Catullo

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view post Posted on 19/2/2009, 23:37

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Gaio Valerio Catullo



Scarse e incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica: i suoi carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se non proprio per le indicazioni più strettamente biografiche e cronologiche (di cui praticamente sono privi), almeno per ricostruirne e comprenderne, in generale, personalità e stati d'animo.

La formazione e l'ingresso nel bel mondo romano
C. proveniva - come altri neoteroi - dalla Gallia Cisalpina (ovvero, dall'Italia settentrionale) e apparteneva ad una famiglia agiata: suo padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda (come c'informa Svetonio). Trasferitosi a Roma (intorno al 60) per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie benestanti, C. trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore: trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di trasformazione (la vecchia repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le lotte politiche, ma anche le vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte dei "neóteroi" o "poetae novi" ed entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo attento o ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni (non mancò di attaccare violentemente Cesare e i suoi favoriti, specialmente il "prefectus fabrum" Mamurra: ma Cesare seppe riconquistarlo…). Di contro, nella capitale, un giovane come lui - esuberante e desideroso di piaceri e di avventure - si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione, dalla libertà di costume e di comportamento pubblico e privato, che distingueva la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima conservò sempre i segni dell'educazione seria, anzi rigorosa, ricevuta nella sua provincia natale, famosa per l'irreprensibilità morale dei suoi abitanti.

L'incontro con Lesbia-Clodia
C. è stato definito, a buon diritto, come il poeta della giovinezza e dell'amore, per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta amò con ogni parte del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più probabilmente nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia, come ci rivela Apuleio nel "De magia" (chiamata Lesbia, "la fanciulla di Lesbo", perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa appunto di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno della plebe (58) P. Clodio Pulcro (agitatore del partito dei "populares" e alleato di Cesare, nonché mortale nemico di Cicerone), e moglie - per interesse - del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere.

Una storia difficile
La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di C. abbiamo, così, diversi accenni allo stato d'animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all'addio finale.

Il lutto familiare e la crescente delusione d'amore: il viaggio in Oriente
C. era a Roma, quando ebbe la notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi e vi stette per alcuni mesi, ma le notizie da Roma gli confermavano i tradimenti di Lesbia (ora legata a M. Celio Rufo, quello stesso che Cicerone difese nella "Pro Caelio", rappresentando Clodia come una mondana d'alto rango, viziosa e corrotta). Il poeta fece così ritorno nella capitale, sia perché non riusciva a star lontano dalla vita romana, sia per l'ormai insostenibile gelosia. Deciso, infine, ad allontanarsi definitivamente da Roma, per dimenticare le sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia, esattamente il dedicatario del "De rerum natura" di Lucrezio. Laggiù, in Asia, il giovane C. entrò in contatto con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente; fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.

Il ritorno e la morte
C. tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove trascorse gli ultimi due anni della sua vita, consumato fisicamente da un'oscura malattia (mal sottile?) e psichicamente dalla sfortunata esperienza d'amore e dal dolore per la morte del fratello.


Opera

Il "Liber" catulliano consta di 116 di "carmi" (per un totale di circa 2300 versi), raggruppati in 3 sezioni non in base ad un ordine cronologico, bensì in base al metro ed allo stile, seguendo un criterio di "variatio" e di alternanza fra temi affini, secondo la mentalità e l'usanza tipiche degli editori alessandrini. Abbiamo, così:




(cc. 1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o "coserelle", "versi leggeri": ovvero, espressioni di una poesia intesa come "lusus", scritta cioè per "gioco", per passatempo e divertimento, a cui però il poeta stesso consegna la propria profonda e tormentata personalità e augura l'immortalità; i metri più usati sono l'endecasillabo falecio (il più frequente), il trimetro giambico puro, il coliambo, la strofa saffica minore, il priapeo, il tetrametro giambico catalettico, l'asclepiadeo maggiore, il trimetro giambico archilocheo;


(cc. 61-68) sono definiti "carmina docta", di maggior respiro e complessità, tal che si è portati ad individuarvi un maggiore impegno compositivo [ma, a tal proposito, vd. oltre]. Si tratta di elegie, epilli ed epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l'epitalamio per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi galliambi, strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura callimachea; il celebratissimo carme 64, vasto epillio per le nozze di Péleo e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una piccola epopea mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della "Chioma di Berenice" di Callimaco, preceduta dalla dedica all'amico Ortalo in distici elegiaci; un'elegia epistolare di gusto alessandrino, che ricorda il tempo felice dell'amore di Lesbia.



