Approfondimento
Chiromanzia
Il futuro è nelle nostre mani
di MASSIMO LEONE
Ut audeam dicere me nullo modo in hac arte errare posse.
Bartolomeo della Rocca, detto Cocles.
¿Sabes decir la buenaventura, niña? - sai predire la sorte, ragazzina? - con questa frase, semplice e diretta, l'escudero de brazo della signora Clara interpella la Gitanilla, la zingarella, protagonista di una delle Novelle esemplari di Cervantes. Il genio spagnolo, per il quale, è noto, la penna è la lingua dell'anima, condensa in poche battute tutte le astuzie, le credenze, le superstizioni di un costume popolare assai antico, su cui lo scrittore getta uno sguardo fra l'ironico e il divertito. De tres o cuatro maneras - in tre o quattro modi, risponde la piccola, e in effetti molteplici sono i metodi escogitati dall'uomo, nel corso dei secoli, per predire il futuro. Anzi, sono sicuramente più di tre o quattro. Se si deve prestar fede al Practica compendiosa artis Raymundi Lulli, stampato a Lione nel 1523, le arti del futuro includerebbero la chiromanzia, l'astragalomanzia, la cosmomanzia, la sternomanzia, l'alectromanzia, la piromanzia, l'alphitomanzia, l'aleuromanzia, la critomanzia, l'idromanzia e la geomanzia
Il suffisso -manzia, infatti, può essere applicato quasi a tutto, e specialmente all'interpretazione di quei segni la cui creazione esula dal controllo immediato dell'uomo, e che per ciò stesso divengono indizi per predirne la sorte: il contorcersi sinuoso di una fiamma, il depositarsi del caffè nel fondo di una tazza, la foggia delle viscere di un animale, l'annerirsi di uno specchio, sono tutti avvenimenti regolati da leggi a noi ignote, forse le stesse che guidano segretamente la nostra vita. Imparare a interpretare questi fenomeni, dunque, significa saper riconoscere le oscure trame che pervadono l'universo. Ma non tutti vi possono riuscire. Non è un caso, a nostro avviso, che la tradizione abbia attribuito agli zingari e ai girovaghi questa capacità. Colui che dimora in un luogo, circondato sempre dagli stessi volti e dagli stessi agi, cerca di sfuggire alle bizzarrie di un futuro imprevedibile, forse casuale, trincerandosi all'interno di una prigione di abitudini, di regolarità, di sicurezze. Così facendo, però, l'uomo sedentario perde l'abilità di riconoscere la minaccia del caos, di una realtà che si sottrae a qualsiasi controllo; egli rischia persino di divenire arrogante, presuntuoso. Ed ecco allora la necessità di colui che non ha una patria, né una lingua, né un lavoro, e che per questo percepisca su di sé, sulla propria pelle, nella fame, nella sete, nel mutare capriccioso dei venti o nel tumulto dei viaggi, il peso di forze al di là del nostro dominio. L'incontro con questi individui è allora un'occasione preziosa, come rivelano le esclamazioni con cui la signora Clara accoglie l'arrivo della Gitanilla: niña de oro, y niña de plata, y niña de perlas - ragazzina d'oro, e d'argento, e di perle.
E fra tutte le forme inspiegabili che ci circondano, e che ci ricordano l'insondabilità della nostra esistenza, quale ci è più vicina delle nostre mani, le stesse che vediamo compiere mille gesti, mille attività, mille operazioni? Apriamo il palmo delle nostre mani: vi scorgeremo un reticolo irregolare di linee, un labirinto in cui l'indovino cercherà di addentrarsi, nel tentativo di dare un senso a ciò che in apparenza non ne ha, e rammentarci che, per quanto queste mani possano cercare di cambiare il mondo, il mondo vi ha già inscritto, sin dalla nascita, la sua impronta. Denle, denle la palma de la mano a la niña - le dia il palmo della mano, suggeriscono alla signora Clara, y verán qué de cosas les dice; que sabe más que un doctor en melecina; questa zingarella sa predire il futuro più e meglio di come non possa farlo un medico, perché non utilizza i sintomi, i segni della scienza, ma i segni che la scienza si rifiuta di interpretare. Fra tutti questi segni, la piccola gitana sceglie di leggere quelli che popolano il palmo di una mano.
