Donna in guerra
Torino, Einaudi 1975
Diario di una giovane donna nell’anno 1970. Ci racconta la sua vacanza in un’isola della Campania e degli incontri che fa e che la porteranno a capire le sue esigenze e a prendere in mano la sua vita. È un a ragazza (simbolicamente, significativamente) paralitica che le insegnerá che si può camminare con le proprie gambe
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Un giorno Dina mi fa: sai che ti dico, mi sono stufata di fare sempre io; devi imparare pure tu a sfilare portafogli; oggi andiamo e il lavoro lo fai tu, io ti aspetto fuori. Dico: va bene, ci provo, ma ho paura. Dice: non ti preoccupare; tu abbracciatelo bene, baciagli l'orecchio che gli uomini perdono la testa quando gli baci l'orecchio e intanto gli infili la mano in tasca; hai capito? Dico: sì ho capito.
Il pomeriggio usciamo sul tardi che era già buio. Faceva freddo, ma non c'era vento. Si stava abbastanza bene. Io andavo ancora in giro con quel cappotto leggero di Roma perché non avevo trovato i soldi per comprarmene uno nuovo.
Camminiamo per il centro, verso piazza del Duomo. Io mi guardavo quelle guglie di pietra, tutte merlettate, biancastre. Dico: hai visto che roba? Dice: invece di guardare in alto, guarda per terra, le chiese non hanno portafogli. E io subito mi sono messa a scrutare i passanti che mi sembravano tutti gente ricca: cappotti col bavero di pelliccia, borse di coccodrillo, cappelli di castoro.
Dico: qui facciamo affari! Dice: non ti credere, è più apparenza che altro. Dina faceva la saputa, ma sbagliava pure lei. Da ultimo ne aveva sbagliati parecchi.
Gliel'ho detto. Si è arrabbiata. Dice: non è colpa mia se gli uomini si sono imparati ad andare in giro col porta foglio vuoto. La faccia da ricco io la riconosco, ma non posso indovinare se i soldi li porta appresso oppure no.
Mentre discutiamo passa uno che ci guarda con due occhi accesi e Dina mi dà un pizzicotto. Eccolo! mi fa, datti sotto!
Io non sono brava a fare il teatro come lei. Mi faccio coraggio, mi volto, sorrido un po' invitante. Anche lui si volta. Si ferma. Torna indietro. Dico: e ora che faccio? E Dina: fai la graziosa, fai la timida; vedrai che tutto va bene.
Faccio la graziosa, ma io non sono brava, si capisce che sono finta. Mi viene da ridere; mi viene da prenderlo a pugni perché mi è antipatico, ha la faccia storta, è giallo, porta un cappelletto in testa che gli copre appena la punta e basta.
Dina mi dava dei calci, degli spintoni. Finalmente quel lo apre bocca. Dice: siete sole? Dico: sì, non siamo di Milano, la città non la conosciamo. Dice: ve la faccio conoscere io; siete libere? Dico: sì sì.
E quello comincia a portarci in giro per Milano. Dina mi dava le gomitate. Dovevo proporgli di andare al cinema, ma non mi veniva. Continuavamo a camminare come tre scemi; lui che diceva: questo è il Duomo, lassù c'è la ma donnina, bello eh? E io: bello, bello. Dina era furiosa.
Per fortuna ad un certo punto capitiamo proprio davanti a un cinema dove davano un film d'amore molto conosciuto. Dico: perché non andiamo a vedere questo film? mi piacerebbe. Dice: andiamo. Dico: però viene anche la mia amica, non la posso lasciare sola. Dice: come vuoi. Ci paga il biglietto a tutte e due, e anche caro perché era un cinema di prima visione.
Io mi volevo vedere il film. Pensavo: dopo, verso la fine gLielo prendo il portafoglio. Invece non era possibile. Dina mi torceva la pelle del braccio. E quello poi voleva pomiciare. Dico: guarda, non ti agitare troppo perché la mia amica poi si scandalizza.
