ALLE RADICI DELL'INTELLIGENZA MATEMATICA

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view post Posted on 15/6/2009, 13:42

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ALLE RADICI DELL'INTELLIGENZA MATEMATICA:
IL PENSARE GEOMETRICO DEGLI ANTICHI EGIZI
di Gaetano Barbella

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Introduzione
Chi non conosce il problema matematico della cosiddetta «quadratura del cerchio», che comporta il calcolo del giusto valore da dare al lato di un quadrato perché abbia lo stesso perimetro di una data circonferenza?


Nell'immagine sopra,
Ankh o Croce di Iside

Ora non sto qui ad infiorare la questione, che ha appassionato il fior fiore dei matematici nel tempo, facendone impazzire alcuni nel vano tentativo di approdare alla chimerica soluzione del problema. Nondimeno oggi, come sempre, sono in molti a filosofare, se non di più, sull'annosa «quadratura del cerchio». Ma limitando la questione all'antica cultura egizia, si può, veramente, ritenere che le relative cognizioni si limitino a quelle del papiro di Rhind?





Senza dubbio è ammirevole il tentativo di Rhind di tramandarci il risultato, indicando negli 8/9 del diametro di un cerchio il relativo «quarto della circonferenza», approssimato ovviamente. Non può essere, però, che dietro le sue presumibili "quinte" si celi ben altro? Il mistero supposto nella Grande Piramide, intonato appunto alla «quadratura del cerchio», dirà pur qualcosa in più di quanto si è creduto di scoprire fino ad oggi! Dirò che io sono stato portato ad occuparmene e sono riuscito a portare a termine, fra altre cose del genere, un breve testo sulla problematica testé avanzata. Piacerà ai matematici? Ma sul problema in questione, può essere anche che nel mondo dei matematici potrebbe esserci una partita aperta e forse i non addetti ai lavori come me, per esempio, non siano tanto graditi. Spero di sbagliarmi in pieno. Però non dimentico quest'accesa frase lapidaria del famoso matematico tedesco David Hilbert che volle far incidere sulla sua lapide: «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo!». Ma ironia della sorte, sulla scorta del mio forzato procedere per la strada di un dilettante «geometra che tutto s'affige,/per misurar lo cerchio, ...», io, un semplice geometra, appena a conoscenza di una cultura scientifica informativa e mediocremente preparato sulle cognizioni matematiche, meno che mai di livello superiore accademico, oggi forse - oserei dire - mi trovo nella condizione ideale di pervenire all'emblematica «penna» dantesca relativa ai versi della sua Commedia sopra citati.

Ma si tratta del sogno di tutti i dottori matematici da che il mondo esiste, la «quadratura del cerchio» che li ha fatto tanto tribolare. Solo mi è bastato amare la geometria con smisurata tenacia, essere un buon disegnatore progettista di macchine ed impianti, e poi conservare un innato “senso delle cose” capace del semplice, e non tanto incline ai richiami della ragione per un razionale comune pensare. Ma sento dire, da un matematico con i fiocchi, che questo può anche non meravigliare, perché molte creazioni matematiche, storicamente, sono state fatte da cosiddetti "dilettanti" (che è poi solo un modo di dire: a volte la loro cultura è tutt'oggi invidiabile da parte di tanti "accademici"). Per seconda cosa, quel che conta nella ricerca matematica è spesso lo spirito creativo, l'idea geniale, la curiosità, doti che non sempre richiedono una grande cultura matematica. Ecco, premesse e credenziali per presentare l'annunciato studio che, pur sfiorando la questione suddetta della «quadratura del cerchio», si propone sostanzialmente di giungere «Alle radici dell'intelligenza matematica», che è il titolo di questo lavoro. Ed in particolare di mostrare in modo concreto le prove di un «pensare geometrico degli antichi Egizi», senza il quale la scienza non avrebbe avuto alcuna base per svilupparsi al rango cui oggi gode.


La meccanica alla base del pensare per numeri
Dire matematica è parlare dei numeri che sono la vita stessa del mondo. Noi li stimiamo preziosi pur non valutandoci bravi in matematica magari, ma siamo consci che sono sinonimo di tante cose che hanno fatto la storia elevando l'umanità per quel che è ora. Quando si dice che sappiamo fare bene i conti in senso lato, è pur sempre la matematica che viene coinvolta, ma per via di un «pensare per numeri» intrinseco e che fa capo ad un'analoga «intelligenza matematica» trasmessaci nel tempo come bagaglio culturale. Senza i numeri la scienza non avrebbe avuto alcuna base per svilupparsi al rango cui oggi gode e perciò non ci sarebbero, per esempio, le automobili, i treni, gli aerei e tantissime altre cose indispensabili per vivere civilmente. Non manca di dare chiarimenti, sul tema del «pensare per numeri», un eminente neuro-scienziato inglese, Brian Butterworth, che ha scritto un interessante libro intitolato, Intelligenza matematica, edizione Rizzoli, dal quale traggo una significativa citazione introduttiva di Galileo Galileo. Questa non manca di far luce intimamente sull'argomento in questione e dice così: «... questo grandissimo libro (io dico l'universo) non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne' i quali è scritto».
E Butterworth ammette di non essere un matematico, tanto meno bravo a fare i calcoli, tuttavia egli rileva che, comunque, «guardiamo il mondo inforcando lenti numeriche che non ci togliamo mai». Ma c'è da domandarsi grazie a quali sostegni ed a quali tracciati predisposti, si impara a intendere la «lingua» ed i «caratteri» cui alluderebbe Galileo nella citata suddetta frase apparentemente emblematica? Io sono del parere di far capo ad una misteriosa lettera di Archimede scritta ad Eratostene per intendere la cosa e perciò citerò per intero uno scritto del dr. Paolo Gregorelli in merito, riportato sul Giornale di Brescia il 12 novembre 2003. Poi, procedendo nella tematica di questo mio lavoro si capirà quanto sia reale la concezione cui si riferisce Archimede nella lettera grazie alla quale egli riuscì sempre a prefigurare il risultato finale delle sue ricerche.