Vi sono più ragioni per cui queste forme, apparentemente insensate, si sono trasformate nel paradigma sul quale l'indovino (il chiromante) traccia la propria immaginazione del futuro. Alcune di esse sono di ordine semiotico: la mano è una parte del nostro corpo, forse quella che più ci identifica nella nostra umanità, ed è stato facile associarla con un discorso che parli del destino dell'uomo, di quello che egli riuscirà a realizzare, o il modo in cui fallirà, grazie all'uso di queste stesse mani. In secondo luogo, le mani, e in particolare il palmo, offrono allo sguardo una costellazione di forme, che si potrebbero categorizzare utilizzando il lessico della semiotica visiva contemporanea: dei segni eidetici - le linee, i punti, le geometrie che si disegnano sulla mano, ma anche gli spessori, le profondità, le lunghezze; dei segni topologici - la posizione di queste forme fra loro e nel contesto del palmo della mano; dei segni cromatici - le sfumature di colore dei diversi punti della superficie. In terzo luogo, il fatto che nel palmo della mano si possano distinguere alcune linee più spesse e altre meno marcate, alcune più lunghe e altre più corte, consente all'indovino di articolare un vero e proprio discorso, in cui accanto a certe direttrici principali (che identificano le dimensioni fondamentali dell'esistenza: la salute, l'amore, il denaro, la fortuna) vi siano degli elementi secondari, che invitano a una precisione maggiore, a una ricerca delle sfumature. In quarto luogo, la forma di ogni mano, e la minuta rete di segni che la ricopre, è unica per ogni individuo, come unico è anche il destino di ciascuno, il futuro che lo attende. Infine, non si può trascurare il fatto che la linea in sé sia una potente metafora dello scorrere del tempo, del sorgere del presente dal passato e del suo lento affondare nel futuro: di qui, i primi chiromanti avranno tratto l'idea che nel palmo della mano si trovi già inscritto il corso dell'esistenza di un uomo, tanto più che la mano e le sue linee l'accompagnano dalla nascita sino alla morte, senza che nulla di ciò che gli accade possa mutare queste forme attribuite dal destino.
Accanto a queste ragioni semiotiche, tuttavia, legate alla conformazione stessa della mano umana, ve ne sono altre di carattere storico, che si mescolano inscindibilmente alle prime. A nostra conoscenza, Aristotele è il primo autore a collegare una certa conformazione del palmo della mano con alcune caratteristiche della vita di una persona. Nell'Historia Animalium (i, 15) lo stagirita sostiene che gli individui longevi mostrano una o due linee che corrono ininterrottamente attraverso la mano; in quelli dalla vita breve, invece, le due linee vi sono, ma esse non attraversano il palmo per intero (1). In seguito, numerosi autori utilizzarono questo breve passo aristotelico per conferire prestigio alle proprie teorie chiromantiche. Plinio, ad esempio, nel libro undicesimo della Naturalis Historia (114) attribuisce ad Aristotele l'idea che le linee spezzate nel palmo di una mano indichino una vita breve. Simili allusioni, sempre attribuite ad Aristotele, vi sono anche nei Problemata e nei Physiognomica. Sin dai tempi di Giovenale, comunque, la pratica di consultare un chiromante riceve una connotazione sociale abbastanza negativa: nelle Satiræ il poeta latino ironizza sulla curiosità e sulla vanità delle donne, e aggiunge che quelle delle classi superiori si rivolgono agli astrologi Caldei, mentre quelle di estrazione media frontemque manumque præbebit vati (vi, 581). Ma a partire da Artemidoro (II secolo d.C.), del quale si dice che abbia scritto un'opera intitolata Χειροσκοπικα, non si incontra più alcun riferimento alla pratica della chiromanzia, e bisogna attendere l'inizio