PLATONE

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view post Posted on 17/11/2008, 21:24

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PLATONE



Platone nasce ad Atene nel 427 a.C. In quel periodo la città era dilaniata dalla guerra contro Sparta e dalle incessanti lotte interne tra forze democratiche, aristocratiche e oligarchiche. Di famiglia aristocratica, Platone si interessa inizialmente soprattutto alla politica. L'incontro con Socrate, nel 408, segna una svolta nella sua vita.
Platone diviene suo allievo e lo frequenta assiduamente fino al 399, anno del processo e della condanna a morte di Socrate.
Deluso sia dal governo oligarchico dei Trenta Tiranni, sia da quello democratico che aveva accusato il suo maestro, Platone compie numerosi viaggi, frequenta la scuola megarica di Euclide, visita la scuola pitagorica di Archita a Taranto e diventa amico di Dione, consigliere del tiranno di Siracusa Dionigi I.
Nel 387 torna ad Atene e apre una scuola nei pressi del parco Academo. Nasce così l'Accademia, istituto scientifico, scuola di formazione etico-politica e anche associazione religiosa per il culto delle muse. Nel 367 torna a Siracusa per istruire il nuovo tiranno Dionigi II, ma fallisce così come nel suo ultimo viaggio del 361. Platone muore nel 347, mentre Atene era in guerra contro Filippo e si avviava verso la decadenza.
Fortemente influenzato dal suo maestro, Platone continua l'indagine socratica della verità attraverso una critica serrata delle opinioni. A differenza di Socrate, però, Platone cerca una conoscenza universale e necessaria. Questa ricerca lo spinge a riscoprire il pensiero di Parmenide, che per primo aveva delineato una scienza dell'essere assolutamente certa.
In quel periodo, la concezione parmenidea era stata fortemente mediata dai pluralisti perché secondo loro penalizzava la conoscenza dei fenomeni. Platone invece respinge questa mediazione e afferma l'esistenza di due ordini di realtà e di conoscenza. Da una parte egli pone la realtà e la conoscenza del mondo sensibile, fatta di cose, dall'altra la realtà e la conoscenza di una dimensione situata oltre questo mondo, costituita da idee di natura puramente intelligibile. Perché la nostra conoscenza delle idee sia valida occorre che le idee siano realtà universali e permanenti e non solo criteri regolativi interni all'intelletto. Per Platone le idee sono valori verso i quali la realtà deve tendere finalisticamente. L'universo delle idee è infatti gerarchicamente ordinato dall'idea del bene.
È nell'Eutifrone che è possibile trovare un primo abbozzo della teoria delle idee. In questo dialogo Platone cerca di distinguere ciò che è santo da ciò che è empio e giunge alla conclusione che ciò che è santo deve esserlo sempre, in ogni circostanza. Ciò che rimane identico è tale perché ha una sua forma, una sua conoscibilità, ha cioè una sua idea. Se si vuole conoscere ciò che è santo bisogna conoscere quel principio eidetico che fa si che tutte le cose che sono sante siano tali. Le idee sono forme universali su cui sono modellate le cose particolari, e quindi avere scienza vuol dire servirsi dell'idea come di un modello intellettuale.
Questa concezione del sapere è nettamente opposta all'arte della persuasione e della retorica promossa dai sofisti. Molti dialoghi platonici sono infatti dedicati a smantellare alcuni precetti dei sofisti. Nel Gorgia Platone definisce la retorica come pratica della persuasione mediante discorsi fondati dalla credenza invece che dalla conoscenza. Nel Menone invece, Platone dimostra che l'uomo ha in sé delle idee fin dalla nascita: conoscere vuol dire ritrovare queste idee. Anche l'eristica, arte della controversia finalizzata all'obiettivo di far prevalere la propria tesi giusta o sbagliata che sia, diventa un suo bersaglio critico. Platone dedica all'eristica l'Eutidemo, dialogo in cui si oppone nettamente al principio che afferma l'impossibilità di cercare nell'uomo ciò che si sa o che non si sa.
Il suo rifiuto della concezione gnoseologica dei sofisti lo spinge a formulare la teoria della reminiscenza in cui sono presenti numerosi riferimenti all'orfismo. Secondo la religione orfica l'anima è immortale e rinasce più volte, conosce già sia il nostro mondo che il mondo degli inferi. Per Platone la rinascita continua dell'anima dimostra che imparare non è altro che ricordare. Inoltre, la ricerca della verità è una condizione intermedia fra il pieno possesso di essa e la sua completa assenza.
Platone condanna anche la teoria di Protagora secondo cui le cose hanno un nome per convenzione. Nel Cratilo, dialogo rivolto al linguaggio, Platone sostiene che fra le cose e i nomi c'è una corrispondenza di natura. Le cose hanno una loro natura che non può essere manipolata da noi. Mettere nomi spetta solo a colui che sa, perché costruirà i vari nomi tenendo presente la natura delle cose attraverso l'osservazione delle idee di ogni cosa.
La dottrina platonica delle idee si sviluppa anche attraverso alcuni dialoghi dedicati all'amore e a alla bellezza. Le idee sono il fine dell'anima e l'anima è immortale proprio per il suo legame con le idee. L'amore e la vita sono aspirazione al mondo soprasensibile e all'immortalità.