Non gli permettevo di toccarmi. Lo toccavo io. Gli carezzavo il collo, le spalle, un po' fra le gambe. Poi chiudo gli occhi e mi dico: ora gli bacio l'orecchio come m'ha detto Dina, è il momento buono.
Dina fremeva perché ero lenta, impacciata. Ma io avevo paura che quello si accorgeva che stavo rovistando nella sua tasca. Gli uomini poi non si sa perché portano tante tasche. Questo qui ne aveva due sulla giacca, fuori; due dentro, due nei pantaloni, era un pasticcio.
Dina lo capiva subito dove stava il portafoglio. Io no. Poi me l'ha detto che lei lo spiava mentre pagava il biglietto alla cassa. Io non ci avevo mai pensato.
Insomma stavo con le dita a tastare in queste tasche. E per la preoccupazione, sudavo, ero una fontana. Finalmente ho sentito qualcosa di duro sotto le dita. Era il porta foglio. Ho stretto i denti e per poco non gli porto via un orecchio. Per fortuna lui l'ha preso come un segno di passione. Sempre con questo orecchio fra i denti, gli sfilo il portafoglio e lo passo a Dina, sopra il bracciolo. Ero così contenta di esserci riuscita che me lo baciavo veramente, quel fesso, per la gioia.
Gli ho dato due schiocconi sulle guance e due sulla bocca e lui era tutto esaltato. Era bruttino, con le orecchie a sventola. Dico: mamma mia come sei scemo!
Dina si alza, va al gabinetto. Io rimango ancora un po' con lui, gli dico quattro cretinate, gli metto una mano fra le cosce. Poi, quando sono passati tre minuti, dico: vado a vedere che fa la mia amica, non vorrei che stesse male. Mi alzo e vado. Come esco, comincio a correre che neanche Dina mi teneva dietro.
Ci fermiamo in una strada solitaria. Tiriamo fuori il portafoglio. C'erano duecentotrentamila lire. Abbiamo subito diviso; centoquindici a lei e centoquindici a me. Dico: hai visto che ce l'ho fatta pure io? Ero orgogliosa, mi pareva di avere fatto chissà che. Ma prima di impararmi ce n'era voluto.
Dina mi rimbeccava, mi diceva: ah stupida, rincoglionita, non sei buona a fare niente! E io, a forza di sentire queste umiliazioni, queste strillate, mi sono imparata la scaltrezza come lei.
Quella sera abbiamo festeggiato con una cena grandiosa. Abbiamo mangiato: trippa, stracotto, baccalà alla crema, aragosta, dolce di ricotta, caffè, vino e birra. Non riuscivamo ad alzarci dalle sedie tanto eravamo gonfie di cibo. Torniamo al Commercio mezze ubriache; il padrone ci viene incontro, tutto sorridente, dice: siete allegre eh! vuol dire che la vita vi va bene! posso offrirvi qualche cosa? una grappa? un vermuth? ve lo porto su in camera; ci facciamo una bevutina alla vostra salute.
Io gli faccio un rutto in faccia. Dina che non perde mai la calma dice: come sei carino! grazie! però noi adesso dobbiamo dormire perché domattina ci alziamo presto. A domani! ciao! E lo pianta lì come un ciocco. È bravissima lei con gli uomini. Finge che ha paura di loro. Promette promette e poi non mantiene mai.
Un innamorato vero ce l'aveva; si chiamava Domenico. Lo chiamavano Mimi. Ma lo vedeva poco perché pure lui faceva il ladro ed era sempre in giro per affari. Avevano due giri diversi.
Il giorno dopo dormiamo tutta la mattina. Poi andiamo nei negozi a rifornirci. Dina si compera una borsa di pelle rossa, un paio di scarpe rosa col tacco. Io mi compro un cappotto foderato di pelliccia, bello caldo, color blu del cielo. La pelliccia interna era di nailon, ma teneva caldo lo stesso. Anche questa pelliccia era blu, ma più chiara. Noi compriamo guanti, biancheria, calze. Ci facciamo mettere a posto i capelli da un parrucchiere di lusso.