del XIII secolo per ritrovare dei manoscritti medievali dedicati a quest'arte del futuro. Nella loro forma più semplice, tali manoscritti non presentano alcun riferimento all'astrologia, e non sono altro che una serie di commenti che accompagnano dei disegni di mani, e che illustrano perlopiù le tre linee principali (uno di essi è stato ristampato nel De Cheiromantia Libri III - Magonza, 1541). Il secondo tipo di manoscritti è quello della Summa Chiromantiæ, che è stato tramandato in forma più o meno inalterata sino ai giorni nostri. Le linee principali del palmo sono quattro, mentre a ciascuna delle dita è associato un pianeta. Segue poi la descrizione e l'interpretazione divinatoria delle figure del triangolo, delle linee, delle linee sorelle, del quadrangolo, delle colline, delle linee speciali che si trovano nel palmo della mano, più alcune considerazioni generali sulle proporzioni della mano, sulle unghie, sulle giunture, sulle figure speciali. Un esempio di questo trattato generale di chiromanzia è quello contenuto nello pseudo-aristotelico Cyromancia Aristotelis (Ulm, 1491). Vi è poi un terzo tipo di manoscritti, che contiene descrizioni ancora più dettagliate e disegni di mani, un quarto di manoscritti che attribuiscono ad Aristotele (falsamente) l'invenzione della chiromanzia, mentre il quinto tipo è quello che si riferisce al trattato di chiromanzia compilato da Rodericus de Majoricis (Oxford University). La chiromanzia raggiunse però il suo apice di popolarità nel XV e nel XVI secolo, quando vennero pubblicati a stampa i primi trattati dedicati a questa pratica: Die Kunst Ciromantia, di Johann Hartlieb (Augsburg, 1475), seguito dallo stesso Cyromancia Aristotelis cum figuris (Ulm, 1490), dal Libellum de chyromantia di Antioco Tiberto (Bologna, 1494), dal De Chiromantiæ Principiis et Physiognomiæ dell'Achillini, (Bonn, 1504), dalle Introductiones Apotelesmaticæ di Johannes ab Indagine (Strasburgo 1522). Ma è forse con un'opera di Bartolomeo della Rocca, detto Cocles, la Chyromantie ac physonomie Anastasis cum approbatione magisteri Alexandri de Achillinis (Bologna, 1504) che la chiromanzia toccò il suo zenit rinascimentale.
Nato il 19 marzo 1467, alla terza ora della notte sul meridiano di Bologna, Cocles lasciò il suo villaggio natale (Tuguriolum) per recarsi a Imola, ove predisse ai principi locali la perdita del loro dominio. Quindi si spostò a Faenza, e vaticinò una sorte avversa ad Astorgio di Faenza, che morì poco dopo. Ritroviamo poi Cocles a Cesena e a Pesaro. A Julius Varanus di Camerino predisse un destino amaro per lui e per i suoi figli. Infine, dopo varie peregrinazioni, disavventure e nefaste predizioni, Cocles ritornò nella città natale, dove scrisse il suo trattato sulla chiromanzia. In quest'opera, l'autore menziona un altro scritto, dedicato a Giovanni Bentivoglio, nel quale Cocles avrebbe predetto i diversi tipi di morte cui vari personaggi famosi del suo tempo sarebbero incorsi. Quest'opera, qualora sia mai esistita, è sfortunatamente scomparsa, ma secondo Cardano e Paolo Giovio, due cultori delle arti del futuro, Cocles vi avrebbe predetto persino la propria morte, con esattezza di dettagli e precisione di tempi. L'abilità di questo chiromante nel vaticinare il fato avverso dei potenti del suo tempo non dovette essergli di grande giovamento. È assai facile, infatti, scambiare un indovino per un uccello del malaugurio, e una lunga tradizione di testi ammonisce sul destino riservato alle Cassandre di ogni epoca. In effetti, Cocles fu assassinato il 24 settembre del 1504, apparentemente per ordine di Ermete (il quale, ironia della sorte, portava il nome del dio dei misteri), figlio di Giovanni Bentivoglio, cui Cocles aveva predetto la morte in battaglia (2).