(cc. 69-116) sono carmi brevi e di presa immediata, o "epigrammata" (epigrammi, elegie): i temi sono praticamente gli stessi del I gruppo, ma resi con metro diverso: il distico elegiaco.


Il "liber" è dedicato a C. Nepote [c. 1], ma esso non è certamente il "libellus" della dedica, nel senso che questo doveva comprendere, per esplicita dichiarazione del poeta stesso, solamente le "nugae", e non anche i "carmina docta", come invece noi lo possediamo. L'opera, quale a noi è giunta, è - dunque - con molta verosimiglianza, una raccolta postuma, nella quale accanto ai carmi del "libellus" trovò definitiva sistemazione il corpus - non però integrale - della produzione poetica catulliana: insomma, di quella produzione, esso sarebbe una raccolta antologica.

Considerazioni sull'autore e sull'opera

Le "nugae" e il difficile rapporto con Lesbia
Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è consegnata tutta la storia dell'amore di C. per Lesbia, "frammentata" in 25 carmi che percorrono trasversalmente i due gruppi [cc. 2, 3, 5, 7, 8, 11, 36, 37, 38, 40, 43, 51, 58, 70, 72, 75, 76, 79, 83, 85, 86, 87, 92, 107, 109]. Le peripezie di questa vera e propria autobiografia d'amore "romanzata", proprio a causa di questa frammentazione e di una disposizione non cronologica delle varie tappe del rapporto, non ci appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni (e per lo meno una notte) di felicità, ma anche molte sofferenze, giacché Clodia, checché se ne dica, prestava grande attenzione alla propria reputazione e al suo onore di gran dama, e anche, molto più probabilmente, perché lei e C. non concepivano l'amore nello stesso modo. Egli l'amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull'idea che Clodia fosse per lui "la sua sposa"; a lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava. Clodia, inoltre, era una donna che aspirava al successo e che amava civettare con uno stuolo di giovani al suo fianco: C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere l'unico, in nome degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che non era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in versi atroci, dove pretendeva che Lesbia addirittura si prostituisse con chi le capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei: "Amo e odio", le scriveva, "tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e soffro."

Il disimpegno e la rottura
Dunque, nel rapporto con Lesbia C. programmaticamente (e in piena fedeltà alla poetica neoterica) trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del "civis" romano (del resto, sebbene vissuto in un'epoca di grandi cambiamenti politici, egli nelle sue composizioni dimostra una grande indifferenza per le situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e Cicerone): tende insomma a ritagliarsi una sorta di "spazio del privato" ("otium"), dove vivere e parlare esclusivamente d'amore.
Orbene, come detto, quel rapporto amoroso - nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull'eros - nel farsi oggetto esclusivo dell'impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale; o quantomeno come un "foedus", un ibrido originale – se vogliamo – dei due valori cardinali dell'ideologia e dell'ordinamento sociale romano (la "fides" e la "pietas"), trasferiti dal piano pubblico ad un piano più decisamente "privato", e quindi rinnovati nel loro significato.
Tuttavia, l'offesa ripetuta del tradimento (il "foedus violato") produce in C. una dolorosa dissociazione fra la componente meramente sensuale ("amare") e quella profondamente affettiva ("bene velle"), fin allora profondamente ed esistenzialmente intrecciate: resta forte il desiderio sessuale, mentre l'affetto, a fronte delle delusioni e del tormento della gelosia, diminuisce man mano d'intensità.