"Nel 1906 il filosofo danese J.L. Heilberg ritrovò in un palinsesto a Costantinopoli il manoscritto di un'opera di Archimede andata perduta. Il titolo dell'opera era Metodo sui teoremi meccanici. Lo scritto si presentava sotto forma di una lettera inviata da Archimede al matematico Eratostene ed aveva uno stile più simile a quello di una comunicazione privata che a quello di un trattato destinato alla pubblicazione. Proprio per questo, forse, Archimede rinunciava al vizio di tralasciare nelle dimostrazioni i passaggi intermedi. Ma è solo lo stile a differenziare il Metodo da tutto il resto della produzione di Archimede. L'aspetto più importante è che il Metodo Archimede non fornisce mai alcuna dimostrazione rigorosa dei teoremi che propone, ma offre solo deduzioni compiute con l'impiego della meccanica, con un metodo che egli stesso dichiara essere privo di un valore dimostrativo. Nel Prop. 2 del Metodo, Archimede scrive, a questo proposito, «ciò è stato dimostrato per mezzo di quel che è stato detto; ma è stata fornita un'indicazione che induce a ritenere che la conclusione sia vera». Con il Metodo Archimede consegna simbolicamente ad Eratostene la possibilità di «considerare questioni matematiche per mezzo della meccanica», permettendogli di «vedere dentro la sua officina matematica». Grazie al Metodo il matematico lascia che si getti uno sguardo profondo sul mistero che accompagna la dinamica dei suoi processi creativa: perché di mistero si tratta visto che la totalità dei trattati di Archimede è ricca di dimostrazioni che si susseguono secondo una fitta rete di proposizioni magicamente presentate in un ordine che è funzione del loro uso. Ciò può essere fatto solo se si conosce il risultato finale, cioè se si sa in anticipo dove si vuole arrivare. Solo così Archimede sarebbe giunto a dimostrare che la superficie della sfera è il quadrato del suo circolo massimo, dato che nelle Prop. 33 del libro I di «Sulla sfera e sul cilindro», egli fa vedere che la suddetta superficie non può essere né minore né maggiore di quella del circolo. Il problema perciò diventa di capire quale misteriosa via seguisse Archimede per raggiungere i suoi teoremi. E proprio per questo è stato fondamentale la scoperta del Metodo: a verificare l'esistenza di un metodo che Archimede dovette impiegare per forza maggiore per giungere ai suoi risultati. Archimede si servì infatti di un suo metodo per la conoscenza dei risultati che doveva in un secondo momento dimostrare. L'idea che sta alla base del Metodo consiste nel paragonare l'area incognita di una superficie con quella di una seconda figura, di area nota, di cui si conosce la posizione del centro di gravità; nel sezionare le due figure con un sistema di rette parallele che intercettano coppie di segmenti, di cui si determina grazie a considerazioni geometriche il rapporto; nel supporre che le due figure in questione siano esaurite dall'insieme di tutte le precedenti rette; e infine nel realizzare l'equilibrio tra la prima figura, per capirci quella di cui si cerca l'area, pensata con il centro di gravità in un opportuno punto, estremo di una leva il cui secondo punto è proprio il noto centro di gravità della seconda figura. L'utilizzo della leva, come strumento, e dell'equilibrio, come concetto, rendono evidente l'interpretazione meccanica di proporzioni geometriche. Il tutto assieme ad una decisiva dose di inventive e di fantasia geometrica, necessarie per scegliere la seconda figura che per immaginare una figura paina come la somma di infinite linee prive di larghezza. Un'idea quest'ultima che verrà alla luce nel Seicento, grazie a Galileo e Cavalieri, e che risulterà decisiva per lo sviluppo del calcolo infinitesimale" (di Paolo Gregorelli).


L'angolo aureo
Analizzando la storia, dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo ha il merito di avere influito sul genere umano per i due passati millenni nell'incanalare ogni cosa della vita umana, alla moderazione dell'eccessivo attaccamento alla materialità. Un corrispondente suo «segno», quello della croce per un sano vivere come fratellanza umana da dover diffondere. Ma la croce di Gesù Cristo è anche un segno geometrico, accomunato al suddetto discorso sui numeri e sulla presunta «meccanica» cui si avvalse Archimede. Perciò questo simbolo non manca di risultare felicemente associato ad un altro segno, di ordine chiaramente matematico-geometrico, noto sin dal Cinquecento come la «sezione aurea o media ragione». Nel Rinascimento non v'era artista e costruttore che non informassero le loro opere a questa «sezione a.», che venne detta anche «divina proporzione». Oggi, la «sezione a.», sembrerebbe un vago reperto da soffitta quasi dimenticato, eppure si tratta di numeri su cui si è convenuto della loro essenzialità per il meraviglioso procedere dell'universo. L'accoppiata numerica aurica dei due inversi di Fibonacci, felicemente coincidenti, attraverso i rispettivi decimali, è amabile se pur come una concezione che si allontana dal tempo presente per lasciare il posto, magari, ad altri “numeri” più adatti a traslarne il concetto per l'epoca contemporanea, molto più complessa, che trascende l'adozione della sola «via recta» del segmento aureo. Infatti oggi mi si para innanzi una significativa ed imprevista coppia di “numeri”, per di più matematicamente “reali”, perfettamente uguali fra loro e per nulla inversi.

Riallacciandomi al menzionato neuro-scienziato Brian Butterworth, ancora ben più di lui, anch'io, come anzidetto nell'introduzione, non sono un dotto in matematica, ma un bravo cultore di geometria sì, esperto per giunta dell'uso di righello e compasso, nonché dotato di una considerevole esperienza nel campo delle progettazioni meccaniche, e tutto questo mi è valso venire a capo graficamente sugli annunciati “numeri gemelli”. Si tratta di un luogo geometrico che riguarda, in particolare, l'intersezione di un cerchio con una parabola strettamente connessa alla ricerca di un angolo dalle caratteristiche speciali che poi si vedrà. Dunque, cominciando dal mio primo passo sui “numeri gemelli” anzidetti, mi collego ad una concezione archeologica, in base alla quale è risaputo che la nota piramide egizia di Cheope sia informata alla cosiddetta «quadratura del cerchio», cosa che comporta la rettificazione del “quarto della circonferenza”. In pratica l'altezza della piramide di Cheope corrisponde al raggio della circonferenza da rettificare, mentre il quadrato relativo di base è il risultato. Nel passato per arrivare a tanto e poi ottenere il valore prossimo al «π» greco, c'è stato chi ha suggerito delle elaborazioni che meglio si accostano a questo scopo. Per esempio, per una di queste valeva come modello di partenza l'angolo di 38°10' 46'', ossia 38°,17944..., la bisettrice al vertice della piramide cheopiana, ottenuta, ovviamente empiricamente (vedasi il libro di Italo Ghersi Matematica dilettevole e curiosa, ediz. Hoepli, a pag. 206). La sua peculiarità è di dar luogo alle funzioni di tangente e coseno con pari valore numerico, ovviamente in modo approssimato. Inoltre quel che, poi, conta è che questo angolo, espresso in tangente o coseno, non si discosta molto da quello ideale 0,785398163... relativo al funambolico «π» greco. Infatti questo numero, moltiplicato per 4 è esattamente 3,141592654..., il noto pi greco, appunto. C'è da dire che se si volesse esattamente risalire al «π» greco, non si configurerebbero tangente e coseno uguali fra loro. A questo punto presento il giusto angolo che, invece, è 38°,172707076... ottenuto, come annunciato in precedenza, da una configurazione geometrica di seguito descritta. Il valore numerico del suddetto angolo, presentato nella sua espansione decimale indefinita, da stimare “aureo” (per rifarmi alla famosa «sezione aurea o media ragione» cui si conformavano gli artisti e costruttori del Rinascimento), è il risultato di una serie di semplici calcoli di geometria analitica. Si tratta dell'intersezione di un cerchio con una parabola, con i seguenti parametri e calcoli relativi, che potete vedere nella Figura 1.