Numerose leggende circolarono, fra il XVI e il XVII secolo, intorno alla vita di Cocles. Secondo Cardano (De exemplis centum geniturarum, in Opera, 1663, V, 468), egli non era che un barbiere girovago e ignorante che intraprese lo studio della fisiognomica e della chiromanzia con tale zelo che fu poi in grado di scrivere un'opera in latino e divenire, così, oggetto d'ammirazione della sua epoca. Che un grande contributo alla fisiognomica e alla chiromanzia sia stato dato da un barbiere è un fatto sorprendente, ma non inspiegabile: osservare centinaia di volti, scrutarne a fondo le fattezze prima di procedere al taglio della barba, o dei capelli, deve aver conferito a Cocles una speciale sensibilità, acquisita empiricamente, nel collegare i tratti del volto con quelli dell'anima. Un autore del XVII secolo, l'Alidosi (I dottori bolognesi, 1623) riporta un'altra leggenda bizzarra: avendo previsto che il proprio fato sarebbe stato quello di essere ucciso con un colpo alla testa, Cocles portava sempre una placca di metallo nascosta nel copricapo. Ma l'assassino, travestito da venditore di legname, lo colpì alla testa con un fascio di bastoni allorché Cocles gli aprì la porta di casa sua, per farlo entrare. Lo stesso Alidosi cita dei versi del Pontano che, per quanto scritti prima della morte violenta di Cocles, gli sembrarono profetici del destino riservato al grande chiromante, vittima delle sue stesse profezie:
Cur caput armatum galea? latus ense revinctum est?
Vim fati radios dixtin'habere tuos?
Sed video melius fatum est nescire scivisse,
Quano nihil prodest tela nec arma valent.
Vi è una corposa tradizione di avvenimenti (e ammonimenti) analoghi nella storia della chiromanzia (o, in generale, in quella delle arti del futuro): chi, avendo conosciuto il proprio destino, tenta di sfuggirgli, ne viene colpito in modo ancora più duro, e spesso con un vigore accentuato dall'ironia (celebre la leggenda, diffusa in numerose versioni diverse, del cacciatore cui un infallibile indovino predice che morirà incornato da un alce; l'uomo si rinchiude quindi nella propria casa, per poi finire ammazzato dalla testa d'alce appesa sul proprio letto, cadutagli addosso durante la notte).
Cocles intitolò il proprio trattato Anastasis, o rinascita, in quanto riteneva di aver risollevato la fisiognomica, e soprattutto la chiromanzia, dalle polveri dell'oblio. In realtà, come abbiamo avuto modo di osservare, la chiromanzia era già molto diffusa presso numerosi autori medievali, e quantunque Cocles proclamasse di aver ricevuto dalle stelle le sue conoscenze, le fonti che egli cita nella propria opera stanno a dimostrare il contrario. L'Anastasis si divide in sei parti: la prima tratta dei principi generali della fisiognomica; la seconda concerne tutto il corpo umano, dalla testa ai piedi, e si svolge nella forma di un dialogo fra Cocles e il discepolo Augustinus; la terza parte discute della relazione dei pianeti con la fisiognomica, e considera in dettaglio le linee della fronte; la quarta parte, invece, è interamente dedicata alla chiromanzia, di nuovo nella forma di un dialogo fra l'autore e il suo allievo. La quinta parte contiene un trattato ascritto da Cocles a Pietro d'Abano, mentre il sesto e ultimo libro del trattato è di ordine pratico, e si compone di ben trecento capitoli, tutti dedicati alla lettura della mano (De chyromantia parva cum capitulis distinctis et recollectis in chyromantia magna). La chiromanzia, infatti, secondo quest'autore, è una delle più eccelse arti del futuro, anche se non è affatto la sola: l'accompagnano la piromanzia, l'idromanzia, la negromanzia, la vaticinazione e l'interpretazione dei sogni, la spatulomanzia (lo studio delle ossa di una capra macellata di recente), la litteramanzia, la nomanzia (rispettivamente, la predizione del futuro tramite le lettere o i nomi), la solmanzia (con i raggi del sole), la venamanzia e l'umbilicomanzia, nonché un metodo assai poco poetico, la spennatura dei polli come arte del futuro.
Ma quando si tratta di stabilire quale sia la pratica più affidabile, Cocles non ha dubbi: la fisiognomica e la chiromanzia sono superiori a qualsiasi altro metodo, la seconda essendo ulteriormente preferibile alla prima in quanto le linee della mano permangono invariate durante tutta la vita, mentre i tratti del volto possono mutare considerevolmente. Sull'una e sull'altra disciplina, poi, Aristotele proietta la sua ombra prestigiosa e rassicurante. Ma se la filosofia del Rinascimento cerca di dare un senso al caos, di spiegare l'ignoto, attraverso il riferimento alla scolastica medievale, e, direttamente o indirettamente, ad Aristotele e alla filosofia greca, altre culture hanno sviluppato una propria tradizione chiromantica, indipendente da quella greco-latina (sebbene le varie tradizioni si intersechino a volte in modi che è assai difficile ricostruire).
