizia o disubbidire a chi è migliore di noi (sia esso un dio o un uomo), è cosa turpe e vergognosa. E, quindi, mai temerò e fuggirò quelle cose che io non so se siano buone, per altre che, invece, so e riconosco cattive.
E anche se ora voi mi assolveste contro la proposta di Anito che chiedeva per me o l'esilio o, una volta comparso qui in tribunale, la morte, affermando che, se fossi rimasto impunito, i vostri figli, praticando i miei insegnamenti, si sarebbero tutti corrotti, anche se ora mi diceste, per esempio: «Socrate, noi non crediamo a quanto ha detto Anito e ti assolviamo, al patto, però, che tu non svolga più le tue indagini, né ti occupi di filosofia, pena la morte», se voi, ripeto, mi lasciaste libero, ma a queste condizioni, oh, io vi risponderei: «O ateniesi, io vi onoro e vi amo, ma devo obbedire a dio prima che a voi e, quindi, fino all'ultimo respiro, fino a quando avrò vita, non abbandonerò la mia missione di filosofo, non cesserò di esortarvi e ammmonirvi (chiunque voi siate), nel modo mio solito»; direi, per esempio: «O a me carissimo tra gli uomini, cittadino di Atene, della città più gloriosa e più grande del mondo, della più famosa per sapienza e nobiltà, non ti vergogni di curarti delle ricchezze perché siano sempre più grandi, come le tue ambizioni e i tuoi onori, di non darti pensiero né della tua saggezza né della verità, né dell'anima tua, per farla migliore?» E se qualcuno di voi me lo smentisse e mi assicurasse, invece, che si cura di queste cose, io non lo lascerei a se stesso, non lo abbandonerei, ma gli starei dietro, interrogandolo ed esaminandolo e se lo vedessi millantare una virtù che, in effetti, non possiede, lo rimprovererei aspramente di trascurare le cose che veramente valgono e di tenere in gran pregio, invece, quelle di nessun conto. Così mi comporterei, con i giovani e con gli anziani, con chiunque io mi imbattessi, stranieri o compatrioti, ma soprattutto con questi, che io sento più vicini a me per legame di sangue. Perché questo mi ordina dio, sappiatelo, ed io penso che nessun bene maggiore sia mai venuto alla mia patria di questa mia obbedienza al suo comandamento.
Questo è, in fondo, quello che faccio: cercare di persuadervi, giovani o vecchi che siate, a non prendervi troppa cura del corpo e dei beni materiali prima che della vostra anima perché divenga migliore, di dirvi che non dalla ricchezza nasce la virtù, ma che dalla virtù deriva, piuttosto, ogni ricchezza e ogni bene, per l'individuo come per gli stati.
Se con questi discorsi io corrompo i giovani, vorrà dire che essi sono dannosi, se invece, qualcuno afferma che altri sono i miei insegnamenti, costui parla a vanvera.
E allora io vi dico, cittadini, crediate o non crediate ad Anito, mi assolviate o meno, io non agirò diversamente, nemmeno se dovessi mille volte morire.
XVIII
Non interrompetemi, cittadini, vi prego, non protestate per quello che dico, ma vogliate ancora ascoltarmi ché, oltretutto, ne potrete, io penso, trarre profitto. Ciò che sto per dirvi vi farà gridare, ma non lo fate, vi prego.
Se mi condannerete a morte, poiché sono quel che vi ho detto, voi non danneggerete me più che voi stessi. Nessun danno possono, infatti, arrecarmi né Meleto, né Anito. Non lo possono perché non credo che un malvagio possa fare del male a un uomo buono. Potrebbero uccidermi, forse mandarmi in esilio, privarmi dei diritti civili; per loro e per altri queste, forse, sono grandi disgrazie; ma io non la penso così. Per me è assai peggior male far quello che stan facendo costoro: uccidere un uomo ingiustamente. Non è quindi me che difendo ora, come qualcuno potrebbe credere, ma voi, cittadini, perché condannandomi, non vi rendiate colpevoli verso un dono di dio. Se voi mi ucciderete, infatti, non tanto facilmente troverete un altro simile a me, che il volere di un dio ha inviato nella vostra città (perdonatemi il paragone forse ridicolo) come un moscone sopra un cavallo alto e di buona razza ma alquanto pigro per la sua stessa mole e bisognoso di essere sempre stimolato.