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Figura 1- Rappresentazione dell'intersezione del cerchio
con la parabola e definizione dell'angolo "aureo"







Parametri

1- Parabola canonica: coordinate fuoco (p / 2, 0); direttrice x = − p / 2 .

2- Cerchio: raggio r = p / 2; coordinate centro (0, 0) coincidente col vertice dell'origine parabola con l'asse x.

3- Se P è il punto d'intersezione della parabola col cerchio, F il fuoco della parabola e Q la proiezione di P sull'asse x, l'angolo QPF è quello ricercato che risulta, dal calcolo, pari a 38°, 172707076.....

4- Il calcolo è impostato sulla risoluzione di un sistema di due equazioni, quella della parabola, x² + y² = r² e del cerchio, y² = 2 p x.

5- La tangente del suddetto angolo di 38°, 172707076... dedotto dai suddetti calcoli è 0,78615138... che, infatti, non si discosta tanto dalla tangente ideale, idonea per la perfetta «quadratura del cerchio», che è 0,78539163..., ma è anche il valore esatto dei due “numeri gemelli” ricercati, mai “conosciuti” così da vicino, quelli del coseno e tangente.

6- In riferimento all'angolo, di cui la punto 3, che ho chiamato “aureo”, configurato nel triangolo rettangolo QPF, il lato PF di questi, che collega il punto di intersezione P al fuoco della parabola F, è 0,618033988..., ma è il numero aureo reciproco f – 1 della serie di Fibonacci, quello della «sezione aurea o media ragione»!

Calcoli

1- Equazione della parabola : y² = 2 p x;

2- Equazione del cerchio : x² + y² = r²;

3- sostituendo la y² del cerchio con la y² della parabola si ha che x² + 2px = r²;

4- ma p = 1 ed r = ½;

5- pertanto l'equazione della 3. è x² + 2 x = ¼, ovvero x² + 2 x – ¼= 0;

6- trattandosi di un'equazione di 2° grado, si risolve con la formula: x = [– b ± √ (b² –4 a c)] / 2 a, così si ha che x = [– 2 ± √ (4 + 1)] / 2 = 0, 118033988...;

7- da y² = 2 p x = 2 x, perciò y = √ (2 x) = √ (2 · 0, 118033988) = 0, 485868271...

8. si possono, a questo punto, conoscere le funzioni dell'«angolo aureo»: tang phi = cos phi = ( 1/2 - x) / y = 0, 381966012... / 0,485868271... = 0, 78615138...;

9. l'«angolo aureo» phi = arctang 0,78615138... = 38°, 172707627012247493468301332925...;

10. Infine si delinea anche la «sezione aurea o media ragione» attraverso il lato PF del triangolo PQF: PF = 0,5 + x = 0, 618033988... che è il numero di Fibonacci tendente ad f.

11. Ad onor del vero, nel procedere ai suddetti calcoli con l'ausilio del computer, mi risultano diversi i numeri decimali alla trentesima cifra delle due funzioni goniometriche di tangente e coseno, relative all'«angolo aureo». Non posso, a questo punto, dire se è veramente così, o la differenza in questione sia dovuta al possibile errore del computer, trattandosi di un certo limite di operatività essendo 32 le cifre decimali relative. Ma è un giudizio, il mio, di un profano in merito, lasciando ai matematici di occuparsene compiutamente.

La scoperta (se mi è consentito) dell'«angolo aureo» mi ha portato, poi, a capire che il mondo della geometria, ed in particolare delle cosiddette «coniche», ha del meraviglioso a dir poco. Ma ciò che stupisce è che si rivela un'armonia incredibile proprio attraverso l'«angolo aureo» e non tanto con l'altro, quello del vantato e trascendente «π» greco, che non trova modo di armonizzarsi con ciò che vi è “prossimo”, come a indicare una inconcepibile incapacità di “amare” e imperativamente intenzionato ad esistere da “solo”, correlando questo concetto matematico-geometrico ai fatti della vita umana.

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Figura 2- La piramide del grafico in alto, ottenuta col semiangolo
al vertice phi, dalla tangente e coseno uguali tra loro,
che ho definito "aureo",
a differenza di quella del grafico in basso,
col semiangolo la cui tangente e pigreco/4 e che dà luogo
alla perfetta "quadratura del cerchio", geometricamente, come si vede, non dà luogo ad una configurazione con numeri razionali come nell'altro caso




Se l'intersezione di un determinato cerchio con la sua parabola appropriata, come già visto, porta all'«angolo aureo», altre intersezioni di coniche portano allo stesso scopo. Così può essere facendo intersecare la parabola, prima considerata di coordinate fuoco (p/2, 0) e direttrice (x= - p/2), con una ellisse di coordinate centro (0, 0), segmenti a = p e b = p/2, per dar luogo, appunto, ad un'ascissa, y = 0,786151138..., che è, poi, il valore della tangente del nuovo angolo in questione (fig. 2). Da qui la configurazione di un triangolo isoscele regolare il cui semiangolo ai loro vertici è, appunto, quello «aureo». La peculiarità di queste figure piane derivanti è di avere i due lati obliqui ortogonali alla parabola su cui insistono (fig. 3). Le loro basi, ovviamente, riguardano l'ordinata derivante dalla suddetta intersezione delle due coniche. Altra peculiarità è l'altezza di queste due figure che è uguale alla p della parabola.