L'amore descrive la condizione generale dell'uomo che tende a conseguire il bene e la felicità di cui manca. Nel Simposio l'amore è desiderio di bellezza e di bene, e quindi avvertimento della loro mancanza. L'amore si presenta come qualcosa di natura intermedia, un demone, figlio di Ingegno (abbondanza) e di Privazione (povertà).
Se la vita umana si muove tra un mondo sensibile e un mondo intelligibile, l'amore spiega il passaggio e la tensione dall'uno all'altro. L'amore è desiderio di possedere il bello e il bene. È intuizione dell'esistenza del bello e del buono da parte di chi non li ha ma li desidera.
Attraverso questo desiderio l'uomo oltrepassa i propri limiti, ascende gradualmente la scala delle cose belle e arriva a contemplare il bello in sé. L'ascesa amorosa ha come fine l'idea di bellezza. Il passaggio dall'ignoranza alla scienza è delineato come l'evolversi del sentimento d'amore per la bellezza sensibile di un corpo verso la comprensione che la bellezza, presente in tutte le forme visibili, è unica e identica. L'amore per la bellezza di un corpo non è che un passaggio per cogliere la bellezza nelle anime e per amare la bellezza nelle scienze.
Nel Fedro l'anima, principio di vita e di movimento, indipendente dal corpo e immortale, è descritta come un carro guidato da due cavalli alati. Quando prevale il cavallo bianco, che guida gli impulsi buoni e razionali, l'anima vola nel mondo delle idee. Quando prevale il cavallo nero, che guida le passioni sensibili e carnali, l'anima cade sulla terra ed è costretta a reincarnarsi in altri corpi.
Secondo Platone l'anima conserva i ricordi del mondo divino anche dopo la caduta nel corporeo e nel sensibile. La visione delle cose belle nel mondo sensibile risveglia i ricordi delle essenze contemplate nel mondo intelligibile e accende l'anima di un delirio divino, la forma più alta d'amore.
Platone continua l'elaborazione della concezione di anima nel Fedone, commovente racconto delle ultime ore di Socrate. In questo dialogo il filosofo è descritto come colui che già in vita è sottoposto ad una sorta di morte. La realtà sensibile è avvertita come una prigione. Il corpo è impedimento dell'anima alla scienza. Al filosofo non resta quindi che morire per liberare l'anima e la scienza dai vincoli corporei. Il vero filosofo desidera morire per liberarsi dal carcere del corpo e per tornare nel puro mondo delle idee, altrimenti raggiungibile solo con la ricerca rigorosa e disinteressata della verità e l'esercizio della virtù.
Nella Repubblica Platone delinea una nuova concezione dello stato per realizzare l'ideale della conoscenza universale e necessaria. Secondo Platone lo stato si forma per soddisfare i propri bisogni con l'aiuto degli altri, ma l'eccessiva brama di potere e il desiderio di espansione territoriale provocano lotte continue e guerre. Occorre quindi creare un esercito di soldati di professione per difendersi, i custodi dello stato, la cui vita dovrà fondarsi sulla totale condivisione. È per questo motivo che Platone ritiene indispensabile l'abrogazione di ogni possesso individuale, abolizione che deve essere estesa anche alla famiglia. Inoltre, lo stato non solo si occuperà dell'educazione dei figli, ma controllerà anche le unioni sentimentali, e le donne dovranno essere educate per poter collaborare con gli uomini in tutti gli uffici pubblici, compresa la guerra. Solo la classe dei lavoratori è esentata dalla rinuncia alla famiglia e dall'obbligo della formazione.
Se per Socrate era importante occuparsi soprattutto dell'anima, Platone ritiene indispensabile non trascurare lo stato. Il superamento dell'orientamento socratico è evidente proprio nella corrispondenza che Platone realizza distinguendo le tre classi sociali che formano lo stato sulla base di una teoria dell'anima composta da tre parti. La parte concupiscibile, l'istinto, equivale alla classe dei lavoratori, uomini di bronzo. La parte animosa, la forza emotiva, corrisponde invece ai custodi, uomini d'argento, mentre la parte razionale, la ragione, spetta ai governanti, uomini d'oro.
Lo stato deve essere governato da persone che racchiudono in sé filosofia e potenza politica. Dominio politico e vera conoscenza, ispirata dall'amore dell'idea, devono incontrarsi, e ciò accade solo con un governo aristocratico, tutte le altre forme (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia) non sono che la degenerazione di questo modello perfetto.
Le idee garantiscono non solo la possibilità di una conoscenza vera e universale ma anche l'unità essenziale e permanente del molteplice e del divenire. Attraverso il mito della caverna Platone mostra le tappe della conoscenza umana. Secondo questo mito, gli uomini sono imprigionati dentro una caverna, con le spalle rivolte verso la luce. Gli oggetti reali si trovano fuori dalla caverna, ma gli uomini non si possono voltare per guardarli direttamente. Possono solo osservare le ombre che gli oggetti proiettano contro le pareti della caverna.
Per Platone gli esseri umani sono quindi condannati a poter cogliere attraverso la sensazione solo le ombre delle idee. Solo pochi riescono a uscire dalla caverna e ad accorgersi della bellezza del reale. Spetta ai filosofi guidare gli esseri umani verso la conoscenza delle idee, mediante lo studio della matematica e l'esercizio della dialettica che insegnano la contemplazione del bello e del vero.