Un simile compito dio sembra avermi affidato nella nostra città per cui io, senza sosta, vi sono da presso, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, ad uno ad uno, ogni giorno. Un altro come me, ateniesi, non lo troverete facilmente. Ecco perché se mi darete ascolto, voi mi risparmierete.
O, forse, accadrà che voi, stizziti come chi nel sonno vien destato all'improvviso, ascolterete Anito e mi colpirete, mandandomi stupidamente a morte. Ma allora voi continuerete a vivere come dormendo, per il resto della vostra vita, se dio non avrà compassione di voi e non vi manderà qualcun altro.
Comunque, da quanto sto per dirvi, voi potrete riconoscere che io, come tale, sono stato offerto da dio alla patria.
Infatti, esula dalle consuetudini degli uomini lasciare andare in malora, come ho fatto io, tutti gli interessi privati, trascurare la famiglia per tanti anni, per occuparsi, invece, unicamente di voi, standovi dietro come un padre o un fratello maggiore per indurvi ad essere virtuosi. Tutto questo si sarebbe anche potuto spiegare se ne avessi ricavato qualche vantaggio, se vi avessi chiesto, in cambio, del denaro. Ma voi stessi vedete che i miei accusatori, che hanno accumulato su di me accuse così impudenti, non sono stati capaci di trovare un solo testimone che dicesse che io mi sia fatto una sola volta pagare o abbia chiesto qualcosa. Sono io, invece, che presento un testimone inconfutabile, che attesta la verità di ciò che dico: la mia povertà.
XIX
Ma, forse, potrebbe sembrare strana una cosa, che io mi prodighi e mi affanni per darvi consigli in privato e che poi non osi partecipare alla vita pubblica e dare il mio contributo alla patria.
Come voi mi avete già sentito dire spesso e in altra sede, questo dipende dal fatto che in me c'è come qualcosa di divino, di soprannaturale cui Meleto, deridendomi, ha già accennato nell'accusa. Un fatto che mi si è manifestato fin da ragazzo, come una voce che mi parla dentro e che mi distoglie da ciò che sto per fare, invece che esortarmi; essa mi ha sempre impedito di darmi alla vita politica; io credo, del resto, che questo divieto sia stato quanto mai opportuno.
Infatti, se mi fossi messo nella politica, voi lo sapete bene, cittadini, sarei già morto da un pezzo e non avrei potuto più giovare né a voi né a me stesso. Ma non ve la prendete se dico la verità: nessun uomo riuscirà a salvarsi qualora vorrà opporsi lealmente a voi o al popolo e impedire che nella sua patria avvengano ingiustizie e illegalità. Così, è bene che resti cittadino privato, lontano dalla vita pubblica, chi vuole realmente combattere per la giustizia e conservarsi, anche per poco, in vita.
XX
Di quanto vi ho detto posso fornirvi sicure prove, e non a parole, ma a fatti ed è, poi, quello che voi apprezzate di più. Voglio, infatti, raccontarvi quello che mi è successo, così vedrete che io, pur di difendere la giustizia non indietreggerei di fronte a nessuno, nemmeno alla paura della morte e che anzi, pur di non cedere, sarei pronto a morire. Vi dirò cose spiacevoli come s'usa nei processi, ma vere.
Io, cittadini, non ho mai avuto una carica pubblica se non quella di membro del Consiglio dei Cinquecento e, anzi, proprio quando voi decideste di processare in massa, illegalmente (come più tardi fu ammesso), i dieci generali che non avevano raccolto i morti dopo la battaglia navale, la tribù Antiochide (la mia) reggeva la pritania. Ricordo che fui il solo, tra i pritani, ad oppormi a voi perché non fosse scavalcata la legge e votai contro; e sebbene gli altri oratori fossero pronti a denunciarmi e a farmi arrestare, incoraggiati dalle vostre grida, io pensai che dovessi seguire la legalità e la giustizia, al prezzo di ogni rischio, piuttosto che associarmi a voi e alla vostra politica ingiusta, per il timore del carcere o della morte. E questo accadeva quando in patria c'era un governo democratico.