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Figura 3 - Rappresentazione del semiangolo «aureo» dall'intersezione di una parabola con un'ellisse




Tutto ciò sancisce una legge geometrica a riguardo secondo cui qualsiasi triangolo isoscele, che ha i lati obliqui ortogonali alla parabola su cui poggia, ha l'altezza costante sempre uguale alla p della parabola.
Altro caso d'intersezione si ha “sposando” la stessa parabola, precedentemente considerata, con un'iperbole di coordinate centro (0, 0) e segmenti, a = p relativo all'ascissa y e b = p/2 relativo all'ordinata x (fig. 3). L'«angolo aureo», qui, si configura disegnando la normale alla parabola nel punto d'intersezione con l'iperbole e l'ascissa y relativa, più o meno alla stessa procedura del caso, del cerchio e parabola (fig. 4), noto in ogni dettaglio.

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Fig. 4 - Rappresentazione del semiangolo «aureo» dall'intersezione di una parabola con un'iperbole



Lo scettro
Altre cose interessantissime ho avuto modo di portare alla luce, in particolare, riguardo il caso del triangolo isoscele informato all'«angolo aureo» sulla parabola, come su un vassoio, analizzata in precedenza: quasi che fosse, nel suo insieme, la sezione di un meraviglioso cristallo in cui interagisce la luce con le leggi di riflessione che si conoscono. Da qui certe “somiglianze” con il soppalco della nota piramide di Cheope in cui, per esempio, il fuoco della parabola coinciderebbe con la dislocazione della tomba della regina (giusta l'antica allegoria egizia della «barca solare» del viaggio oltretombale dei faraoni), tanto per aprire una velo, appena, appena, su questo strano ed affascinante manufatto antico (vedi figura sotto).



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Figura 5- Piramide di Cheope. Configurazione dello scettro dal puntale biforcuto che trova relazione con la geometria legata ai “due” del “coseno e tangente”



L'argomentato «angolo aureo», il semiangolo al vertice della piramide di Cheope, fresco di conio, a quanto sembra ha tutta l'aria di costituire un meraviglioso sole servito su un vassoio d'argento attraverso la provvidenziale parabola geometrica, per procedere coraggiosamente verso chissà quali interessanti ricerche. Il convincente scettro, segno di stabilità degli antichi egizi ed emergente con la figura sopra, ora apre uno spiraglio sulle cose dell'antico Egitto, rapportando quel che si è appena delineato con un affresco, fra i tanti reperti egizi, quello della cappella funeraria del re Thutmosi III, in cui appare frequente la rappresentazione di una sorta di scodella insieme ai noti ideogrammi dell'«Ankh» (conosciuta come la croce o chiave d'Iside) e del «Dy» (un triangolo isoscele acuto).


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Figura 6- Affresco della cappella funeraria
di Thutmosi III (sec. XV a.C.)



Colpisce la stretta relazione di questi ideogrammi, rappresentati sulla verticale dello scettro nella mano destra del re in trono. Altra interessante indicazione, quella dei due rivoli d'acqua, sgorganti dalle anfore dell'offerente davanti al trono, che rivelano la legge di caduta dei gravi manifesta attraverso curve paraboliche. Senza contare il messaggio crittografico offerto dal gonnellino del citato offerente che è “forzatamente” foggiato secondo una sagoma del tutto ricalcante quella della piramide (in svariate rappresentazioni, fra affreschi, papiri e sculture, si riscontra la stessa cosa). Non solo, ma la sciarpa cadente che adorna il gonnellino dell'offerente, un po' disassata rispetto il centro della base, indicherebbe l'asse passante per lo Zed regale. La barca ivi rappresentata non può che riferirsi, che alla parabola della concezione geometrica in questione simboleggiata, appunto, dalla barca solare. In tutto il contesto degli ideogrammi dell'affresco in visione sembra che essi siano intonati all'insegna del due (lo scettro col puntale biforcuto, i due rivoli d'acqua e tantissime altre coppie qua e là) che confermano solo questo, che la piramide, cui si riferisce ogni cosa, ovviamente quella di Cheope, è all'insegna di una «quadratura del cerchio» approssimata agli argomentati “due” del “coseno e tangente”. Valori uguali fra loro e semplicemente calcolabili facendo capo alla pentastella posta nell'ideogramma alle spalle del solito offerente dell'affresco di Thutmosi in visione, come si vedrà in seguito.

Qui è disegnata l'ansa dell'Ankh, che fra poco identificherò alla lemniscata di Bernoulli, geometricamente parlando, in seno alla quale è inserita, appunto, la stella suddetta. Si scopre infatti che, raddoppiando il seno del semiangolo al vertice di ognuna delle cinque punte della stella in causa, che è 18 gradi sessaggesimali, ed estraendone la radice quadrata, si ottiene il valore ricercato, 0,7861513777... Un valore ormai arcinoto poiché è stato rintracciato analiticamente facendo interferire diversi tipi di curve e da solo, per esempio, la Lemniscata di Bernoulli di seguito trattata. Ecco una curva davvero prodigiosa in tema di geometria cheopiana se da sola (senza ausilio di altra curva) è in grado di svelarci il valore del “quarto di circonferenza” dei “due” del coseno e tangente. Si tratta, dunque, di una meravigliosa e semplice "geometria cheopiana" a sostegno di tutto per arrivare a comprendere il segreto riposto nella Grande Piramide, tutta riposta nei “due” del “coseno e tangente”. Si deve convenire che è uno straordinario procedere che si traduce in pratica nel noto principio della fisica, quello dell'invarianza.
L'invarianza galileiana, o principio di relatività galileiana, dice che tutti gli osservatori inerziali sono equivalenti. In altre parole, uno sperimentatore (osservatore) che esegua un qualunque esperimento in un laboratorio "inerziale" troverà gli stessi identici risultati di un secondo sperimentatore al lavoro in un laboratorio che si muova di moto rettilineo uniforme rispetto al primo. I risultati degli esperimenti sono quindi "invarianti".