Nel Parmenide vengono affrontati i problemi relativi alla dottrina delle idee. Le difficoltà sorgono quando si devono considerare insieme i processi di unificazione e di divisione, perché le idee sono distinte dalle cose (p.e. l'idea di bellezza non coincide con le cose, altrimenti diverrebbe una e molteplice) ma allo stesso tempo somigliano ad esse (sono infatti unificate da questa somiglianza). Per risolvere questi problemi, Platone afferma la teoria della partecipazione: le cose partecipano semplicemente delle idee. Il mondo dell'essere e il mondo sensibile stanno nello stesso rapporto in cui si trovano l'uno e il molteplice. Il molteplice non si può pensare senza riferimento all'unità, in quanto è anch'esso costituito di unità, a sua volta l'uno è essere in quanto unifica il molteplice sensibile e quindi è in connessione con il non essere sensibile. Per Platone, la separazione parmenidea fra essere e non essere è insostenibile, perché comporterebbe l'impossibilità di stabilire relazioni conoscitive fondate. Ogni relazione conoscitiva implica diversità, cioè non essere, indica dunque che un ente è qualcosa e insieme che non è qualcos'altro.
Platone condanna anche la dottrina eracliteo-protagorea della conoscenza come sensazione. Nel Teeteto sostiene infatti che la sensazione non consente una conoscenza valida e vera basata sul mondo delle idee. È nei dialoghi della vecchiaia che si compie il parricidio di Parmenide. Nel Sofista Platone delinea il metodo dicotomico della dialettica e ripropone il problema dell'esistenza del non essere. Per trovare una mediazione fra mondo ideale dell'essere e conoscenza umana è necessario «uccidere Parmenide». Il non essere è definito in quanto negazione relativa e non come negazione assoluta, perché la diversità è una forma fondamentale dell'essere stesso. Solo in questo modo si può rendere ragione del falso e dell'errore. Escludere qualsiasi relazione fra l'essere e il non essere significa rendere impossibile sia la conoscenza che il linguaggio.
La dialettica studia le forme dell'essere per stabilire fra di esse il rapporto di identità e di diversità. Chiarendo quali forme della realtà si collegano e quali si escludono, la dialettica è in grado di determinare la struttura del reale, mostrando tutte le sue determinazioni e articolazioni. Il procedimento della diaresi-divisione permette di determinare un genere (nome che Platone preferisce ora a quello di idea), indicando le relazioni di esclusione e inclusione in cui si trova con gli altri generi. Si parte tagliando in due ogni genere (muovendo da generi diversi) fino a raggiungere il genere da determinare, in modo tale che questo possa essere colto in un numero sempre maggiore di relazioni.
Nel Filebo Platone ripete che i generi non devono essere intesi come unità rigide ma in rapporto di partecipazione gli uni con gli altri. La ricerca dei generi si muove sia nell'ambito dell'unità che nell'ambito della molteplicità. I due generi massimi sono il finito e l'infinito.
Sempre nei dialoghi della vecchiaia troviamo il problema dell'origine dell'universo e della formazione del mondo. Platone rifiuta la concezione meccanicistica del mondo formulata da Democrito e delinea un discorso sulla genesi e l'organizzazione del cosmo, correggendo il carattere qualitativo della vecchia fisica con schemi e proporzioni matematiche che gli conferiscono una precisa struttura qualitativa (di cui si serve per dimostrare il fine razionale dell'universo).
L'universo è concepito come una cosa generata da un demiurgo, un artefice divino, che opera imitando i modelli del mondo delle idee e le proporzioni matematiche, ma non si tratta di un vero creatore perché le cose gli preesistono.
L'intero universo (così come la città-stato) è considerato un organismo fornito di un'anima intelligente e di un corpo, come un grandioso essere vivente e animato. L'anima del mondo è principio generale di vita, mediazione fra il piano sensibile e il piano razionale-ideale della realtà, realizzazione della compresenza di essere e divenire che caratterizza i fenomeni.
Il finalismo del mondo è dimostrato dal suo rispondere al criterio del meglio, di cui si fa realizzatore il demiurgo, mentre l'imperfezione del mondo è causata dalla chora, materia sensibile sottoposta al mutamento e alla corruzione. Il termine chora è usato per definire ciò in cui le cose si generano, ma indica anche qualcosa di negativo, simile al non essere.
Nei dialoghi della vecchiaia è presente anche a una rielaborazione delle affermazioni sullo stato e sulla politica. Mentre nella Repubblica Platone analizzava lo stato come un modello ideale, fermo al di sopra dell'esperienza umana, nel Politico lo stato si configura come una mescolanza di cui bisogna trovare la giusta misura. L'arte della politica è l'arte della misura, la ricerca del giusto mezzo di equilibrio fra eccesso e difetto, ed è per questo che non bisogna dare troppa importanza a un corpo di leggi scritte. La legge è paragonata ad un uomo autoritario e ignorante. Eppure, nell'ultimo dialogo, rimasto incompiuto, Platone affida proprio alle leggi il governo dello stato, rinunciando sia alla classe dei governanti che a quella dei custodi e rivalutando la famiglia, in quanto condizione abituale degli individui. Cambia anche il modello politico, non più aristocratico, bensì combinazione di elementi monarchici e principi democratici.
 
