Pier Paolo Pasolini

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view post Posted on 28/11/2008, 13:30

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Da: valcam1952 (Messaggio originale) Inviato: 25/01/2006 12.41



«Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza:… e io divoro, divoro, divoro… Come andrà a finire, non lo so.»
[da Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960]

Nel Ventidue, «anno immerso nel secolo», l’anno in cui Mussolini va al potere, Pier Paolo Pasolini nasce, a Bologna, il 5 marzo. Il padre, Carlo Alberto Pasolini è ufficiale di fanteria, di antica famiglia ravennate, la madre, Susanna Colussi, è maestra elementare, di famiglia contadina originaria di Casarsa nel Friuli.


Durante l’infanzia e l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre (ufficiale di carriera), si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia. Fondamentali rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, «… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana » — l’incontaminato, primitivo puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.

Dopo il liceo, nel 1939 s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove vive — scrive lo stesso Pasolini — «il grande periodo dell’Ermetismo, studiando con Longhi (1)… e vivendo ingenue relazioni letterarie con i suoi coetanei…»: gli amici Francesco Leonetti, Roberto Roversi e Luciano Serra.

Nel 1942 pubblica a proprie spese un volumetto di poesie che suscita l’interesse di Gianfranco Contini, Poesie a Casarsa. La raccolta è scritta in dialetto friulano, in quella che per lui è «lingua pura per poesia»: in quel momento della storia italiana — motiverà più tardi in Passione e ideologia — «l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica». In quello stesso anno, intanto, il padre — padre «antagonista e tirannico» con cui ha un rapporto conflittuale feroce e tragico — è prigioniero degli inglesi in Africa.

L’8 settembre del ’43 Pasolini fugge da sotto le armi e torna a Casarsa, dalla madre. «I rapporti tra madre e figlio — scrive Enzo Siciliano in Vita di Pasolini (Rizzoli, 1978) — furono sempre i più teneramente strazianti». L’«odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita». Su di lei — confessa il poeta — «tutta la mia vita è stata imperniata».

Dopo la fuga dalle armi, «ossessionato dall’idea di finire uncinato; ché così finivano nel Litorale Adriatico i giovani renitenti alla leva o dichiaratamente antifascisti», Pasolini trascorre i lunghi mesi dell’occupazione nazista nella cittadina friulana e nel vicino borgo di Versuta. Qui, in casa, con mezzi di fortuna, organizza una scuola gratuita per pochissimi alunni, mentre continua ad occuparsi del recupero del dialetto friulano con un gruppo di amici. Nel 1944 esce il primo di due quaderni intitolati Stroligut di cà de l’aga (2) — il primo documento dell’attività del gruppo che nel febbraio del 1945 fonderà l’Academiuta di Lenga Furlana.

Delle privazioni, dei pericoli, degli amori omosessuali, degli incontri, di quegli anni vissuti a contatto con la natura, Pasolini racconta in diari, in scritti autobiografici, e in abbozzi letterari rimasti allora inediti.

Nel maggio del 1945 riceve la tragica notizia della morte del fratello Guido (nato nel 1925). Partigiano nella divisione Osoppo legata al Partito d’azione, Guido Pasolini fu ucciso in un oscuro episodio «da mano fraterna nemica», ossia da gruppi di partigiani comunisti uniti agli svoleni che in quel momento intendevano annettersi il Friuli.

Nell’autunno di quello stesso anno, Pier Paolo si laurea con Carlo Calcaterra, con una tesi dal titolo Antologia della lirica pascoliana (introduzione e commenti). Sempre in quell’autunno, finita la guerra, torna dalla prigionia del Kenia il padre, oramai «reduce malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo,… distrutto, feroce, tiranno senza più potere». Il ritorno del padre, la morte del fratello e il dolore sovraumano della madre rendono questo periodo il più tragico della sua vita.