Nella cultura ebraica, la chiromanzia ha il suo fondamento biblico in un versetto del libro di Giobbe (37, 7) che recita: "Egli sigilla la mano di ogni uomo, così che ogni uomo possa conoscere il suo lavoro". Già nel Medioevo, molti chiromanti cristiani avevano già utilizzato questo versetto come prova del fatto che le linee incise nel palmo della mano di ogni uomo siano una sorta di scrittura divina, un sigillo di Dio sul corpo dell'uomo, indipendente dal libero arbitrio e dalla volontà individuale. Di qui, la possibilità di utilizzare queste linee per conoscere il carattere, e soprattutto il futuro, di ciascuno. Presso gli Ebrei, invece, questo versetto viene interpretato per la prima volta in chiave chiromantica nel XVI secolo, negli ambienti del misticismo Merkabah. La più antica fonte ebraica concernente la chiromanzia è infatti un capitolo dai frammenti ascritti a questa cerchia di mistici, intitolato Hakkarat Panim le-Rabbi Yishma'el, scritto in stile rabbinico. Pare che in questo ambito la chiromanzia fosse usata soprattutto come metodo per discernere se un individuo fosse o meno degno di ricevere degli insegnamenti esoterici. Prima del XVI secolo, i testi della chiromanzia ebraica sono più che altro traduzioni di opere redatte in arabo, mentre dei primi cabalisti (inizi del XIII secolo) sappiamo che "usavano esaminare le linee dei palmi delle mani, perché attraverso di esse i saggi avrebbero conosciuto il fato di un uomo e le buone cose che l'attendevano nel futuro" (Jacob Nazir, Sefer ha-Minhagot). Anche nello Zohar vi sono numerosi riferimenti alla chiromanzia e alla metoposcopia (la lettura delle linee della fronte).
Dopo aver delineato, per quanto a tratti piuttosto grossolani, la semiotica e la storia della chiromanzia (e non abbiamo potuto toccare che le due fonti principali della cultura occidentale, Atene e Gerusalemme, quando invece sarebbe assai interessante addentrarsi nei meandri dell'influenza della cultura araba sulla chiromanzia cristiana ed ebraica, o sulla chiromanzia dell'estremo Oriente) è giunto il momento di porsi alcune questioni. A nostro avviso, ha poco senso chiedersi se sia lecito credere a queste forme di previsione del futuro, alla possibilità di conoscere i giorni a venire scrutando le pieghe della mano. La nostra mentalità occidentale, disincantata in seguito all'avvento dell'Illuminismo e al progresso della scienza, rifiuta persino di prendere in una qualche considerazione una domanda siffatta. Anzi, contrariamente a quanto avviene nella cultura islamica, quella influenzata dal Cristianesimo (e soprattutto dalla teologia cattolica) respinge l'idea di un destino già inscritto, alla nascita, nel palmo della mano di un uomo, e preferisce credere che, almeno in una certa misura, sia l'individuo stesso, nella sua interazione con i mille accidenti che lo attendono a ogni passo dell'esistenza, a plasmare il proprio destino. D'altra parte, questo è uno dei motivi principali della reciproca avversione fra la Chiesa cattolica e la chiromanzia: solo Dio conosce il destino degli uomini, ma esso non si scrive che nello sforzo congiunto della mano e della penna, della grazia e del libero arbitrio. Nonostante gli ultimi due secoli della storia della cultura occidentale siano stati caratterizzati da una progressiva e inesorabile secolarizzazione (ma a proposito dell'epoca attuale alcuni studiosi ravvisano una tendenza contraria, definendola "desecolarizzazione"), l'idea che l'uomo possegga un qualche controllo sulla propria esistenza ci è tanto cara antropologicamente che non riusciamo ad abbandonarla, che non riusciamo a credere fino in fondo che forze oscure e misteriose, visibili solo agli occhi di qualche fortunato indovino, guidino la nostra esistenza. Se dunque le arti del futuro non sono, appunto, che arti, e non riescono a divenire tecniche, né tanto meno scienze, perché allora la chiromanzia sopravvive da secoli, praticamente invariata nel suo corpus di metodi e conoscenze, sin dagli albori della cultura moderna? Perché ancora oggi le strade delle principali città del mondo occidentale, quelle che ostentano a ogni passo la propria modernità post-industriale e globalizzata, sono ancora affollate di chiromanti, più o meno avveduti nella disciplina, che offrono a passanti e curiosi i propri servigi? Perché siamo ancora disposti a pagare, come la Signora Clara della novella di Cervantes, perché ci leggano la mano?