Il giorno dopo viviamo di rendita e il giorno appresso pure. Passiamo il tempo a letto a dormire, a leggere giornaletti, a rifarci le unghie, a chiacchierare, mangiucchiando dolci di mandorla.
[...]
Quello stesso giorno, tornando a piazza Vittorio incontro un'amica mia, una certa Nicolina. Mi dice: senti Teresa, mi devi fare un favore. Dico: che favore? Dice: io ho avuto un uomo che m'ha succhiato il sangue; ti devo confessare tutto, io ho fatto pure le case per quest'uomo; sono stata a Milano, a Torino, ho girato diverse case di tolleranza. Sono arrivata a fare centomila lire al giorno, ma di queste cento, novanta le dovevo dare a lui; a me mi lasciava giusto per campare e pure malamente. Io allora l'ho preso di petto e gli ho detto: caro Natalino, così non può andare; io lavoro e poi i soldi te li pappi tu. E lui per consolazione mi ha portata dentro la sua Jaguar rossa a pranzare in un ristorante di lusso con gli amici. Mi presentava come la sua fidanzata. E io ero contenta. Ma poi ha ricominciato come prima. Mi trattava come un pedalino e mi portava via il novanta per cento di quello che guadagnavo.
Dico: ma quello ti proteggeva, Nicolina! Dice: mi proteggeva ma mi costava troppo assai; certe volte non avevo neanche i soldi per comprarmi le calze; andavo in giro con le calze bucate.
Insomma che favore vuoi? dico io. Aspetta, dice, che ti racconto. Dice: io a questo gli volevo bene, lo sopportavo pure che era cattivo. Però poi un giorno l'ho visto con un'altra, una ragazza nuova e per la gelosia l'ho denunciato. L'ho denunciato per sfruttamento.
Dico: ma sei una boia! che avrà detto la gente d'omertà? non lo sai che le denunce non si fanno? tu passi da infame! Dice: infatti mi è dispiaciuto dopo che l'ho fatto; ma soprattutto mi dispiace per il padre di Natalino che è un vecchio e sempre viene da me a piangere per questo figlio; dice che adesso arriva Natale, che la madre vuole rivedere il figlio, che il ragazzo in galera sta male, piange; dice che specie per chi non c'è mai stato è una cosa terribile il carcere, da non sopportare; insomma mi prega di ritirare la denuncia.
Dico: e tu fallo! se non lo fai guarda che l'ambiente dopo ti chiama infame, ti sputa in faccia, sei discacciata da tutti; poi questo è un mondo vendicativo, non puoi più camminare tranquilla. Dice: io ritratto, sono convinta a farlo, però voglio che mi ridanno i soldi che ho uscito per la causa, per l'avvocato Ammazzavacca.
Dico: ma io che c'entro? Dice: tu lo sai che devi fare? devi andare a chiamare questo vecchio, il padre di lui che sta al mercato al banco numero dodici. E gli dici: ti vuole Nicolina, ti vuole parlare.
Dico: va bene, se si tratta solo di questo il favore te lo faccio. Però dopo te la sbrogli con lui perché io non ci voglio entrare in questa faccenda.
Insomma faccio da mediatora. Vado da questo vecchio, gli dico di Nicolina. Dico: vedete un po' di rimbonire la cosa perché sembra che lei è disposta a ritirare la denuncia, però vuole che le ridate i soldi che ha cacciato per l'avvocato Ammazzavacca, per la causa, vuole questo mezzo milione e poi ritratta.
Il vecchio mi dice: basta che ritratta l'accusa di sfrutta mento contro mio figlio, io il mezzo milione glielo do. Tu fai la testimonianza, firmi questa carta con lei e siamo a posto.
Così ci diamo appuntamento al bar con questo padre il giorno appresso, era un giovedì. Io vado a prendere Nicolina e insieme andiamo al bar designato per ricevere i soldi e firmare la carta di ritrattazione, sotto la mia testimonianza.