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view post Posted on 17/11/2008, 22:15

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L' IPPARCO


Socrate: Dimmi: che cos'è l'avidità di guadagno? Che cosa può essere, e chi sono questi avidi?

Amico: Penso che siano quelli che fanno conto di trarre guadagno da cose di nessun valore.(1) Socrate: Ritieni,

dunque, che essi sappiano che sono prive di valore, oppure che lo ignorino? Perché, se lo ignorano, tu definisci gli avidi

di guadagno gente priva dì intelligenza.

Amico: Tutt'altro che privi di intelligenza! Io piuttosto li definirei uomini scaltri, furfanti e incapaci di resistere al

guadagno; pur riconoscendo come prive di valore le cose dalle quali ardiscono trarre profitto, tuttavia osano, a motivo

della loro sfrontatezza, cercare il guadagno.

Socrate: Intendi forse dire che l'avido di guadagno è simile, per esempio, a un contadino che pianta un albero e, pur

sapendo che esso non ha alcun valore, fa conto di trarne guadagno, una volta fatto crescere? è forse questo che dici?

Amico: Da tutto, certo, o Socrate:, l'avido di guadagno pensa di dover trarre profitto.

Socrate: Non rispondermi così , alla leggera, come se qualcuno ti facesse torto, ma prestami attenzione e rispondi,

come se ti interrogassi di nuovo dal principio: sei disposto o no ad ammettere che l'uomo avido di guadagno sia

consapevole del valore di ciò da cui fa conto di trarre vantaggio?

Amico: Sì . Lo ammetto.

Socrate: Chi è, dunque, colui che, esperto del valore degli alberi, sa in quale stagione e in quale terreno questi

debbano essere piantati - tanto per introdurre, anche noi, alcune di quelle dotte espressioni con cui gli abili avvocati

abbelliscono i loro discorsi?

Amico: Penso si tratti del contadino.

Socrate: Con l'espressione far conto di trarre vantaggio intendi, forse, qualcosa dì diverso dal pensare di dover trarre

vantaggio?

Amico: è proprio questo che intendo.

Socrate: Allora non tentare di ingannarmi, benché io sia ormai vecchio, mentre tu sei così giovane, dandomi risposte

come quelle di poco fa, a cui neppure tu credi, ma dimmi la verità: è possibile secondo te che uno, il quale sia contadino

e, quindi, sappia che l'albero da lui piantato è privo di valore, pensi di trarre vantaggio da esso?

Amico: Per Zeus, no di certo.

Socrate: E ancora: pensi che un cavaliere, consapevole di dare al proprio cavallo biada di scarsa qualità, ignori che

sta rovinando l'animale?

Amico: No, di certo.

Socrate: Pertanto, da questa biada di nessun valore non crede di poter guadagnare.