Nel frattempo, cominciano le pubblicazioni de «Il Stroligut», la rivista dell’Academiuta di Lenga Furlana e prosegue la sua attività poetica. Nel’45 pubblica le raccolte di versi in italiano Poesie e, per le Edizioni dell’Academiuta, I diarii e nel’46 I pianti. Gran parte dei versi scritti dal’43 al ’49 saranno raccolti poi nel volume L’usignolo della chiesa cattolica (1958). In dialetto friulano, invece, uscirà nel’49 Dov’è la mia patria e nel’53 Tal cour di un frut.

Pur continuando a vivere a Casarsa, attraverso vari viaggi a Roma, Pasolini comincia ad ampliare i propri contatti culturali.

Nel 1947, sulla nuova rivista dell’Academiuta, «Quaderno Romanzo», esce un suo intervento nell’ambito del dibattito sull’autonomia del Friuli. Il ’47 è anche l’anno della «scoperta di Marx» e della sua adesione al Partito comunista — ai suoi occhi strumento per «trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza».

Dopo un periodo d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, conclusosi con un processo (3) per corruzione omosessuale e con l’espulsione dal Pci, nel 1949 Pier Paolo, «come in un romanzo», fugge con la madre a Roma. «Per due anni — racconta Pasolini — fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese». Dopo quei «due anni di lavoro accanito, di pura lotta», aggravati per giunta dalla presenza del padre che nel frattempo li ha raggiunti a Roma, nel ’51 si trasferisce da piazza Costaguti, nel quartiere ebraico, a Ponte Mammolo, sulla Tiburtina, «in una casa restata definitivamente senza tetto».

Così Pasolini, anche con l’aiuto dell’amico Sergio Citti (4) — uno dei ragazzi conosciuti in borgata con cui lavorerà fino all’ultimo — scopre il popolo della periferia: la Roma delle borgate che diverrà lo scenario dei suoi romanzi di maggior successo.

Nel contempo, però, comincia a entrare in contatto con gli ambienti letterari romani, con gli scrittori e poeti Penna, Bassani, Caproni, Gadda e Bertolucci. Allacciando, inoltre, uno stretto rapporto con il gruppo di intellettuali che si riunisce intorno alle riviste, «Il contemporaneo», «Paragone» e «Vie nuove», partecipa attivamente a iniziative editoriali, a polemiche letterarie, pubblicando testi di vario tipo.

Si accosta anche all’ambiente del cinema e con l’aiuto di Giorgio Bassani, partecipa alle prime sceneggiature cinematografiche: nel’54, per il film La donna del fiume di Mario Soldati; e l’anno successivo, assieme a Bassani, per Il prigioniero della montagna di Luis Trenker; mentre nel’57 collaborerà, come filologo per le battute in romanesco, alla sceneggiatura de Le notti di Cabiria di Federico Fellini.

Migliorata intanto la sua situazione economica, si trasferisce...

in un appartamento nel quartiere di Monteverde Nuovo. Prosegue nel contempo la sua produzione poetica: nel 1954 raccoglie tutti i versi scritti in dialetto, specie a Casara durante gli anni della guerra e del dopoguerra, nel volume La meglio gioventù. Al fitto lavoro di studio e riscoperta della tradizione dialettale italiana che accompagna la sistemazione di questa raccolta, sono legate due importanti antologie: Poesia dialettale del Novecento, scritta con M. Dell’Arco (1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955). Alla poesia dialettale Pasolini tornerà poi solo nel 1974 con Seconda forma de «La meglio gioventù», rifacimento della prima. La prima e la seconda forma della raccolta verranno infine pubblicate nuovamente nel 1975, con il titolo La meglio gioventù.

Nel 1955, con gli antichi compagni d’università, Leonetti e Roversi, fonda a Bologna la rivista critica «Officina» (5), che vede anche la collaborazione di Fortini, Volponi e molti altri critici e intellettuali militanti. In quello stesso anno dà alle stampe il primo romanzo, destinato a dargli il successo e la fama, Ragazzi di vita. Nel chiuso orizzonte degli anni Cinquanta il libro suscita accese polemiche e Pasolini viene incriminato per oscenità.