Quando si instaurò l'oligarchia, i Trenta mi mandarono a chiamare con altri quattro al palazzo del governo e ci ordinarono di prelevare Leone di Salamina per metterlo a morte. Di simili ordini ne dettero a molti altri, per comprometterne il maggior numero possibile. Fu allora che io feci vedere, a fatti e non a chiacchiere, che della morte (scusate l'espressione) non me ne importava proprio un bel niente: non far nulla di ingiusto e di empio, questo è ciò che mi importa. E quel governo, con tutto il suo terrore non riuscì a piegarmi da indurmi a commettere qualche cosa di ingiusto. Quando, infatti, noi uscimmo dal palazzo, quegli altri quattro andarono a Salamina e prelevarono Leone, io invece, me nei tornai a casa mia. Certo, per questo fatto ci avrei rimesso la vita se quel governo, dopo un po', non fosse stato rovesciato. E di questi fatti potrete avere quanti testimoni vorrete.
XXI
E, allora, credete che per tutti questi anni, io avrei potuto scamparla se mi fossi messo in politica e, da uomo onesto, avessi preso le difese della giustizia e, come è doveroso, l'avessi posta al di sopra di tutto? Certamente no, ateniesi, né io né nessun altro. Se per tutta la vita, in ogni mia azione, pubblicamente, mi sono comportato così, in privato, del resto, è stato lo stesso e mai ho fatto una qualche concessione contro giustizia, a nessuno, nemmeno ai miei discepoli, come li chiamano i miei calunniatori. E maestro, poi, per la verità, non lo sono mai stato di nessuno; solo che non ho mai impedito a nessuno, giovane o vecchio, di ascoltarmi, se lo voleva, quando parlavo o attendevo al mio compito perché io non sono di quelli che parlano quando li pagano e se no stanno zitti, ma mi offro egualmente al ricco e al povero perché possano interrogarmi e ascoltarmi e rispondere alle mie domande. Se poi qualcuno di questi tragga buon profitto o meno, non è a me che si deve imputare la responsabilità perché io non ho mai promesso di insegnare nulla a nessuno e se c'è chi afferma di aver udito o appreso da me, in privato, cose che anche tutti gli altri non abbiano potuto apprendere o udire, ebbene, sappiate che costui è un mentitore.
XXII
Ma, allora, perché mai a molti piace trascorrere anche parecchio tempo in mia compagnia? lo, ve lo ripeto, cittadini, vi ho detto tutta la verità. È che a loro piace starmi ad ascoltare mentre interrogo coloro che si credono sapienti e poi non lo sono.
La cosa, in fondo, non manca di una certa attrattiva, ma per me è un dovere che iddio mi ha ordinato, come vi ho già detto, attraverso oracoli, sogni e in mille altre maniere mediante i quali una divinità ha sempre ordinato a un uomo di fare qualcosa. Tutto ciò è vero, cittadini, e controllabilissimo. Infatti se io ho corrotto e corrompo i giovani, sarebbe naturale che qualcuno di loro, ormai adulto, riconoscendo che in giovinezza io lo avevo istigato al male, ora fosse qui, in questo tribunale, ad accusarmi e a vendicarsi.
Ma ammettiamo pure che essi non abbiano voluto farlo di persona: c'erano pure i loro familiari, il padre, i fratelli, i parenti a ricordarsene e a venir qui, per vendicarsi, se io avessi fatto del male ai loro congiunti.