È piuttosto difficile trovare una risposta univoca a tutti questi quesiti, ed è forse necessario scomporli secondo diverse dimensioni. Dal punto di vista antropologico, la paura del futuro è qualcosa di profondamente radicato nell'animo umano (o nei nostri geni, se si vuole adottare una terminologia socio-biologica). I filosofi ci hanno insegnato che il nostro essere è un essere che scorre consapevole verso la morte, anche se gran parte dei nostri sforzi sono tesi a distrarci da questa verità. La chiromanzia, così come le altre arti del futuro, è uno dei tanti piccoli esorcismi che pratichiamo quotidianamente per illuderci di avere un qualche controllo sulla nostra esistenza, sul nostro scivolare inesorabile verso il non essere. Da un punto di vista psicologico, la chiromanzia, così come le altre arti del futuro, prosperano perché soddisfano il nostro desiderio narcisistico di incontrare un discorso che parli di noi, e soltanto di noi. Il successo commerciale degli oroscopi, ad esempio, si basa proprio su questa geniale trovata di marketing: lo stesso testo dice la stessa cosa a tutti (o perlomeno, a dodici gruppi di lettori), ma ognuno lo legge e lo interpreta come se gli fosse diretto in maniera specifica, individuale. In realtà, ciò che rende unico il discorso sul futuro non è chi lo pronuncia (per quanto affinate siano le sue capacità retoriche, il chiromante utilizza un lessico piuttosto ripetitivo), ma chi lo recepisce: non sono le parole del chiromante a essere uniche, ma le pieghe nel palmo di ciascuna mano. Queste spiegazioni antropologiche, filosofiche e psicologiche, tuttavia, non spiegano come mai la chiromanzia, nonostante la sua invariata permanenza nella storia, prosperi di più in alcuni periodi piuttosto che in altri. Ancora una volta, trovare delle ragioni precise di queste variazioni è impresa ardua, che richiederebbe uno studio approfondito, e che forse sarebbe comunque destinata a fallire. Si possono, però, come sempre, avanzare alcune ipotesi, sperando che non siano troppo facili da invalidare. Storicamente, la chiromanzia fiorisce proprio in quei periodi nei quali la cultura cosiddetta alta, quella che assai spesso disprezza le tradizioni popolari, propaganda in varie forme e discorsi il rinnovato e migliorato controllo dell'uomo sulla natura, sul caos, sul futuro. Il Rinascimento e l'epoca positivista, ad esempio, così come l'attuale post-modernità tecnologica e globalizzata, sono periodi di grande fervore chiromantico. Questa coincidenza può essere spiegata in due modi diversi. Da un lato, si può ipotizzare che allorché l'umanità prende fiducia rispetto alle proprie capacità e al proprio controllo dell'esistente e dell'esistenza, si sviluppano anche le arti del futuro, quasi come una sorta di arrogante tentativo di estendere il dominio dell'uomo su tutto il vasto ambito dell'inconoscibile. D'altra parte, però, questa spiegazione vale più per l'epoca rinascimentale (nella quale le arti del futuro e le scienze della previsione sono ancora mescolate in maniera spesso inscindibile, e si influenzano e si alimentano reciprocamente) che per quella industriale o post-industriale. Il sospetto, infatti, è che l'attuale fiorire della chiromanzia, dell'astrologia, o di quant'altro, sia un frutto della paura, più che della fiducia, una conseguenza del nostro sentirci profondamente incapaci di controllare le nostre vite, piuttosto che della sicurezza che traiamo dalla precisione delle tecnologie. Non siamo i primi a rilevare il fatto che uno degli effetti negativi del progresso tecnologico, e soprattutto del velocizzarsi dei ritmi di vita (e specie degli scambi comunicativi di ogni tipo) risiede nel fatto che, se fino a due secoli or sono un individuo si sentiva in grado di prevedere il proprio futuro nel lunghissimo termine (nato in un villaggio, vi rimarrò sino alla morte, continuerò il lavoro di mio padre, sposerò una donna della mia stessa estrazione sociale, della mia stessa cultura, i miei figli vivranno accanto a me sino alla morte, etc.), con l'aumentare della rapidità