L' «Ankh» e il «Dy» dell'Antico Egitto
Come preso da una certa cometa del solitario e vagante «π» greco, mi accingo a procedere per utilizzare l'«angolo aureo», sulla scorta delle suddette possibili indicazioni intraviste nella piramide egizia di Cheope. Chi non ha stimato rivelatrice di, chissà, quali arcani poteri la nota «chiave di Iside», o anche «croce di Iside», nelle mani di dei e re dell'antico Egitto? Il suo nome arcano altrimenti conosciuto è «Ankh». Ma c'è dell'altro su questo ideogramma che forse vale la pena stimare importante, considerato che esso è quasi sempre rappresentato accanto ad un altro segno conformato a triangolo isoscele acuto, più o meno di eguali proporzioni, conosciuto col nome arcano di «Dy». Il mio personale “senso delle cose”, mi suggerisce di procedere sulle tracce di questi strani segni pieni di fascino. Per il caso dell'«Ankh» ho scelto, come geometria di riferimento, una particolare curva, la «Lemniscata di Bernoulli», che mi è sembrata ideale per estrapolarne il possibile “segreto” matematico relativo.

La «Lemniscata di Bernoulli» (da lemniscato: lemnisco, corona, palma) è il nome di una particolare ovale di Cassini. Si tratta del luogo dei punti di un piano per i quali il prodotto delle distanze PF', PF da due punti fissi F', F (fig. 7) è costante e precisamente è uguale al quadrato della semidistanza dei due punti; è una quartina razionale bicircolare con un punto doppio nodale e tangenti ortogonali nel punto medio del segmento AB; ha equazione cartesiana: (x² +y²) = 2 a (x² –y²); e polare: ρ = a √ ( cos 2 θ.


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Figura 7- Lemniscata di Bernoulli



Dunque, ridisegnando la «Lemniscata di B.» (fig. 8), premesso che a = 1, si congiungano F', P e P', ottenendo così un triangolo isoscele. In seno a questo triangolo si congiungano poi P con O che individua il valore della tangente goniometrica dell'«angolo aureo» calcolata nel precedente capitolo. Infatti sviluppando l'equazione polare della «Lemniscata di B.» si verifica, come di seguito, che il valore supposto è giusto.
Da: ρ = a √ (cos 2θ si perviene al valore di θ = 25°, 91364623... che permette di verificare, appunto, l'esattezza di F'O = FO = 1 / √ 2. Riguardo al triangolo isoscele F'PP', il semiangolo al vertice F' si calcola con la formula arctg PF/F'F che dà come risultato 13°, 6545848... Niente di più facile dedurre che quest'angolo conduce all'individuazione dell'«angolo aureo». Infatti l'angolo in questione si ottiene in questo caso così:

Φ = ½ (90° – 13°, 6545848...) = 38°, 17270762. In tal modo si viene a configurare un triangolo isoscele che è senza dubbio lo stesso abbondantemente presente nel repertorio dei geroglifici egizi sotto il nome «Dy».

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Figura 8- Topologia della lemniscata di Bernoulli: configurazione del Dy



In merito ai suddetti risultati, non ci sarà alcun faraone redivivo a dirci che è così il retroscena matematico-geometrico delle loro concezioni sull'«Ankh» e sul «Dy», ma possiamo anche accettare per buoni quel che si è riusciti a scoprire, disponendoci a credere di esserci “approssimati”, se non altro, all'argomentato «pensiero matematico» di Brian Butterworth, che al tempo antico in questione doveva essere considerevolmente sviluppato, ma estremamente limitato di strutture evolute mentali per trarne beneficio nella vita pratica. Tuttavia, a ragione di ciò, si deve supporre, che anche gli antichi luminari di questo supposto pensiero ritenevano saggio il concetto dell'approssimazione, che nel caso della piramide di Cheope si riferisce al funambolico «π» greco. Infatti percorrendo il sentiero della geometria ho potuto costatare che esso, in relazione a corrispondenti configurazioni, è sempre in leggero anticipo sul valore relativo all'«angolo aureo» - ora noto nella sua dualità - senza mai distaccarsene, ma anche sempre superbamente da solo e, naturalmente, senza mai nulla tangere. Ma è un fatto che, per quanto negato a spada tratta dai matematici, comporterà, chissà, ad un certo momento il giusto “tangere” percorrendo il sentiero offerto dagli ideogrammi egizi. Determinati ideogrammi, presenti nel numeroso repertorio grafico dell'antico Egitto, che mi appaiono “superflui” me lo lasciano supporre, visto che tutto risulta armonioso con l'adozione dei due “gemelli” numerici del coseno e tangente, entrambi valori identici per un approssimato «quarto della circonferenza». Lo lascia supporre anche la particolare leggera concavità delle quattro facce laterali della piramide di Cheope che all'origine era lucida a specchio. E' mia idea che la rilevata concavità, che molti suppongono legata a misurazioni di ordine astronomico, sia un effetto di un'estrema tendenza ad ottenere concezioni perfette, ovviamente nel nostro caso, all'insegna della ricercata «quadratura del cerchio». Nel campo della materia, soggetta al numero 4, in relazione alle sfuggenti diagonali della piramide vista in elevazione, non può che verificarsi il dannoso fenomeno dell'aberrazione, come per indicare l'inconcepibile. Nel campo dell'ottica si può capire molto bene il fenomeno dell'aberrazione, che è dovuto alla distorsione dell'immagine che presenta la fisionomia ai margini relativi, di concavità, che è chiamata a «cuscinetto». Ma si può verificare il caso inverso, che è detto a «barile».