In ogni modo, molti di essi son qui presenti, io li vedo benissimo: Critone, della mia stessa età e del mio stesso distretto, padre di Critobulo, Lisania di Sfetto, padre di Eschine e poi Antifonte di Cefisia, padre di Epigene e ve ne sono poi altri, Nicostrato, figlio di Teozotide, Paralo, figlio di Demodoco, Adimanto, figlio di Aristone, Aiantodoro; i loro rispettivi fratelli, Teodoto (che però è morto e non può, quindi influenzare il fratello Nicostrato), Teage, il qui presente Platone e Apollodoro, si sono spesso intrattenuti con me a conversare. E ve ne potrei nominare molti altri che Meleto, nella sua arringa, avrebbe dovuto chiamare come testimoni. Se l'ha dimenticato, lo faccia ora, l'autorizzo, ne chiami pure qualcuno. Ma il fatto è che le cose stanno tutte all'opposto e voi, cittadini, questi testimoni li troverete tutti pronti a difendere me, il loro corruttore, colui che rovinava i loro congiunti, come dicono Anito e Meleto. E ammettiamo pure che quelli che sono stati corrotti abbiano anche il loro buon motivo per difendermi, ma quelli che son rimasti puri e i loro congiunti, persone già anziane, quale ragione potrebbero avere per sostenermi se non quella giusta e retta, consapevoli come sono che Meleto mente e io dico la verità?
XXIII
È tutto, cittadini. Questo è quanto potevo dirvi a mia difesa, o press'a poco. Soltanto che ora, qualcuno di voi, forse, si arrabbierà pensando che, in una circostanza meno grave di questa, si mise a pregare e a supplicare i giudici a calde lacrime e si presentò in tribunale con i figlioletti, per suscitare quanto più possibile pietà, con lo stuolo di tutti i parenti e degli amici, mentre io non faccio niente di tutto questo, benché corra, come sembra, estremo pericolo. Costui, forse, ripensando a queste cose potrebbe indisporsi, sdegnarsi contro di me e riversare la sua rabbia nel voto. Ebbene, se c'è qualcuno che la pensa così (ma io non voglio crederlo), comunque, se c'è, io dovrei proprio dire a questo amico che ho anch'io i miei congiunti, perché come dice Omero, non sono nato né da una quercia né da una rupe, ma da esseri umani, e che, quindi, ho anch'io i miei parenti e i miei figli, tre per esser precisi, uno già grandicello e due ancora piccoli. Eppure io non ve li porterò qui, nessuno dei tre, né vi supplicherò di assolvermi. Perché non lo faccio? Oh, non per orgoglio, ateniesi, né per disprezzo, perché il fatto di avere, o meno, coraggio di fronte alla morte, ora, non c'entra, ma perché ne andrebbero di mezzo il mio onore e il vostro e quello della nostra patria se mi comportassi così, alla mia età e con la fama che ho, giusta o ingiusta che sia; perché, vedete, Socrate lo si stima un po' diverso dagli altri. Ora, sarebbe molto brutto se uno di voi, considerato superiore per sapienza, coraggio o per qualche altro merito, si comportasse, poi, diversamente, come ho visto fare ad alcuni, anche di un certo prestigio, che durante il processo si lasciavano andare a manifestazioni incredibili di dolore, quasi che, morendo, dovessero andare incontro a qualcosa di terribile e, una volta assolti, invece, diventare immortali. Costoro, mi sembra proprio che disonorino la patria al punto che gli stranieri potrebbero pensare che anche i migliori atenicsi, quelli che si distinguono per i loro meriti, che vengono scelti per le magistrature e per le altre cariche, non siano in nulla diversi dalle femminette.
Chi tra noi conta qualcosa, cittadini, non può abbandonarsi a simili atti, anzi, se lo facesse, voi dovreste impedirglielo e mostrarvi inflessibili nel condannarlo, per queste scene pietose che coprono di ridicolo la patria, più severamente di quanto condannereste chi, invece, conserva un contegno sereno.
XXIV
Ma, a parte la fama, non mi sembra giusto, cittadini, star lì ad implorare il giudice per ottenere, con le preghiere, un'assoluzione; bisogna, invece, informarlo e persuaderlo. Il giudice non dispensa favori ma stabilisce ciò che è giusto; ha giurato non di beneficare chi gli pare e piace, ma di giudicare secondo la legge.