Amico: No.

Socrate: E ancora: credi che un pilota, il quale abbia fornito la sua nave di vele e timoni di nessun valore, ignori di

subire, in seguito, dei danni e di correre il rischio di perdere la sua stessa vita, insieme con la nave e con tutto quanto

essa si trovi a trasportare?

Amico: Assolutamente no.

Socrate: Pertanto, egli non pensa di trarre guadagno da un equipaggiamento di nessun valore.

Amico: Senz'altro, no.

Socrate: Ma uno stratega, consapevole che il proprio esercito possiede armi di nessun valore, crede dì trarre da esse

vantaggio e pretende di guadagnare?

Amico: Niente affatto.

Socrate: Allora un suonatore di flauto, che disponga di flauti di nessun valore o un citaredo o un arciere con una lira

e un arco di bassa qualità o, in generale, un qualsiasi altro artigiano o uomo di talento, dotati di strumenti e attrezzi privi

di valore, credono di trarre guadagno da queste cose?

Amico: Non mi sembra proprio.

Socrate: Ebbene, chi sono mai coloro che chiami avidi di guadagno? Non certo questi che abbiamo passato in

rassegna, ma quanti, pur riconoscendo di possedere cose di nessun valore, pensano di poterne trarre un guadagno; ma,

così , caro mio, stando alle tue parole, non esiste fra gli uomini alcuno che possa essere detto avido di guadagno.

Amico: Eppure io, o Socrate:, intendo per avidi di guadagno quelli che, a causa della loro insaziabilità, sempre

bramano senza moderazione oggetti assolutamente futili e di poco o nessun valore e cercano di trarne profitto.

Socrate: Ciò naturalmente avviene, carissimo, senza sapere che si tratta di oggetti di nessun valore, perché, su

questo, il nostro ragionamento ci ha smentiti, dimostrandoci che è impossibile.

Amico: Sono d'accordo con te.

Socrate: Se, dunque, non sanno, è chiaro che ignorano, mentre pensano che cose prive di valore ne abbiano molto.

Amico: Sembra così .

Socrate: Ma non è forse vero che gli avidi amano il guadagno?

Amico: Sì . è vero.

Socrate: E tu affermi che il guadagno è il contrario della perdita.

Amico: Sì , certamente.

Socrate: Vi è, dunque, qualcuno, per il quale perdere sia un bene?

Amico: Nessuno.

Platone Ipparco

3

Socrate: Anzi, è un male.

Amico: Sì .

Socrate: Gli uomini sono, dunque, danneggiati dalla perdita.

Amico: Sì . Sono danneggiati.

Socrate: Di conseguenza perdere è un male.

Amico: Sì .

Socrate: Ma il guadagno è il contrario della perdita.

Amico: Sì . è il contrario.

Socrate: Allora il guadagno è un bene.

Amico: Sì .

Socrate: Perciò tu chiami avidi di guadagno quelli che amano il bene.

Amico: A quanto pare.

Socrate: Non sono proprio pazzi, allora, Amico, quelli che definisci avidi di guadagno. Anzi, tu stesso ami o non

ami ciò che è bene?

Amico: Sì . Lo amo.

Socrate: Ma c'è qualche bene che non ami e qualche male, invece, che ami?

Amico: No, per Zeus, non c'è.

Socrate: Allora, ami tutto ciò che è bene allo stesso modo.

Amico: Sì .

Socrate: Coraggio, domandami se anche io non mi comporto allo stesso modo, perché anche io converrò con te sul

fatto di amare ciò che è bene. Ma, oltre a me e a te, tutti gli altri uomini non ti sembrano amare ciò che è bene e aborrire

ciò che è male?

Amico: Mi sembra proprio così .

Socrate: Ma non avevamo riconosciuto che il guadagno è un bene?

Amico: Sì .

Socrate: In questo modo, però, tutti appaiono avidi di guadagno, mentre nessuno di cui parlavamo prima lo era.

Quale, dunque, dei due ragionamenti si dovrà seguire, per non cadere in errore?

Amico: Questo, Socrate:, credo succederà solo se si comprenderà correttamente chi sia l'avido di guadagno: è giusto

considerare tale chi si prodiga in tal senso e cerca di trarre guadagno dalle stesse cose da cui gli uomini per bene non

oserebbero farlo.

Socrate: Ma, vedi, o dolce Amico: poco fa convenimmo sul fatto che guadagnare equivalga ad ottenere vantaggio.

Amico: Ebbene, che cosa vorresti dire con questo?

SOCRATE: Che, oltre a ciò, giungemmo anche a un'altra ammissione: tutti e sempre non vogliono altro che il bene.

Amico: Certamente.