La fisica ottica è in grado di intervenire per operare la correzione della rilevata aberrazione. I sistemi ottici capaci di dare immagini geometricamente perfette (indipendentemente da ogni irregolarità di realizzazione) sono, si può dire, eccezionali. Il caso più comune è lo specchio piano. Degli specchi sferici, soltanto quello concavo può dare un'immagine perfetta, qualunque sia la sua apertura, ma limitatamente al caso in cui la sorgente puntiforme si trovi nel suo centro di curvatura, e allora l'immagine coincide con l'oggetto; caso questo, di interesse molto limitato. Se la sorgente è a grande distanza, se ne può avere l'immagine perfetta, facendo passare per essa l'asse di uno specchio parabolico: è noto infatti che tutti i raggi paralleli all'asse di questo specchio si riflettono passando esattamente per il fuoco, che nel caso della piramide di Cheope mi è parso di riconoscerlo coincidente con un punto imprecisato della tomba della regina. Ma già il paraboloide è una superficie non sferica di costruzione difficile; allo stesso modo, con superfici non sferiche, si possono avere risultati geometricamente perfetti ponendo la sorgente puntiforme sul fuoco di uno specchio a forma di ellissoide di rotazione, e prendendo l'immagine nell'altro fuoco. Questa condizione, come si è già detto in precedenza dà luogo un infinito procedere che porta alla verticalizzazione della supposta sorgente puntiforme: da qui il profilarsi di un vero e proprio asse stabile di rotazione dell'ellissoide in questione. In generale si può dire che, fatta eccezione per lo specchio piano, tutti gli altri sistemi ottici semplici a facce piane e sferiche danno immagini affette da aberrazioni. (Da Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Vol. I - ediz. Mondadori).


Un preambolo sui matematici
Sento dire dal matematico e scrittore, il dr. Paolo Gregorelli, del quale ho citato lo scritto iniziale su Archimede ed Eratostene, «tutti i nodi arrivano al pettine» in materia di curve, secondo l'affascinante teoria dei nodi della ricerca matematica e questo potrebbe spaventare non poco, considerato che molte curve sono stimate in stretta relazione con i cosiddetti mostri della matematica, appunto. Per non parlare della rivoluzione derivante dall'avanzamento di altrettante affascinanti concezioni in merito alla cosiddetta «geometria enumerativa», quella geometria che si pone il problema di contare. Non si può negare di assistere ad un procedere prometeico verso un cielo che, per effetto vertigine, convincerebbe i matematici in genere, da stimare quali più estremi pionieri della scienza, essere sul punto di toccarlo con le mani. Ecco che si presenta loro ammaliatrice la superbia, la stessa che fece scrivere sulla sua lapide, quella del grande matematico tedesco David Hilbert, «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo!». Senza dubbio, nella mente alterata di Hilbert, uno di tanti, si alimentava, strada facendo, la mostruosa convinzione di potere un giorno arrivare a concepire l'equazione universale di tutti i problemi dell'umano vivere. Come, all'opposto, quel Vernor Vinge, matematico dell'Università di San Diego in California, e scrittore di fantascienza, che annuncia con enfasi «fra trent'anni, un essere cibernetico più intelligente di noi». «Solo l'integrazione tra l'uomo e questa subspecie dotata di intelligenza artificiale - dice questo scienziato - ci permetterà di sopravvivere agli spaventosi cataclismi naturali che ci minacciano».

Oggi più che nel passato è come se veramente risuonasse nell'aria l'eco micidiale di quella frase lapidaria hilbertiana d'oltretomba, «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo!» quale imperativa disposizione da portare a termine. Ma, ironia della sorte, sulla scorta del mio forzato procedere per la strada precedentemente indicata, io un semplice geometra, appena a conoscenza di una cultura scientifica informativa, e mediocremente preparato sulle cognizioni matematiche, meno che mai di livello superiore accademico, oggi forse - oserei dire - mi trovo nella condizione ideale di pervenire, nientemeno che al sogno di tutti i dottori matematici da che il mondo esiste, la «quadratura del cerchio» che li ha fatto tanto impazzire. Solo mi è bastato amare la geometria con smisurata tenacia, essere un buon disegnatore, e poi conservare un innato stato fanciullesco, capace del semplice, e non tanto incline ai richiami della ragione per un razionale pensare. Ma questo può anche non meravigliare, perché molte creazioni matematiche sono storicamente state fatte da cosiddetti "dilettanti" (che è poi solo un modo di dire: a volte la loro cultura è tutt'oggi invidiabile da parte di tanti "accademici"). Per seconda cosa, quel che conta nella ricerca matematica è spesso lo spirito creativo, l'idea geniale, la curiosità, doti che non sempre richiedono una grande cultura matematica.

Ora se veramente questo «π» greco è piovuto imprevedibilmente dal cielo, ove i matematici lo ritenevano in pianta stabile come un divino sole trascendente, si può ben dire che forse si è sulla via di “domare” il caporione di quei 7 o più quesiti matematici oggi irrisolti pagati a peso d'oro. Mi riferisco all'istituzione di un premio di 7 milioni di dollari per la soluzione dei 7 problemi più importanti per la matematica del futuro. Si tratta dell'iniziativa dell'Istituto di matematica nell'Anno mondiale della matematica, il 2000, appunto 100 anni dopo quell'8 agosto 1900 del celebre Congresso a Parigi dei quesiti matematici posti da David Hilbert sul quale ho espresso delle mie perplessità. Perciò potendo anche aver io preso le traveggole, mettiamo, alletterebbe, comunque, non poco conoscere la topologia di questo famigerato caporione che, ovviamente, è presente inosservato in tutte le curve e perciò oggetto di interesse morboso dei matematici.



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La Via delle Stelle



Poche parole e solo la visione di una stella da seguire, anzi di due come si vedrà. La prima è quella a cinque punte che trova perfetta armonia con la configurazione della piramide di Cheope, come si vede attraverso la figura più sotto.
Infatti già sappiamo che il semiangolo di ogni punta della pentastella semplifica il calcolo per ottenere l'ormai familiare “angolo aureo” che è 38°,1727070763...

La formula, come già indicato, è la seguente:
phi aureo = arctang (o arcos) √ (2 sen18°)


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configurazione della stella a cinque punte e la relativa geometria del “cobra”



Potremo considerarci paghi per essere arrivati a tanto, ma è solo una piccola cosa in confronto alla scoperta crittografica di uno, fra i diversi emblematici ideogrammi presenti nell'affresco della cappella funeraria di Thutmosi III. Si tratta della rappresentazione di un cobra trafitto dallo scettro che si erge su un piedistallo munito di colonna, che è posto centralmente in alto sotto la cupola. Vi è raffigurato anche un cerchio a forma di omega, anch'esso trapassato dallo scettro. Seguendo, ovviamente la strada della geometria cheopiana, mi rendo conto che in tema di stelle è possibile ottenere delle curve a spirale unendo progressivamente i punti di intersezione dei collegamenti delle punte in modo alterno. Nella cappella è rappresentata questa curva la cui equazione polare è la seguente:

p = a / cos theta/3;

a = r • sen18°; (18° vale per la pentastella, per le altre vale il semiangolo di una delle punte stellari)

r = raggio est. pentastella = 1;

delta = 3 arcctg theta/3

Queste formule valgono, naturalmente, per tutti i tipi di stelle. Entrando nel dettaglio ideografico della pentastella in esame, essa è raffigurata, come già rilevato in seno all'ansa della croce d'Iside posta alle spalle dell'offerente della raffigurazione. Qui si vede anche una sorta asta molto evidenziata verticale che è come retta inferiormente dal cerchio ad omega. Da tutto ciò si potrebbe intuire che la fessura disegnata inferiormente all'ansa d'Iside lascia capire che si tratta della dèa Uto. Iside è la donna-serpente che diventa l'ureo, il cobra femmina che difende il faraone. Insomma l'ideogramma suddetto, con la stella in seno, non è che una diversa rappresentazione di questa dèa e quella sorta di bastone verticale non è altro che lo scettro.