Non dobbiamo, quindi, abituarvi a spergiurare, né voi vi ci dovete assuefare: sarebbe, per noi tutti, come offendere dio.
Quindi, cittadini, non pretendete da me un contegno che io giudico indecoroso, ingiusto e volgare, tanto più, poi, che sono stato accusato d'empietà dal qui presente Meleto. Infatti, se io tentassi di influenzarvi, di far violenza, con le mie preghiere, su di voi che avete giurato, oh, allora sì che vi insegnerei a non credere negli dei e la mia difesa sarebbe una lampante accusa che non vi credo io stesso.
Le cose stanno, però, ben diversamente perché io credo, cittadini, come nessuno dei miei accusatori e mi rimetto a voi e a dio, che giudichiate come meglio è per me e per voi stessi.
XXV
Vi sono molte ragioni, cittadini, per cui io non provo sdegno per la condanna che mi avete inflitto, una è che essa non mi è giunta inaspettata; mi meraviglio, piuttosto, del minimo scarto dei voti che l'ha determinata; non credevo, infatti, che il numero di quelli che m'hanno votato contro fosse così modesto: li credevo più numerosi; è chiaro, infatti, che se trenta voti fossero andati dall'altra parte, io sarei libero. Certo, posso dire che se è per Meleto, io devo considerarmi senz'altro assolto e non solo assolto, perché tutti vedete che se non fossero venuti qui ad accusarmi Anito e Licone, sarebbe stato condannato lui a una multa di mille dracme, per non aver ottenuto il quinto dei voti.
XXVI
Dunque, quest'uomo propone per me la pena di morte. Bene. Io, cittadini, quale pena proporrò, a mia volta, che mi sia inflitta? Quella giusta, non è vero? Quale? Che pena, che ammenda io merito per aver rinunciato a una vita agiata, per aver trascurato ciò che i più curano, il guadagno, gli interessi privati, i comandi militari, l'attività politica, le cariche pubbliche, le consorterie e le fazioni che si sono succedute nello stato, per essermi ritenuto troppo retto, per salvarmi, se mi fossi immischiato in cose simili, dove non avrei potuto essere di alcun aiuto né a me, né a voi, per aver preferito offrire a ciascuno di voi ciò che io credo sia il più grande servigio, quello di persuadervi a non curarvi di ciò che possedete, prima che di voi stessi, per diventare, il più possibile, saggi e buoni, né degli interessi apparenti della patria, prima che della patria in se stessa, e così via? Per esser così, quale pena, insomma, io merito? Un premio, in verità, cittadini, se si deve giudicare dai meriti; e un premio, per giunta, che mi si addica. E che cosa si addice a un benefattore povero che ha bisogno di tutto il suo tempo per esortarvi? Non v'è cosa che convenga più di questa, cittadini: che un uomo simile sia mantenuto nel Pritaneo, sì, certo, e con più diritto di chi vince ad Olimpia le corse dei cavalli. Costui, infatti, può farvi apparire felici, io, invece, mi adopero perché lo siate; e, poi, lui non ha bisogno affatto degli alimenti, io, invece, sì. E, dunque, se devo giudicarmi secondo il mio merito, questo mi spetta: vitto e alloggio gratis nel Pritaneo.
XXVII
Forse voi penserete che queste mie parole siano dettate dall'orgoglio, come quando vi parlai a proposito di coloro che piangono e supplicano. Non è così, cittadini. Invece, è che io sono convinto di non aver mai fatto deliberatamente torto a nessuno, ma di questo non sono riuscito a persuadervi; troppo breve è stato il tempo per questa nostra conversazione. Se la vostra legge, infatti, consentisse di espletare un processo capitale, non in un sol giorno, ma in molti, come si fa altrove, oh, io credo che vi avrei persuasi. Ora, invece, non è facile liberarmi da così gravi calunnie in tanto poco tempo.
D'altra parte, convinto come sono di non aver fatto mai torto a nessuno, ovviamente, non posso farne a me stesso, dicendo di essere meritevole di qualche pena e, addirittura, proponendomela.