Stringe intanto nuove amicizie, in particolar modo con Alberto Moravia, Elsa Morante e con l’attrice Laura Betti; e si fa protagonista di varie polemiche politiche e intellettuali. Nonostante la notorietà, tuttavia, Pasolini continua a trascorrere la maggior parte della sua vita «al di là del confine della città, oltre i capolinea». E il mondo del sottoproletariato romano gli ispira, oltre ad alcuni versi contenuti nelle raccolte di poesie Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961), un nuovo romanzo Una vita violenta (1959).

A partire dal 1960 Pasolini passa dalla letteratura al cinema. Nel giro di pochi anni firma, oltre a varie sceneggiature, la regia di numerosi film, inizialmente di scarso successo, ma che comunque impongono la sua figura sulla scena pubblica, suscitando spesso scandalo e polemica. Nell’autunno del 1961 è vittima di una campagna diffamatoria e viene addirittura accusato di rapina a mano armata. La sua fama intanto si diffonde anche sul piano internazionale e le sue opere vengono tradotte in numerose lingue.

Ai viaggi con Alberto Moravia in Africa e in India — da cui è nato L’odore dell’India (1962) — nel corso degli anni, seguono numerosi altri viaggi in tutto il mondo, soprattutto in Africa e nei Paesi islamici. L’attività cinematografica, inoltre, gli consente di allargare i suoi contatti con gli ambienti più diversi. Stringe amicizia con la grande cantante lirica Maria Callas, protagonista del film Medea, ma in molti suoi film fa recitare anche l’amico, il ragazzo di borgata Ninetto Davoli, quel “barbaro” innocente che per Pasolini incarna il mito della Roma assediata dai “barbari”, al sud-est della cintura urbana. E di alcuni film Pasolini è interprete egli stesso.

Nel contempo, anche negli anni Sessanta, prosegue la sua attività di narratore, di poeta, di saggista e polemista. Nel’60 escono Roma 1950, Diario, Sonetto primaverile, Il sogno di una cosa (romanzo scritto tra il ’48 e il ’49) e Passione e ideologia (raccolta di saggi critici scritti tra il ‘48 e il ‘58); mentre nel ’64 viene pubblicata la raccolta di poesie Poesia in forma di rosa, cui segue nel’65 Alí dagli occhi azzurri (volume che raccoglie una serie di racconti e bozzetti).

Nel 1964 grande risonanza ha il suo intervento sulla «questione linguistica»: la tesi da lui espressa nel saggio Nuove questioni linguistiche è criticamente controbattuta da filologi, linguisti, letterati, scrittori e sociologi.

Il 1965 segna l’inizio della sua produzione teatrale. Oltre alla stesura del Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato nel 1968 sulla rivista diretta dal ’66 con Moravia e Alberto Carocci, «Nuovi Argomenti»), scrive e pubblica con tempi e modalità diverse una serie di sei «tragedie»: Pilade, Affabulazione, Calderón, Orgia, Porcile (legata all’omonimo film) e Bestia da stile.

I suoi numerosi saggi critici e interventi degli anni Sessanta sulla letteratura, il cinema e la lingua sono raccolti nel volume Empirismo eretico (1972); mentre una scelta di testi della rubrica di corrispondenze con i lettori tenute, da ’60 al ’65, su «Vie nuove», è contenuta nel volume Le belle bandiere, uscito postumo nel 1977.

Nel 1968 suscita scalpore e accese polemiche il suo clamoroso intervento poetico Il Pci ai giovani!!, con cui attacca duramente e amaramente il Pci e difende i poliziotti d’origine proletaria contro gli studenti, figli di borghesi e piccolo-borghesi. Nel 1971 dà alle stampe Trasumanar e organizzar, la raccolta di versi in cui si trovano già parzialmente svolti i temi dei suoi successivi scritti giornalistici.

Negli anni successivi, infatti, s’intensifica notevolmente la sua attività di critico militante sui giornali e sulle riviste. Sul settimanale «Tempo» tiene dal ’68 al ’70 la rubrica Il caos, i cui interventi sono stati parzialmente raccolti nel volume postumo Il caos (1979); mentre sempre sullo stesso settimanale dal ’72 al ’74 curerà una rubrica di critica letteraria, la cui fitta serie di rigorose e nitide recensioni sono state pubblicate anch’esse postume in Descrizioni di descrizioni (1979).