Socrate: Perciò anche i buoni vogliono ottenere ogni tipo di guadagno, se è vero che il guadagno è un bene.

Amico: Tuttavia, o Socrate, non quei guadagni dai quali finiranno con l'essere danneggiati.

Socrate: Con l'essere danneggiati intendi il subire una perdita, o che altro?

Amico: Niente d'altro: mi riferisco al subire una perdita.

Socrate: L'uomo viene, dunque, danneggiato dal guadagno o dalla perdita?

Amico: Da entrambe le cose: perché ci si rimette a causa di una perdita, ma anche a causa di un cattivo guadagno.

Socrate: E ti pare mai che una cosa utile e buona possa essere cattiva?

Amico: No, affatto.

Socrate: Non abbiamo, forse, riconosciuto, poco fa, che il guadagno è il contrario del male, rappresentato dalla

perdita?

Amico: Sì . Lo ammetto.

Socrate: E che, inoltre, essendo il contrario di un male, è un bene?

Amico: Sì . Lo abbiamo riconosciuto.

Socrate: Ecco, allora: tu cerchi di ingannarmi, dicendo di proposito il contrario di quanto poco fa avevamo

convenuto.

Amico: No, per Zeus, o Socrate:, ma, al contrario, sei tu che inganni me e, non so come, nel corso della discussione,

riesci a rivoltarmi in un senso e nell'altro.

Socrate: Ti prego di tacere. Non agirei certamente bene se non prestassi ascolto ad un uomo nobile e saggio.

Amico: A chi dovresti dare ascolto e, soprattutto, che cosa dovresti ascoltare?

Socrate: Si tratta di un mio e di un tuo concittadino, figlio di Pisistrato,(2) del demo di Filaide:(3) Ipparco,(4) il

maggiore e il più sapiente tra i figli di Pisistrato, il quale, tra le molte altre belle prove della sua sapienza, fu il primo a

introdurre in questo paese i poemi di Omero e costrinse i rapsodi a recitarli alle Panatenee,(5) gli uni dopo gli altri e in

ordine, come ancora oggi essi fanno; dopo averlo mandato a prendere con una nave a cinquanta remi, fece venire ad

Atene Anacreonte di Teo,(6) mentre Simonide di Ceo (7) lo aveva sempre al suo fianco, persuadendolo a restare con

grandi ricompense e doni. Si comportava così con l'intento di istruire i cittadini, per poter regnare su uomini che fossero

i migliori possibile, nella convinzione che a nessuno si dovesse negare il diritto alla sapienza, da quell'uomo eccellente

che era. Dopo che ebbe istruito gli abitanti della città e tutti lo ammiravano per la sua sapienza, con l'intenzione di

istruire anche quelli che vivevano in campagna, fece per loro disporre delle Erme (8) lungo le strade, a mezzo cammino Platone Ipparco

4

fra la città e i singoli demi; e, dopo aver scelto dal bagaglio del suo sapere le massime che riteneva più sagge, in parte

apprese, in parte da lui stesso trovate, di sua mano le mise in versi elegiaci e le fece incidere sulle Erme, come

documenti della sua arte e della sua sapienza, affinché, per prima cosa, i concittadini non si meravigliassero delle

sapienti iscrizioni di Delfi, come il "Conosci te stesso", il "Nulla di troppo" e altre simili, ma considerassero più sagge

le parole di Ipparco; e poi perché, nel percorrere le strade avanti e indietro, leggendo e gustando la sua sapienza,

lasciassero i campi per recarsi in città ed essere istruiti anche nel resto. Le iscrizioni sono due: nella parte sinistra di

ciascuna Erma è inciso il nome di Ermes, che dice di trovarsi a metà strada tra la città e il demo, mentre nella parte

destra si legge: "Monito di Ipparco: procedi con giusti pensieri". Vi sono poi anche molte altre belle massime incise su

altre Erme; in particolare, quella sulla via Stiriaca, (9) nella quale si legge: "Monito di Ipparco: non ingannare l'amico".

Dunque non oserei di certo ingannare te che sei un mio amico, né, tantomeno, disobbedire ad un uomo così importante.

Dopo la sua morte, per tre anni gli Ateniesi subirono la tirannide di suo fratello Ippia,(10) e da tutti i vecchi avrai

avuto modo di apprendere che solo in quegli anni ad Atene ci fu la tirannide, mentre prima gli Ateniesi vivevano quasi

come sotto il regno di Crono.(11) Si racconta, poi, da parte dei meglio informati, che la sua morte avvenne non, come

pensano i più, per aver recato offesa alla sorella di Armodio, durante la caneforia (12) - questa sarebbe, infatti, una

motivazione sciocca -, ma per il fatto che Armodio era l'amante di Aristogitone ed era stato educato da lui; di

conseguenza Aristogitone andava fiero di averlo istruito e riteneva Ipparco un suo rivale. A quel tempo, ad Armodio

capitò di innamorarsi di uno dei giovani belli e nobili di allora - ne riferiscono anche il nome, ma io non lo ricordo.