E, dopo tutto, quale timore io ho? Forse che mi tocchi la condanna proposta da Meleto? Ma io non so se essa rappresenti un bene o un male. O dovrei scegliere ciò che io fermamente ritengo sia un male, e propormelo? Il carcere, forse? E perché dovrei vivere in prigione, schiavo di un'autorità di volta in volta preposta alla mia custodia dagli Undici? Un'ammenda? E, quindi, il carcere finché non abbia pagato? Sarebbe, per me, il caso di prima perché non ho denaro per pagare. Ma, allora, dovrei proporre l'esilio? Forse, voi sareste d'accordo; ma io dovrei essere così attaccato alla vita, cittadini, e tanto irragionevole da non capire che se voi, pur essendo miei concittadini, non avete sopportato le mie idee e i miei discorsi, se essi sono stati per voi così molesti e odiosi, tanto da cercare, ora, di liberarvene, come potranno, gli altri, facilmente sopportarli?
Eh, no, cittadini: bella vita sarebbe la mia: esiliato da Atene, errabondo da una città all'altra, alla mia età, e scacciato da tutte. Perché io so bene che dovunque andassi i giovani verrebbero ad ascoltarmi, come qui. Se io, poi, li allontanassi essi mi farebbero scacciare, persuadendo i più anziani e, se non lo facessi, sarebbero i loro genitori e i loro congiunti a cacciarmi.
XXVIII
Qualcuno potrebbe dirmi: «Ma, Socrate, una volta in esilio, non potresti startene zitto e quieto?» Ma è proprio questa, invece, la cosa più difficile da far comprendere a qualcuno di voi, perché se vi dicessi che questo sarebbe un disubbidire a dio e che, quindi, non è possibile che io me ne viva tranquillo, voi, di certo, non mi credereste e pensereste che io lo dica, così, per finta. Se poi vi dicessi che il più gran bene, per un uomo, sta nell'indagare continuamente sulla virtù e sulle altre questioni di cui mi avete sentito discutere, quando sottoponevo ad esame me stesso e gli altri, se vi dicessi che la vita non è degna di essere vissuta, senza questa indagine, voi mi credereste ancor meno. Così stanno le cose, cittadini, come ve le ho riferite, ma non è facile farvi persuasi.
Del resto, io non posso abituarmi al fatto di dovermi attribuire una pena che non merito. Se io avessi avuto del denaro, mi sarei da me stesso condannato a pagare per quel che potevo, senza farci troppo caso; ma, veramente, non ne ho, a meno che voi non vogliate condannarmi a quel poco che potrei, sì e no a una mina d'argento. Sì, propongo, dunque, che la mia pena sia di una mina.
Ma vedo, cittadini, che Platone, Critone e Apollodoro mi fanno segno di multarmi per trenta mine, ché se ne fanno garanti loro. E va bene: mi condanno, dunque, al pagamento di questa somma che essi garantiranno con la loro solvibilità.
XXIX
Così, per aver voluto fare le cose in fretta, cittadini, i diffamatori della patria diranno in giro che voi avete ucciso Socrate, un sapiente. Perché tale mi stimeranno, anche se non lo sono, proprio per coprirvi di biasimo.
Se, invece, aveste aspettato un po', le cose sarebbero avvenute da sole, naturalmente, perché voi vedete come io sia già così innanzi con gli anni e prossimo alla morte. Questo lo dico non a tutti voi, ma solo a quelli che mi hanno condannato a morte. E a costoro voglio dire anche un'altra cosa: forse voi credete che io sia stato condannato perché a corto di quegli argomenti che vi avrebbero persuaso se io avessi ritenuto di non dover risparmiare atti e parole pur di sfuggire alla condanna. Niente di tutto questo. Sono stato, invece, condannato non per mancanza di argomenti ma di sfrontatezza e di impudenza, per non aver voluto ricorrere a quei mezzucci che, invece, a voi piacciono in modo particolare: pianti, lamenti e cose simili, indegni di me, come vi ripeto, ma che voi siete abituati a sentire dagli altri.