Lui viene, questo Balocca, al bar. Era un bel vecchio, grave. Dice: prendete qualcosa? un caffè? Dico: no, no, mettetevi d'accordo che combiniamo subito. Dice: il mezzo milione ce l'ho qui pronto; però prima Nicolina mi deve firmare questa carta.
Tira fuori una carta bollata in cui c'è scritto: io sotto scritta Nicolina Gasperoni dichiaro di avere denunciato Balocca Natalino soltanto per un atto di gelosia, ma dichiaro che non è vero che mi sfruttava, bensì l'ho fatto per la gelosia mia.
Poi dice: ecco qua, Teresa, tu firmi qui sotto per testimoniare che io ho dato il mezzo milione. Ma dov'è questo mezzo milione? ancora non l'ho visto, fa Nicolina. Il vecchio tira fuori un pacco di soldi. Dice: il mezzo milione ec colo qua; prima firma che poi te lo do. Allora lei firma e poi, sotto, firmo io.
Tutto d'un botto, appena abbiamo firmato, si apre la porta, bam bam ed entra la polizia. Balocca se ne va con la carta firmata e i soldi. E noi veniamo arrestate.
Ci portano in questura. Dico: io non ho fatto niente, io ho solo testimoniato. E racconto la storia com'è andata. Ma non mi davano retta i questurini. Non mi stavano neanche a sentire.
Però io in questura stavo tranquilla, perché pensavo: tanto mi rilasciano, io non c'entro, una testimonianza non è reato.
Invece ci mettono dentro tutte e due per estorsione. E quella è una cosa l'estorsione che non si scherza; si prendono come niente cinque sei anni. Ma io non avevo fatto nessuna estorsione. Avevo solo testimoniato. Questo fatto non mi andava giù. Per fare una firma di testimonio innocente dovevo prendere sei anni!
Ercoletto stava per uscire. Dico: ora quello sente che sono di nuovo dentro e mi abbandona; si metterà con un'al tra. Dico: ora la casa mi va tutta distrutta. Come vado dentro la casa mi va distrutta e devo ricominciare da capo. Dico: a me queste case mi portano jella, è meglio che non me ne faccio più. Come mi facevo una casa, venivano le amiche invidiose, gelose, ah che bello questo! che bello quest'altro! dove l'hai comprato? che bella camera, dove l'hai comprata? e mi mettevano la iattura, l'invidia, mi di struggevano.
Poi appena andavo in galera, si buttavano dentro questa casa e mi portavano via tutto, si ripulivano tutto che quando uscivo non ritrovavo neanche una spilla.
Lì dentro alla galera mi sentivo un'anima persa. Dico: ma perché sto qui rinchiusa? Erano sei mesi che stavo li e non si decidevano a farmi il processo. Per la prima volta non riuscivo proprio a darmi pace. La reclusione non la digerivo proprio. Litigavo tutto il tempo con quella, con questa, mi azzuffavo.
Me la prendevo con quella disgraziata di Nicolina. Dicevo: guarda questa scema che m'ha combinato! ma rimbambita che non sei altro, almeno chiama il giudice, digli che io non c'entro!
Dice: neanche io c'entro, non ho colpa. Dico: t'ho fatto un favore, non ti ho chiesto niente. Ti ho chiesto qualcosa per questo favore? Dice: no. Dico: lo vedi! non m'hai dato niente, non volevo niente, t'ho solo aiutata. E ora sto chiusa qui dentro per te.
Veniva suor Carmina dalle mani dure. Stai zitta Teresa, mi faceva, con quella vociona grassa. Dico: dovrebbe stare lei al posto mio! io mi rassegno, dico, quando mi prendono per una cosa che ho fatto, ma per una cosa che non ho fatto, no. Dice: zitta tu delinquente! Non ci credeva che non avevo fatto niente.