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configurazione della stella a otto punte e la relativa geometria del “cobra”


Ed ora veniamo alla seconda stella accennata in precedenza. Rivedendo la figura della cappella di Thutmosi, prendiamo conoscenza della meccanica ottica derivante dallo scettro supposto un supposto raggio dalla doppia natura, propria dei “due” del coseno e tangente. E se prolunghiamo il raggio inclinato, proveniente dal punto di riflessione del raggio-scettro con la parete della piramide (segnato ideograficamente in forma di manico) si arriva fino alla parabola ortogonalmente. E' intuibile che non può procedere oltre quasi che fosse nel contesto globale un diodo dell'elettronica. Immaginiamo, però, che, attraverso un altro piano intersecantesi su questo segmento, si pervenga in modo coincidente ad un'altro segmento i cui estremi sono posti su un cerchio analogo a quello della piramide di raggio pari all'altezza. Ma per ottenere la condizione di coincidenza dei due segmenti è necessario che i piani, quello della piramide e l'altro della stella siano leggermente inclinati fra loro, non essendo coincidenti i rispettivi centri, se non nella condizione inclinata.

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particolare della cappella funeraria di Thutmosi III



Da qui una configurazione della seconda stella, ma ad otto punte, la cui geometria è la stessa considerata per la pentastella (vedi figura sopra). La supposta inclinazione dei piani trova riscontro in un altro ideogramma del solito quadro espositivo della tomba di Thutmosi III. All'estrema sinistra in basso è raffigurato il noto cerchio ad omega gravato di una sorta di peso particolarmente conformato con una sagoma inclinata. Non può che costituire un messaggio crittografico di un cerchio ridotto ad ellisse per effetto del gravame superiore. In più la sagoma inclinata mette sulla strada di qualcosa di inclinato che sembra coincidere con il lato obliquo della piramide.


Un cielo in una stanza
Ed ora non resta che lasciare il campo alla fisica ottica supponendo la piramide coinvolta da emissioni “luminose” esterne. E qui entra in ballo una vecchia scienza, quella dell'Astrologia, oggi dell'Astronomia e Astrofisica anche se sopravvive in qualche modo la prima. Su un vecchio disegno della piramide di Cheope, che si può vedere qui a lato, si rilevano gli influssi stellari correlati ai cunicoli interni sfocianti ai lati di essa sul piano nord-sud, considerando l'asse dello Zed verso nord. Sulla stessa figura si sviluppa tutta la tematica della visione della geometria cheopiana supposta, in via provvisoria, “luminosa”. Il disegno è sufficientemente chiaro e comprensibile per capire la complessa interazione di due speciali raggi che “penetrano” il cristallo piramidale cheopiano a base parabolica.

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Figura 12- Sopra si vede un cielo in una stanza. La complessa interazione, all'interno della piramide, di due raggi provenienti dal di fuori di essa. Il risultato è la diffusione interna della luce e la costituzione dell'asse centrale verticale: da qui la concezione dell'ellissoide inerziale di rotazione di moto infinito. Sotto: la piramide di Cheope e gli influssi stellari secondo la tradizione concepiti in modo inverso



Esaminiamo per primo il raggio a destra che converge sul fuoco della parabola che è doppio. Uno di questi, parlando in termini di probabilità, non essendo sopportato da calcoli che lascio ai matematici, passando per il fuoco menzionato interagisce all'interno della piramide cristallina in modo simmetrico. Per significare che ininterrottamente ripassa per il fuoco della parabola percorso in andata. L'altro della coppia del raggio in questione, ad esso molto prossimo, invece, è tale da riuscire a raggiungere uno dei fuochi dell'ellisse i cui assi sono l'altezza e la semibase della piramide. Arrivare al fuoco ellittico comporta riflettersi al suo interno per poi passare per l'altro fuoco, secondo la legge dell'ottica in proposito. Da qui un via-vai senza fine per approssimarsi ad una verticalità sempre più precisa.

Esaminiamo ora il secondo raggio, quello di sinistra guardando sempre l'immagine della cappella funeraria. Nella particolare condizione determinata dalla configurazione del triangolo equilatero, con uno dei vertici coincidente col fuoco della parabola, penetrando nella piramide si riflette all'interno due volte per, poi, convergere al menzionato fuoco ellittico superiore. Anche per questo raggio vale la stessa spiegazione fatta precedentemente. Esso si convoglierà all'altro per dargli man forte, non in modo coerente però, per una verticalità sempre più consistente. Sul contesto dei due raggi suddetti e della loro verticalizzazione sull'asse della piramide, mi è sono sembrati curiosamente attinenti due documenti archeologici che sono rappresentato dalle due figure seguenti

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La prima rappresenta un dipinto murale raffigurante i custodi di Ken-Am.n della loro tomba di Tebe, il capo amministratore e il guardiano del bestiame - XXVIII dinastia (736-525 a.C.). I “due” della luce della piramide di Cheope secondo la concezione della “geometria cheopiana” del presente testo.

Nell'altra figura qui sotto vediamo una scultura murale del Tempio memoriale di Ramesse I ad Abydos. Unione dell'Alto ed il Basso Egitto per mezzo del dono del Nilo. La parabola e barca solare artefice dell'unione dei due raggi di luce secondo la “geometria cheopiana” del presente testo. La Forza-Nilo, simile all'asse di rotazione terrestre, è mantenuto stabilmente dalle stessi leggi gravitazionali terrestri che la parabola, indicata dal legaccio, comporta per la legge dei gravi.