Gli altri temi
Tuttavia, il "Liber" catulliano non coincide esclusivamente e completamente con la tormentosa storia tra il poeta e Clodia (come invece spesso si pensa): accanto e in mezzo ad essa, quasi a formarne la cornice "di costume e società", si trovano numerosi altri carmi, cui sono consegnati gli altri "temi" che vanno a intarsiare la sfaccettata e complessa esistenza del poeta. La varietà di quei temi impone che se ne rilevino (come del resto è stato fatto anche da critici illustri) almeno i più "importanti" o quantomeno i più caratterizzanti, tal che sia possibile individuare dei veri e propri "cicli" alternativi e integrativi rispetto a quello amoroso: si trovano, così, carmi rivolti contro "vizi privati e pubbliche virtù", ovvero di polemica scopertamente sociale [ad es., contro i mediocri, i truffatori, gl'ipocriti e i moralisti] e letteraria [C. flagella i poeti che seguono le orme del passato, come ad es. Volusio], ma anche larvatamente politica [ad es., l'ironia contro il già detto Mamurra, un fidato di Cesare], in tono volentieri scurrile, satirico e spesso goliardico; carmi dedicati al tema dell'amicizia [per Veranio e per Fabullo, più spontanea; per Calvo e Cinna, più letteraria], un sentimento che C. vive quasi con la stessa intensità con cui vive l'amore (e altrettanto sdegnato e iroso è nei confronti degli amici che lo hanno tradito, ad es. Alfreno Varo); carmi, infine, che esprimono profondi affetti familiari e altissimi vincoli di sangue (alto è il senso della famiglia, in C.; non dimentichiamo, del resto, che il poeta voleva sublimare a livello "familiare" lo stesso sentimento provato per Lesbia): tra questi ultimi, spicca sicuramente il bellissimo c. 101, estremo e commovente saluto sulla tomba dello sfortunato fratello.

Continuità tra "nugae" e "carmina docta"
Il II gruppo di carmi (61-68), invece, come accennato, è quello che più lega C. al movimento neoterico, e quello che più corrisponde alla variante romana del gusto alessandrino. Ma la critica recente ha sottolineato come la distinzione tra "nugae" e "carmina docta" non implichi in C. l'impiego di un diverso impegno letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso livello espressivo: si tratta, insomma, in entrambi i casi, sempre di una lirica dotta e aristocratica (come i fruitori dell'opera), secondo i canoni estetici dei neoteroi, anche laddove l'effetto patetico e certe movenze apparentemente dimesse potrebbero far pensare ad un'espressione, per così dire, "popolare" (è, invece, come più giustamente è stata definita, "ricercata spontaneità").

La lingua
La stessa lingua utilizzata è il risultato di un originale impasto di linguaggio letterario (uso di grecismi ed arcaismi) e "sermo familiaris" (uso di diminutivi, di espressioni prosastiche, proverbiali e "provinciali"), il secondo "filtrato" dal primo, a formare uno strumento agile e vivace, che riesce ad adattarsi ai temi, alle occasioni e ai registri più svariati: dall'affetto all'amore, dall'ironia all'invettiva, dall'intimo al pubblico.

C. primo vero poeta romano dell'amore "soggettivo"
L'opera di C., anche se non è ancora quella di un "elegiaco", è comunque l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo, che ha già acquistato diritto di cittadinanza nella poesia: egli fa dell'amore (e attraverso questo, della poesia) l'unica ragione di vita, anzi in lui amore poesia e vita veramente coincidono. Per ciò che conserva ancora in sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere fra i predecessori immediati (ma è l'unico di essi ad emergere) piuttosto che fra i poeti augustei, che formeranno in seguito il "classicismo" della poesia (anche "erotica") romana.

Frasi Celebri di Gaio Valerio Catullo
Amore:
Ma ciò che dice una donna all'amante appassionato, scrivilo nel vento e nell'acqua rapida.
Ridere:
Nulla è più sciocco di un ridere da sciocchi.
Amore:
Dammi mille baci, poi cento, poi ancora mille.
Fonte


Edited by birillino8 - 11/3/2009, 20:55
 
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view post Posted on 4/5/2009, 20:31

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Le poesie di Catullo



Traduzione di Mario Rapisardi (1889)




A chi mai dedico questo libretto


Di cianciafruscole giocondo e schietto,

Che uscendo in pubblico, ben ben polito
Dall'arsa pomice mostra il vestito?

A te, Cornelio, ch'uso dir sei,
C'han qualche grazia gli scherzi miei;

E che fra gl'itali scrittori osasti
Di tutti i secoli spiegare i fasti

Con ardir unico, solo in tre carte:
E che giudizio, per dio, che arte!

Qual ch'esso siasi dunque tu accetta
Questo libercolo che a te si spetta,

 
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view post Posted on 5/5/2009, 19:24

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Passere amabile, cui nel sen culla,
Con cui trastullasi la mia fanciulla,

Cui suole agli avidi morsi aizzare,
Dandoti il piccolo dito a beccare,

Quando piacevole al mio bel foco
Sarebbe, io dubito, qualch'altro gioco,

Che un po' le attenui quel grave ardore
Che forse l'agita, le turba il core;

Scherzare, o passere, potessi anch'io
Teco, e dall'ansie trarre il cor mio!