Questo giovanotto, dunque, fino a quel momento sarebbe stato un ammiratore di Armodio e Aristogitone, a motivo

della loro sapienza, ma, in seguito, col frequentare Ipparco, prese a disprezzarli: essi furono così addolorati da tale

offesa, che uccisero Ipparco. (13) Amico: Corri, allora, il rischio, o Socrate:, o di non considerarmi un tuo amico

oppure, se tale mi ritieni, di non dare retta ad Ipparco: perché io non riesco a convincermi di come tu non mi inganni -

non so, tuttavia, in che modo - con i tuoi ragionamenti.

Socrate: Ebbene, come se giocassi a tavoliere, (14) in questa discussione sono disposto a ritirare quella che vuoi

delle affermazioni fatte, affinché tu non creda di essere ingannato. Tutti gli uomini desiderano ciò che è bene: è, forse,

questo che devo ritirare?

Amico: Assolutamente no.

Socrate: Allora che il perdere, come la perdita, è un male?

Amico: No, certo.

Socrate: Che il guadagno e il guadagnare sono il contrario della perdita e del perdere.

Amico: Nemmeno questo.

Socrate: Che, essendo il contrario di ciò che è male, il guadagno è un bene?

Amico: Non tutti i guadagni: è proprio questa l'affermazione che devi ritirare.

Socrate: Tu pensi, dunque, a quanto pare, che il guadagno a volte sia un bene, a volte un male.

Amico: Sì .

Socrate: Allora ritiro questa affermazione: si ammetta pure che un guadagno sia buono e un altro cattivo. Ma di

questi il buon guadagno non è più guadagno del cattivo. Non è così ?

Amico: Che cosa vuoi sapere da me?

Socrate: Te lo dirò: il cibo può essere sia buono che cattivo?

Amico: Sì .

Socrate: Forse, dunque, uno di essi è più cibo dell'altro oppure, allo stesso modo, sono entrambi cibi e non c'è

differenza tra l'uno e l'altro, quanto all'essere cibo, ma per il fatto di essere uno buono e l'altro cattivo?

Amico: Sì .

Socrate: Perciò, anche le bevande e tutte le altre cose che esistono e che, pur essendo in sé le stesse, si trovano ad

essere le une buone e le altre cattive, non differiscono fra di loro quanto a quello per cui sono identiche? E questo vale

anche per l'uomo, che può essere buono e malvagio.

Amico: Certo.

Socrate: Tuttavia, credo, nessuno dei due è più o meno uomo dell'altro, né il buono del malvagio, né il malvagio del

buono.

Amico: Hai ragione.

Socrate: E non pensiamo così anche del guadagno, cioè che, buono o cattivo, è pur sempre guadagno?

Amico: Necessariamente.

Socrate: Colui che ottiene un cattivo guadagno non trae, certo, più vantaggio di colui che ottiene un buon guadagno;

pertanto, nessuno dei due sembra essere più guadagno dell'altro, come abbiamo convenuto.

Amico: Sì .

Socrate: Perché a nessuno dei due si può applicare il più o il meno.

Amico: No, per l'appunto.

Socrate: Come si potrebbe fare o subire qualcosa di più o di meno, in una circostanza del genere, alla quale né il più,

né il meno sono applicabili?

Amico: è impossibile.

Socrate: Poiché, dunque, entrambi sono guadagni allo stesso modo e, per di più, vantaggiosi, occorre che noi

consideriamo per quale motivo tu li chiami entrambi guadagni: che cosa vedi di uguale in essi? E come se mi

domandassi, a proposito degli esempi poco fa citati, perché mai sia il cibo buono, sia il cibo cattivo io li chiami Platone Ipparco

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entrambi cibi allo stesso modo, ti risponderei che li chiamo così perché entrambi sono nutrimento solido per il corpo; e

che il cibo consista in questo, anche tu lo riconoscerai. Non è così ?

Amico: Sì , certamente.

Socrate: La stessa risposta si potrebbe dare anche in riferimento alle bevande: questo è il nome che ha il nutrimento

liquido per il corpo, buono o cattivo che sia: e così anche per il resto. Prova, dunque, anche tu ad imitarmi nel

rispondere così . Tu sostieni che il buon guadagno e il cattivo siano guadagni entrambi: che cosa vedi di uguale in essi,

che sia appunto anche questo guadagno? Se, poi, tu stesso non sai che cosa rispondere, considera le mie parole: chiami,

forse, guadagno ogni acquisto che uno si trovi a fare o senza spendere nulla oppure spendendo di meno di quanto si

ricava?