Il vertice della saggistica provocatoria dell'autore è costituito, però, da due volumi: la raccolta di interventi apparsi su vari giornali dal ’73 al ’75, Scritti corsari (1975), e Lettere luterane, raccolta — uscita postuma nel 1976, ma già progettata con questo titolo dall’autore — di articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» e su «Il Mondo» nel corso del 1975, fino all’intervento per il congresso del partito radicale, letto dopo la morte di Pier Paolo Pasolini.

In questi scritti, rivelatisi con il trascorrere degli anni profetici, Pasolini, come un «corsaro», eretico, solitario e controcorrente, si fa censore del costume nazionale, scagliandosi contro tutto ciò che sente inautentico. Contro il mondo borghese, il capitalismo e il neocapitalismo, la società di massa e il consumismo, il villaggio globale, la televisione, l’omologazione, la rivoluzione antropologica, il Palazzo (6), contro il Sessantotto, l’aborto, il divorzio, contro lo stalinismo e l’invasione dell’Ungheria…

Ferocemente e dolorosamente ripiegato in un pessimismo assoluto nei confronti della realtà violentemente degradata, Pier Paolo Pasolini, il corsaro dalla disperata vitalità, muore assassinato in circostanze oscure tra il I° e il 2 novembre 1975. All’alba del 2 novembre viene trovato ucciso in uno spiazzo polveroso, all’Idroscalo di Ostia, e per una raccapricciante fatalità, proprio nella periferia suburbana di Ragazzi di vita, di Una vita violenta e di Accattone.

Pochi giorni dopo la morte, esce La divina Mimesis, singolare «riscrittura» dell’Inferno dantesco; dopo di che negli anni seguenti vedono la luce numerosi altri suoi testi inediti, sparsi o incompiuti. Ricordiamo, per quanto riguarda la narrativa, Amado mio. Atti impuri (1983) e Petrolio (1992); per la poesia, Le poesie (antologia, 1975), Poesie e pagine ritrovate (1980), Poesie dimenticate (1980). Per quanto riguarda la saggistica e gli scritti giornalistici, oltre ai volumi già menzionati, sono usciti postumi Il sogno del centauro (1983), Lettere agli amici. 1941-1945 (1976), Lettere 1940-1954 (1986), Volgar’eloquio (1987), Lettere 1955-1975 (1988), Il portico della morte (1988), I dialoghi (1992), Antologia della lirica pascoliana (1993), Vita attraverso le lettere (1994), Interviste corsare (1995).

Le sorprendenti analogie nella vita, nell'opera e nella morte di Pasolini e Caravaggio, vengono trattate nell'articolo Dove l'acqua del Tevero s'insala.

Un abbozzo di esposizione del rapporto di Pasolini con i dialetti si trova nell'articolo La so storia a è duta lì, lavorà, preà, patì, murì

Nell'articolo L'anima e la carne, nella tensione tutta mortale dei personaggi dei film Il Vangelo secondo Matteo o di Una vita violenta, viene trattato uno dei drammi più violenti dell’uomo Pasolini.

La voracità con cui l'autore si nutre del reale, e ci si getta a capofitto — energico e vigoroso come un ragazzo che prende di petto un’estate e la vita — la vita come una lunga estate – viene analizzata nell'articolo L'estate, la sera. Atmosfere, luoghi, tempi in Pier Paolo Pasolini.

Nel saggio La filologia politica di Pier Paolo Pasolini, la proposta dello scrittore aggiunge un particolare nuovo al modello lirico italiano: la filologia come capacità di collegare i frammenti per poter indovinare, in mancanza di prove e indizi, i «nomi» dei «colpevoli».


Supplica a mia madre






E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…


Pier Paolo Pasolini



Edited by birillino8 - 19/6/2009, 22:41
 
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view post Posted on 3/6/2009, 20:45

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Il canto popolare

Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! in branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.

1952-53

 
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view post Posted on 15/6/2009, 19:36

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Verso le Terme di Caracalla

Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni...
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte...

Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natie
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi - già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia - il pastore
migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e
giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,

rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po' gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.