Ne avrei nell'animo dolcezza tanta,
Quanta mai, dicesi, n'ebbe Atalanta,

Non pria quell'aureo pomo raccolse,
Che alfin la vergine zona le sciolse.

 
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view post Posted on 6/5/2009, 20:41

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Piangete, o Veneri, o amori, o voi
Che avete un'anima venusta e pia:
È morto il passere di Lesbia mia;
E assai più amavalo degli occhi suoi.

Era uno zucchero: come bambina
La mamma scernere suole, ei sapea
Ben riconoscere la padroncina,
E in grembo subito le s’accogliea.

Or qua saltandole or là, píando,
Giochi e tripudj faceale intorno;
Ed ora a un tramite scuro, esacrando
Move, onde lecito non è il ritorno.

Voi male abbiatene, o inesorate
Ombre del Tartaro, che con funeste
Fauci ogni amabile cosa ingojate,
E un sì bel passere a me toglieste.

O danno! O misero passere! E intanto
Che vai per l'orrida funerea via,
Gli occhiuzzi languidi di Lesbia mia
Rosseggian tumidi dal pianger tanto.

 
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view post Posted on 8/5/2009, 20:00

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La goletta, che qui vedete accogliersi,
Afferma essere stata la più celere
Delle navi, e passato avrebbe l'impeto
D'ogni trave nuotante, che per opera
Di remi a volo andasse o di veleggio.
E nega che negare i lidi il possano
Dell'Adria minaccioso e delle Cicladi
E la nobile Rodi e la Tracia orrida
E l'Ellesponto e il sen truce del Bosforo,
Ove questa, che poi fu goletta agile,
Sorse chiomata selva, e in sul citorio
Giogo da la vocal chioma diè sibili.
Pontica Amastri, Citoro bossifero,
Queste cose a voi sono e fur notissime,
Afferma la goletta, che sui culmini
Vostri, dice, abitò sin dall'origine,
E nel mar vostro i suoi remi s'immersero.
Portò quindi il padron per molti indocili
Golli, o sia che invocasse un'aura provvida
A destra od a mancina, o sia che prospero
Giove spirasse a poggia e ad orza a un subito.
Nè già voti da me profferti furono
Ai littorali dei, quando dall'ultimo
Mare traeasi a questo lago limpido.

Cose andate son queste: ora in recondita
Quiete invecchia, e a te, gemino Castore,
A te, gemel di Castore, si dedica

 
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view post Posted on 9/5/2009, 20:03

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Godiamo, o Lesbia, mia Lesbia, amiamo,
E de' più rigidi vecchi i rimproveri
Meno d'un misero asse stimiamo.

Tramontar possono gli astri e redire:
Noi, quando il tenue raggio dileguasi,
Dobbiam perpetua notte dormire.

Baciami, baciami, vuo' che mi baci;
A cento scocchino, a mille piovano
Qui su quest'avida bocca i tuoi baci.

E poi che il numero sfugge a noi stessi,
Baciami, baciami, sì che l'invidia
Non frema al còmputo de' nostri amplessi.

 
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view post Posted on 11/5/2009, 13:04

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Se rozzo e ignobile il tuo trastullo
Non fosse, o Flavio, tu, non che tacito,
Saresti garrulo col tuo Catullo.


Io non so proprio di chi, ma cotto
Di qualche tisica scanfarda spasimi;
Però com'olio te ne stai chiotto.

Tu passar vedove le notti in pace?
I serti, il sirio olivo, i balsami
Del nido il negano che indarno tace,

E il guancial morbido, ch'egual s'avvalla
Qua e là di doppia impronta, e il tremulo
Letto che scricchiola compresso e balla.

Son prove inutili? Ma neppur giova
Il tuo silenzio: lo smunto stomaco
Delle tue pratiche notturne è prova.

Su dunque, spiffera questo secreto
Famoso: io smanio d'alzarti all'etera
Con la tua smafera nel verso lieto.

 
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view post Posted on 13/5/2009, 19:50

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Saper vuoi proprio, saper vuoi quanti
Tuoi baci, o Lesbia, mi sien bastanti?

Quante di Libia sono le arene,
Dove di silfio ricca è Cirene,


In tra l'oracolo di Giove adusto
E il santuario di Batto augusto;

Quanti astri ai taciti notturni orrori
Miran degli uomini gli occulti amori,

Tanti al frenetico Catullo tanti
Tuoi baci, o Lesbia, saran bastanti ;

Tanti, che inutile contro a lor sia
Invidia o fascino di lingua ria.