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Conclusione
A questo punto potremmo accontentarci di quanto si è riusciti a concepire sulla natura profonda del “pensare geometrico” degli antichi egizi, ma sento riecheggiare in lontananza l'eco di quel matematico tedesco della superbia, David Hilbert: «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo!». E anche di quel Vernor Vinge, matematico dell'Università di San Diego in California, preso dallo scrivere cose fantastiche e convinto che «fra trent'anni, un essere cibernetico più intelligente di noi... ci permetterà di sopravvivere agli spaventosi cataclismi naturali che ci minacciano». Ed ancora martellante l'Hilbert d'oltretomba: «Noi dobbiamo sapere, noi sapremo!» quale imperativa disposizione da portare a termine.
Or mi domando, nella mia greve solitudine, a chi dar retta dell'Uomo, quello atavico della pace e tranquillità dei “due” del “coseno e tangente”, o l'altro sempre da solo incapace di amare, che sembra la foto spaccata del tanto ricercato «π» greco? E poi mi chiedo di conseguenza: quale il giusto «pensare per numeri» dell'Uomo odierno erede dell'Intelligenza matematica dei suoi antichi progenitori? Più precisamente, ammettendo negli antichi egizi questa paternità, sulla scorta delle argomentazioni prodotte nel presente lavoro, quella Grande Piramide antidiluviana voluta dal re Cheope fu un opera, atto di una smisurata superbia, tale da non far salvo nemmeno l'atto edile o no? Ossia la costruzione dell'enorme manufatto tombale era o non era all'insegna di un dovuto rispetto degli operai e mastri d'opera che lavorarono smisuratamente per erigerlo? Ecco, ora sorge un significativo e legittimo dubbio e così siamo punto e daccapo per dover sondare una nuova cosa sul conto degli antichi egizi. Si tratta dei fatti pratici di ingegneria, che pur occorre sapere, poiché il segno delle scarabeo sacro, presente ovunque nel vasto repertorio degli ideogrammi egizi in parte trattati, lo esige imperiosamente. Fermo restando che è una cosa da fare, tuttavia ritengo che sia possibile ottenere, comunque, il responso, se non altro tramite l'ultimo disegno prodotto (quello della figura 12), artefice della vittoria della luce sulle tenebre, si potrebbe esclamare con giubilo. Sembra che il raggio passante per il fuoco della parabola e che interagisce ininterrottamente nella piramide di Cheope indichi virtualmente come ottenere la ricercata «quadratura del cerchio».

Sarà così? A me basta però di essere arrivato a tanto e di più, comunque, non riuscirei a procedere poiché è il giusto matematico che deve intervenire. Ma pur resta l'interrogazione sulla bontà dell'”atto edile” della costruzione della grande Piramide. In verità mi sono anche prodigato per immaginare come poteva essere stata costruita la Grande Piramide. Il risultato è stato amabile e così facendo ho fatto salvo l'atto edile, cosa che mi aspettavo perché il mio “senso delle cose” me lo diceva (la «meccanica» di Archimede). Ma se c'è qualcuno assai curioso, mettiamo, al limite anche alla “Hilbert”, spinto da un sapere assoluto al disopra ogni cosa, ebbene l'”uovo” della figura 12, quello del suddetto raggio passante per il fuoco della parabola in particolare, è anche l'”uovo di Colombo” per arrivare a tanto. Mi riferisco alla orgogliosa impresa ancora da intraprendere per la ricerca dell'esatta «quadratura del cerchio», naturalmente. Parola di un “Archimede” dilettante, in me, che così consegna agli “Eratostene” odierni il suo Metodo sui teoremi meccanici. Ossia offro agli “Eratostene” la possibilità di «considerare questioni matematiche per mezzo della meccanica», permettendogli di «vedere dentro la sua officina matematica». E Vernor Vinge dell'Università di San Diego in California, sopra citato? Mi sa che le sue fantasticherie sull'«essere cibernetico più intelligente di noi» del prossimo domani siano una fondata profezia se ho ragione di credere valida la mia “macchina” della “geometria cheopiana” nell'argomentato “uovo” della verità della fig. 12, paragonabile a quelle proposte da Archimede a Eratostene.

Ma su questo misterioso e attrattivo “uovo” delle meraviglie, ultimo arrivato della mia disamina sulla cultura degli antichi egizi, non mancano particolari ideografici a perfezionarne la concezione. Si noti il vaso in corrispondenza del “manico” dello “scettro”: non sembra che sia mantenuto ad una certa “fonte” per essere riempito? Se la teoria della “geometria cheopiana”, ipotizzata col presente testo, è sostenibile, nulla vieta di supporre che la suddetta “fonte” riguardi le energie “luminose” interagenti nella piramide e l'ellisse relativo, il tutto riportato in fig. 12. Essendo, poi, due i vasi, si deve immaginare che ognuno di essi riguardi uno dei due specifici raggi “luminosi” che impattano frontalmente sulle pareti laterali oblique della piramide. Altra precisazione. Se nella figura sotto compare un “offerente” (una funzione apparente poiché siamo in un mondo fatto di specchi) con due specie di “vasi” che attingono ad una “fonte”, nell'altra rappresentazione, precedentemente analizzata, quella della cappella funeraria di Thutmosi III delle figure 6 e 11, si vede un analogo “offerente” quasi uguale ma simmetrico che regge due altre cose.

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Nella figura a lato,
Luxor, l'antica Tebe: la riva occidentale del grande fiume, la terra dei morti. Particolare dell'affresco della cappella funeraria posta nel tempio in onore della regina di Hatshpsut e di suo padre Thutmosi I



Con la sinistra solleva un genere diverso di vaso, il tipico simbolo del cuore, e con la destra un anfora da cui zampillano due rivoli d'acqua. Di quest'ultima se ne è già parlato in relazione alla parabola, ma ora si può dire di più. Si tratta ovviamente dei due suddetti raggi “luminosi”, ormai familiari, che penetrano la piramide di Cheope. Con i due rivoli d'acqua sembra tutto chiaro. Ma pure con il vaso del cuore, poiché si illumina ogni cosa considerando il dettaglio di ciò che sembra fuoruscire da esso, invece è il contrario. In questo modo la parte superiore particolarmente deviata non può che dare l'idea del “manico” dello scettro stimata la “fonte” energetica supposta. Interessante, no?
File aggiornato nel Dicembre 2005.

 
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