Vanno verso le Terme di Caracalla

 
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view post Posted on 23/6/2009, 22:43

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Sesso, consolazione della miseria!

Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un'antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.
I magnaccia, attorno, a frotte,
gonfi e sbattuti, coi loro baffi
brindisi o slavi, sono
capi, reggenti: combinano
nel buio, i loro affari di cento lire,
ammiccando in silenzio, scambiandosi
parole d'ordine: il mondo, escluso, tace
intorno a loro, che se ne sono esclusi,
silenziose carogne di rapaci.

Ma nei rifiuti del mondo, nasce
un nuovo mondo: nascono leggi nuove
dove non c'è più legge; nasce un nuovo
onore dove onore è il disonore...
Nascono potenze e nobiltà,
feroci, nei mucchi di tuguri,
nei luoghi sconfinati dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti.

Nella facilità dell'amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.
I figli si gettano all'avventura
sicuri d'essere in un mondo
che di loro, del loro sesso, ha paura.
La loro pietà è nell'essere spietati,
la loro forza nella leggerezza,
la loro speranza nel non avere speranza.

 
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view post Posted on 24/6/2009, 14:11

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Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...

Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

 
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Nuovi epigrammi (1958-59)

Alla bandiera rossa

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.

 
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view post Posted on 26/6/2009, 20:37

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Poesie incivili (aprile 1960)

Frammento alla morte

Vengo da te e torno a te,
sentimento nato con la luce, col caldo,
battezzato quando il vagito era gioia,
riconosciuto in Pier Paolo
all'origine di una smaniosa epopea:
ho camminato alla luce della storia,
ma, sempre, il mio essere fu eroico,
sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
Si coagulava nella tua scia di luce
nelle atroci sfiducie
della tua fiamma, ogni atto vero
del mondo, di quella
storia: e in essa si verificava intero,
vi perdeva la vita per riaverla:
e la vita era reale solo se bella...

La furia della confessione,
prima, poi la furia della chiarezza:
era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
sentimento! E adesso,
accusino pure ogni mia passione,
m'infanghino, mi dicano informe, im
puro
ossesso, dilettante, spergiuro:
tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
e vinco, questo mio poco,
immenso bene, vinco quest'infinita,
misera mia pietà
che mi rende anche la giusta ira amica:
posso farlo, perché ti ho troppo patita!

Torno a te, come torna
un emigrato al suo paese e lo riscopre:
ho fatto fortuna (nell'intelletto)
e sono felice, proprio
com'ero un tempo, destituito di norma.
Una nera rabbia di poesia nel petto.
Una pazza vecchiaia di giovinetto.
Una volta la tua gioia era confusa
con il terrore, è vero, e ora
quasi con altra gioia,
livida, arida: la mia passione delusa.
Mi fai ora davvero paura,
perché mi sei davvero vicina, inclusa
nel mio stato di rabbia, di oscura
fame, di ansia quasi di nuova creatura.

Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l'esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l'ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo,
ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora... ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell'Africa che illumina il mondo.

Africa! Unica mia
alternativa

Pier Paolo Pasolini

 
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view post Posted on 26/6/2009, 20:55

ottimo

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Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d'esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d'amore,
se non d'un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l'antico, vergognoso segreto
d'accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
- nel vostro odio - addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
E' così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.

 
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view post Posted on 26/6/2009, 21:13

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Supplica a mia madre

E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 
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view post Posted on 27/6/2009, 20:38

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L'alba meridionale

II
Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
del capitale, l'epifenomeno (infimo)
dell'avanguardia. La polizia tributaria
(quasi accertamento filosofico
sugli incartamenti di un poeta)
fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
contaminati da carità, dolenti
di inspiegabili consunzioni, e pieni
di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
però con mia gongolante leggerezza perché qua,
non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
Torno, e trovo milioni di uomini occupati
soltanto a vivere come barbari discesi
da poco su una terra felice, estranei
ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
riprendo a Roma le mie abitudini
di bestia ferita, che guarda negli occhi,
godendo del morire, i suoi feritori…

 
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view post Posted on 27/6/2009, 21:13

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Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

 
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10 replies since 28/11/2008, 13:30   117 views
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