Io non ho mai pensato di ricorrere a ignobili espedienti per sfuggire il pericolo, né ora mi pento di essermi difeso nel modo che ho creduto, anzi, preferisco morire dopo essermi difeso così, piuttosto che vivere grazie a una difesa di altro genere. Perché nessuno, dinanzi alla giustizia o al nemico deve star lì a escogitare i mezzi per sfuggire, a tutti i costi, alla morte. In battaglia è chiaro che uno potrebbe evitare la morte gettando le armi e mettendosi a supplicare i nemici incalzanti; e così, in ogni pericolo, molti sono gli espedienti per farla franca se si è disposti a scendere a tutti i compromessi. Quindi, cittadini, sfuggire alla morte non è difficile, difficile, invece, è sfuggire alla malvagità, che è più veloce della morte. E per me, che sono tardo e vecchio, è bastata la più lenta a prendermi, mentre i miei accusatori, forti e agili, sono stati raggiunti dalla più veloce, cioè, dall'infamia. Io, così, me ne vado condannato a morte da voi, ma voi siete bollati d'infamia e d'ingiustizia dalla verità. E come io accetto la mia pena, così voi vi terrete la vostra. Tutto questo, forse, doveva succedere, ma io penso che è un bene che le cose siano andate così.
XXX
Però, a voi che mi avete condannato, voglio antici-parvi una cosa, dato che è giunta, per me, l'ora in cui gli uomini, di solito, vedono il futuro, quando cioè stanno per morire. Ebbene, cittadini, io vi dico che su di voi che mi avete ucciso, cadrà, dopo la mia morte, un castigo molto più tremendo, per dio, di quello che avete inflitto a me. Voi avete creduto, facendo quello che avete fatto, di liberarvi dal dover rendere conto della vostra vita, ma sarà tutto l'opposto, ve lo assicuro, perché ora saranno in molti quelli che vi biasimeranno e che io un po' moderavo senza che voi ve ne rendevate conto e saranno tanto più molesti con voi quanto più sono giovani e vi daranno tanto filo da torcere. Perché se voi pensate che mettendo a morte la gente non vi sarà più nessuno a biasimare la vostra vita iniqua, voi vi sbagliate di grosso; e, oltretutto, non è il sistema più bello, questo, né il più efficace. La cosa migliore, invece, e anche la più semplice è quella di non opprimere gli altri ma di tendere ad essere, quanto più possibile, migliori.
Questo dovevo predire a quelli che mi hanno condannato. Ora possiamo anche andarcene.
XXXI
Però, vorrei dire volentieri, ora, due parole su quanto è accaduto, a quelli che mi hanno assolto, approfittando del fatto che i magistrati hanno il loro da fare e che ancora non mi portano via verso il luogo del supplizio. Finché è possibile, dunque, fermatevi un po', voi, perché nulla ci impedisce di conversare un poco tra noi.
Io voglio dirvi, dato che mi siete amici, che cosa significhi per me quello che m'è ora accaduto. Dovete sapere, giudici (e lasciate che io vi chiami a buon diritto, così), che mi è capitata una cosa straordinaria. La voce profetica, quella di dio, così frequente in me, io la sentivo sempre, per il passato, che mi si opponeva anche nelle minime cose, quando stavo per fare qualcosa di male; la sorte che m'è toccata ora, voi la sapete e qualcuno potrebbe ritenerla come il peggiore dei mali. Ebbene, nessun avvertimento c'è stato da parte di dio, né quando, stamane, sono uscito di casa, né quando son salito qui, in tribunale, e neppure durante la mia difesa, per quello che stavo dicendo, mentre molte volte, in altri discorsi, esso intervenne, troncandomi a mezzo la parola. Oggi, invece, in tutta questa faccenda, non mi ha minimamente contrastato, sia nei miei atti che nelle mie parole. Che devo dedurre, allora, da tutto questo? Ve lo dico io: può darsi che quanto m'è accaduto sia un bene e che non è possibile che noi siamo nel vero quando pensiamo che la morte è un male. Io ne ho avuta chiara dimostrazione perché è impossibile che l'avvertimento consueto non si sarebbe espresso qualora ciò che si stava compiendo non fosse stato un bene per me.