Amico: Sì . Questo è, credo, quello che io chiamo guadagno.

Socrate: Diresti lo stesso di uno invitato a banchetto che, dopo essersi ben rifocillato, rimediasse una malattia?

Amico: No, per Zeus, assolutamente no.

Socrate: E se, invece, dal banchetto ricavasse buona salute, il suo sarebbe un guadagno o una perdita?

Amico: Un guadagno.

Socrate: Dunque, non è un guadagno fare un qualsiasi acquisto.

Amico: No. Di certo.

Socrate: Questo non vale, forse, solo per un cattivo acquisto? O non sarebbe un guadagno neppure se si facesse un

buon acquisto?

Amico: Penso di sì , se si tratta di un buon acquisto.

Socrate: Se, invece, è cattivo, non sarà una perdita?

Amico: Credo di sì .

Socrate: Vedi, allora, che continui a girare intorno allo stesso punto?

Il guadagno sembra un bene, mentre la perdita un male.

Amico: Non so più che cosa dire.

Socrate: Non senza ragione ti trovi in difficoltà. Rispondi ancora a questo: parleresti di guadagno se si trattasse di

acquistare di più di quel che si spende.

Amico: Non quando si tratta di un male, ma solo nel caso in cui uno, spendendo meno oro e argento, ne ottenesse di

più.

Socrate: Stavo per domandarti proprio questo. Ebbene: se uno, con la spesa di mezza libbra d'oro, ricavasse una

quantità doppia di argento, otterrebbe un guadagno o una perdita?

Amico: Una perdita di certo, o Socrate:: perché l'oro gli viene valutato il doppio, anziché dodici volte tanto.

Socrate: Eppure ha ricevuto di più; o, forse, il doppio non è più della metà?

Amico: Non per il valore dell'argento rispetto all'oro.

Socrate: Di conseguenza, a quanto pare, al concetto di guadagno bisogna aggiungere quello di valore. Ora, per

esempio, dici che l'argento, pur essendo di più dell'oro, non ne ha il valore, mentre ha più valore l'oro, anche se in minor

quantità.

Amico: Naturalmente! Le cose stanno proprio così .

Socrate: Il valore, dunque, grande o piccolo che sia, procura vantaggio, mentre la mancanza di esso è

controproducente.

Amico: Sì .

Socrate: Ciò che ha valore a che cosa vale, secondo te, se non ad essere acquistato?

Amico: Senza dubbio ad essere acquistato.

Socrate: Con il valore si fa un acquisto utile o inutile?

Amico: Utile, senz'altro.

Socrate: Dunque, l'utile è un bene?

Amico: Sì .

Socrate: Orbene, o valorosissimo uomo, di nuovo, per la terza o quarta volta, non giungiamo a riconoscere che ciò

che procura vantaggio è un bene?

Amico: Pare di sì .

Socrate: Bene. Ricordi da dove è scaturita la nostra discussione?

Amico: Penso di sì .

Socrate: Se non lo ricordi, sarò io a rinfrescarti la memoria: tu eri in disaccordo con me, sostenendo che le persone

per bene non vogliono ottenere tutti i tipi di guadagno, ma di essi scelgono i buoni guadagni e scartano i cattivi.

Amico: Sì . è vero.

Socrate: Ed ora la discussione non ci ha costretti a riconoscere che tutti i guadagni, piccoli e grandi, sono un bene?

Amico: Costretto sì , o Socrate, più che persuaso.

Socrate: Ma, forse, più tardi, ne sarai anche persuaso: ora, comunque, persuaso, o in qualunque stato tu sia, sei

d'accordo con me sul fatto che tutti i guadagni sono un bene, piccoli e grandi.

Amico: Infatti sono d'accordo.

Socrate: E che gli uomini per bene vogliono tutti ciò che è bene, qualunque esso sia, lo ammetti o no?

Amico: Sì . Lo ammetto.

Socrate: Invece, riguardo agli uomini malvagi, hai detto tu stesso che amano guadagni sia piccoli, sia grandi.

Platone Ipparco

6

Amico: L'ho detto.

Socrate: Insomma, secondo il tuo ragionamento, tutti gli uomini sarebbero avidi di guadagno, i buoni come i cattivi.

Amico: Sembra di sì .

Socrate: Non muove, dunque, un rimprovero motivato chi rimproveri ad un altro di essere avido di guadagno;

accade, infatti, che chi muove questi rimproveri si trovi nella medesima condizione.
 
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