 
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view post Posted on 17/5/2009, 19:20

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Lascia, o Catullo — triste, i sogni di prima,
E quanto hai visto — perir, perduto estima.

Giorni felici — per te splendeano allora
Che andavi spesso — dove alla tua signora

Piaceva, a lei — c'hai di così profondo
Affetto amata — come nessuna al mondo.

Oh giochi, oh pugne — soavi, ch’io bramava
Rifare, e ch’ella — pur negando, accordava!

Quelli eran giorni — quelli! Or mutato ha stile :
Tutto or ti nega; — ma tu non esser vile;




Non correr dietro — a lei; non viver grama
Vita, ma fermo — sprezza chi più non t’ama.

Addio, signora: — d’un sordo idolo al piede
Non più Catullo — trepido prega e chiede.

Ah, t’addolori — che niun ti prega? Ingrata
Femmina, è questa — la vita a te serbata.

Or chi più, dimmi, — ti cercherà? Chi mai
Con le tue forme — leggiadre adescherai?

Chi avrà il tuo core? — Di chi dirai: son sua?
Chi vorrà i baci — della boccuccia tua,

I baci, i morsi? — Ma non esser fanciullo;
Dura ostinato, — sii di sasso, o Catullo!

 
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view post Posted on 22/5/2009, 19:22

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Dunque, o Veranio, tu che de' miei
Amici innumeri il primo sei,

Tornasti ai patrj lari, all'affetto
Fraterno, al tenero materno petto?

Tornasti? O annunzio felice! Or io
T'udrò al tuo solito, Veranio mio,


Narrar le iberiche terre, le genti
C’hai visto incolume, l’opre, gli eventi,

Mentre all’amabile tuo volto io fiso
Andrò baciandoti la becca e il viso.

Oh qual degli uomini più lieti, quale
A me lietissimo può dirsi uguale?

 
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view post Posted on 24/5/2009, 20:16

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Il mio carissimo Varo, di piazza
A veder trassemi la sua ragazza,

Non isgradevole putta o sgarbata,
A farne giudice la prima occhiata.

Demmo alle chiacchiere la stura: "Viene
Lei di Bitinia? Ci si sta bene?

Come gevernarsi? E, dica un po’,
Lei torna carico di bezzi, no?"

"Bezzi? Alla grazia! io di ripicco,
Ei c’era proprio da farsi ricco,

E da riungersi meglio i capelli!
Quel pretorucolo de’ miei corbelli

Tenea, s’imagini che santo zelo!
Tutto il suo sèguito per men d’ un pelo."

"Pure amo credere, giacchè si sa
Le lettighe essere nate colà,

A comprar uomini lei si diè briga
Che la potessero trarre in lettiga."

Ed io con aria da gran signore:
"Quella provincia certo è un orrore,

Ma pur possibile mi fu l’avere
Otto bei giovani per tal mestiere."

(E intanto, o misero, per quelle strane
Terre non eravi neppure un cane,

Che in collo a mettersi fosse gentile
Lo zoppo trespolo del mio canile!)

"Oh allor di grazia, saltò a dir quella
Con aria ingenua da sgualdrinella,

Quintuccio, prestami tal ben di Dio:
Vo’un po’ al Serapide spassarmi." Ond’io:

"Adagio; i comodi ch’ io ti dicea,
Cinna il mio socio, non io li avea:


Errai; ma fossero di Cinna o miei,
Siccome proprj me li godei:

Tu poi le scatole rompi, e sei grulla,
Se conto ho a renderti d’ogni nonnulla. "

 
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view post Posted on 24/5/2009, 20:52

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Furio ed Aurelio, di Catullo fidi
Compagni, o ch’ ei l’estrema indica sponda
Penetri, ove l’ eòa fragorosa onda


Percote i lidi,



O dove Ircania gela o Arabia odora,
Tra’ Saci e i Parti armati di saette,
O ver là dove i mari il Nil per sette


Foci colora;



O di Cesare Magno, oltre i tremendi
Varchi dell’Alpi, visiti i trofei
E il Ren gallico e il lido ultimo dei


Britanni orrendi;



Voi presti ad affrontar seco gli eventi,
Qualunque dei Celesti il voler sia,
Questi recate a la fanciulla mia


Non lieti accenti:


Viva ella e goda, e dei trecento ciacchi,
A’ cui fianchi avvinchiata ella si tiene,
Nessuno amando, ai ciaschedun le schiene


Avida fiacchi;



Nè cura più dell’amor mio si prenda,
Che per colpa di lei cadde, qual grato
Fior, cui passando al margine del prato


L’aratro offenda.