delle comunicazioni la porzione di futuro soggetto al nostro controllo si è accorciata sempre più, fino alla cosiddetta "presentificazione" attuale: viviamo in un presente fatto di istanti scollegati fra loro, incapaci di prevedere se domani avremo lo stesso lavoro, ameremo la stessa persona, vivremo nella stessa città, etc. L'attuale uso (e abuso) delle arti del futuro è sicuramente ricollegabile a questo fenomeno: di fronte alla scomparsa del futuro, il discorso dei chiromanti è uno degli stratagemmi cui ricorriamo per risuscitarlo, per vivere, almeno durante i pochi minuti della lettura di una mano, e in forma di simulacro narrativo, l'illusione di poter proiettare il nostro io al di là dei confini ciechi di un eterno presente. Da questo punto di vista, ci sembra fallace sostenere che la chiromanzia sia sempre esistita, praticamente invariata, dal Medioevo sino ai nostri giorni, giacché quest'arte del futuro non consiste tanto nelle tecniche della lettura della mano (queste, sì, praticamente le stesse da otto secoli), ma nei motivi per cui ciascun individuo si rivolge al chiromante. Fino a oggi, in effetti, si è scritta la storia delle arti del futuro come storia di risposte (quelle degli indovini ai loro committenti); sarebbe forse più interessante conoscere la storia della chiromanzia come storia di domande. Purtroppo se per la prima ricostruzione storica disponiamo di fonti abbondanti (i trattati che abbiamo appena citato), per la seconda le fonti sono molto più difficili da reperire. Bisogna però cogliere un dato interessante: nel Rinascimento, la domanda più insistente, fra quelle rivolte ai chiromanti, riguardava la morte: quando morirò, in che modo, in che circostanze. Nella chiromanzia attuale, invece, questa questione non ricorre mai. Sospettiamo che ciò sia così non solo perché l'idea di morte è stata espulsa dalla nostra cultura per lasciar maggior spazio alle pratiche di consumo, ma anche perché vi sono molte più cose, prima di morire, delle quali siamo assolutamente incerti. Se l'uomo del Rinascimento non sapeva, ovviamente, quando sarebbe morto, ma conosceva più o meno il modo in cui si sarebbe sviluppata la propria vita, oggi questa conoscenza ci è totalmente preclusa. Potremmo ritrovarci a lavorare come esperto di marketing o come tecnico informatico; nella Silicon Valley o a Bombay; etero- o omosessuali; single o in coppia; in un attico nel centro di Milano o in una bidonville dell'America centrale. Le possibilità della nostra esistenza si sono espanse enormemente, ma con esse anche la nostra incapacità di gestirle, la nostra paura del futuro, quell'insicurezza costante del domani che ci ricorda il pensiero della morte e che ci fa morire un po' ogni giorno. Come andrà a finire? Molto male, se continuiamo così - questa è la mia previsione per il futuro. Ma, memore della storia di Cassandra, e della morte di Cocles, non voglio che qualcuno mi fracassi la testa con un fascio di bastoni. Preferisco, allora, stemperare il mio pessimismo con le parole della Gitanilla, quelle che la piccola chiromante rivolge alla Signora Clara dopo averle predetto un futuro doloroso:
No llores, señora mía;
que no siempre las gitanas
decimos el Evangelio;
no llores, señora, acaba.
Non piangere, signora mia,
che non sempre le gitane
dicono il Vangelo;
smetti di piangere, signora mia.
Note
1. Gli autori medievali tramandano abbondantemente una leggenda secondo cui il filosofo trovò un trattato di chiromanzia, scritto a lettere d'oro e in lingua araba, su di un altare dedicato al dio Ermes.
2. Pare che con coloro che osano spiare il destino al di là del suo atro e impenetrabile velo, il destino sia spesso amaro, come per una sorta di vendetta. Anche il chiromante Antioco Tiberto, dopo aver predetto a Guido da Bagni che gli sarebbe morto un amico, e a Pandolfo Malatesta, despota di Rimini, che sarebbe stato spodestato e che avrebbe finito i propri giorni in esilio e in povertà, fu imprigionato. Invaghitosi della figlia del carceriere, i due evasero insieme, ma furono presto riacciuffati e decapitati.