Sono stati sei mesi di dolori. Non mangiavo, non parla vo. Me ne stavo buttata sul letto a pensare. E più pensavo e più diventavo rabbiosa. Pensavo a Ercoletto che a quest'ora stava uscito e chissà che faceva.
Pacchi non me ne mandava e neanche lettere. Mi aveva abbandonata. Orlando stava sempre chiuso e non sapevo neanche dove. Ero avvilita. Le suore venivano, spalanca vano la finestra. Teresa, alzati, dice, non fare la finta malata perché nessuno ti crede! Ma io non ero malata, ero disgustata. M'ero seccata della vita.
Le compagne capivano. Salivano qualche volta a portarmi una sigaretta. Saliva pure Nicolina e io la cacciavo via, non la volevo vedere, anche se sapevo che lei era stata ingannata come me.
Stavo lì con gli occhi chiusi, ma non dormivo. Neanche la notte mi riusciva di dormire. Stavo abbacchiata, mezza rinscemita e non mi andava di fare niente. Mi alzavo per mangiare, mandavo giù un mezzo cucchiaio di minestra e tornavo a letto. La suora mi faceva: prenderai sei anni e ti starà bene perché sei malandrina e chissà cosa avete combinato tu e quella prostituta di Nicolina!
Io dico: sei anni qua dentro per non avere fatto niente non li faccio. Piuttosto mi ammazzo. Infatti una mattina prendo un lenzuolo lo tiro tutto come una fune, lo torco, preparo la cappiola, l'attacco alle sbarre della finestra e m'impicco.
In quel momento passa Anna Bordoni, una che era tenuta in palma di mano dalle suore. Io avevo calcolato che a quell'ora non veniva nessuno, erano tutte all'aria. Invece questa Anna passa per andare al gabinetto, le era venuta una voglia improvvisa, dà una guardata dentro la mia cella, le salgono gli occhi e mi vede che sto lì impiccata con la lingua di fuori.
S'è messa a strillare, ha chiamato gente. È venuta la monaca, m'hanno presa, m'hanno sciolta, m'hanno fatto le iniezioni.
Non capivo niente. Ero morta. E invece mi hanno riportata in vita. Mi hanno voluta salvare. Ero diventata tutta nera al collo. La gola mi faceva male, non potevo neanche inghiottire la saliva. Ero tappezzata di chiazze sulla faccia. Non so come m'hanno salvata. Si vede che sono proprio dura a morire.
Dopo di allora mi stavano sempre addosso. Non mi lascia vano mai sola. Stavo chiusa in infermeria con Lella degli Angeli che non mi spiccicava mai gli occhi di dosso. Là ho fatto amicizia con una ragazza che era dentro per tentato aborto. Si era bucata l'intestino coi ferri da calza per ammazzare quel figlio che era il figlio di suo zio. L'hanno portata dentro che perdeva sangue come una pecora scannata. L'hanno ricucita, rimessa a posto. Si era per forata l'intestino, ma il figlio non era stata capace di man darlo via. E se l'è dovuto tenere.
Lo zio poi ha negato di essere stato lui. La madre e il padre hanno creduto allo zio e non venivano neanche a trovarla perché dicevano che era una disonorata assassina che aveva tolto l'onore alla famiglia.
Con questa Pinuccia giocavamo a scopone. Vinceva sempre lei. Era simpatica. Timida. Poi ho saputo che ha fatto un figlio storpio. Ma l'ha tenuto e ora non so dove sta. Credo che è impiegata a servizio; l'ho sentito dire. Dopo otto mesi che sono dentro, una mattina viene suor Innocenza e mi dice: Teresa, sei scarcerata! ti riconoscono che sei innocente. Dopo otto mesi!
[...]
di Giovanni Mameli
Sono passati quattordici aliti da quando Dacia Maraini pubblicò il suo primo, contrastatissimo libro —un romanzetto pornografico, a detta di certi critici — intitolato La vacanza, edito in una collana della Lerici. che annoverava nomi di primo piano della narrativa. da Antonio Pizzuto a Giorgio Saviane. Fu Moravia a scoprirla e lanciarla, a intuire che in quella ragazzina dalla prosa gracile e sgrammaticata, animata da «una volontà barbara e quasi cinica» di riuscire, si annidava una vera scrittrice. Non si sbagliò. Di anno in anno, un libro dopo l'altro, la Maraini ha dimostrato una sorprendente vitalità e maturità, non solo nel campo della narrativa ma anche in quello teatrale e cinematografico.