 
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view post Posted on 24/5/2009, 21:15

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Male tu Asinio, tu Marrucino
La manca adoperi fra ’l gioco o il vino.

Ti par facezia d’ingegno eletto
Trarre agl’incauti il fazzoletto?

Sciocco, tu proprio persa hai la testa:
Più turpe inezia non è di questa.

E se a me credere punto non vuoi,
Credi al tuo povero fratel, che i tuoi

Furti, onde infamia tanta a te crebbe,
Un talento atiico ripagherebbe.


Ei sì, ch’ è un giovane di mente gaja
E di proposito! Tre centinaja

D’ endecasillabi però ti aspetta,
Se il lino a rendermi non vieni in fretta.

Nè il prezzo importami, bada; io men lagno,
Perch’ è memoria d’ un mio compagno:

È roba proprio nata in Sativa,
E dall’ iberica lontana riva

Il buon Veranio, il mio Fabullo
Grato ne fecero dono a Catullo;

E se carissimi ambi mi sono,
Giusto è che siami caro il lor dono.

 
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view post Posted on 25/5/2009, 13:14

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Presto avrai lauta cena, o Fabullo,
Gli Dei t’ ajutino, dal tuo Catullo,

Solo che piacciati con te portare
Ogni amminicolo per ben cenare,

Da una piacevole donnetta infino
Al sale, ai lepidi sollazzi e al vino.

Se questo, o amabile, tu recherai,
Cena lautissima con me farai:

Chè nel mio povero portamonete
I ragni, credilo, ci fan la rete.

Ma da me in cambio sarai fornito
Del più gradevole, del più squisito

Unguento, un balsamo che all’ amor mio
Cupido e Venere diedero; ed io

Sono certissimo, che appena il senti,
Gli Dei tu supplichi con voti ardenti,

Perchè d’ un subito, secondo il caso,
Tutto ti facciano diventar naso.

 
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view post Posted on 26/5/2009, 20:29

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Se tu non fossimi degli occhi miei,
O graziosissimo Calvo, più grato,

Come Vatinio t’aborrirei
Pe’ l libriciattolo che m’hai donato.




Che dissi, misero, che feci mai,
Che un tal poetico strazio mi dài?

Crepi quell’asino cliente, che
Tali scempiaggini mandava a te!

Ma se il grammatico Sulla spedito
T’ ha, come io dubito, don sì squisito,

Non che adirarmene, n’ho gioja immensa,
Chè così l’ opera, tua ricompensa.

Dio mio, che orribile, che scellerato
Libro al tuo povero Quinto hai mandato,

Perchè al saturnio dì più ridente
Ei resti vittima d’un accidente!

Oh, ma non credere, mio bel feceto,
Della tua celia, troppo andar lieto.

Lascia che luccichi l’ alba: di trotto
Ai libraj vómmene; faccio un fagotto

Di quanti Aquinj, Cesj, Suffeni
Gli scaffali empiono dei lor veleni,

Ed invíandoti questa robaccia,
Ti saprò rendere pan per focaccia.




Or voi levatevi dai miei corbelli,
E al primo andatene soggiorno vostro,

O squartasillabe, sgorbiacartelli,
Peste ed infamia del secol nostro.




14

Se queste inezie mie leggerete,
Nè orror di volgermi le mani avrete,



T’affido, Aurelio, questo diletto
Mio bimbo, e un umile favor chiegg’io:

Deh, se mai l’animo t’arse desio
D’un amor nobile, d’un casto affetto,

Puro a me serbalo, non già, s’intende,
Dalle altrui granfie: cosa molesta

Temer non devesi da chi alla lesta
Scantona e svicola per sue faccende.

Ma di te pavido son, di cotesto
Cotal che intrepido s’impenna e rizza,

E dove piacciati, si caccia in lizza
A duri e a teneri fanciulli infesto.

Deh! il mio risparmia, prego, ne ho dritto:
Chè se un mal animo, se un reo furore

Ti spinge a tendere lacci al mio core,
E compj, o perfido, tanto delitto,

Allora, o misero, a’ piè legato,
Come un adultero sarai trattato:

Rafani e muggini, l’ abbi per certo,
Sentirai scorrere nell’antro aperto.

 
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