XXXII
Ma facciamo anche un'altra considerazione da cui io traggo molta speranza che tutto questo sia un bene. La morte, infatti, o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o, come si dice, è un passaggio, un mutar di dimora dell'anima da un luogo a un altro. Se la morte è assenza totale di sensazioni, come se si dormisse un sonno senza sogni, oh, essa sarebbe un guadagno meraviglioso.
Proviamo, infatti, a pensare a una notte in cui abbiamo dormito senza far sogni e confrontiamola, poi, con tutte le altre notti e gli altri giorni della vita; se dovessimo dire, dopo aver riflettuto attentamente, quanti sono stati i giorni e le notti in cui meglio abbiamo vissuto, rispetto a quella, oh, io credo che non solo l'uomo qualunque, ma anche il re dei re, ne avrebbe molto poche da contare.
Se tale è la morte, io la considero un gran guadagno perché tutto il tempo infinito non sarà che una sola, lunghissima notte. Se, poi, invece, la morte è come un viaggio da questo luogo a un altro e ciò che si dice è vero, cioè che nell'al di là si radunano tutti quelli che sono morti, vi potrebbe essere, allora, o giudici, un bene più grande? Si giunge - pensate - nell'al di là, liberi alfine da costoro che si fingono giudici e si trovano quelli veri, coloro che laggiù, si dice, amministrano veramente la giustizia, Minosse, Radamante, Eaco, Trittolemo e quanti, tra i semidei, furono giusti nella loro vita. Che, forse, questo viaggio sarebbe poco bello? E chi di voi non pagherebbe chissà che cosa pur di trovarsi con Orfeo e Museo, con Esiodo ed Omero? Ah, io, personalmente, vorrei morire mille volte se questo fosse vero.
E che luogo meraviglioso sarebbe per me se laggiù potessi incontrarmi con Palamede, con Aiace Telamonio o con qualche altro antico, anch'egli ingiustamente ucciso; penso che non sarebbe affatto spiacevole paragonare la sorte che m'è toccata alla loro. E sarebbe un gran piacere trascorrere il tempo esaminando e interrogando quelli di là, come facevo qui, con i vivi, per conoscere chi di loro è sapiente e chi crede, invece, di esserlo soltanto e non è.
E cosa pagherebbe, poi, o giudici, uno che potesse interrogare colui che guidò a Troia il grande esercito o Ulisse o Sisifo, e infiniti altri, uomini e donne, che si potrebbero elencare? Conversare, indugiarsi con loro, interrogarli, sarebbe una felicità immensa. E, oltretutto, costoro non mettono mica a morte nessuno per questi motivi e sono, tra l'altro, di gran lunga più felici di noi perché, per giunta, immortali, se quel che si dice è vero.
XXXIII
Anche voi, giudici, dovete, quindi, sperare nella morte e pensare a una cosa sola, che cioè all'uomo buono non può toccare alcun male né in vita né dopo morto e che gli dei non dimenticano le sue azioni; anche quello che ora è toccato a me, non è accaduto per caso ed è chiaro che la cosa migliore per me è morire e liberarmi, così, da tante brighe.
Ecco il motivo per cui la voce di dio non mi ha interdetto e perché io, contro i miei accusatori, contro quelli che mi hanno condannato, non ho alcun rancore, sebbene essi mi abbiano accusato e condannato non con questa intenzione, ma per farmi del male: in questo sono da biasimare.
Tuttavia io li voglio pregare di una cosa: quando i miei figli saranno cresciuti, puniteli, cittadini, stategli dietro come io facevo con voi, se vedrete che si preoccupano più delle ricchezze o degli altri beni materiali che della virtù e se si crederanno di valere qualcosa senza valer poi nulla, rimproverateli, come io rimproveravo voi, per ciò che non curano e che, invece, dovrebbero curare, se credono di essere «grandi uomini» e poi non sono niente.
Se farete questo, io e i miei figli avremo avuto da voi ciò che è giusto.
Ma è giunta, ormai, l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne dio.
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