L'ultimo romanzo, Donna in guerra. uscito in questi giorni presso Einaudi, è senza dubbio la sua prova più riuscita. L’autrice 'l'ha definito, in varie interviste, spesso polemiche e dure, un 'libro «compiutamente femminista». Dunque un romanzo a tesi. Ma cosa ha voluto dimostrare? Attraverso una lunga serie di lucidi articoli apparsi in questi ultimi anni sulle colonne del Corriere della Sera Dacia Maraini ha illustrato il proprio punto di vista in merito ai complessi e spesso contraddittori problemi sollevati dai vari gruppi femministi formatisi recentemente in Italia e aventi come scopo la piena emancipa della donna e l’acquisizione di diritti fondamentali che una società fallocratica come la nostra le ha sempre negato.
Questo libro, esaminato controluce, rivela una sottile, complessa filigrana, non solo d'idee, ma anche di umori — che vanno dalla rabbia al rancore — e che sono alla base di quegli articoli. È probabile che Donna in guerra possa essere, se non il primo, il più importante, almeno per ora, dei romanzi femministi pubblicati in Italia.
Non ce la sentiamo di valutare un'opera letteraria dalla giustezza o meno delle tesi che contiene. In un romanzo d'idee conta soprattutto - ce l'ha insegnato un maestro come Lukàcs - il modo in cui le ideologie diventano carne e sangue, sono rivissute nel crogiuolo della mente dei personaggi. E in quest'operazione la Maraini è riuscita benissimo. Com'è costruito il libro? Ha la forma di diario, della durata di cinque mesi, scritto da una giovane maestra, sposata a un meccanico, che trascorre una 'lunga e burrascosa villeggiatura in un'isola denominata Addis, situata lungo le coste della Campania. Il diario potremmo suddividerlo in due parti, che si corrispondono specularmente, e che vengono suggellate da un epilogo drammatico.
Nella prima parte Vannina — così si chiama la protagonista — descrive in modo sciatto e abulico la sua routine, talvolta noiosa talaltra movimentata, nella località di villeggiatura in cui trascorre le vacanze. Si dilunga a parlare delle sue faccende domestiche nell'appartamentino dove alloggiano lei e il marito, racconta le battute di pesca subacquea compiute da quest'ultimo, tratteggia le fisionomie e le abitudini degli altri turisti. Inoltre narra con un senso quasi di schifo gli amplessi frettolosi e avvilenti che ha con un marito egoista e sessualmente ottuso. Ecco un frammento in cui elenca le sue fatiche di casalinga frustrata. «Ho preparato la tavola. Ho messo a bollire l'acqua per la pasta. Ho fatto il soffritto. Ho spezzato i pomodori. Ho pulito l'insalata. Ho grattato il parmigiano». Ecco un altro passo dove accenna ai suoi amori deludenti. «Ma neanche questa volta (il marito) è stato capace di ricordarsi che siamo in due. Si è sfrenato in una corsa solitaria e ansante, che è finita con un urlo straziante, trionfante».
Nella seconda parte del diario — migliore e più movimentata della precedente — Vannina si lega a un gruppo di giovani extraparlamentari di sinistra, e in particolare a una ragazza paralitica, Suna, che la convincerà a piantare in asso momentaneamente il marito, e ad andare con lei a Napoli a fare un lavoro di base. L'attività politica alla quale viene adibita da questo movimento —denominato Vittoria proletaria — consiste nell'intervistare le lavoranti a domicilio che sgobbano anche dodici ore al giorno per una paga irrisoria e spingerle alla ribellione e alla lotta. Comunque, l'impresa più spettacolare compiuta da questo gruppo è rappresentata dal sequestro del direttore di un carcere e dal processo che gli viene intentato da parte dei componenti di un improvvisato tribunale rivoluzionario, che in seguito saranno arrestati e dispersi.
Tornata dal marito, Vannina viene messa incinta mentre dorme, abortisce e scappa di casa per sempre. Questa succinta traccia dà un'idea molto vaga della complessità e della ricchezza delle situazioni descritte e della vasta galleria di personaggi che Dacia Maraini mette in scena dalla prima all'ultima pagina. Il libro, a mio avviso, non è valido solo per le problematiche che contiene, ma soprattutto per gli scorci di vita italiana che fotografa. Dacia Maraini, oltre che scrittrice, è una giornalista acuta. Quando si propone di illustrare un fatto, lo articola e lo sviluppa in modo esauriente, con una pignoleria quasi gesuitica.
Basti pensare alla rappresentazione che ci dà — rapida ma completa — dello ambiente di lavoro di Vannina: la scuola; e di quello di suo marito Giacinto: l'officina. Sui gruppi extraparlamentari sa tutto; sulla routine e le rivolte nelle carceri idem; così sulla vita e le miserie sessuali delle località di villeggiatura, dove la prostituzione travolge tutti, donne e uomini, ragazzi e bambine. Il filo che collega tutti questi «quadri» è rappresentato dalle peripezie di Vannina, che la spingeranno, alla fine del diario, a spezzare le catene del matrimonio, istituzione — per la Maraini — superatissima. Ma chi è Vannina? Venticinque anni, maestra elementare, di origine meridionale, trapiantata a Roma, è un personaggio che ricorda da vicino i protagonisti dei romanzi moraviani. È una donna abulica, passiva, inetta, vigliacca, sfiduciata, viziosa, tutta casa e scuola, con una forte dose di masochismo e una notevole propensione per le pratiche erotiche solitarie. Odia il suo lavoro e qualsiasi impegno civile. Il quadro clinico sarebbe completo se fosse anche cattolica. Invece è comunista. Comunista è anche il marito, che viene presentato come un operaio dalla mentalità piccolo borghese, preso da ambizioni imprenditoriali, dalla sua passione per la pesca, da un'attrazione animalesca per la moglie.
In una delle varie interviste rilasciate l'autrice ha sostenuto che si può avere la tessera di un partito progressista ed essere dei retrogradi nella vita di tutti i giorni. In alcune parti del libro è sottesa una polemica velenosa e un po' troppo semplicistica nei confronti del partito comunista e, ovviamente, anche nei confronti di tutti gli altri partiti dell'arco costituzionale.
I giovani extraparlamentari apriranno gli occhi a Vannina, ma non faranno breccia nel più quadrato Giacinto, il quale li considera degli sbandati e dei visionari. Il libro — ripeto — è bello: ben congegnato, istruttivo, polemico. Però presenta, secondo me, le stesse smagliature ideologiche che avevamo rilevato nel romanzo di Ferdinando Camon. I membri di Vittoria proletaria sono raffigurati come martiri, le loro gesta — politiche ed erotiche — mitizzate, il loro coraggio esaltato eccessivamente. Pare che siano loro gli unici ad avere una nitida coscienza storica della nostra epoca e che quindi debbano essere considerati alla stregua di apostoli di una nuova religione che redimerà su questa terra i diseredati. Salvo poi ad essere — come succede talvolta nel libro — irrisi da coloro che vogliono spingere alla ribellione e alla lotta. Di qui la loro dimensione di cavalieri dell'ideale, il loro contegno da piccoli don Chisciotte che sbattono il naso contro i mulini a vento. Ma non per questo sono ridicoli. giacché pagano: spesso di persona, qualcuno addirittura con la vita. Anche se talvolta hanno dei dubbi di questo calibro: «Se in questo momento anche i fascisti fanno opera di scardinamento come facciamo a distinguerci da loro?».
Giovanni Mameli